I. ISLAM E GLI "ALTRI"

Prima di prendere in considerazione i rapporti che sono sempre esistiti tra l’Islam e gli "altri", soprattutto tra l’Islam e l’Europa, bisogna domandarsi cos’è l’Islam. In modo estremamente sintetico e conciso potremmo affermare che l’Islam è una religione. Ma per i musulmani la parola "religione" non ha la stessa connotazione che ha per i cristiani o che aveva per i cristiani del Medio Evo. Per i musulmani l’Islam non è soltanto un sistema di fede e di culto. Esso indica il complesso della vita e le sue norme comprendono elementi di diritto civile, di diritto penale e costituzionale. Ma se in un certo senso il termine "religione" ha un significato molto più vasto per un musulmano che per un cristiano, vi è anche un’altra accezione in cui esso significa molto meno. Per i musulmani l’equivalente della chiesa, come edificio e come luogo di culto, è la moschea. Invece in quanto istituzione la Chiesa non ha equivalenti nell’Islam. L’Islam non ha né concili né sinodi, né prelati né gerarchie, né diritto canonico né tanto meno tribunali canonici. Nella storia islamica non si sarebbe mai potuto verificare uno scontro tra il papa e l’imperatore (come invece avvenne tante volte nella storia della cristianità), poiché il califfo, cioè il capo della comunità e dello Stato, riassumeva in sé sia l’autorità politica che quella religiosa.

Questa differenza tra Islam e Cristianesimo deriva dalle diverse origini delle due religioni. Diversamente da Mosè, a Maometto non fu impedito di entrare nella sua Terra Promessa; né tanto meno gli fu inflitta, come invece avvenne a Gesù, la morte fisica attraverso il martirio. Né i suoi seguaci furono costretti a vivere per tanto tempo in una condizione di semi isolamento, perseguitati da un governo ostile. Nel corso della sua vita Maometto divenne un legislatore. Egli stesso fondò il primo Stato islamico e lo governò con i suoi compagni. La missione spirituale di Maometto si concluse con la sua morte, ma la missione politica e religiosa venne portata avanti dai suoi successori, i califfi. Sotto il loro governo, i musulmani passarono di vittoria in vittoria creando un vasto impero che si estendeva dai confini dell’India e della Cina fino ai Pirenei e all’Atlantico, imponendo il proprio dominio su milioni di nuovi sudditi, molti dei quali abbracciarono di propria spontanea volontà la nuova religione.

L’Islam, quindi, non è solo una religione. L’Islam è anche un’identità e un’appartenenza politica che non ha alcun equivalente nell’intera storia del Cristianesimo occidentale. Il mondo dell’Islam è stato, almeno sotto il profilo ideale, un’unica comunità politica governata da un unico capo, il califfo. Anche dopo il declino del califfato centrale e la nascita dei poteri o sultanati regionali, l’ideale di un’unica comunità politica islamica rimase sempre tanto forte da prevenire, almeno fino a epoche relativamente recenti, l’emergere di grandi potenze regionali o nazionali, al contrario di quello che invece era avvenuto in Europa già dal Medio Evo. L’ideale di un’unica comunità politica islamica, che trascende sia il paese che la nazione, ha tuttora un seguito considerevole tra i musulmani.

 

 

*

 

Prendiamo in considerazione quelli che sono i punti di incontro tra Cristianesimo, Ebraismo e Islam.

Il Cristianesimo ha in comune con l’Ebraismo i libri dell’Antico Testamento; tutte e tre le grandi religioni hanno in comune lo stesso Dio di Abramo. Ebrei, cristiani e musulmani discendono infatti, secondo i rispettivi libri sacri, dall’unico capostipite: il patriarca Abramo. Ebrei e cristiani attraverso la discendenza di Isacco, figlio di Sara; i musulmani per la discendenza da Ismaele, figlio di Agar seconda moglie di Abramo, per la quale il patriarca avrebbe costruito alla Mecca la Ka‘ba, divenuto poi il santuario dell’unico Dio.

Ebrei, cristiani e musulmani riconoscono come figure centrali della propria fede:

- Mosè; per gli ebrei il fondatore; secondo i cristiani colui attraverso il quale Dio diede al mondo la sua legge; per i musulmani il depositario di quella verità pienamente rivelata poi a Maometto.

- David; per gli ebrei il re "cantautore" (a lui sono attribuiti i salmi) dal quale discenderà il Messia; per i cristiani il Cristo-Messia (in greco il primo, in ebraico il secondo, significa "il consacrato per una missione") discende da David; nel Corano padre della poesia e khalîfa ossia rappresentante di Dio sulla terra.

- Gesù; per gli ebrei un rabbino discostatosi dall’ortodossia; per i musulmani un profeta ma non figlio di Dio, poiché "non è da Dio prendersi un figlio" (Sura XIX, 35) e poiché significherebbe contraddire il monoteismo assoluto.

Ebrei, cristiani e musulmani hanno in comune la cultura d’origine: quella dei beduini nomadi e seminomadi, divenuti poi sedentari, influenzati dall’ellenismo e dall’universalismo romano. Condividono inoltre - a differenza della grandi religioni orientali che vivono ciascuna nel loro isolamento - la stessa storia e hanno interagito nell’elaborazione delle rispettive culture.

È sul piano di questa comune storia che avvengono le divisioni e gli scontri; in misura minore sul piano dottrinale in cui l’identità di ognuno è salvaguardata da secoli di riflessione rigorosa.

È lecito domandarsi se ai nostri giorni è possibile l’incontro fra le tre religioni. Di certo è auspicabile in una realtà di mescolanze etniche e religiose, non più riducibile a una visione per aree geografiche. Ma credo che saranno i fatti a costringere all’incontro ebrei, cristiani e musulmani nel comune interesse di salvaguardare la creazione e di promuovere un vivere più umano. A questo fine, essi sono chiamati a non lasciarsi inquinare da presunte egemonie e ad incontrarsi "alla pari", non rivendicando, per diritto divino, il proprio primato di verità.

 

*

 

Cristianesimo e Islam costituiscono cronologicamente il secondo e il terzo tentativo di creare una religione mondiale. Il primo fu il Buddismo. A partire dal VI secolo a.C., missionari buddisti provenienti dall’India recarono la propria fede nell’Asia meridionale e orientale riscuotendo vasti consensi. Molto minore fu invece l’impatto delle missioni buddiste nella parte sud-occidentale del continente asiatico. In quelle regioni essi non riuscirono ad ottenere conversioni alla loro religione né a creare una qualche cultura buddista, a parte alcune zone asiatiche di cultura iranica.

Fra altri due popoli dell’antichità, gli ebrei e i persiani, i capi religiosi elaborarono concetti universali destinati in seguito ad avere un’importanza molto profonda, ma nessuno dei due gruppi tentò mai di insegnare questi concetti ad altri o di convertirli alla propria fede. L’idea che esista una verità unica per tutto il genere umano, e che il dovere di coloro che la possiedono è di insegnarla agli altri, ha inizio con l’avvento del Cristianesimo e ricompare poi con la nascita dell’Islam. Entrambe le religioni sorgono nelle regioni che oggi chiamiamo Vicino Oriente ed attingono ad un vastissimo retaggio comune: le idee sul monoteismo degli ebrei, la profezia, la rivelazione, le scritture. Cristianesimo e Islam avevano però in comune un’idea nuova, cioè quella di essere gli unici possessori della verità divina nella sua interezza. Inoltre si contendevano un territorio comune: l’Asia sud-occidentale, l’Africa settentrionale e l’Europa mediterranea.

