III. LA GRAN BRETAGNA DI FRONTE AI MUSULMANI TRA VOCAZIONE IMPERIALISTICA E RICERCA DI CONFRONTO

 

E’ utile a questo punto della trattazione volgere brevemente lo sguardo alla storia coloniale britannica per potere comprendere pienamente il background storico, sociale e culturale delle varie comunità islamiche che oggi si trovano ad organizzare la propria esistenza nel Regno Unito.

L’impero britannico è stato il più vasto impero coloniale dell’epoca contemporanea, arrivando a comprendere, alla vigilia della I guerra mondiale, circa 31.6 milioni di kmq, il 23.58% della superficie terrestre, con una popolazione di circa 502 milioni di persone, quasi un quarto dell’intera popolazione del nostro pianeta. Inizialmente l’impero britannico, costituito alla fine del sec. XVI, era composto quasi esclusivamente da colonie di popolamento, le più importanti delle quali furono quelle americane che diedero poi vita agli USA. Negli anni tra il riconoscimento dell’indipendenza degli Stati Uniti (1783) e la fine delle guerre napoleoniche (1815) si consolidò un impero britannico che comprendeva tre distinti gruppi di territori:

  1. le vecchie colonie a popolazione prevalentemente bianca.
  2. altre colonie con popolazione prevalentemente indigena.
  3. l’India.

Le prime (Canada, Indie Occidentali, Guayana, Australia, Nuova Zelanda) acquisirono l’autogoverno negli affari interni tra il 1867 e il 1907, diventando dominions.

Nelle colonie a maggioranza indigena e in particolare quelle africane (Gambia, Sierra Leone), la Gran Bretagna adottò il sistema del cosiddetto Indirect Rule o Dual Mandate che lasciava il più possibile inalterate le strutture della società indigena affiancando ai capi locali un residente o consigliere politico.

L’India venne divisa in due regioni: l’India britannica, sottoposta a un "governo diretto", e gli Stati indiani, parte dell’impero britannico ma sottoposti al "governo indiretto" dei principi locali.

Occorre sottolineare che la colonizzazione britannica fu più complessa di quella delle altre nazioni europee in lizza, perché in essa, ai motivi commerciali si mescolarono quelli politici e religiosi; essa fu così l’unica che diede origine a un tipo di colonia commerciale, di popolamento e, da ultimo, alle colonie conquistate a scopo strategico.

I primi tre quarti del sec. XIX, dopo la pausa imposta dalle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, videro una ripresa dell’attività coloniale. Terminate le guerre napoleoniche, la potenza e l’influenza europee si diffusero ancora di più. Ora che le guerre erano finite e i commercianti e le merci potevano muoversi liberamente, il mondo era aperto ai nuovi e poco costosi tessuti di cotone e di lana e agli oggetti di metallo che si producevano soprattutto in Inghilterra. Negli anni ’30 e ’40 del XIX secolo prese l’avvio una rivoluzione nei trasporti, con l’avvento dei battelli a vapore e delle ferrovie. In precedenza i trasporti, soprattutto via terra, erano costosi, lenti e rischiosi. Ora diventavano veloci ed affidabili, e incidevano in percentuale ridotta sul prezzo complessivo dei prodotti; diventava possibile trasportare su lunghe distanze non solo prodotti di lusso ma anche merci voluminose destinate ad un ampio mercato. Anche gli uomini e le notizie potevano muoversi rapidamente, e ciò rese possibile lo sviluppo di un mercato monetario internazionale. I profitti del commercio potevano essere reinvestiti per generare nuove attività produttive. Dietro ai commercianti e ai navigatori stava la potenza armata degli stati europei. Le nuove acquisizioni britanniche avevano come scopo la sicurezza delle comunicazioni con l’India, dove la Compagnia delle Indie occupò vasti territori, passati sotto il diretto controllo della corona dopo la rivolta dei sepoys (militari indigeni dell’esercito britannico) del 1858.

Connessa con queste trasformazioni era la continua crescita della popolazione. Tra il 1800 e il 1850 la popolazione della Gran Bretagna salì da 16 a 27 milioni di persone, e quella dell’Europa nel suo complesso aumentò all’incirca del 50 per cento. Londra divenne la città più grande del mondo, con una popolazione di 2 milioni e mezzo di persone nel 1850. Si affermò un nuovo tipo di città industriale, in cui predominavano uffici e fabbriche. Alla metà del secolo più della metà della popolazione inglese viveva in città. Questa concentrazione nelle città fornì manodopera all’industria e agli eserciti, e un crescente mercato interno per i prodotti delle fabbriche.

La guerra anglo - boera (1899-1902), pur vinta dalla Gran Bretagna, segnò l’esaurirsi dell’ondata imperialistica.

La I guerra mondiale portò alla nascita del movimento per l’emancipazione coloniale in India e negli Stati arabo-islamici d’Africa e d’Asia. Per far fronte al movimento, che la Gran Bretagna giudicava ormai irresistibile, essa proseguì nella trasformazione del suo impero in Commonwealth, vale a dire in una federazione di Stati sovrani e uniti per reciproca volontà.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, con lo statuto di Westminster del 1931, i dominions bianchi acquisirono la piena indipendenza nell’ambito del Commonwealth.

La seconda guerra mondiale rese incontenibile la spinta verso l’indipendenza. Vi concorsero vari fattori: la rarefazione dei legami tra metropoli e colonie; l’effetto psicologico delle prime gravi disfatte delle potenze imperiali. Più ancora che nel conflitto 1914 - 1918, le popolazioni coloniali vennero coinvolte nelle operazioni di guerra e, ancor più di prima, ne trassero il convincimento che l’indipendenza fosse il premio al loro sacrificio. La Gran Bretagna fu la prima ad iniziare una politica di apertura verso i movimenti indipendentisti, del resto ormai difficilmente controllabili. Dopo la II guerra mondiale, la decolonizzazione si sviluppò in due fasi principali: la prima, intorno al 1947, riguardò l’Asia (Birmania, India, Pakistan, Ceylon); la seconda vide le concessioni di indipendenza ai Paesi africani (tra il 1957 e il 1966). Il Commonwealth divenne un organismo politico quanto mai vago con alla radice legami puramente sentimentali ed economici.

 

III. 1. LE DATE FONDAMENTALI DEL’IMPERO BRITANNICO

 

1583 Insediamento inglese a Terranova (Canada).

1607 Prima colonia stanziale in Virginia.

1609-1670 Colonie nei Caraibi e nelle Antille.

1620 I "padri pellegrini" puritani si insediano in America.

1713 Col trattato di Utrecht la Gran Bretagna ottiene in Canada la

          Nuova Scozia.

  1. Con la guerra dei sette anni la Gran Bretagna acquisisce i

          possedimenti francesi in Canada e in India.

1769 Colonia della Nuova Zelanda.

1783 Riconoscimento dell’indipendenza degli USA.

1788 Colonia del Nuovo Galles del Sud in Australia.

1800 Occupazione di Malta.

1826 Occupazione della Birmania.

1842 Colonia di Hong Kong.

  1. La corona britannica rileva dalla Compagnia delle Indie il

         controllo dell’India.

1867 Il Canada acquisisce lo status di dominion.

1876 La regina Vittoria è proclamata imperatrice dell’India.

  1. La Gran Bretagna assume il controllo militare dell’Egitto, dopo la rivolta di ‘Urâbî Pashâ.

1899-1902

Guerra anglo-boera.

1901-1910 L’Australia, la Nuova Zelanda e l’Unione Sudafricana

acquisiscono lo status di dominion.

  1. Statuto di Westminster; i dominions acquisiscono la piena

         indipendenza nell’ambito del Commonwealth.

1947-1948 Indipendenza per India, Pakistan, Ceylon, Birmania.

