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Da "In cerca di Masaniello"
di Lara Mastrantuono
Salvatore Capasso era, a suo modo, un napoletano esemplare.
La storia della sua vita, nella versione che egli usava narrare,
mi parve subito un archetipo della commedia umana che il nostro secolo aveva voluto
inscenare sul teatro quotidiano partenopeo.
Salvatore mi disse una volta di aver amato, da ragazzo, la
Commedia dell'Arte napoletana, ma che nessuno Scarpetta, nessun De Filippo avrebbe
potuto concepire farse così tragicomiche e assurde come quelle che il destino
costrinse lui a interpretare.
Salvatore era nato a Pomigliano d'Arco negli anni novanta del
secolo scorso. La sua infanzia e adolescenza non racchiudevano nulla d'alieno
dagli episodi tipici della vita giovanile nell'hinterland napoletano: un'approssimativa
formazione scolastica, inverni all'ombra del vulcano ed estati presso parenti
a Ischia, eterni problemi economici in famiglia, qualche furtarello, piccole storie
di droga senza conseguenze penali, partite di pallone, capitone fritto e pastarelle
a Natale, passioni immature e iniziazioni sessuali clandestine...
Allo scoccare del suo diciottesimo compleanno Salvatore era
inserito nella casta più popolosa in cui si dividesse la sua generazione:
quella dei giovani in cerca di prima occupazione.
Dopo troppi mesi perduti in inutili tentativi, frustrato e
spinto dal bisogno, Salvatore fece ciò che tanti avevano dovuto compiere
prima di lui: comprò un posto di lavoro. Chiese un prestito ad amici di
famiglia, impegnò ogni oggetto di valore posseduto, scorse la lista degli
impieghi che l'organizzazione (potentissima, di cui si vociferava, forse neppure
come provocazione, che dovesse essere quotata in Borsa) offriva, e scelse il posto
che più si accordava al diploma di perito elettronico che figurava solitario
nel suo curriculum scolastico.
Così entrò in Alenia come operaio specializzato.
Il moloch industriale a partecipazione statale scricchiolava
già da tempo, e minacciava burrasca a chiunque avesse voluto scrutare con
attenzione nel suo futuro... Ma per Salvatore era un sogno che si realizzava,
il Posto Fisso e Intoccabile la cui conquista per i giovani della sua generazione
designava il successo.
Così egli accese un mutuo, comprò la casa di
Pomigliano su cui aveva messo gli occhi fin da ragazzo, acquistò a rate
una Fiat Punto color speranza, sposò una collega e offrì ceri a
San Gennaro in ringraziamento per avergli cambiato la vita.
La protezione del santo fu poco più longeva della fiamma
dei ceri votivi. Neppure due anni dopo, il governo, su indicazione di EuroBank,
decise di non poter più sostenere il cronico passivo dei conti dell'Alenia.
Un consorzio di imprese europee si offrì di rilevare gli impianti produttivi
dell'azienda italiana, e nel giro di sei mesi lo scorporo fu ratificato dalla
Commissione di Bruxelles. I sindacati, neppure consultati, protestarono lungamente,
vigorosamente, con ogni mezzo... Un'opposizione che si rivelò, come certo
sapete, del tutto inutile.
Il manager designato dal consorzio alla riconversione degli
impianti di Napoli, lo ricordate tutti, si chiamava Paul Kernig. Era un potente
satrapo dell'industria europea, un professionista conteso a suon di miliardi dai
cacciatori di teste dell'intero continente.
Kernig si applicò con impegno e coscienza a risolvere
i problemi dello stabilimento. Non era uno stupido, e seppe dissimulare in modo
ammirevole quella che gli analisti, a posteriori, riconobbero come una delle più
massicce manovre di downsizing industriali del decennio.
Salvatore e sua moglie Maria furono convocati da Kernig nello
stesso giorno, ma il destino prospettato loro dal manager fu diverso.