Per alcuni versi, l’Islam medievale e il Cristianesimo medievale parlavano la stessa lingua. In alcuni paesi del Mediterraneo, infatti, musulmani e cristiani avevano in comune la conoscenza non soltanto delle lingue volgari locali, ma anche dell’arabo. Se non i concetti, condividevano almeno il vocabolario che serviva per esprimerli. In questo modo erano anche in grado di tradurre i testi religiosi. I monaci medievali che tradussero il Corano in latino poterono farlo perché il latino possedeva i termini necessari. Invece, quando i convertiti tentarono di tradurre il Corano dall’arabo in persiano o nelle lingue dell’India, si imbatterono in un numero enorme di difficoltà in quanto queste lingue non possedevano né i concetti né i termini corrispondenti.

Parlando la stessa lingua, almeno in senso figurato, usando gli stessi metodi di argomentazione e gli stessi tipi di ragionamento, musulmani e cristiani riuscivano a capirsi anche sulle loro divergenze. Quando cristiani e musulmani si davano dell’infedele a vicenda, ciascuno capiva che cosa l’altro intendeva. In questo si rivelava una sostanziale affinità.

 

 

 

*

 

Cristianesimo e Islam sono due dottrine consecutive, tra le due vi è un intervallo di sei secoli. Per gli appartenenti a ogni singola religione vi sono ovviamente delle differenze fra una religione precedente e una successiva. Questa distinzione serve forse a spiegare gli atteggiamenti contrastanti dei cristiani e dei musulmani, e di entrambi nei confronti degli ebrei. Per i cristiani, l’Ebraismo era un predecessore, una religione incompleta e superata, completata e sostituita dal Cristianesimo, ma non in sé falsa. Per questo gli ebrei, nell’Europa medievale, godevano di un certo grado di tolleranza.

Altrettanta tolleranza non si poteva accordare a manifestazioni religiose successive che contestavano la veridicità e la conclusività delle loro dottrine. Agli occhi di alcuni cristiani del Medio Evo gli ebrei erano tollerabili finché si attenevano all’Antico Testamento, anche se rifiutavano il Nuovo, ma potevano perdere il diritto a questa tolleranza se seguivano il Talmud, che era in gran parte successivo all’avvento del Cristianesimo e quindi, per i cristiani, pieno di errori.

L’Islam era considerato, a maggior ragione, una dottrina falsa in quanto non soltanto era successiva al Cristianesimo, ma essa tentava addirittura di convertire gli altri. Quindi occorreva opporvisi e sconfiggerla.

I musulmani non godevano della stessa tolleranza concessa agli ebrei, e la riconquista cristiana della Sicilia, della Spagna e del Portogallo fu seguita dall’espulsione o dalla conversione forzata dei loro abitanti musulmani. Cristiani e musulmani erano convinti che quella che possedevano era la verità nella sua espressione definitiva. Pertanto qualsiasi altra fede era considerata necessariamente un errore.

Per i musulmani il Cristianesimo era una religione abrogata che i suoi seguaci insistevano assurdamente a osservare, anziché accettare la parola definitiva di Dio. Potevano essere tollerati purché si sottomettessero alla supremazia politica dell’Islam. In caso contrario, andavano combattuti fino a quando, vinti, avessero accettato la verità della fede musulmana oppure si fossero assoggettati all’autorità dello stato musulmano.

D’altro canto per i musulmani anche l’Ebraismo era un predecessore e meritava lo stesso grado di tolleranza. Al pari del Cristianesimo, agli occhi dei musulmani l’Ebraismo era una religione che un tempo era stata valida poiché aveva ricevuto un’autentica rivelazione, ma era incompleta e ormai superata dall’Islam, la forma più completa di Dio Uno e Unico.

 

*

 

Sebbene Cristianesimo e Islam fossero rivali, anzi, come si è detto, si disputassero il ruolo di religione universale, e nonostante condividessero tante tradizioni e credenze, tante aspirazioni, nessuno dei due era disposto a riconoscere l’altro come alternativa valida. Gli abitanti di varie regioni europee mostravano una certa riluttanza a definire i musulmani con un qualsiasi appellativo dotato di una connotazione religiosa. Piuttosto, preferivano attribuire loro delle connotazioni etniche con lo scopo evidente di sminuirne l’importanza e ridurli a un fatto locale o addirittura tribale. In diversi tempi e luoghi, gli europei chiamarono i musulmani "saraceni", "mori", "turchi" o "tàtari", a seconda di quale popolo musulmano avessero incontrato. La parola "turco" giunse persino a diventare sinonimo di "musulmano", tanto che, di coloro che si convertivano all’Islam si usava dire che fossero "diventati turchi", indipendentemente dal luogo della loro conversione.

Analoga riluttanza mostrarono i musulmani nei confronti dei cristiani. Essi, infatti, li definiscono "romani", "slavi" o "franchi" a seconda di dove e quando li hanno incontrati. Nei casi in cui si usavano degli appellativi religiosi, questi erano radicalmente negativi - come kuffâr, cioè genericamente "miscredenti", e si usava il termine harbi, vale a dire "nemico" da combattere per il miscredente che non si assoggettava alla supremazia politica musulmana.

Altre volte si usavano denominazioni leggermente più peculiari. Esempi paralleli di ciò si osservano nella diffusa usanza cristiana di definire i musulmani "maomettiani", e nella diffusa abitudine musulmana di definire i cristiani "nazareni". Comunque il termine religioso più comunemente usato da ciascuno per riferirsi all’altro era quello di "infedele".

Altro termine comunemente usato dai musulmani per definire non solo i cristiani ma anche altre comunità religiose era quello di dhimmi, vale a dire "protetto". Si definisce dhimmi colui che beneficia della dhimma. Questa era una sorta di contratto attraverso il quale la comunità musulmana garantiva ospitalità e protezione ai seguaci delle altre religioni rivelate. In cambio questi riconoscevano l’autorità islamica e pagavano il testatico o gîzya.

Camminando per le vie di Medina si poteva incontrare anche un musta‘min, cioè uno straniero a cui era stato dato il permesso e\o salvacondotto di risiedere in territorio islamico per un breve periodo di tempo che, comunque, non poteva essere superiore ad un anno.

Un’ulteriore categoria, nel variegato panorama della società islamica, era rappresentata dai mawâlî o "clienti". Essi erano i nuovi convertiti cristiani, giudei o persiani. All’interno di questa categoria stavano, inoltre, i munâfiqûn o "ipocriti", ossia coloro che erano divenuti musulmani per opportunismo.

Un ruolo a sé ricopriva il murtadd , "l’apostata" ossia il musulmano che abbandonava l’Islam, sia per abbracciare un’altra religione sia per non abbracciarne nessuna. L’apostata di sesso maschile veniva condannato a morte ma soltanto se adulto e se non era stato costretto in alcun modo all’apostasia. L’apostata donna, invece, doveva subire l’umiliazione della prigione.

Vediamo adesso quale comportamento adottavano i musulmani nei confronti dei non musulmani. Alla base del trattamento, da parte dell’Islam, nei confronti dei non musulmani c’è la Sunnah o il modo di fare del Profeta. Maometto, infatti, fu il primo che cercò di integrare le principali comunità ebraiche, che risiedevano a Medina, in un modello di organizzazione più vasto. In seguito si oppose loro in maniera abbastanza violenta e infine, dopo avere esteso la sua autorità all’intera penisola arabica, sottoscrisse con esse, e con le comunità cristiane, degli accordi di sottomissione e di protezione.