  1. La Gran Bretagna si ritira dalla Palestina araba dove nasce lo Stato d’Israele.

1960 Inizio della completa decolonizzazione in Africa.

 

III. 2. L’EGITTO

 

In Egitto maggiori aperture verso le imprese straniere fornirono nuovi incentivi all’intervento britannico. Sotto i successori di Muhammad ‘Alî Pashâ (1805-1848), e soprattutto sotto Ismâ‘îl (1862-1879), proseguì il tentativo di creare le istituzioni di una società moderna. L’Egitto divenne di fatto indipendente dall’impero Ottomano. L’istruzione venne estesa, si aprirono delle fabbriche, e venne portato avanti il processo di trasformazione del paese. L’Egitto entrò precocemente nell’era delle ferrovie, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso. Un’altra grande opera pubblica venne portata a termine: nel 1869, dopo dieci anni di lavori, venne aperto il Canale di Suez, costruito con capitale prevalentemente francese ed egiziano e con manodopera egiziana. La sua apertura fu uno degli avvenimenti più importanti del secolo ed attirò inevitabilmente sull’Egitto l’attenzione della Gran Bretagna, che doveva difendere il suo commercio marittimo con l’Asia e col suo Impero Indiano.

Il Canale di Suez apportò un grande vantaggio al commercio europeo. Però tra il 1862 e il 1873 l’Egitto contrasse debiti per 68 milioni di sterline. Nonostante gli sforzi per aumentare le proprie risorse, tra cui vi fu la vendita al governo britannico delle sue quote del canale, nel 1876 l’Egitto non fu più in grado di far fronte ai suoi debiti, e pochi anni più tardi venne imposto un controllo finanziario anglo-francese. L’aumento dell’influenza straniera, il peso crescente delle tasse necessarie a far fronte ai creditori stranieri, fecero nascere la prospettiva di un governo meno influenzabile dagli interessi stranieri. Questo portò a sua volta all’intervento europeo, dapprima sul piano diplomatico ad opera di Francia e Gran Bretagna, e poi su quello militare, ad opera della sola Gran Bretagna, nel 1882. Il pretesto per l’invasione britannica fu la pretesa che il governo fosse in rivolta contro la legittima autorità, e che l’ordine era stato infranto dal ministro della guerra ‘Urâbî Pashâ. Il motivo vero era quell’istinto per il potere che gli stati possiedono in periodi di espansione. Gli Inglesi bombardarono Alessandria e sbarcarono nella zona del canale, senza che l’esercito egiziano potesse offrire un’efficace resistenza. L’esercito inglese occupò il paese, e a partire da quel momento la Gran Bretagna assunse di fatto il potere in Egitto, anche se il dominio britannico non venne dichiarato in modo ufficiale a causa della molteplicità degli interessi stranieri. Fu solo nel 1904 che la Francia riconobbe la posizione preminente della Gran Bretagna nel paese. In seguito, la sovranità britannica fu estesa a sud lungo la valle del Nilo fino in Sudan. La motivazione ufficiale per questo fu l’ascesa di un movimento religioso, quello di Muhammad Ahmad (1844-1885), considerato dai suoi seguaci il mahdi, con l’obbiettivo di ripristinare il dominio della giustizia islamica. La sovranità egiziana sul paese era terminata nel 1884, ed era stata creata una forma di governo islamico, ma non fu tanto il timore di una sua espansione quanto il timore dell’intromissione di altri governi europei che portò ad un’occupazione anglo-egiziana che distrusse lo stato islamico e fece sorgere, nel 1899, un nuovo sistema di governo, formalmente un "condominio" anglo-egiziano, ma di fatto un’amministrazione coloniale britannica.

Dietro la facciata dei governi indigeni, venne introdotto un numero più elevato di funzionari stranieri, ed essi acquisirono gradualmente una maggiore autorità. In Sudan non vi era una simile facciata, bensì un’amministrazione diretta di tipo coloniale, con quasi tutte le cariche maggiori ricoperte da funzionari inglesi mentre quelli egiziani e di altra origine erano assegnati a ruoli subalterni. Un’economia più risanata rese possibile l’esecuzione di alcune opere pubbliche: in particolare, opere di irrigazione nella valle del Nilo, culminate nella Diga di Assuan, mediante la quale venne introdotta nell’Alto Egitto un’irrigazione perenne. Ciò permise alle aree coltivabili di aumentare di circa un terzo tra il 1870 e il 1914.

In questo periodo si registrò un forte incremento demografico. In Egitto la crescita fu costante per tutto il XIX secolo: da 4 milioni nel 1800 a 5.5 nel 1860 e a 12 nel 1914. In quello stesso anno Il Cairo e Alessandria erano per dimensioni le più grandi città dei paesi arabo-islamici d’area ottomana. In Sudan, la popolazione sembrava essere cresciuta costantemente dall’inizio dell’occupazione inglese. Gran parte della popolazione delle nuove città e dei nuovi quartieri era straniera: funzionari, consoli, commercianti, banchieri, professionisti. Al Cairo il 16 per cento della popolazione era straniera, ad Alessandria il 25 per cento. Essi conducevano una vita isolata e privilegiata, con proprie scuole, chiese, ospedali e luoghi di intrattenimento, le proprie cause giudicate da tribunali europei o misti, i propri interessi economici protetti dai consolati e dal governo. Tutto ciò portò a un cambiamento del genere di vita che rispecchiava sempre più quello europeo. Uomini e donne si vestivano in modo diverso. Anche l’abbigliamento ufficiale e quello dell’esercito rispecchiava lo stile europeo.

Persino le case erano l’espressione visibile dei mutamenti nel modo di vivere. Gli edifici dei nuovi quartieri, sia quelli destinati agli affari sia quelli residenziali, erano in gran parte progettati da architetti francesi o italiani o imitando il loro stile.

Nell’ultima parte del XIX secolo, la consapevolezza della forza dell’Europa si era ormai diffusa. Si era sviluppato un nuovo ceto istruito che guardava a se stesso e al mondo con occhi affinati da maestri occidentali, e che comunicava in modo nuovo quello che vedeva. Questo ceto si era formato in scuole di nuovo tipo, fondate da governi riformatori. Si sviluppò una nuova generazione abituata a leggere. Molti erano in grado di leggere in lingua straniera. In Egitto il bilinguismo era comune nelle grandi città.

Fu in questo ceto che il concetto di nazionalismo si fece esplicito. Quando venne alla luce il nazionalismo egiziano, esso sorse come tentativo di limitare o far cessare l’occupazione britannica. Non si trattava comunque di una forza unitaria: vi era una divisione tra quanti richiedevano un ritiro inglese e quanti, sotto l’influsso delle idee del modernismo islamico, pensavano che la cosa più urgente fosse uno sviluppo sociale e intellettuale, e che l’Egitto potesse trarre profitto dalla presenza britannica.

Mentre l’Impero Ottomano si stava irreversibilmente sfaldando nell’Europa balcanica e nell’Asia araba, in Egitto, una dichiarazione inglese aveva posto fine alla sovranità ottomana nel 1914 facendo del paese un protettorato britannico. Nel 1919, il rifiuto britannico a consentire al governo egiziano di presentare la causa della sua indipendenza alla Conferenza di pace fece esplodere una diffusa sollevazione nazionalistica. Essa venne soffocata, ma portò alla creazione di un partito nazionalista, il "Wafd", con a capo Sa‘âd Zaghlul (1857-1927), e successivamente, nel 1922, all’emanazione, da parte britannica, di un "dichiarazione d’indipendenza" che riservava agli inglesi l’autorità sugli interessi strategici ed economici fino ad un accordo tra i due paesi. Più tardi, nel 1936, venne stipulato un Trattato Anglo-Egiziano. Venne dichiarata conclusa l’occupazione militare dell’Egitto, sebbene la Gran Bretagna mantenne, ancora per qualche tempo, un suo contingente armato in una zona intorno al Canale di Suez. Poco dopo le Capitolazioni vennero abolite da un accordo internazionale, e l’Egitto fece il suo ingresso nella Società delle Nazioni. Al sud, in Sudan, un movimento di opposizione nell’esercito venne soffocato, ed i soldati e ufficiali egiziani, che condividevano con gli Inglesi l’autorità sul paese secondo l’accordo di condominio, ne vennero espulsi.