A lei venne proposto un trasferimento a Tolosa a stipendio
invariato, a lui fu ventilato un passaggio ai lavori socialmente utili presso
l'amministrazione comunale di Napoli. Salvatore, raccolto il coraggio a due mani,
fece timidamente osservare a Kernig che l'accettazione di una simile proposta
avrebbe spaccato in due una famiglia.
Il manager alzò un sopracciglio, colpito. Poi aprì
una cartelletta di cuoio. Al suo interno, già firmate, vi erano due lettere
di licenziamento: Kernig, col cinismo della sincerità, chiese se i due
coniugi tenessero davvero così tanto a restare uniti.
Il mese successivo Maria partì alla volta di Tolosa.
Salvatore l'accompagnò a Capodichino, la salutò tristemente attraverso
la griglia del metal detector, poi lasciò l'aeroporto e si presentò
presso l'Assessorato ai Lavori Socialmente Utili del Comune.
Vi rimase quasi tre anni. Anni di avvilimento e frustrazioni,
vissuti da solo, vedendo la moglie a stento una volta al mese. Anni di sacrifici,
patiti nella speranza di raccogliere abbastanza denaro per pagarsi il viaggio
e una sistemazione decente a Tolosa...
In quei tre anni di lavori socialmente utili, Salvatore cercò
il conforto nell'amicizia dei colleghi. Non vi riuscì. Molti tra i giovani
che condividevano quelle giornate buttate girando i pollici e ciondolando per
i corridoi dell'Assessorato avevano un'istruzione, persino una laurea. Avrebbero
dovuto essere pieni d'energia, d'ambizione, di sogni... Invece si lasciavano vivere
in un limbo, accettavano uno stipendio che sapeva di regalia, se non addirittura
d'elemosina, come se non osassero chiedere nient'altro alla vita.
Salvatore li osservava sconcertato, a volte attonito. I suoi
colleghi erano di una pasta differente dagli operai che Salvatore aveva conosciuto
in Alenia. Erano paurosamente diversi da lui, e gli anni che li separavano non
bastavano a giustificare quel baratro che si apriva tra loro.
Erano terribilmente docili, spaventosamente indifferenti.
A volte, Salvatore ne aveva paura.
Durante un pomeriggio particolarmente noioso e avvilente, trascorso
bighellonando, sorseggiando caffè e fumando Nazionali senza filtro nei
corridoi del Comune, Salvatore si imbatté in una donna di mezza età,
una signora dai modi cauti e dallo sguardo acuto. Salvatore l'aveva vista più
volte in compagnia dell'Assessore e del Prefetto.
Le rivolse la parola per stanchezza, per noia, e lei sembrò
incuriosita dal risentimento che trapelava dalla voce di lui. Disse di chiamarsi
Luisa Barbieri, e si definì una consulente politica. Gli chiese cosa non
andasse.
Lui, dopo qualche riluttanza, rispose con la massima franchezza.
I lavori socialmente utili erano poco meno di una truffa, disse.
Erano uno sperpero inutile di risorse pubbliche, assegnate male e gestite peggio.
Con gli stessi fondi, si lamentò, il governo avrebbe potuto salvare l'Alenia.
Lei non si scompose. Replicò con un sorriso. Parlava
come un software didattico, ricorda Salvatore. Disse che era sbagliato giudicare
sciocco chi amministra lo Stato soltanto perché non si comprendono le sue
decisioni. Il cittadino, chiosò, vede solo un frammento del mosaico, e
ne percepisce un disegno distorto; chi sta in alto scorge invece tutto il quadro,
e ogni sua scelta, sebbene possa non apparire chiara, ha uno scopo preciso.
Salvatore, testardo nella sua amarezza, le chiese allora quale
fosse lo scopo dei lavori socialmente utili. Lei, scrollando le spalle, li definì
uno strumento di pacificazione temporanea dei conflitti sociali, una sorta di
Valium.