Alla fine del X secolo d.C., nei territori che erano stati investiti dalla conquista islamica, era divenuta musulmana gran parte della popolazione. Si convertirono non solo gli abitanti delle città ma anche un buon numero di abitanti delle campagne. Probabilmente un motivo di ciò sta nel fatto che l’Islam si era meglio definito e si era tracciato un solco più netto tra musulmani e non musulmani. Ora i musulmani vivevano in un complesso sistema rituale, dottrinale e giuridico, nettamente differenziato da quello dei non musulmani; erano più consapevoli della propria appartenenza all’Islam. Era definito con maggiore precisione lo statuto di cristiani, ebrei e zoroastriani. Costoro venivano considerati "Gente del Libro" (ahl al-kitâb), in quanto depositari di una scrittura rivelata. In generale essi non venivano costretti a convertirsi, ma subivano alcune restrizioni.

Ai non musulmani era garantito il diritto di professare liberamente i propri riti e le proprie cerimonie religiose. In cambio, essi pagavano allo Stato, come si è detto, il testatico, la gîzya. Secondo la legge e le consuetudini islamiche si richiedeva ad essi di segnalare visibilmente la loro differenza: di indossare abiti di un tipo particolare e di evitare certi colori associati al Profeta e all’Islam (in particolare il verde). L’intenzione originale di tutto ciò era forse quello di prevenire degli errori amministrativi. Di fatto, però, queste diversità nell’abbigliamento vennero viste come un segno di umiliazione e, in seguito, furono accompagnate, a secondo dei momenti politici, da altre restrizioni complementari come, ad esempio, il divieto di indossare tessuti pregiati.

Essi, inoltre, non potevano portare armi o andare a cavallo; non dovevano costruire nuovi edifici di culto, restaurarne di vecchi senza permesso o costruirli in modo da sovrastare quelli dei musulmani; la loro testimonianza non veniva accettata nei tribunali contro quella dei musulmani; i dazi doganali erano maggiori per i mercanti non musulmani.

Simili restrizioni non erano però imposte sempre o in modo uniforme. Più stretta era l’osservanza delle leggi sul matrimonio e sulle successioni. Un non musulmano non poteva ereditare da un musulmano e non poteva sposare una donna musulmana, mentre un musulmano poteva sposare una donna ebrea o cristiana; inoltre, i figli nati da un matrimonio misto venivano considerati musulmani. La conversione di musulmani era rigidamente vietata, così come lo era l’apostasia.

Nelle città, anche se probabilmente ci sarà stata una naturale tendenza a stabilirsi in determinate zone a seconda della propria fede religiosa, non esistevano dei quartieri ben definiti per le varie comunità non musulmane.

Sintomatico dell’esistenza separata di ebrei e cristiani era il fatto che essi tendevano ad occupare posizioni di un certo rilievo in alcune attività economiche, ma erano praticamente esclusi da altre. Ad un alto livello, alcuni ebrei e cristiani detennero cariche importanti alla corte di certe dinastie o all’interno della loro amministrazione. Nell’Egitto dei Fatimidi, degli Ayyubidi e dei Mamelucchi, i funzionari cristiani copti furono importanti nell’amministrazione finanziaria. La medicina era una professione in cui gli ebrei avevano una posizione preminente, e i medici di palazzo ebrei riuscirono ad avere una grande influenza. Se un ebreo o un cristiano si convertiva all’Islam, poteva salire ancora più in alto; alcuni convertiti divennero primi ministri e detennero il potere effettivo.

Nei primi secoli della dominazione islamica sembra fossero numerosi gli scambi sociali e culturali tra gli appartenenti alle tre religioni. Col passare del tempo, però, gli steccati si fecero più alti. La conversione all’Islam di cristiani e, in misura forse minore, di ebrei, trasformò quella che era una maggioranza in una minoranza sempre più piccola. Man mano che l’Islam si trasformava da religione di un’élite di governo a fede dominante della popolazione urbana, sviluppava le proprie istituzioni sociali, al cui interno i musulmani potevano vivere senza trovarsi a interagire con i non musulmani.

Non si può negare che durante gli ultimi tre o quattro secoli del Medioevo si sia assistito ad un generale irrigidimento nei confronti dei non musulmani all’interno dei paesi islamici. Ciò era dovuto anche alle mutate proporzioni numeriche. Bisogna anche dire, comunque, che un analogo irrigidimento si poteva notare, nell’Occidente cristiano, nei confronti di musulmani ed ebrei. Non possiamo comunque esimerci dal considerare che tali mutamenti nei rapporti tra le varie comunità erano, per lo più, dettati da considerazioni politiche, piuttosto che religiose.

Nei lunghi secoli di predominio musulmano vi furono anche alcuni periodi di prolungata e aperta persecuzione dei non musulmani ad opera di alcune dinastie musulmane: per esempio, durante il califfato fatimida di al-Hakim (996-1021) in Egitto, durante il regno degli Almohadi nel Maghreb (1130-1269), e quello di alcuni sovrani mongoli in Iran e Iraq dopo la loro conversione all’Islam. Simili persecuzioni non erano però istigate o giustificate dai portavoce dell’Islam; gli uomini di cultura religiosa, gli ‘ulama, si preoccupavano di far sì che i non musulmani non infrangessero le leggi che regolavano la loro condizione, ma entro questi limiti essi erano favorevoli ad accordare loro quella posizione che la shari‘a (la Legge islamica) prevedeva per essi. Le pressioni sugli ebrei e sui cristiani dovevano venire principalmente dalle masse urbane, soprattutto in tempo di guerra o di difficoltà economiche, quando contro i funzionari del governo non musulmani dovevano manifestarsi delle ostilità. In tali momenti, i sovrani potevano rispondere imponendo lo stretto rispetto delle leggi, o licenziando i loro funzionari non musulmani.

L’organizzazione comunitaria degli ebrei e dei cristiani poteva fornire una qualche protezione e assicurare una certa solidarietà di fronte a pressioni occasionali ed agli svantaggi permanenti della condizione di minoranza. Le varie comunità cristiane ed ebree erano tenute insieme dalla solidarietà del gruppo locale raccolto intorno ad una chiesa o ad una sinagoga, e da autorità superiori, solitamente religiose.

I capi delle comunità erano responsabili dell’adempimento delle condizioni della dhimma o contratto di protezione tra il sovrano musulmano e i sudditi non musulmani: pace, obbedienze e ordine. Può anche darsi che avessero un ruolo nella ripartizione del testatico. Essi, inoltre, avevano un’ulteriore funzione all’interno della comunità: sovrintendevano alle scuole ed ai servizi sociali, e cercavano di prevenire deviazioni in ambito dottrinale o nella pratica liturgica. Essi sovrintendevano anche ai tribunali in cui i giudici applicavano la legge in cause civili tra membri della comunità, o ricomponevano i dissensi; se lo desideravano, però, ebrei e cristiani potevano portare le loro causa davanti al qadi (giudice) musulmano, e sembra che lo facessero di frequente.

In generale, si può dire, come ormai la produzione scientifico-storica tende ad affermare, che l’Islam ha mostrato una maggiore tolleranza, rispetto all’Europa cristiana, nei confronti degli ebrei che rimasero in territorio islamico. Per ciò che riguarda le comunità cristiane, là dove queste non si estinsero del tutto, vennero tollerate, a patto che non mostrassero dei legami troppo stretti con le autorità politiche dell’Europa.

 

*

 

Per capire meglio la natura dei rapporti dell’Islam con gli "Altri", e in particolare con l’Europa, bisogna anche tenere presente le caratteristiche peculiari della comunità islamica, che facevano, e fanno, di essa una realtà unica e distinta.