Per la Gran Bretagna l’autorità sui paesi arabi era importante non solo a causa dei suoi interessi nella regione, ma anche perché ciò rafforzava la sua posizione nel mondo. La Gran Bretagna aveva interessi fondamentali in tutto il Medio Oriente: la produzione di cotone per le fabbriche del Lancashire, di petrolio in Iran e in Iraq, investimenti in Egitto. La presenza della Gran Bretagna in Medio Oriente contribuiva a garantirle una condizione di potenza mediterranea e mondiale. Le rotte per le Indie e l’Estremo Oriente passavano per il Canale di Suez. Negli anni ’20 e ’30 si sviluppavano anche rotte aeree che solcavano i cieli del Medio Oriente: una portava in India attraverso l’Egitto e l’Iraq, un’altra attraverso l’Egitto giungeva fino in Sudafrica.

Terminata la seconda guerra mondiale il movimento nazionalista egiziano cominciò ad agitare in maniera sempre più energica il problema della completa indipendenza dalla Gran Bretagna. Vi fu una richiesta da parte del governo egiziano di modificare l’accordo raggiunto nel 1936. Negoziati tra i due governi ebbero luogo a partire dal 1946, ma si incagliarono su due punti: la pretesa egiziana di sovranità sul Sudan e la questione di una presenza strategica inglese nella regione. In adempimento del trattato del 1936, le forze inglesi vennero ritirate dal Cairo, ma le trattative giunsero a un punto morto riguardo alla Zona del Canale; gli uomini politici inglesi ritenevano fondamentale rimanervi in forze, per la difesa dei loro interessi nel Medio Oriente, nel Mediterraneo e in Africa. Nel 1952 scoppiò una rivolta popolare al Cairo che portò al potere alcuni ufficiali egiziani capitanati da ‘Abd al-Nasir (Nasser, 1918-1970). Venne deposto il re Faruk e, il 18 giugno 1953, venne proclamata la repubblica. La questione sudanese venne rimossa quando, nel 1953, il nuovo governo egiziano raggiunse un accordo con i principali partiti sudanesi. L’anno successivo le forze britanniche si ritirarono anche dalla Zona del Canale, ponendo fine a più di settant’anni di occupazione inglese.

 

III. 3. LA PALESTINA E L’IRAQ

 

Intorno al 1880 in Palestina, provincia ottomana, si stava sviluppando una comunità ebraica di nuovo tipo: non l’antica comunità tradizionale costituita da ebrei orientali, bensì una comunità di ebrei provenienti dall’Europa centrale ed orientale, e che non venivano a Gerusalemme per studiarvi, pregarvi e morirvi, ma vi si recavano inseguendo il nuovo ideale di una nazione ebraica ripristinata e nuovamente radicata in queste terre. Nel 1897 questa aspirazione venne espressa nella risoluzione del primo Congresso Sionista che avanzò la richiesta della creazione per gli ebrei di un focolare nazionale in Palestina garantito dal diritto internazionale. Nonostante l’opposizione del governo ottomano, e la crescente inquietudine da parte della locale popolazione araba, nel 1914 la popolazione ebraica della Palestina era salita a circa 85.000 persone, vale a dire il 12 per cento del totale. Di essi, circa un quarto erano insediati sulla terra, parte della quale acquistata da un fondo nazionale e dichiarata proprietà inalienabile del popolo ebraico, su cui non si potevano impiegare non-ebrei. Alcuni vivevano in insediamenti agricoli di nuovo tipo (i kibbutz), con controllo collettivo della produzione e della vita comunitaria.

Con la caduta dell’Impero Ottomano un accordo anglo-francese del 1916 divideva la regione in zone di influenza permanente (Accordo Sykes-Picot, maggio 1916). Inoltre un documento britannico del 1917, la Dichiarazione Balfour, affermava che il governo vedeva con favore l’insediamento di un focolare nazionale ebraico ("Jewish National Home") in Palestina, a patto che questo non pregiudicasse i diritti civili e religiosi degli altri abitanti del paese.

Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, il Trattato di Versailles stabilì che i paesi arabi che in precedenza erano stati sotto il governo ottomano potessero essere provvisoriamente riconosciuti indipendenti, salvo la fornitura di assistenza e consiglio da parte di uno stato incaricato di un "mandato" nei loro confronti. Ai sensi dei mandati, accordati formalmente dalla Lega delle Nazioni nel 1922, la Gran Bretagna sarebbe stata responsabile dell’Iraq e della Palestina. A seguito dell’impegno, assunto dalla Dichiarazione Balfour e ribadito dal mandato, di facilitare la costituzione di un focolare nazionale ebraico, la Gran Bretagna amministrava direttamente la Palestina. Ma a est di questa venne fondato un principato di Transgiordania, retto da ‘Abd Allâh (1921-1951) figlio di Husayn, sotto mandato britannico ma senza impegni riguardo alla creazione del focolare nazionale ebraico.

In Iraq una rivolta tribale nel 1920 contro l’occupazione militare inglese iniziata nel 1917, con accenti di nazionalismo, fu seguita da un tentativo di instaurare istituzioni di autogoverno sotto l’autorità britannica. Faysal divenne re dell’Iraq (1921-1933), sotto la supervisione britannica e nel quadro del mandato. Inoltre le clausole del mandato vennero incorporate in un trattato anglo-iracheno.

Una volta terminata la Prima Guerra Mondiale e arrestati i movimenti di opposizione degli anni ’20, la Gran Bretagna non doveva più fronteggiare alcuna seria sfida nel Medio Oriente. Per qualche anno non vi furono nemmeno pericoli provenienti dall’esterno. Gli altri grandi stati dell’Europa (gli imperi russo, tedesco e austro-ungarico) alla fine della guerra si erano dissolti o si erano ripiegati su se stessi. Ciò voleva dire che il Medio Oriente, che per molto tempo era stato il campo di azioni comuni o di rivalità per cinque o sei potenze europee, era adesso esclusivo dominio di Gran Bretagna e Francia, e più della Gran Bretagna che della Francia, la quale era uscita dalla guerra formalmente vittoriosa ma molto indebolita. Per la Gran Bretagna era estremamente importante l’autorità sui paesi arabi in quanto, a parte gli interessi commerciali nella regione, questa rafforzava la sua posizione nel mondo. In Palestina gli investimenti britannici consentirono di sviluppare il porto di Haifa, e inoltre vi era una notevole importazione di capitale ad opera di istituzioni ebraiche impegnate ad edificare il focolare nazionale ebraico.

In Palestina, l’acquisizione di terre per gli immigrati ebrei provenienti dall’Europa, avviata sul finire del XIX secolo, proseguì nel quadro del nuovo sistema amministrativo instaurato dalla Gran Bretagna nella sua qualità di governo mandatario. L’immigrazione ebraica veniva incoraggiata, nei limiti imposti in parte dalle stime governative del numero di immigrati che il paese poteva assorbire in un dato periodo, e in parte dalla maggiore o minore pressione che i sionisti o gli arabi riuscivano ad esercitare sul governo di Londra. Durante questo periodo la composizione della popolazione del paese mutò in maniera considerevole. Nel 1922 gli ebrei costituivano l’11 per cento di una popolazione complessiva di 750.000 persone, mentre il resto era formato da musulmani o cristiani arabi. Nel 1949 essi costituivano più del 30 per cento di una popolazione che nel frattempo era raddoppiata.