La crisi è un fenomeno enorme, disse, è un cancro
di cui la gente vede solo le metastasi esterne. Il modo di curare questo male
non è stato ancora trovato; i lavori socialmente utili sono un ripiego,
spiegò, un farmaco a breve scadenza, utile a evitare lo scontro.
Fino a quando? volle sapere Salvatore.
Finché non si troverà la soluzione vera, disse
lei, chiudendo la conversazione. E, mentre la porta dell'ufficio si chiudeva,
aggiunse ancora qualcosa. Un semplice bisbiglio, una riflessione fatta a mezza
voce per le orecchie di nessuno, ma che Salvatore, tuttora, non riesce a dimenticare.
...o fino a quando qualcuno non si sentirà pronto
per lo scontro, aveva detto.
Ogni volta che Salvatore narra questo dialogo, sembra sciogliersi
per un istante, e nei suoi occhi traspare un frammento della rabbia di cui per
anni dev'essere vissuto.
Ma dura solo un momento. Invariabilmente, al termine del racconto,
lui incrocia le braccia, tira una boccata dall'eterna sigaretta, e torna a riabbottonarsi
in se stesso come in un vestito di cui non sia del tutto convinto.
Con una smorfia ironica sul viso, da quell'istante egli cambia
registro, e infallibilmente prende a narrare in toni accesi il periodo della grande
campagna di stampa contro i lavori socialmente utili.
Credo che tutti voi ricordiate quei giorni: sui media transitò
una sequenza d'inchieste, di scandali, di rivelazioni, di denunce e attacchi politici.
L'istituzione venne fatta a pezzi.
Salvatore seguì gli articoli dapprima con cupa soddisfazione,
con l'amara rivalsa di veder denunciate ad alta voce le storture che lui da anni
era costretto a sopportare. Poco alla volta, però, i suoi sentimenti si
mutarono in inquietudine, e poi in stupore, quando vide i volti di coloro che
sui media criticavano, accusavano, esecravano.
Lui conosceva quei volti. Li aveva visti dietro scrivanie,
seduti nei Consigli Comunali e negli Assessorati, a braccetto di coloro che gestivano
il sistema, a fianco o all'ombra dei signori delle clientele su cui ora allegramente
spargevano letame.
Fu quando vide l'onorevole Luisa Barbieri, membro del parlamento
europeo, impostare la sua campagna di rielezione sugli attacchi ai "lavori
atrocemente inutili", come lei li definiva nei comizi, che Salvatore capì.
Aprì gli occhi. Ma forse era troppo tardi.
Chi voleva lo scontro adesso era pronto. Quando il governo
tagliò i finanziamenti e chiuse i progetti non produttivi, gettando migliaia
di persone sulla strada, l'opinione pubblica era cotta a dovere, e le proteste
furono minime. Salvatore, anche lui tra i colpiti, fu tra i pochi che tentarono
di reagire.
Durante la sua esperienza di operaio aveva imparato come organizzare
blocchi stradali, sfilare in corteo, battersi in scontri di piazza. Ma lo spirito
dei giorni dell'Alenia, si rese conto, non esisteva più: i suoi apatici
colleghi, tranne rare eccezioni, si disinteressarono alla protesta, preferendo
cercare soluzioni personali al problema.
La solidarietà era un concetto che non li sfiorava neppure:
dal loro punto di vista, il non appartenere a un giro di clientele era una colpa
che meritava qualsiasi punizione, anche la morte per fame.
Salvatore rinunciò al loro aiuto e tenne duro. Partecipò
a un paio di sparute manifestazioni, che vennero disciolte con la forza dalla
Polizia nell'indifferenza generale. Dopo il secondo pestaggio subìto, egli
concluse che la guerra era perduta.
Deluso, amareggiato, ferito nel corpo e nell'orgoglio, Salvatore
decise che era giunto il momento di lasciare Napoli. Raccolse i suoi risparmi,
mise in vendita la casa, e scrisse per posta elettronica a Maria, assicurandole
che contava di raggiungerla nel giro di qualche settimana.