Dapprima sembrò che l’Islam dovesse trionfare e l’Europa dovesse soccombere. Quasi fin dalla sua nascita, l’Islam fu un impero e una civiltà mondiale, che si estendeva su tre continenti. I musulmani avevano ereditato la filosofia e la scienza della Grecia, che l’Europa avrebbe impiegato secoli a scoprire, e persino la saggezza e l’arte del governo dell’Iran. Mentre l’Europa era chiusa fra l’Islam a sud, le steppe a est, l’oceano a ovest e le distese gelate a nord, il mondo dell’Islam era da sempre in contatto, a volte in modo bellicoso ma spesso in modo pacifico, con le ricche e antiche civiltà dell’India e della Cina. Il mondo islamico possedeva una cultura ricca e diversificata, territori estesi e risorse abbondanti, un’economia complessa e florida. Aveva inoltre una società urbana sofisticata e rispettosa delle leggi. L’ecumene islamica costituiva una comunità unica e, per un certo tempo, un’unica comunità politica unita dalla fede e collegata da una vasta rete di rotte marittime e terrestri creata per i commerci e il pellegrinaggio ai luoghi sacri dell’Islam.

Inoltre era unita da un’unica lingua, almeno nei primi secoli, e dalla cultura che essa esprimeva. La lingua araba costituiva, per il mondo islamico, un mezzo di comunicazione che non trovava, e non trova, un adeguato corrispettivo in Europa. Né il greco, né il latino, né le primitive lingue volgari, né le moderne lingue nazionali hanno da offrire qualcosa che sia lontanamente paragonabile all’arabo.

Confrontata all’Islam, la cristianità era povera, limitata, frammentata in piccoli regni litigiosi, con Chiese divise da scismi ed eresie. Sotto l’avanzata musulmana nel Mediterraneo, il Cristianesimo apparve una realtà ancora più locale. Per un certo periodo sembrò che nulla potesse impedire il trionfo definitivo dell’Islam in Europa e la diffusione della fede islamica nel Vecchio Continente.

Tra i tanti momenti in cui Islam ed Europa si scontrarono e si incontrarono al tempo stesso, vanno ricordate quelle che erroneamente vengono definite "guerre di religione". In realtà, esse erano semplicemente delle guerre combattute a scopi politici ed economici. Comprendiamo così come la nozione di gihâd intesa come "guerra santa" sia del tutto errata; e come le crociate soltanto nominalmente siano state combattute per la "liberazione del Santo Sepolcro".

Fin dai tempi antichi il diritto musulmano prescriveva, fra i principali doveri del capo dello Stato e della comunità musulmana, quello di condurre il gihâd, termine che comunemente viene tradotto come "guerra santa". In realtà la traduzione è inesatta. La parola araba gihâd, infatti, vuol dire letteralmente "sforzo". Essa indica, innanzi tutto, l’impegno del singolo contro le proprie pulsioni e le tentazioni del male (grande gihâd o "gihâd contro noi stessi").

Durante quasi tutta la storia dell’Islam la parola gihâd, seguita dalle parole fî sabîl Allâh, "lungo il sentiero di Dio", era generalmente, anche se non universalmente, intesa in senso militare. Era dunque un dovere del buon musulmano combattere in guerra contro gli infedeli (piccolo gihâd o "gihâd della spada"). In via di principio, questa guerra doveva continuare fino a quando tutta l’umanità non avesse abbracciato l’Islam o non si fosse sottomessa all’autorità dello Stato islamico. Finché ciò non fosse avvenuto, il mondo sarebbe rimasto diviso in due: il Dâr al-Islâm (la "Casa dell’Islam) dove prevalgono il potere musulmano e la legge dell’Islam, e il Dâr al-Harb (la "Casa della Guerra") che ingloba tutto il resto.

L’obbligo del gihâd era in vigore lungo tutti i confini dell’Islam, oltre i quali si trovavano le terre degli infedeli. Tale obbligo era unico ma fra i vari gruppi di infedeli vi era un’importante distinzione. In Asia e in Africa vi erano pagani e idolatri che, non avendo una religione del libro e/o rivelata, erano considerati come oggetto di conversione all’Islam. In Europa, invece, l’Islam incontrò una resistenza sostenuta da una vera fede rivale: il Cristianesimo. Ciò impresse al gihâd contro il Cristianesimo un carattere particolare, perché fu in Europa che i musulmani scorsero i pericoli maggiori ma anche le più allettanti opportunità. Per i musulmani delle prime generazioni l’Europa era di gran lunga il più importante dei nemici infedeli. Qualche secolo dopo, per gli ottomani, divenne addirittura l’unico.

Vi furono anche dei periodi in cui gli europei passarono al contrattacco, in particolare con le crociate. In anni recenti si è affermata la consuetudine di presentare le crociate come una manifestazione precoce dell’imperialismo occidentale, un’aggressione indiscriminata e predatoria da parte delle potenze europee dell’epoca contro i paesi musulmani. A quel tempo, però, le crociate non erano viste sotto questa luce né dai cristiani né dagli stessi musulmani. Per i cristiani contemporanei, le crociate erano guerre religiose il cui fine era quello di liberare la Terra Santa dal dominio dei "saraceni".

Questo era, comunque, soltanto il fine dichiarato. In realtà le crociate furono l’effetto diretto del risveglio sociale, economico, politico e demografico dell’Occidente cristiano del secolo XI: la riforma di Gregorio VII (papa dal 1073 al 1085) aveva rafforzato il papato, ora in grado di proporsi come guida spirituale e, in parte, politica della cristianità. La ritrovata stabilità politica aveva portato, a livello sociale, all’emarginazione dei cavalieri, fino ad allora protagonisti dell’endemica conflittualità interna dell’Occidente e ora pericoloso elemento di potenziale turbamento nel nuovo quadro politico e sociale. Ai cavalieri la Chiesa offrì di usare le loro energie contro i musulmani in cambio di redenzione dei peccati e, soprattutto, di ricchi bottini.

I musulmani, al contrario, non davano alle crociate questa connotazione religiosa. Essi disprezzavano i crociati perché questi facevano spavaldamente tutto quello che il Corano proibiva: bevevano molto, giocavano d’azzardo, mangiavano carne impura di maiale e, oltre al loro Dio, pregavano i santi ("Non vi è altro dio che Iddio" si recita nel Corano). Inoltre non li capivano. I "franchi" facevano un gran parlare di cavalleria, di vedove e di orfani da proteggere, ma poi si accanivano crudelmente contro le popolazioni civili, distruggevano ciò che conquistavano invece di conservarlo per trarne vantaggio, davano importanza alle virtù guerriere, ma non si curavano di quelle intellettuali: erano analfabeti, superstiziosi, non sapevano né di scienza né di arte, avevano costituito le confraternite degli ospedalieri ma le loro conoscenze di medicina erano molto rozze.

Va ricordato comunque, che solitamente gli storici arabi vissuti al tempo delle crociate dedicavano scarso interesse alle crociate stesse.

 

*

 

Per quasi mille anni, dal primo sbarco dei musulmani in Spagna (VII-VIII sec. d.C.) al secondo assedio turco-ottomano di Vienna (1683), l’Europa rimase sotto la costante minaccia dell’Islam. Nei primi secoli la minaccia era duplice: non soltanto quella dell’invasione e della conquista, ma anche quella della conversione e dell’assimilazione.

Fu quel timore a determinare la nascita degli studi arabi in Europa. Nei monasteri dell’Europa occidentale, dotti monaci apprendevano l’arabo, traducevano il Corano e studiavano altri testi islamici con il duplice intento di salvare anime cristiane dalla conversione all’Islam ed eventualmente di convertire i musulmani al Cristianesimo.

Agli occhi del mondo islamico l’Europa appariva molto simile a come l’Africa centrale appariva all’Inghilterra vittoriana. Era vista quindi come una terra abitata da genti esotiche, pittoresche e alquanto primitive. Naturalmente gli arabi erano consapevoli dell’esistenza di Bisanzio, conoscevano e rispettavano la civiltà degli antichi greci dell’Ellade. Ma non nutrivano alcun rispetto per l’Europa centrale e occidentale, la cui civiltà, in epoca medievale, era di un livello notevolmente inferiore rispetto a quella islamica.