Nello stesso tempo erano stati fatti notevoli investimenti tanto da parte di singoli ebrei che da parte di istituzioni costituite allo scopo di contribuire alla creazione del focolare nazionale. Gran parte di essi venne destinata alle necessità immediate dell’immigrazione, e qualcuno a progetti industriali. Inoltre, molti vennero destinati all’acquisto di terreni e a progetti agricoli. All’inizio degli anni ’40, gli ebrei erano proprietari del 20 per cento delle terre coltivabili, e gran parte di esse erano di proprietà del Fondo Nazionale Ebraico, che le considerava proprietà inalienabili del popolo ebraico, su cui non potevano essere impiegati non-ebrei. La popolazione immigrata, comunque, era divenuta prevalentemente cittadina. Il tipico ebreo di Palestina era un cittadino residente in una delle tre grandi città, Gerusalemme, Haifa o Tel Aviv. Ma un simbolo importante era anche il contadino residente in un insediamento collettivo, il kibbutz.

In Iraq l’autorità mandataria britannica era stata esercitata fin quasi dall’inizio attraverso il re Faysal e il suo governo. Le competenze del governo vennero estese nel 1930 da un Trattato Anglo-Iracheno, secondo il quale all’Iraq veniva formalmente accordata l’indipendenza in cambio dell’accordo di coordinare la sua politica estera con quella della Gran Bretagna e di concedere alla Gran Bretagna due basi aeree e l’uso dei mezzi di comunicazione in caso di necessità. L’Iraq venne accolto come membro della Società delle Nazioni, a simboleggiare la sua uguaglianza e la sua accettazione nella comunità internazionale.

In Palestina, fin dai primi tempi dell’amministrazione mandataria britannica, apparve chiaro che sarebbe stato difficile creare qualunque tipo di struttura locale di governo che conciliasse gli interessi degli abitanti arabi indigeni e quelli dei Sionisti. Per questi ultimi, l’importante era tenere aperta la porta dell’immigrazione, e ciò richiedeva il mantenimento dell’autorità inglese fino a che la comunità ebraica non fosse diventata abbastanza consistente e non si fosse assicurata un controllo delle risorse economiche del paese sufficiente a permetterle di badare in prima persona ai propri interessi. Per gli arabi era essenziale prevenire un’immigrazione ebraica di proporzioni tali da danneggiare lo sviluppo economico e in prospettiva l’autodeterminazione, e la stessa esistenza della comunità araba. Presa tra due fuochi da queste pressioni contrapposte, la politica del governo britannico fu quella di conservare l’autorità diretta, consentire entro certi limiti l’emigrazione, favorire nel complesso lo sviluppo economico della comunità ebraica, e rassicurare gli arabi di tanto in tanto che non avrebbe consentito che quanto stava avvenendo portasse al loro assoggettamento. Questa politica favoriva più gli interessi dei sionisti che quelli degli arabi, dal momento che, indipendentemente dalle rassicurazioni fornite, la crescita della comunità ebraica avvicinava il momento in cui questa avrebbe potuto assumere in prima persona il controllo della situazione.

A metà degli anni ’30, era sempre più difficile per la Gran Bretagna mantenere un equilibrio. L’avvento al potere dei nazisti in Germania aumentava la pressione da parte delle comunità ebraiche e di quanti le sostenevano in Inghilterra a favore di una maggiore immigrazione. A sua volta l’immigrazione cambiava l’equilibrio della popolazione e del potere in Palestina. Nel 1936 l’opposizione araba cominciò ad assumere l’aspetto di un’insurrezione armata. La dirigenza politica era in mano ad un’associazione di notabili cittadini, che aveva come figura dominante Amin al-Husayni, muftì (giureconsulto) di Gerusalemme, ma cominciava a fare la sua comparsa una dirigenza militare popolare, e il movimento aveva echi nei paesi arabi confinanti, in un momento in cui la minaccia agli interessi britannici da parte di Italia e Germania rendeva auspicabile per la Gran Bretagna avere buoni rapporti con gli stati arabi. Di fronte a questa situazione, il governo inglese fece due tentativi per risolverla. Nel 1937, in seguito all’inchiesta di una Commissione Reale (la Commissione Peel), venne proposto un progetto di divisione della Palestina in uno stato ebraico e uno arabo; esso era accettabile in linea di principio per i sionisti, ma non per gli arabi. Nel 1939, una relazione governativa prevedeva l’instaurazione definitiva di un governo a maggioranza araba, e limitazioni all’immigrazione e all’acquisto di terreni da parte degli ebrei. Questo sarebbe stato accettabile, con qualche modifica, per gli arabi, ma la comunità ebraica non avrebbe acconsentito ad una soluzione che chiudesse le porte della Palestina in faccia alla maggior parte degli immigrati e impedisse la nascita di uno stato ebraico. Una resistenza armata da parte ebraica cominciava a farsi vedere quando lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale pose fine per il momento all’attività politica ufficiale.

La guerra si concluse con la riaffermazione del predominio britannico in Medio Oriente. Tutti i paesi che in precedenza erano stati sotto il dominio britannico lo erano tuttora, ed eserciti inglesi erano anche in Libia, Siria e Libano. Di fatto però le basi della potenza britannica erano state scosse. In Gran Bretagna le fatiche della guerra avevano portato ad una crisi economica che poté esser superata solo gradualmente e con l’aiuto degli Stati Uniti. Ad oscurare il primato della Gran Bretagna erano giunte le due potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, la cui forza potenziale era stata messa in luce dalla guerra.

Tra i popoli arabi, gli avvenimenti bellici suscitarono speranze di una nuova vita. Inoltre le circostanze della guerra rafforzarono l’idea di una più stretta unità tra i paesi arabi. Vi erano comunque diversità di sentimenti e di interessi: in Siria e in Iraq, i dirigenti avevano ancora un ricordo della perduta unità dell’Impero Ottomano, e desideravano legami più stretti; il Libano era in un precario equilibrio tra quanti si consideravano arabi e quanti, soprattutto cristiani, vedevano il Libano come un paese a sé legato all’Europa; i governi di Egitto, Arabia Saudita e Yemen avevano il senso della solidarietà araba, ma un forte concetto dei propri interessi particolaristici; tutti volevano creare un sostegno efficace per gli arabi in Palestina. Due conferenze tenute ad Alessandria nel 1944 e al Cairo nel 1945 sfociarono nella costituzione della Lega degli Stati Arabi. Essa riuniva sette stati che avevano una certa libertà di azione (Egitto, Siria, Libano, Transgiordania, Iraq, Arabia Saudita e Yemen), insieme a rappresentanti degli arabi palestinesi, e lasciando aperta agli altri paesi arabi la possibilità di unirsi ad essi quando fossero divenuti indipendenti. Quando, nel 1945, vennero create le Nazioni Unite, gli stati arabi indipendenti ne entrarono a far parte.