'o cane mozzica 'o stracciato, dice Salvatore, ripetendo
un antico detto. La sfortuna si accanisce sui disgraziati.
Egli, racconta, aveva trovato un compratore per l'appartamento:
la firma del contratto era fissata per il mattino successivo. Era il quindici
gennaio del 2025. Il giorno della sciagura di Pomigliano.
(link) -> Un EFA3 dell'aeronautica militare in
volo d'addestramento, alle ore 16:45 del quindici gennaio si schiantò
sul centro abitato di Pomigliano.
Solo il caso impedì che l'accaduto si risolvesse
in un massacro. Miracolosamente, oltre all'equipaggio del caccia, perirono soltanto
due persone, e altre sedici restarono seriamente ferite. Ma i danni all'abitato
furono ingenti.
La commissione d'inchiesta sentenziò la sciagura
era stata causata da un malore improvviso del pilota, e che l'aeronautica militare
non era responsabile dell'accaduto. Le cause di risarcimento andarono in tribunale,
ove furono bloccate più volte dai vertici delle Forze Armate. Come sapete,
a più di dieci anni di distanza dalla prima udienza, il processo è
ancora in corso... (ritorna al testo principale)
A Salvatore, come a tanti abitanti di Pomigliano, non restò
che piangere sulle macerie. La compagnia di assicurazione, come stoccata finale,
rifiutò di pagare i danni, e al processo dimostrò come l'intero
quartiere fosse abusivo, circostanza che secondo la nuova normativa rendeva invalide
le polizze stipulate con i proprietari.
Braccato dalle parcelle degli avvocati, senza una casa né
un lavoro, Salvatore ricevette il colpo di grazia sotto forma di una E-mail da
Tolosa.
Maria, la sua Maria, in risposta al suo ultimo messaggio, gli
comunicava una notizia raggelante. Già da molti mesi, rivelava la lettera,
ella conduceva una relazione con tale Gilles Dunant, un dirigente della Matra.
Maria si scusava di non avergli confessato prima la verità,
ma aveva preso tempo per riflettere. Ora lo aveva fatto.
Insieme a Gilles, scriveva, si sentiva felice. A Salvatore
non restava che concederle il divorzio, e dimenticarla.
Il peso di quella terribile E-mail si unì al fardello
di disastri che gravavano sulle spalle di Salvatore, facendolo sprofondare invincibilmente
in un baratro esistenziale, una palude dell'anima da cui avrebbe impiegato anni
a riemergere... E la rabbia, il rancore, l'amarezza accumulata durante quegli
anni erano la cenere calda che Masaniello, col suo messaggio di redenzione popolare,
era destinato ad attizzare.
I liberi cittadini sono il più grande ostacolo allo sviluppo
di una nazione moderna.
Joseph B. Sarrese, Rapporto 82
- Sta' ferma, adesso.
- Perché?
- Brucerà un po'.
Lara sentì il liquido giallo scivolarle dolcemente sulla
pelle dei polsi e inondarle poi le cosce.
Era viscido, della consistenza del miele, e ne aveva anche il
profumo. Mentre veniva assorbito dal suo corpo, ella avvertì una sensazione
di calore, un pizzicore intenso, che si diramava dall'epidermide ai muscoli sottostanti,
e poi di nuovo in superficie, finché le chiazze del dermocollante non cominciarono
a fumare.
- Che cos'è? - chiese, allarmata.
- Non ha un nome. - bisbigliò la donna, come se stesse
violando una consegna segreta. Era giovane, asciutta, occhi verdi e una selva
di riccioli rossi a cingerle il capo. Al collo portava una catenina con un piccolo
crocifisso di legno.
- Come sarebbe?
- I compagni dicono che, se lo avesse, qualcuno potrebbe scoprire
che esiste...
- Oh! - commentò Lara. - Capisco...