Nonostante questa visione, vi era, al tempo stesso, la consapevolezza che gli europei, persino quelli dell’Europa occidentale, non fossero dei semplici barbari come gli altri popoli che confinavano con il mondo islamico a oriente e a meridione. Dopotutto essi erano seguaci di una religione vera, superata ma pur sempre fondata su un’autentica rivelazione. Al tempo stesso, gli europei non erano disposti a farsi convertire all’Islam, anzi restavano ostinatamente attaccati alla propria fede.

Nel secondo grande scontro, quello tra Europa rinascimentale e Islam ottomano, pochi furono tentati a cambiare fede e a "diventare turchi" furono soprattutto avventurieri in cerca di fortuna nei promettenti territori ottomani. Quanto ai musulmani, essi rimanevano sempre refrattari alle pretese di una religione che consideravano superata. La minaccia ottomana all’Europa era principalmente di natura militare e politica. La sfida e l’opportunità che l’Islam offriva alle imprese europee non era rappresentata dalla conversione dei "pagani", bensì dallo sfruttamento dei vasti mercati dei territori ottomani in via di espansione.

La mutata situazione si rispecchia nel costante e vario interesse degli studiosi europei verso l’Islam. Fine principale dello studio non era più evitare le conversioni religiose, e i suoi centri non erano più i monasteri. Studiosi dell’Islam battevano adesso delle strade diverse. Nelle università che andavano sorgendo in tutta Europa, i sapienti si applicavano allo studio dei testi arabi classici, religiosi e non. In tutta Europa i dotti mostravano un enorme interesse nei confronti della cultura e del mondo musulmano.

Tra i musulmani, al contrario, non si poteva notare un analogo interesse. Quello che accadeva al di là dei loro confini non interessava i governanti musulmani. Non vi fu alcun tentativo di imparare lingue non islamiche, e quando era necessaria una qualche conoscenza di idiomi europei, i governanti musulmani si affidavano ai loro sudditi non musulmani o ai profughi. Riscossero qualche attenzione i progressi compiuti in Europa nel campo delle armi e della navigazione, ma le arti, le scienze e le dottrine politiche ed economiche d’Europa erano considerate essenzialmente irrilevanti per la vita e gli interessi dell’Islam e pertanto venivano ignorate.

Ma nel corso dei secoli l’incontro tra la cultura musulmana e quella cristiana si è fatto sempre più pressante e determinante. Nei paesi islamici, e in particolare nel Medio Oriente, gli agenti responsabili delle trasformazioni economiche sono stati degli stranieri, soprattutto europei. La nuova classe media si trovò ad essere composta in gran parte da stranieri e da persone nate in paesi cristiani (e, in misura minore, da ebrei) che godevano del favore e della protezione delle potenze europee. Per effetto di questo processo, quelle componenti della società islamica si identificarono sempre meno con i loro compatrioti e dominatori musulmani e sempre più con l’Europa. Fu soltanto in una fase relativamente recente che una borghesia musulmana, non inibita dalla sua separatezza rispetto alla comunità politica dominante e alla maggioranza della società, riuscì a conquistare un certo peso politico e sociale.

Ma il commercio non fu l’unico fattore che determinò il mutamento dei rapporti di forza fra l’Europa e l’Islam. Pari importanza ebbe la trasformazione in corso nella stessa Europa, vale a dire il grande sviluppo della scienza, delle tecnologie e della vita culturale e intellettuale in atto nelle società europee. Tutti fenomeni stimolati dall’espansione capitalistica nonché dalle esigenze e dai contributi della borghesia. Tutti questi cambiamenti che investirono l’Europa, anche se in misure diverse da paese a paese, ebbero scarsi effetti nel mondo islamico, dove (con la parziale eccezione delle forze armate) la scienza e la tecnologia, la produzione e la distribuzione di merci per molto tempo rimasero immutate rispetto al passato.

La nuova e sempre crescente disparità produsse mutamenti significativi nell’atteggiamento dell’Europa verso l’Islam. In tempi più antichi la minaccia dell’Islam era vista come un pericolo dell’anima, oltre che per il corpo, dall’Europa cristiana. La minaccia del proselitismo religioso appariva altrettanto grave di quella della conquista militare da parte dei musulmani. Dopo la fine del Medioevo essa cessò di essere considerata una minaccia. Il numero degli europei che avevano abbracciato la fede islamica era esiguo. Si trattava soprattutto di avventurieri e di profughi in cerca di fortuna che, convertendosi all’Islam, si erano trasformati in rinnegati per i cristiani e in muhtadì ("coloro che hanno trovato la via giusta") per i musulmani. L’Islam, per gli intellettuali europei, diventava adesso un oggetto di dotto studio, un fenomeno da osservare con curiosità scientifica, anziché un pericoloso avversario da affrontare.

Vi furono anche dei cambiamenti nel modo in cui l’Islam vedeva l’Europa, anche se rimasero per lo più circoscritti alle élites civili e militari. Nella visione musulmana del Cristianesimo come religione non si ebbero variazioni significative. Agli occhi dei musulmani, il Cristianesimo continuava ad essere una rivelazione superata.

Pertanto, ci si limitò ad adottare ciò che appariva chiaramente ed immediatamente utile: gli armamenti, la tecnica della costruzione delle navi, la pratica della medicina, oltre alcuni apparecchi, i più importanti dei quali furono l’orologio, gli occhiali da vista, il telescopio. Ma per quanto possibile questi oggetti vennero spogliati da ogni nesso culturale. Non vi fu alcun desiderio di apprendere le lingue europee, né alcun interesse per le arti e le lettere d’Europa.

Con il trascorrere del tempo l’impero ottomano cominciò a mostrare i primi segni di cedimento e i rapporti con l’Europa cambiarono. Le armate ottomane, un tempo le più forti e le più valorose del mondo, venivano superate dagli avversari europei in fatto di armamenti, di scienza militare e persino di disciplina.

Dopo le prime sconfitte subite dall’impero ottomano in Europa nel XVIII sec., i musulmani turchi (statisti, militari e studiosi) cominciarono a fare i conti con la dura realtà della propria debolezza e vulnerabilità, e a confrontare la società islamica con quella europea. Nei loro riferimenti all’Europa si nota un cambiamento del tono. Ambasciatori e uomini di cultura esprimono un allarme crescente nei confronti dei paesi e dei popoli dell’Europa cristiana, non più vista come una pittoresca accozzaglia di barbari ma, piuttosto, come una fonte di pericolo. Se la ricchezza dell’Europa era nota da tempo, cominciava a farsi strada la consapevolezza della sua forza.

Rispetto all’Europa il mondo musulmano era indietro anche sul piano economico. La nascita del mercantilismo in Occidente consentì a nazioni e imprese europee di raggiungere un livello di organizzazione commerciale sconosciuto nei paesi islamici. Ormai da entrambe le parti era chiaro che i loro rapporti avevano preso un piega differente rispetto al passato. Per l’Europa il problema turco esisteva ancora, perché la Turchia continuava a essere un fattore importante nell’equilibrio delle forze nel continente; ma ormai quel problema era costituito dalla debolezza della Turchia, non dalla sua forza. E l’Islam, che le Chiese cristiane avevano smesso da tempo di considerare un avversario religioso serio, cessava ora di essere temibile anche come minaccia militare.

Agli occhi dei musulmani, la religione cristiana e la cultura fondata su di essa restavano trascurabili com’erano sempre state. Si nota però un rispetto crescente per la ricchezza materiale e la potenza militare dell’Europa, evidenti l’una dalle manifatture e dall’evolversi dei rapporti commerciali, l’altra dall’equilibrio delle forze armate.