Durante la guerra, l’immigrazione ebraica in Palestina era stata di fatto impossibile, e l’attività politica era stata per lo più sospesa. Quando la guerra fu prossima alla fine, divenne evidente che i rapporti di forza erano mutati. Gli Arabi di Palestina erano meno di prima in condizione di presentare un fronte unito. La costituzione della Lega Araba, con il suo impegno a favore dei Palestinesi, sembrava offrire loro una forza che in definitiva si rivelò illusoria. Gli ebrei palestinesi, da parte loro, erano uniti da forti istituzioni comunitarie; molti di loro avevano avuto un addestramento militare nell’esercito inglese; essi avevano un sostegno più ampio e determinante da parte degli ebrei di altri paesi, impressionati dai massacri di ebrei in Europa, e risoluti a creare per i sopravvissuti non solo un rifugio, ma una posizione di forza che rendesse impossibile il ripetersi in futuro di fatti simili. Il governo britannico non aveva più la libertà d’azione di cui godeva prima del 1939, a causa dei suoi stretti rapporti con gli Stati Uniti e della dipendenza economica da essi. Dopo avere cercato di accordarsi con il governo di Washington su una linea di condotta unica, senza comunque trovare la contemporanea approvazione degli ebrei e degli arabi, nel 1947 la Gran Bretagna decise di investire della questione le Nazioni Unite, annunciando che il 14 maggio 1948 si sarebbe ritirata dalla regione. All’atto del ritiro delle truppe inglesi, da parte ebraica venne immediatamente proclamata la nascita dello Stato d’Israele e si instaurò un governo provvisorio guidato da David Ben Gurion. Questo venne riconosciuto dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, mentre forze egiziane, giordane, siriane e libanesi penetravano nelle parti a maggioranza araba del paese. La soluzione ebraica fu considerata dagli arabi un atto di forza intollerabile, tanto più che la fondazione di uno stato ebraico avrebbe significato l’emarginazione religiosa, politica, sociale ed economica della maggioranza araba, che già costituiva l’elemento socialmente inferiore della regione. Fra il 15 maggio 1948 e il 25 gennaio 1949 si ebbe il primo conflitto tra arabi e israeliani. Le forze arabe, che comprendevano oltre ad armati palestinesi anche truppe dei vari stati mediorientali, mal guidate, senza coordinamento, furono sconfitte, mentre Israele riuscì ad occupare la maggior parte del paese. Quasi un milione di palestinesi, espulsi dalle loro terra, andarono incontro a una vita miserabile nei campi profughi messi a disposizione dei governi arabi. Aveva così inizio un conflitto tra arabi e israeliani in Medio Oriente, che era destinato col tempo a diventare sempre più acuto e drammatico.

 

III. 4. IL RESTO DEL VICINO ORIENTE

 

La Gran Bretagna aveva degli accordi per difendere gli sceicchi del Protettorato di Aden (1886), e quelli del Kuwait (1899 e 1914), Bahrein (1861 e 1892), Qatar (1916), e la Costa dei Pirati o Stati della Tregua (1892).

Mantenne anche degli speciali trattati di amicizia con il Sultanato di Muscat e Oman (1798).

Il contenuto di questi accordi era, in ogni singolo caso, più o meno lo stesso. Per ottenere la protezione della Gran Bretagna contro aggressioni esterne, i firmatari arabi si impegnavano a non stipulare alcun accordo o mantenere alcuna relazione con nessuna potenza straniera e a non ammettere la presenza di agenti di governi stranieri. Inoltre non potevano cedere, ipotecare o vendere parte dei loro territori a potenze straniere senza l’approvazione del governo di Londra.

I trattati con Muscat e Qatar differivano leggermente da questa formula generale. Quello con il Qatar presentava una ben precisa distinzione tra "aggressione proveniente dal mare" e "aggressione proveniente da terra". Nel primo caso la protezione britannica era garantita. Nel secondo caso era assicurata soltanto la fornitura di merci. Quello con Muscat era, per così dire, un trattato fatto da stranieri con uno stato sovrano.

L’accordo con il Bahrein del 1861 prevedeva l’aiuto britannico soltanto contro aggressioni provenienti dal mare e comunque l’accordo si fondava su un atteggiamento non aggressivo da parte del Bahrein stesso.

Nessuno di tali accordi prevedeva l’intervento britannico in casi di controversie interne a questi paesi. L’Inghilterra poteva intervenire soltanto dopo un invito ufficiale da parte di uno dei citati governi arabi. Soltanto in Kuwait e nel Protettorato di Aden le autorità britanniche garantivano la pace interna e prevenivano le aggressioni provenienti da terra.

Questi accordi e trattati furono stipulati con l’intento di raggiungere i seguenti obbiettivi:

  • Prevenire la pirateria, la schiavitù e le guerre navali nel Golfo.
  • Preservare l’area da un crollo dovuto al controllo di un’altra potenza navale mondiale che non fosse la Gran Bretagna (o, nel caso del Kuwait, diventare il terminale della linea ferroviaria Berlino - Baghdad).
  • Preservare la pace interna e la sicurezza delle vie di comunicazione terrestri nell’hinterland di Aden.

 

In generale questi accordi furono stipulati con lo scopo di ottenere dei risultati totalmente differenti da quelli che poi sono stati realmente ottenuti. La maggiore minaccia alla sicurezza di questi paesi si poteva scorgere nei disordini interni e nelle dispute riguardanti le zone di frontiera. Ad esempio, l’Arabia Saudita diventò una potenza militare ed economica con forti tendenze espansionistiche che hanno completamente alterato le circostanze per le quali la maggior parte degli accordi britannici nel Golfo furono sottoscritti.

Con il conseguimento dell’indipendenza da parte dell’Algeria nel 1962, l’epoca degli imperi europei ebbe di fatto termine, ma vi erano ancora alcune zone del Medio Oriente in cui permaneva il potere inglese, espresso in forme di governo e basato sulla possibilità di usare la forza militare. Nel Protettorato di Aden, negli anni ’50, gli interessi britannici si erano fatti più consistenti. La raffineria e la base navale di Aden erano importanti a causa del timore che l’URSS potesse stabilire la sua autorità sul Corno d’Africa, sulla sponda opposta del Mar Rosso. Il Protettorato allora venne trasformato in un sistema di controllo più formale. A Aden venne insediata un’assemblea legislativa, e gli stati protetti circostanti vennero riuniti in una federazione. Concessioni limitate portarono però allo scoppio di tutta una serie di disordini e nel 1966 il governo britannico decise di ritirarsi. Il ritiro vero e proprio avvenne però l’anno successivo.

Nel Golfo, non fu tanto la pressione locale quanto una mutata concezione della posizione della Gran Bretagna nel mondo che portò al ritiro di quest’ultima. Nel 1961 venne concessa una piena indipendenza al Kuwait: uno stabile ceto dominante di famiglie di commercianti stretto attorno ad una famiglia regnante riuscì a creare un nuovo tipo di governo e di società grazie allo sfruttamento del suo petrolio.

A sud del Golfo, una revisione delle risorse e delle strategie inglesi portò nel 1968 alla decisione del governo di ritirare le sue forze armate, e quindi la sua autorità, da tutta la zona dell’Oceano Indiano entro il 1971. Però la scoperta del petrolio in varie parti del Golfo, e il suo sfruttamento su vasta scala, diede nuova importanza a quella che era stata una zona molto povera e portò a una certa estensione dell’autorità inglese. Attraverso l’influenza inglese, si instaurò una sorta di confederazione, gli Emirati Arabi Uniti, destinata ad assumere il ruolo unificante in precedenza esercitato dalla Gran Bretagna. Essa era composta da sette staterelli (Abu Dhabi, Dubai, Shargia, Agiaman, Umm al-Qaiwain, Ras al-Khaimah, Fugiayrah), ma non entrarono a farne parte né il Bahrein né il Qatar. Anzi per qualche tempo l’indipendenza del Bahrein venne messa in discussione da pretese iraniane alla sovranità, basate su motivazioni storiche, ma nel 1970 esse vennero ritirate.

Dopo di ciò, l’unica parte della penisola in cui permaneva una presenza britannica era una parte in cui essa non era quasi mai ufficialmente esistita. Il sovrano dell’Oman era stato per lungo tempo praticamente sotto il controllo di un numero assai ristretto di funzionari britannici. Con il colpo di stato del 1970, guidato dal principe ereditario Sayyid Qabus Ibn Sa‘îd, venne posta fine al protettorato britannico e l’Oman venne ammesso all’ONU.