- Sai, quello che sto usando è di seconda scelta - aggiunse
l'altra, con l'aria di volersi scusare - So che a Pozzuoli ne hanno una mescola
eccezionale... Qui bisogna accontentarsi.
- Purché funzioni...
- Funzionerà. - ribatté l'altra. Poi cominciò
a contare. - ... otto... nove... dieci. Dovremmo esserci. Prova a liberarti. Uno
strattone deciso, mi raccomando.
Lara eseguì. I tendini delle braccia protestarono per
la lunga inattività, poi si misero al lavoro. Uno, due colpi, e le mani
furono libere.
Mugolando di sollievo, la giovane massaggiò i polsi indolenziti,
frizionò la pelle arrossata, fletté le articolazioni per riattivare
la circolazione.
- Come le senti?
- Di legno.
- Passerà.
Per le gambe fu più complicato. Il KC21 si staccava a
placche, si ammorbidiva lentamente e cedeva all'improvviso, piegandosi a una reazione
chimica che Lara non riusciva a capire. La donna dai capelli rossi versò
altre gocce del preparato, attese lo sviluppo dei vapori, poi esortò nuovamente
Lara a tentare.
Lei provò, e finalmente il dermocollante cedette. Potersi
nuovamente rimettere in piedi le procurò una gioia indicibile.
- È fantastico. - esclamò.
- I tuoi abiti sono rovinati. - disse la donna, porgendo a Lara
una tuta azzurra di tessuto spugnoso - Metti questa.
- Grazie.
- Laggiù c'è la doccia. Non posso assicurarti l'acqua
calda, ma...
Lara sgranò gli occhi. - Per una doccia anche fredda,
in questo momento potrei dare un braccio.
Si aspettava che l'altra ridesse. Invece la donna restò
misteriosamente seria.
- Prendi quest'asciugamano. - commentò, brusca.
Con la sensazione di aver commesso una gaffe, Lara ringraziò
ancora ed entrò nel cubicolo. Lo smalto una volta candido era pesantemente
graffiato, e i tubi vantavano come ornamenti lunghe spirali di ruggine. Ma a lei
sembrò il bagno di un re. Aprì il rubinetto e si arrese al getto
d'acqua appena tiepida.
Era un sogno: i cattivi ricordi, la paura, le umiliazioni le
scivolarono ai piedi insieme alla schiuma del sapone da due soldi. Si deterse
con cautela la pelle arrossata dal dermocollante. A parte una leggera irritazione,
non sembrava che la reazione chimica avesse procurato danni.
Di nuovo, si interrogò su quel misterioso liquido giallo:
a quanto sapeva, il KC21 usato dalla Sezione Speciale non veniva attaccato neppure
dagli acidi; la formula dell'unico solvente era un segreto militare gelosamente
difeso.
Sul Mattino, neppure tanto tempo prima, aveva scritto di quel
ladruncolo d'auto che era riuscito a fuggire dalla Centrale della SSI: aveva usato
un coltello dalla lama arroventata e si era scuoiato le gambe. Aveva avuto la
meglio sul dermocollante, certo, ma era morto per l'infezione dopo due giorni.
All'epoca le voci di un virus tossico contenuto nel KC21 si erano fatte più
insistenti, ma era bastato un intervento del Prefetto per mettere tutto a tacere...
Ad occhi chiusi, con i rivoli d'acqua che le correvano sul viso
e sui fianchi, Lara pensò che avrebbe potuto restare per sempre in quel
cubicolo, fuori dal mondo e da tutti i suoi orrori. Fu con un grande sforzo di
volontà che riuscì, dopo un tempo che le parve infinito, a chiudere
la manopola e avvolgersi nell'asciugamano ruvido, odoroso di talco dozzinale e
di bucato.
Oltre la tenda di plastica, la donna era nella medesima posizione
in cui l'aveva lasciata. Lara dedusse che l'aveva attesa tutto il tempo, e ne
fu colpita.