Nel corso del XVIII secolo, le missioni diplomatiche ottomane in Europa si erano fatte più frequenti e nei rapporti degli inviati si nota un cambiamento di tono: esprimono interesse, a volte ammirazione, e di tanto in tanto segnalano addirittura determinate consuetudini europee come meritevoli di essere imitate dalla Sublime Porta. Alla fine del secolo, il sultano ottomano Selim III (1789-1807) aveva ormai ambasciate permanenti in parecchie capitali europee, facendo propria l’usanza europea di assicurare comunicazioni diplomatiche costanti per mezzo di rappresentanze stabili. Ciò facendo, si distaccò nettamente dalla consuetudine islamica di inviare ambasciatori soltanto là dove vi era effettivamente qualcosa da dire e di richiamarli subito dopo. La creazione di ambasciate permanenti aprì la via alla "integrazione" di un grande Stato islamico nel sistema politico europeo, e offrì alle successive generazioni di giovani funzionari turchi l’occasione di trascorrere qualche anno in una città europea, di apprendere una lingua europea e di acquisire qualche conoscenza di prima mano dalla civiltà europea.

Se lo studio delle lingue consentì a un numero ristretto di musulmani istruiti l’accesso al sapere e alle idee dell’Europa, lo sviluppo del movimento di traduzione alla metà del XIX secolo, accompagnato e seguito dalla diffusione della stampa, dischiuse quelle conoscenze e quelle idee a un pubblico enormemente più numeroso. All’inizio del XX secolo, era stato tradotto in arabo, persiano e turco un gran numero di opere letterarie, e in tutte e tre le lingue andava sviluppandosi una nuova letteratura profondamente influenzata dai modelli europei.

Nelle arti, l’europeizzazione cominciò prima che nella letteratura e andò molto oltre. Sugli artisti, l’influsso europeo fu diretto e immediato, non intralciato dalle barriere della lingua e del sapere. Fin da tempi molto antichi, i pittori turchi e persiani mostrarono di avere subìto l’influsso della pittura europea che avevano visto. Nel XVIII secolo molti temi decorativi europei compaiono persino nell’architettura delle moschee. Per contro, l’arte musicale europea ricevette un’accoglienza meno calorosa e la sua diffusione fu assai lenta.

La rapidità e la portata dell’europeizzazione, in particolare della concezione musulmana del mondo e degli avvenimenti recenti ed attuali, furono enormemente accresciuti dall’introduzione, dall’Europa, degli organi di informazione. I primi giornali pubblicati nel Vicino Oriente furono un effetto della rivoluzione francese. Essi erano tutti scritti in francese e quindi ebbero una diffusione assai limitata. I primi giornali locali apparvero al Cairo e a Istanbul, in arabo e in turco, agli inizi del XIX secolo, ed erano pubblicati sotto il patronato del pascià (governatore) e del sultano. Essi erano un prolungamento naturale dei compiti dello storiografo imperiale e si proponevano di rendere nota la vera natura degli avvenimenti e il vero contenuto delle leggi e dei decreti del governo.

Comunque, il vero sviluppo della stampa quotidiana ebbe inizio con la guerra di Crimea (1853-1856), quando la Turchia fu coinvolta per la prima volta in un conflitto armato di vaste proporzioni con due potenze europee occidentali (Gran Bretagna e Francia) come alleate. Da allora in poi, la stampa quotidiana si diffuse rapidamente raggiungendo non soltanto la popolazione alfabetizzata ma anche i molti che si facevano leggere il giornale dai vicini e dagli amici.

Una componente centrale dell’ordine islamico classico era costituita dalle scuole. Esse fornivano un’istruzione dominata dalla religione e per lo più erano gestite ed amministrate dagli ‘ulama, uomini di scienza religiosa. La nuova amministrazione dell’epoca richiedeva personale di tipo nuovo e nuove scuole dove addestrarlo e formarlo. Tali scuole erano affidate a maestri e professori che col tempo divennero sempre più simili ai loro equivalenti europei e che formarono una nuova intellighenzia laica e assai produttiva. Con la modernizzazione del sistema educativo gli ‘ulama persero gran parte del loro potere.

Insieme a queste riforme, i paesi del mondo islamico hanno poi adottato molti altri cambiamenti allo scopo di avvicinarsi sempre più all’Europa. Alcuni di quei cambiamenti erano simbolici, ma pur sempre importanti, come l’adozione dell’abbigliamento europeo, dapprima da parte dei servitori dello Stato, burocrati e militari, e successivamente da tutti gli altri abitanti maschi delle città. L’europeizzazione dell’abbigliamento femminile è venuta molto più tardi, ha suscitato resistenze assai più aspre e ha coinvolto una porzione molto minore della popolazione.

Alcuni cambiamenti furono di natura prevalentemente sociale, come l’abolizione della schiavitù, l’emancipazione della donna, le restrizioni sulla poligamia e il riconoscimento di pari diritti legali ai non musulmani. Vi furono però altre grandi trasformazioni che giunsero a modificare persino l’infrastruttura della società, con l’introduzione dell’illuminazione stradale, del gas, dell’elettricità e di un sistema di produzione industriale. Tutte innovazioni che promossero e agevolarono la "integrazione" del mondo islamico nell’economia globale che era stata creata dall’Europa. Ma esse generarono anche, negli anni più recenti, tensioni di pericolosità crescente, che divennero più visibili e udibili grazie alla potenza e alla diffusione dei mass media.

 

 

*

 

Per molto tempo, le ideologie che propugnavano un cambiamento nel mondo islamico, tramite la riforma o tramite la rivoluzione contro gli oppressori locali o stranieri, provennero in misura prevalente dall’Europa e furono importate da studenti e diplomatici, ma anche, via via che le trasformazioni prendevano corpo, da esuli che facevano ritorno in patria. Tra la fine del sec. XIX e gli inizi del XX, le più importanti idee nuove vennero dall’Europa occidentale, in particolare quelle di patriottismo e di liberalismo, cioè la fedeltà ad una patria definita in termini nazionali e l’aspirazione liberale ad un sistema politico parlamentare. Nel XX secolo, con la frammentazione delle identità patriottiche e il fallimento degli esperimenti liberali, si scoprono ideologie nuove, stavolta nell’Europa centrale e orientale: il fascismo negli anni ’30 e nei primi anni ’40, il comunismo dagli anni ’50 agli anni ’80 e il nazionalismo etnico lungo tutto questo periodo.

Ovviamente non tutti i movimenti politici erano d’ispirazione europea o si esprimevano con una terminologia europea. Alcuni musulmani si opposero alla dominazione straniera e alle trasformazioni interne non in nome della propria nazione, del proprio paese o della propria classe, bensì della propria fede, additando il vero pericolo nella perdita dei valori islamici e il vero nemico, ancor più interno che esterno, in chi voleva sostituire leggi e doveri islamici con altri provenienti da fonti laiche ed estranee alla civiltà islamica.

Nell’universo mentale dei fondamentalisti, l’Islam è oggetto da tempo di un duplice attacco, dall’esterno e dall’interno. I nemici esterni sono numerosi e potenti. Ma il più malvagio e il più pericoloso è il nemico interno: più malvagio perché la sua ostilità non è aperta ma occulta e infida; più pericoloso perché colpisce dall’interno e con le sue macchinazioni priva la comunità musulmana dell’integrità religiosa e della guida divina, grazie alle quali potrebbe altrimenti scrollarsi di dosso gli attacchi dei nemici esterni.