III. 5. VICINO ORIENTE SOTTO INFLUENZA BRITANNICA DAL 1800 A DOPO LA GRANDE GUERRA

ADEN. Occupata dagli Inglesi,1839. Graduale estensione del controllo britannico nella regione dal 1886 al 1954.

 

BAHREIN. Occupazione portoghese nel XVI secolo, poi persiana. Sceiccato indipendente (famiglia Âl Khalifah), 1784. Protettorato inglese, 1861.

 

CIPRO. Ottomana dal 1571. Amministrata dalla Gran Bretagna dal 1878. Nel 1914 la Gran Bretagna annette l’isola, che assume lo statuto di colonia, 1925. Indipendente dal 1960.

 

COSTA DEI PIRATI. Piccoli sceiccati sotto protezione britannica a partire dal 1820 fino al 1971.

 

EGITTO. Ottomano dal 1517, di fatto indipendente con Mohammad Ali al potere, 1805. Una rivolta xenofoba di ‘Urâbî Pashâ porta all’occupazione britannica, 1881-82. Protettorato britannico, 1914.

 

 

IRAQ. Province ottomane unificate in regno (famiglia hashimita) nel 1921. Occupazione e poi mandato britannico, 1920-32.

 

KUWAIT. Sceiccato (famiglia Sabah), rivendicato dagli ottomani. Protettorato britannico, 1899.

 

MUSCAT E OMAN. Principi locali (famiglia Âl Abû Sa‘id). Protettorato britannico dal 1798 al 1971.

 

PALESTINA. Ottomana. Occupazione britannica nel 1917, poi mandato, dal 1920.

 

QATAR. Sceiccato sottoposto alla sovranità ottomana dal 1872. Occupato dagli Inglesi nel 1916, ne diviene un protettorato nel 1934.

 

TRANSGIORDANIA. Parte della provincia ottomana di Damasco. Emirato dal 1921 (famiglia hashimita). Incluso nel mandato britannico sulla Palestina del 1920. Amministrazione separata dal 1923

III. 6. L’INDIA

 

La presenza britannica in India iniziò nel 1599 quando venne fondata la Compagnia delle Indie Orientali, riconosciuta ufficialmente dalla regina Elisabetta I nel 1600. La Compagnia realizzò subito profitti rilevanti, anche grazie a numerosi trattati commerciali con i principi locali. Di grande importanza fu il ruolo giocato da Robert Clive (1725-1774), l’uomo politico e militare che aprì la via alla penetrazione inglese nella regione del Deccan strappando ai francesi la città di Acroit nel 1751 e conquistò il Bengala nel 1757.

La Gran Bretagna, comunque, non era la sola potenza europea ad avere istituito questo tipo di associazione commerciale nel subcontinente indiano. Anche l’Olanda e la Francia potevano contare su dei grandi possedimenti. Quelli francesi in particolare erano molto ambiti dalla corona britannica, e dopo la guerra dei Sette Anni (1756-1763) questi territori caddero sotto il dominio degli Inglesi. Il trattato di Parigi del 1763 sanzionò l’abbandono dei possedimenti francesi a vantaggio della Compagnia Inglese delle Indie. La costosa politica espansionistica determinò però l’intervento del governo britannico il quale nel 1773, col cosiddetto Regulating Act, iniziava di fatto l’unificazione politica dell’India, lasciando l’attività amministrativa alla Compagnia ma riservando ogni decisione politica al governo di sua maestà. L’India Act di William Pitt (il Giovane), nel 1784, attribuiva a un Board of Control (Comitato di Controllo), nominato direttamente dalla Corona, la responsabilità su tutti gli atti civili e militari.

L’aspetto più rilevante della politica coloniale inglese nel periodo compreso tra la Restaurazione e la metà del XIX secolo fu legato alla trasformazione del regime coloniale in India. Tra la fine del ‘700 e il primo cinquantennio dell’800 i vari governatori generali, tra cui il marchese di Wellesley e Lord Hastings, completarono la conquista iniziata da Clive, finché nel 1827, a Delhi, la Compagnia delle Indie assumeva, a nome della corona britannica, la sovranità sull’impero dei Moghul. La Compagnia delle Indie, fino al 1815 aveva goduto del monopolio del commercio fra l’India e l’Inghilterra e tutelava i propri interessi in modo relativamente autonomo dal governo britannico, intervenendo nel subcontinente indiano con una propria amministrazione, una propria diplomazia, un proprio esercito e una propria flotta. Ma a mano a mano che gli interessi economici e politici inglesi erano andati crescendo, il governo aveva sentito l’esigenza di intervenire in maniera sempre più incisiva. Nel 1816 venne nominato il primo governatore, con compiti di difesa militare e civile dei sudditi britannici. Fra il 1817 e il 1818 si ebbe la conquista dell’India anteriore; fra il 1824 e il 1826 quella dell’India ulteriore; fra il 1839 e il 1859 quella dell’India nordoccidentale.

Nel 1858 , nella convinzione che fosse ormai giunto il momento per assumere il controllo diretto dei possedimenti, il governo soppresse la Compagnia delle Indie e la Gran Bretagna provvide a costituire una propria struttura amministrativa. La svolta decisiva fu rappresentata dalla rivolta dei sepoys (truppe indigene), scoppiata nel 1857. Repressa nel giro di due anni, la rivolta indusse il governo britannico ad accelerare la riorganizzazione del paese. Venne creato a Londra un ministero speciale per l’India; il governatore divenne viceré con sede a Calcutta; fu riorganizzata l’amministrazione favorendo l’accesso tramite concorsi pubblici all’elemento indigeno; si fece posto nei Consigli municipali ai notabili indiani. Per favorire, infine, lo sfruttamento più sistematico delle risorse economiche, fu creata una vasta rete ferroviaria che superò i 50.000 km, veicolo necessario per la penetrazione dei prodotti importati dalla Gran Bretagna. L’industria tessile indigena, assai fiorente specie nella regione di Deccan, venne praticamente distrutta con lo scopo di agevolare lo smercio dei prodotti inglesi provenienti dal Lancashire. Si trattava di uno sviluppo a beneficio della Gran Bretagna, che sfruttava spregiudicatamente a proprio vantaggio le risorse economiche del paese. In questo modo l’India divenne una colonia puramente agricola, intesa a rifornire l’Inghilterra di prodotti alimentari e di materie prime. Nel 1876, a conclusione della riorganizzazione della colonia, la regina Vittoria assunse il titolo di "imperatrice d’India", per volontà di Benjamin Disraeli (1804-1881). In quel periodo l’India contava 300 milioni di abitanti divisi in due parti: l’una formata dall’India britannica vera e propria, l’altra da 700 Stati sottomessi al controllo britannico.

Fu così che l’intellighenzia indiana incominciò ad agitarsi in senso antinglese. Nel 1885 sorse il movimento del Congresso (chiamato così per il fatto che i suoi rappresentanti si riunivano periodicamente a congresso), la cui parola d’ordine divenne quella dell’autonomia amministrativa dall’Inghilterra. Nella "perla dell’impero" crescevano le prime aspirazioni all’indipendenza.