- Chi sei? - le domandò, indossando la tuta e raccogliendo
i capelli ancora umidi sulla nuca.
- Gloria.
- Nome impegnativo... - mormorò tra sé Lara. -
Io sono...
- Lo so. - rispose tranquillamente l'altra.
Lara ebbe un brivido. - Dove siamo, Gloria?
- Al sicuro. - replicò lei scrollando le spalle, come
se la risposta fosse ovvia.
Poi le indicò un tavolino poco distante, basso e rotondo,
ove troneggiava un canestro coperto da un tovagliolo di stoffa liso agli angoli.
- Hai fame? Sete? Ti serve qualcos'altro? Anselmo mi ha detto di...
- Anselmo? È qui?
L'altra annuì. Aveva le dita corte, rugose, dita da contadina.
Lara si scoprì a fissarle affascinata.
- Dove?
- Ti sta aspettando. Ma prima devi riprenderti: hai passato dei
brutti momenti.
Lara approvò, pensosa. - Credo che accetterò il
tuo cibo.
Sedette e sollevò il tovagliolo. Fu alla vista dei piatti
che capì quanto fosse affamata. Da quanto non mandava giù qualcosa?
Venti? Trenta ore? Dal suo drammatico incontro con Sarrese aveva perduto la cognizione
del tempo.
Guardò l'orologio sul tavolino, e quel che vide la sconcertò.
Erano davvero le sette del mattino?
Le focacce al pomodoro erano fredde, ormai, ma Lara non faticò
a spazzolare il piatto. Fece altrettanto con il prosciutto e il formaggio, poi
passò al canestro di frutta. Era un pasto povero, ma la giovane non avrebbe
saputo augurarsi altro.
- Ho qualcosa di tuo, credo... - azzardò la donna dai
capelli rossi, quando Lara ebbe finito.
- Cosa?
- Ecco.
La vista degli orecchini restituì l'ultimo frammento di
normalità alla giovane. Con un sorriso di gratitudine, li prese tra le
dita, rincuorata di non averli perduti, meditò qualche istante, li ripose
al sicuro nella tasca della tuta.
- Grazie. Ci tengo molto.
- Lo so. - commentò ancora la donna. Lara considerò
la possibilità che la sua ospite non fosse del tutto normale. Benché
gentile e disponibile, aveva un non so che di inquietante.
Si alzò e si guardò intorno. La stanza sembrava
scavata nella roccia. Era buia, umida, più intima che sinistra. Lara vide
un'unica finestra, in alto, vicino al soffitto a schiena d'asino. La sua ospite,
mentre lei mangiava, aveva chiuso l'imposta per impedire alla luce crescente del
mattino di entrare, ma sembrava che un po' ne filtrasse attraverso di lei, come
se fosse una nuvola a forma di donna che ondeggiava nel sole.
Sulla parete di fondo si aprivano tre porte. Quella di destra,
da cui Lara era entrata, portava al bagno. Quella centrale era sbarrata, e la
maniglia sembrava essere stata mozzata con l'accetta. La terza era socchiusa,
e dallo spiraglio di pochi centimetri una lama di luce elettrica balenava a intervalli
sul pavimento di piastrelle sporche di polvere e d'impronte antiche.
Nell'angolo opposto della stanza, la giovane distinse una serie
di brande dalle lenzuola disfatte, avvolte da una bolla di calore quasi visibile,
come se i loro occupanti le avessero appena abbandonate lasciandosi dietro traccia
del proprio passaggio...
E, accanto alle brande, vestiti gettati alla rinfusa in ceste
di vimini, piatti sporchi, scarpe, un cappello sfondato, pacchetti di sigarette,
cicche in bicchieri rotti usati come approssimativi portacenere, penne a sfera,
mozziconi di matita, blocchi di carta riciclata che dovevano avere più
di vent'anni, fazzoletti, un paio di occhiali, una torcia elettrica dal vetro
rotto... Un arcipelago di oggetti vetusti, indizi polverosi della presenza di
esseri umani, come se quell'antro ombroso fosse un museo sulla quotidianità.