Politicamente, questi nemici interni sono eterogenei. Ne hanno fatto parte figure completamente diverse come il re Faruq e il presidente Nasser in Egitto, lo shah e i suoi oppositori liberali e socialisti in Iran, il presidente siriano Hafez al-Assad e l’iracheno Saddam Hussein. Tutti condividono una caratteristica comune: agli occhi dell’Islam risorgente, sono dei modernizzatori che si ripropongono di indebolire e sopprimere norme, leggi e valori islamici e sostituirli con norme , leggi e valori importati dall’Occidente; dunque di de-islamizzare - in una parola, di occidentalizzare - il sistema politico musulmano, che avrebbe in Dio stesso il suo fondatore e la sua guida. Il primo di tali nemici è stato, senza dubbio, il padre della moderna Turchia Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938).

Di certo, Atatürk è stato il primo governante musulmano a privare l’Islam del suo carattere di religione ufficiale dello Stato, a revocare la shari‘a e a introdurre usanze europee in ogni campo della vita pubblica e sociale, comprese sfere un tempo inviolabili come il matrimonio, il copricapo e l’alfabeto. Con i suoi decreti ha costretto i musulmani turchi a scrivere la propria lingua in caratteri latini, a sposare una sola donna alla volta e ad abbandonare il fez e il turbante per lo zucchetto e il cappello. Quei cambiamenti non erano semplici ghiribizzi di un autocrate capriccioso, bensì erano un’espressione esteriore e visibile di una profonda ricomposizione della società: l’Europa entrava in maniera decisa nel mondo musulmano.

È facile comprendere il disagio del musulmano tradizionalista davanti all’invadenza occidentale. Educato a una cultura religiosa in cui l’integrità significava supremazia, ha visto quella supremazia sconfitta in tutto il mondo dalla potenza occidentale, sconfitta nel suo stesso mondo islamico da intrusi provenienti dall’estero, con le loro abitudini straniere e i loro protetti occidentalizzati; sconfitta fra le mura della sua stessa casa da donne emancipate e giovani ribelli. Depauperato da problemi economici e demografici reali acquisisce, grazie agli ormai onnipresenti mass media, una dolorosa consapevolezza del divario fra ricchi e poveri. E non manca di notare che lo stile di vita dei ricchi, le loro case, il loro abbigliamento, le loro maniere, la loro alimentazione e i loro svaghi ricalcano, almeno nell’apparenza, quelli dell’Occidente ricco e aggressivo.

La vittoria di Kemal Atatürk e, in seguito, del kemalismo fu, in un certo senso, un paradosso, in quanto costituì la prima e decisiva vittoria e sfida contro la potenza europea, e al tempo stesso il primo passo decisivo verso l’accettazione della civiltà europea. Il radicalismo musulmano di oggi presenta un analogo paradosso: la denuncia e il rifiuto della civiltà europea e, più in generale, occidentale, abbinata ad una nuova, massiccia migrazione musulmana non soltanto verso l’Europa ma anche verso l’America.

La presenza musulmana in Occidente rappresenta un grande cambiamento degli atteggiamenti e del modo di agire che non ha precedenti nel passato dell’Islam. La legge e la tradizione musulmana dedicano grande attenzione alla situazione giuridica dei non musulmani sotto dominio musulmano. Quasi nulla si dice, al contrario, in merito al problema dei musulmani governati da non musulmani. La cosa, comunque, non è sorprendente. Durante i primi secoli della storia islamica, quando le tradizioni musulmane furono raccolte e messe per iscritto e vennero elaborate le norme fondamentali della giurisprudenza islamica, lo Stato e la comunità musulmana conobbero una fase di espansione quasi costante e un gran numero di non musulmani si trovò a dover vivere sotto il dominio islamico. Per contro, gli invasori non musulmani non riuscirono a conquistare quasi nessun territorio musulmano. Fu soltanto nell’XI secolo che la riconquista in Europa, le irruzioni dei popoli cristiani del Caucaso nel Medio Oriente e le invasioni, prima dei crociati e poi dei mongoli pagani, crearono una situazione completamente nuova. Ma a quell’epoca, le norme fondamentali della shari‘a erano state ormai fissate da tempo.

La premessa da cui i giuristi musulmani d’epoca classica partono per discutere l’argomento della convivenza tra musulmani e non musulmani è che per un musulmano è indesiderabile vivere sotto il dominio dei non musulmani e che soltanto una stringente necessità potrebbe indurvelo. Fino ai tempi moderni, l’intera analisi della posizione del musulmano soggetto alla sovranità di non musulmani è stata condotta in rapporto a due situazioni: le esigenze pratiche del visitatore che si reca per un periodo, breve o lungo, in un paese abitato da infedeli, e l’infelice condizione di una comunità musulmana sottomessa da invasori infedeli. Quello a cui, in passato, nessuno sembra aver pensato è che un giorno un gran numero di musulmani si sarebbero potuti recare, di propria spontanea volontà, o costretti da gravi problemi socio-economici, a vivere sotto governi non musulmani, assoggettando se stessi e le proprie famiglie al diritto civile non islamico e mandando i propri figli a studiare in scuole non musulmane. Questo è accaduto; in tale situazione, infatti, si trovano attualmente, in tutti i paesi dell’Europa occidentale, milioni di musulmani provenienti dal Medio Oriente, dal Nordafrica, dall’Asia meridionale, dal sudest asiatico e da altre regioni del mondo. È evidente che un gran numero di questi emigrati, soprattutto quelli provenienti da classi sociali e da regioni più marginali, continua a sentirsi in dovere di imporre ciò che è bene e vietare ciò che è male anche nel nuovo paese, esattamente come faceva nel loro paese d’origine.

Sul piano economico, ancora una volta il Medio Oriente costituisce un mercato allettante in cui i commercianti europei e i loro governi competono per vendere i loro prodotti. Lo squilibrio a favore dell’Europa sul piano delle risorse e del potenziale militare e industriale permane, anzi forse si acuisce, anche se i rapporti sembrano leggermente mutati. Oggi, sui mercati finanziari, sono certi governi e alcuni privati cittadini dei paesi islamici, soprattutto petroliferi, che investono, prestano ingenti somme di denaro e dispongono di immensi capitali in Europa.

Per la prima volta dal 1492, quando ebbe inizio la ritirata attraverso lo stretto di Gibilterra, si è creata in Europa occidentale una presenza musulmana massiccia e permanente. Queste comunità sono a tutt’oggi legate ai loro paesi d’origine da vincoli di lingua, di cultura, di parentela, oltre che di religione, eppure vanno "integrandosi", almeno così sembra, nei paesi dove oggi risiedono. La loro presenza e quella dei loro figli e nipoti avrà conseguenze difficili da valutare, ma certamente enormi, sul futuro sia dell’Europa che dell’Islam.

Nel mondo contemporaneo occidentale si è andata diffondendo con crescente rapidità, anche a causa delle semplificazioni dei mass media, la percezione dell’Islam come una forza ostile, malevola, portatrice di una cultura illiberale, conflittuale con la modernità e con la razionalità di derivazione illuminista. Il musulmano, per taluni, è ritornato ad essere un nuovo nemico. A distanza di secoli, il mondo occidentale ha nuovamente paura dell’Islam. Dopo i timori della Guerra nel Golfo, dopo le bombe al World Trade Centre di New York, dopo i massacri di turisti in Egitto e, soprattutto, dopo le barbarie algerine, in Occidente si è diffusa la paura dell’Islam e del terrorismo musulmano. Molto si è scritto, e molto si è detto, in questo periodo su quello che viene chiamato, dai massa media, "integralismo islamico". Come è inevitabile in questi casi, sono stati commessi molti errori di disinformazione e di superficialità nel trattare tale delicato argomento. Al contrario, non è stata posta sufficiente attenzione su due punti cruciali: uno, che l’Islam non è la religione del terrore; l’altro, che le cellule terroristiche non sono fenomeni spontanei o schegge impazzite, ma reparti disciplinati di organizzazioni con delle strategie ben precise, cui talvolta il sostegno dell’Occidente risulta essere determinante.