È in quegli anni che emerse la maggiore figura di leader del nazionalismo indiano: Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948), salutato dai suoi seguaci come Mahatma ("grande anima"). Dopo avere studiato diritto a Londra, Gandhi aveva svolto la propria attività di avvocato in Sudafrica, proteggendo i lavoratori indiani impiegati nelle miniere. Dopo avere fatto ritorno in India nel 1915, influenzato da una profonda religiosità, egli si mise a capo di una lotta per l’indipendenza i cui cardini erano il rifiuto del terrorismo come arma, i principi della "non violenza" intesa però in modo attivo, come disobbedienza civile alle leggi inglesi, resistenza passiva e boicottaggio (fino al rifiuto di pagare le tasse, di ricorrere ai tribunali inglesi, di acquistare merci britanniche). Ma, accanto al movimento dei "non violenti", continuavano ad agire i nazionalisti che ricorrevano a mezzi violenti e al terrorismo, con conseguenti repressioni poliziesche e militari.

Il governo britannico affrontò il nazionalismo indiano con varie leggi di riforma, la più importanti delle quali fu l’Indian Act del 1935. Fu costituita una Federazione indiana e venne allargato il suffragio per l’elezione dell’Assemblea legislativa, pur restando il paese sotto il saldo controllo inglese. L’India si trovava a metà strada fra il colonialismo temperato e l’indipendenza acquistata dai dominions. Una condizione questa che non poteva essere e non venne accettata dal movimento nazionalista, che, pur diviso nelle questioni di strategia, era unito nella volontà di lottare per l’indipendenza senza limitazioni.

Dopo la seconda guerra mondiale l’India ottenne finalmente l’indipendenza. Nel 1942 gli inglesi avevano promesso all’India lo statuto di dominion alla fine della guerra; offerta che però era stata respinta dai capi del nazionalismo, i quali volevano la completa indipendenza. Ma accanto al problema dell’indipendenza, cioè del rapporto fra India e Gran Bretagna, stava un grave problema interno, quello dei rapporti fra indù e musulmani. Questi ultimi, sostenuti dalla potente Lega Musulmana che era nata nel 1906, consideravano con preoccupazione un futuro che vedesse, in un’India unita, i musulmani ridotti a minoranza culturalmente, socialmente e religiosamente oppressa. Gli inglesi dal canto loro utilizzarono il contrasto per perpetuare il proprio dominio, fra le proteste di Gandhi, che chiedeva a gran voce l’indipendenza subito e non dopo la fine della guerra. Nell’agosto del 1942 un ultimatum del Congresso, che chiedeva al governo inglese l’immediato trasferimento dei poteri ai rappresentanti del popolo, venne respinto. L’arresto di Gandhi e di altri esponenti del Congresso determinò in tutto il paese sommosse e tumulti seguiti da sanguinose repressioni.

Al termine del conflitto ebbero luogo le elezioni che diedero una schiacciante maggioranza al Partito del Congresso con 209 seggi, contro i 75 della Lega Musulmana. I contrasti fra il Partito del Congresso e la Lega non cessarono di acutizzarsi, tanto che si arrivò a una vera guerra civile. Di fronte a questa situazione che non riusciva a controllare ulteriormente, il governo laburista britannico il 20 febbraio 1947 con l’India Indipendence Act rese pubblica la decisione di abbandonare il paese entro il giugno 1948. Il 15 agosto seguì la dichiarazione di indipendenza dell’India come dominion nel quadro del Commonwealth. Il futuro assetto dell’India venne definito secondo il piano che era stato elaborato dall’ultimo viceré Lord Mountbatten. Il territorio venne diviso in due Stati: l’Unione Indiana con capitale Delhi e il Pakistan (terra dei puri) con capitale Karachi, uno Stato religioso musulmano formato a occidente da un troncone maggiore (il Pakistan vero e proprio) e a oriente da un troncone minore, il Bengala orientale, distanti l’uno dall’altro oltre 1.500km. I britannici si ritirarono definitivamente nell’agosto 1947. Nell’India settentrionale la creazione dei due Stati e il conseguente gigantesco esodo forzato di popolazioni, provocarono tumulti e massacri che fecero decine di migliaia di vittime e un numero non ben precisato di profughi.

Nel giugno 1948 l’ultimo governatore generale inglese lasciava l’India. L’India nel gennaio 1950 si diede una costituzione che faceva del paese una repubblica democratica e federale, con 27 Stati confederati e 6 Territori. Nonostante la proclamazione della repubblica, l’India rimase nel Commonwealth britannico. Gandhi, il padre del nazionalismo indiano era stato assassinato il 30 gennaio 1948 da un fanatico nazionalista indù che si opponeva alla sua politica di conciliazione tra indù e musulmani. Capo del governo indiano diventò Jawaharlal Nehru (1889-1964), il quale avviò in politica estera il paese su una linea di "neutralità dinamica". In tal modo il continente indiano era giunto all’indipendenza, su fondamenta politiche e ideologiche che non avevano investito le strutture sociali lasciate in eredità dal colonialismo. I suoi problemi sociali, la sua povertà e arretratezza, erano di dimensioni terribili e gigantesche.

 

III. 7. IL PAKISTAN

 

Il Pakistan, come si è detto, nacque nel 1947 allorché la Gran Bretagna, sotto la minaccia di una guerra civile, creò due dominions nel subcontinente indiano: il Pakistan a maggioranza musulmana e l’Unione Indiana a maggioranza indù. La contesa a sfondo religioso tra indù e musulmani risale alla fine dell’impero Moghul (1858) allorché i musulmani persero parte dei loro antichi privilegi e si trovarono esposti alla reazione degli indù diretta contro i discendenti degli antichi dominatori. La creazione dell’università musulmana di Aligarh (1877) costituì un importante passo per la tutela della cultura e della civiltà islamiche.

Nel 1906 fu creata a Dacca la Lega Musulmana, partito politico contrapposto al Congresso d’ispirazione indù. Da essa emerse la figura di Ali Jinnah (1876-1948), che ne divenne ben presto il massimo esponente. La Lega si orientò dapprima (1916) verso la collaborazione con il Partito del Congresso, quindi passò a propugnare la creazione di una federazione. Ma con l’istituzione dell’autogoverno (India Act del 1935) cominciarono a costituirsi sempre più folte correnti di autonomisti. Fu Ali Jinnah che a Lahore, nel 1940, pose le basi di uno Stato musulmano autonomo, una "Terra dei Puri" (Pakistan) delineandone chiaramente i confini. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, perdurando lo stato di estrema tensione fra i due gruppi religiosi, anche il Congresso aderì alla formula proposta da Jinnah e la Gran Bretagna fissò i confini dei due nuovi dominions.

A differenza dell’Unione Indiana, il Pakistan non possedeva alcuna unità storica, differiva nel suo interno per tradizioni culturali e per la stessa composizione etnica. L’unico elemento comune tra le sue parti era l’adesione all’Islam ottenuta grazie a uno scambio di popolazione (circa 7 milioni di musulmani si trasferirono dall’India al Pakistan e 10 milioni di indù fecero il percorso inverso). Dopo pochi mesi dalla sua costituzione il giovane Stato dovette affrontare la "secessione" del Kashmir che gli inglesi avevano assegnato al Pakistan contro la volontà del maragià indù. Della questione si interessò l’O.N.U. che, nel 1949, divise la regione tra i due contendenti in attesa che un plebiscito risolvesse lo spinoso problema. Anche nel Pakistan orientale le spinte separatiste si fecero ben presto sentire mentre il paese era scosso da sommosse a sfondo politico - religioso (assassinio del primo ministro Ali Khan, 1951). Nel 1956 fu promulgata la costituzione, per la quale il Pakistan divenne una repubblica parlamentare.

 

 

III. 8. L’AFRICA

 

All’inizio del XIX secolo l’Africa si presentava nettamente divisa fra la parte settentrionale araba e islamica, e l’Africa subsahariana o nera. La prima era ormai in piena decadenza; la seconda, scarsissimamente popolata (tutta l’Africa aveva circa 100 milioni di abitanti), era stata terra di saccheggio umano da parte dei trafficanti di schiavi.