E silenzio. Immoto. Non un respiro, non uno scalpiccio. Come
se qualcuno avesse spento l'audio del mondo. A rendersene conto, Lara si sentì
affliggere da un accenno di claustrofobia.
- Vogliamo andare? - chiese Gloria.
Lei annuì, sollevata dalla prospettiva di uscire da quella
stanza muta.
- Sono pronta.
- Bene. Seguimi.
Stringendosi nel tessuto azzurro della tuta, Lara si alzò
e andò dietro la sua ospite.
Attraversarono la terza porta, ritrovandosi ai piedi di una tromba
di scale. Le rampe piegavano ad angolo retto formando, tra i pilastri di cemento
a vista, un pozzo quadrato. Lara vide che i gradini s'inerpicavano per tre, quattro
piani, forse di più. La struttura dell'edificio, se di edificio si trattava,
le era sempre meno chiara. Non ricordava nulla del suo arrivo: doveva essere giunta
lì svenuta, rifletté. Chissà in che zona della città
si trovava...
Gloria afferrò vigorosamente il corrimano e prese a salire
i gradini due alla volta. Lara la seguì con docilità. Giunsero alla
sommità della rampa, svoltarono, salirono ancora. E, all'improvviso, non
furono più soli.
Come se avessero varcato una frontiera invisibile, l'edificio
si fece d'un tratto affollato di una umanità singolare, colorata di sguardi
cupi e di vestiti laceri. Le due donne percorsero scale zeppe di gente accampata,
di cani addormentati e bambini sentinella. Lara, incuriosita, avrebbe voluto domandare,
capire, guardarsi intorno, ma Gloria proseguiva spedita, e lei non poteva far
altro che andarle dietro.
Finalmente la donna dai capelli rossi si fermò davanti
a una porta di legno consunto, chiusa, oltre la quale si avvertivano voci concitate.
Qui, come se la sua consegna fosse terminata, salutò Lara con un cenno
del capo e si allontanò in silenzio.
Strano personaggio, meditò la giovane, guardandola sparire
nuovamente giù per le scale... L'annotò mentalmente nel suo libro
di appunti: meritava più di un ricordo.
La porta si aprì.
- Giornalista! - esclamò Anselmo - Vieni dentro, avanti!
Lara si mosse, titubante. Il vecchio era in compagnia di una
dozzina di persone che lei non aveva mai visto. Anselmo fece brevemente un giro
di presentazioni, e i nomi le scivolarono addosso come acqua sul Goretex.
Erano quasi tutti uomini, piuttosto male in arnese, dalla stretta
di mano decisa e dagli occhi carichi d'aspettative. Tra loro non c'erano giovani.
- Come ti senti, giornalista?
Lei scrollò le spalle. - Potrebbe andar meglio.
- Ma anche molto peggio. - osservò il vecchio.
- Hai ragione. - ammise lei - Tutto considerato, credo che sarei
un'ingrata a lamentarmi.
Anselmo approvò gravemente. - Quando abbiamo saputo che
gli essessì organizzavano una perquisizione al tuo giornale abbiamo
cercato di avvertirti, ma era già troppo tardi...
- Avete saputo... come?
- Ci stiamo organizzando. - rispose evasivamente lui.
- Vedo. - commentò Lara, squadrando i presenti.
- Ma non ci siamo mossi abbastanza in tempo. È un miracolo che
tu sia riuscita a venirne fuori.
- A proposito... Dov'è lui? - chiese Lara, guardandosi
intorno - Devo ringraziarlo per avermi salvato.
I presenti si scambiarono un'occhiata imbarazzata. - Questo è
il motivo per cui stiamo discutendo... - confessò Anselmo, carezzandosi
a disagio le unghie rotte.
- Che significa?
Lui si morse le labbra. - Masaniello è scomparso.
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