Molti fattori contribuirono all’esplosione imperialistica in Africa. Il progresso dell’industrializzazione in Europa creava l’esigenza di nuovi mercati, e suscitava nuove tensioni sociali per le quali alcuni uomini politici, come Joseph Chamberlain, vedevano una valvola di sfogo appunto nella colonizzazione. Le rivalità tra gli stati europei si trasferirono al mondo extraeuropeo e in particolare all’Africa. Così spesso un banale incidente fra mercanti europei in concorrenza in Africa poteva tramutarsi in una crisi internazionale, e d’altronde furono talune iniziative intraprese localmente da agenti europei a dare il via alla corsa per il possesso del continente. La spartizione dell’Africa fu determinata in gran parte dall’appoggio che i singoli governi europei diedero alle attività dei loro cittadini operanti in Africa.

In Africa settentrionale, dal 1882, la Gran Bretagna aveva il controllo dell’Egitto e, in parte, del Sudan.

Nell’Africa Occidentale gli Inglesi possedevano delle piccole colonie - Gambia (1888), Sierra Leone (1807), Costa D’Oro (1874). In seguito la Gran Bretagna, spinta dalle attività francesi e tedesche, si assicurò il controllo di quei territori che poi divennero la Nigeria (1807-1914).

In Africa Orientale il premier Lord Salisbury rivendicò la regione dei grandi laghi (Uganda, 1894) e il territorio contiguo fino alla costa, l’odierno Kenya (1920).

Nell’Africa Meridionale e Centrale la Gran Bretagna, dopo il 1870, penetrò negli odierni Zimbabwe, Zambia, Malawi, Botswana, Swaziland e Lesotho. Nel 1890 instaurò il protettorato su Zanzibar e nel 1920 ottenne il mandato del Tanganica. L’azione di invasione fu stimolata potentemente dalle scoperte di ricchissimi filoni d’oro e di diamanti. L’iniziativa di questa penetrazione fu in gran parte di Cecil Rhodes, industriale e uomo politico della Colonia del Capo.

Quella dell’Africa fu una spartizione cruenta che provocò decine di migliaia di vittime. L’apice si raggiunse con la guerra anglo-boera (1899-1902), in seguito alla quale gli Inglesi riuscirono, non senza fatica, ad assicurarsi le miniere d’oro del Transvaal e ad assorbire le repubbliche boere. Le ostilità si aprirono nel 1896 con la fallita incursione di Jameson contro i Boeri che minò la reputazione politica del suo amico Rodhes; ma Chamberlain e Milner, alto commissario a Città del Capo, continuarono la politica di Rodhes fino ad arrivare alla guerra. Le ostilità si conclusero il 31 maggio 1902 quando venne firmata la pace di Pretoria. Gli inglesi si astennero abilmente da una politica di rappresaglie; e anzi puntarono sulla riconciliazione e sulla compenetrazione del potere fra inglesi e boeri ai danni della maggioranza non bianca. Nel 1910 nacque l’Unione Sudafricana, travagliata dai pessimi rapporti fra la minoranza bianca e la maggioranza nera, privata di tutti i diritti e ridotta a uno sfruttamento inumano in condizione di virtuale schiavitù.

 


 


 

L’imperialismo, che ebbe inizio con l’occupazione inglese dell’Egitto nel 1882, avviò in Africa una decisa reazione anticoloniale. In Egitto, gli Inglesi dovettero fronteggiare la rivolta nazionalista capeggiata da ‘Urâbî Pashâ. In Sudan furono ripetutamente sconfitti dal Mahdi.

Secondo i principi ispiratori di fondo della propria politica coloniale, la Gran Bretagna non aveva mai cercato di assimilare i paesi africani sottoposti alla propria dominazione. Ma, sotto il peso dei movimenti nazionalisti, il passaggio dalla relativa autonomia progettata dagli inglesi all’indipendenza risultò inarrestabile.

La prima colonia dell’Africa Nera britannica ad accedere alla piena indipendenza fu la Costa d’Oro. Divenuta indipendente nel marzo 1957, diede vita allo Stato del Ghana (assumendo il nome dell’antico regno pur senza una reale coincidenza geografica), che incorporò il Togo ex britannico.

La Nigeria divenne indipendente nell’ottobre 1960.

Poco dopo, nell’aprile 1961, ottenne l’indipendenza anche la Sierra Leone.

Assai meno sviluppate delle colonie dell’Africa occidentale erano le colonie britanniche dell’Africa orientale.

Il Kenya riuscì a raggiungere l’indipendenza nel dicembre 1963 dopo violentissimi scontri con le forze armate britanniche.

Nell’ottobre 1962 aveva ottenuto l’indipendenza l’Uganda, che incorporò il regno di Buganda.

Nell’aprile 1964 lo Zanzibar, divenuto indipendente nel 1963, si unì al Tanganica, dando vita alla repubblica della Tanzania.

Gravi difficoltà incontrò la decolonizzazione dell’Africa britannica sudorientale, che subiva l’influenza del regime bianco razzista del Sudafrica. Questa regione era divisa in Rhodesia del Nord, Rhodesia del Sud e Nyassaland. Sotto la spinta del movimento di emancipazione, la Gran Bretagna dovette accettare la secessione del Nyassaland, che nel 1961 diede vita a un governo africano e nel luglio 1964 ottenne l’indipendenza col nome di Malawi.

Nel 1962 anche la Rhodesia del Nord secessionò, dopo violente agitazioni e repressioni; nell’ottobre 1964 essa divenne quindi indipendente, dandosi il nome di Repubblica dello Zambia.

Il centro della resistenza bianca divenne la Rhodesia del Sud, dove di fronte a circa 1.700.000 africani stava un forte minoranza di oltre 500.000 bianchi, che dal 1923 avevano il completo controllo del paese. Reagendo al processo di emancipazione della Rhodesia del Nord e del Nyassaland, qui i bianchi nel dicembre 1962 diedero vita a un proprio governo volto ad assicurare la completa supremazia bianca, secondo il modello sudafricano, e impegnato nella più dura repressione dei nazionalisti africani. Nel novembre 1965 il governo proclamò unilateralmente l’indipendenza del paese. Con la costituzione dello Stato razzista della Rhodesia del Sud (l’odierno Zimbabwe), il Sudafrica poteva contare su un nuovo alleato per il mantenimento del proprio regime.

 

I. 10. GLI EX POSSEDIMENTI BRITANNICI A FORTE PRESENZA MUSULMANA

(La percentuale si riferisce alle popolazioni di fede islamica)

 


 


 


 

III. 10. IL COMMONWEALTH - Polvere di un impero

 

Il Commonwaelth è la confederazione delle ex colonie della Gran Bretagna, divenute Stati indipendenti, che riconoscono il sovrano britannico come simbolo del loro legame e quindi come capo del Commonwealth stesso. Il termine fu introdotto alla conferenza imperiale del 1926 e ufficializzato con lo Statuto di Westminster del 1931, che costituì il British Commonwealth of Nations, i cui membri erano la Gran Bretagna e i dominions. Dal 1949 il termine dominion fu sostituito con quello di Stato membro e, per non escludere l’India, furono ammessi come Stati membri anche le repubbliche, purché riconoscessero il sovrano come capo del Commonwealth.

 


 


 

 

MEMBRI DEL COMMONWEALTH.

 

  • 54 Paesi.
  • Australia, Canada, Nuova Zelanda e Repubblica Sudafricana sono i membri

fondatori.

  • Nauru e Tuvalu sono membri speciali che partecipano a tutte le attività tranne

alle riunioni dei capi di Stato.

  • La Nigeria è stata sospesa nel 1995 fino alla riadozione di "regole civili".

 

Totale popolazione degli Stati membri: 1.5 miliardi di persone.

 

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