Per l’Islam vengono adottati processi identificativi stereotipati, che lo trasformano in una entità unica e quasi personificata, come fosse un singolo soggetto politico che agisce nella storia contemporanea. In realtà, l’Islam rappresenta un mondo variegato e composito, una realtà molteplice per storia, cultura, composizione etnica ecc. Più che di mondo musulmano, bisognerebbe forse parlare di mondi musulmani, e di una pluralità di Islam, come evidente del resto per una realtà che abbraccia delle aree geografiche lontanissime tra loro. Dall’Africa settentrionale all’Indonesia, dalla fascia subsahariana alle nuove repubbliche indipendenti dell’Asia centrale ex sovietica, dalla penisola arabica alla Turchia al subcontinente indiano vi sono sempre stati e vi sono tutt’oggi modi diversi di vivere l’Islam. All’interno di ogni singola società musulmana è possibile ritrovare una pluralità di registri contrapposti: l’Islam ufficiale, l’Islam popolare, quello eterodosso, l’Islam protestatario e così via, la qual cosa ha fatto parlare di democrazia effettiva nell’Islam, più di quanto possa apparire in superficie.

E certo però che, dopo una prima iniziale fase del cosiddetto risveglio islamico, durante al quale prevalsero i tentativi di emulazione e la suggestione della modernità di cui il mondo occidentale era portatore, si è andata accentuando una ben diversa tendenza. Essa ricerca nel proprio passato, nella propria specifica identità religiosa e culturale una via autonoma per la progressiva riduzione e per l’annullamento dell’evidente iato economico, tecnologico e sociale (inteso come strutture sanitarie, scolastiche ecc.) con il mondo occidentale.

Gli studiosi occidentali hanno elaborato diverse definizioni e classificazioni di questi movimenti: grande diffusione hanno avuto i termini di "fondamentalismo islamico" e di "Islam radicale", mentre il termine "integralismo islamico", largamente diffuso tra i mass media, è scarsamente utilizzato in ambito scientifico perché improprio e per le evidenti accezioni negative che è andato assumendo.

Come tutte le definizioni generalizzanti, anch’esse rischiano di essere schematizzanti da un lato, ed ambigue o fuorvianti dall’altro, tanto che solitamente gli studiosi musulmani le rifiutano completamente. Essi preferiscono parlare di salafiyya (un termine che evoca la pia e pura fede degli antenati), oppure definirsi come al-islâmiyyûn. In italiano non è purtroppo possibile riprendere questa definizione, come ormai in uso in Francia dove i movimenti musulmani sono definiti les islamistes, dato che il termine italiano "islamista" identifica l’esperto, lo studioso di cose islamiche, mentre l’aggettivo "islamico" appare troppo neutro e generalizzante.

Rimangono quindi i termini di "fondamentalismo", diffuso soprattutto nel mondo anglosassone, e di "radicalismo islamico". Quest’ultimo, pur con le sue ambiguità, è da preferire al primo. Il termine "fondamentalismo" nasce infatti in ambito protestante, e quindi cristiano. Il fondamentalismo religioso è comparso nel XX secolo, presso varie comunità religiose, come una tendenza con cui, i credenti "assediati" tentano di preservare la loro identità distintiva come individui o gruppo. Avvertendo che questa identità è a rischio nel mondo contemporaneo, essi la rafforzano con il recupero di dottrine, credenze e pratiche di un sacro passato.

Il termine "fondamentalismo" può tuttavia far ritenere che i movimenti protestatari islamici perseguano un’imposizione artificiale di pratiche e consuetudini di un passato immaginato, mentre il loro è piuttosto il tentativo di organizzare l’intero ordine sociopolitico secondo dettami ritenuti direttamente provenienti da Dio. Questa è un’aspirazione a risolvere, per mezzo della "religione", tutti i problemi sociali e politici.

Nel mondo musulmano questa tendenza è stata favorita: a) dal fatto che l’Islam non è solo una religione che attiene al cosiddetto foro interiore, come nel caso del Cristianesimo, bensì una cultura che ha elaborato un complesso sistema di relazioni sociali regolato giuridicamente e una realtà storico-politica ben determinata, costruita da Maometto nel VII secolo d.C., che in pochi decenni si trasformò in uno dei più vasti imperi mondiali; b) dalla presenza appunto di un passato glorioso e mitizzato con cui raffrontarsi e a cui ispirarsi: il periodo dei quattro califfi rashîdûn, ossia "ben guidati", sotto la cui guida l’Islam si affermò come grande potenza politica e militare.

L’Islam radicale appare come una reazione diretta all’imposizione del modello europeo di stato-nazione e alle ingiuste conseguenze socioeconomiche. L’opposizione con il mondo occidentale, con le sue ideologie e con i suoi sistemi socioeconomici è pertanto intensa: pensatori come l’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) e il pakistano Abul A‘lâ Mawdûdî (1903-1979) hanno portato critiche radicali all’ateismo, al materialismo e al capitalismo disumanizzante che in Occidente hanno travolto valori morali ed etici, e che minaccerebbero apertamente anche il mondo musulmano.

Genericamente, i movimenti islamici di opposizione che agiscono nelle diverse regioni del mondo musulmano devono affrontare i dilemmi tipici di tutti i movimenti protestatari, radicalmente opposti ad una classe politica che è sì dominante, ma che viene percepita a livello popolare come corrotta o inefficiente: dato che la loro immagine di rigore e di purezza viene dalla distanza politica dal centro di potere corrotto, ogni tentativo di ricomposizione della conflittualità o di dialogo sminuisce il loro prestigio, intacca la loro "purezza", favorisce il loro "scavalcamento" da parte di gruppi ancora più radicali. Il dialogo, il compromesso, l’accordo pacifico sono azioni politiche che rischiano di lacerare i movimenti protestatari radicali.

Dato che l’Islam è oggi nei paesi musulmani una potente ideologia di sostegno/consenso per la legittimazione politica e per la conquista del potere da parte di frazioni di élites politiche, non sorprende che sia accentuato il conformismo e l’interpretazione letterale come mezzo per una piena islamizzazione della società.

In quest’ottica la distinzione teorica fra movimenti islamici moderati e movimenti islamici radicali perde di coerenza ed è difficilmente applicabile in campo politico e diplomatico: ne è un esempio uno stato islamico come il Pakistan, ove le donne stuprate che non possano fornire quattro testimoni maschi vengono condannate per adulterio, conseguenza della parziale reintroduzione della shari‘a ad opera del generale Zia ül-Haq (1924-1988) nel corso degli anni ’80. In questo caso un governo moderatamente islamico ha subito e subisce la pressione di movimenti radicali ostili a qualsiasi interpretazione della legge religiosa, che minano i suoi tentativi, deboli ma evidenti, di promozione dei diritti delle donne (come ad esempio, quote stabilite di rappresentanza femminile nelle assemblee locali ed in quella nazionale, banche con solo personale femminile e strumenti per tutelarne l’occupazione).

Questo scolasticismo acritico nella applicazione della shari‘a proviene anche dal fatto che essa deriva direttamente da Dio. La legge islamica non nasce dal consenso della comunità, ma è la volontà di Dio rivelata nella storia, infinitamente superiore alla sapienza umana. Per i suoi acritici sostenitori essa non va né interpretata né modernizzata, ma solamente applicata: ogni deviazione dalle sue norme è da condannare.

In campo politico i movimenti dell’islamismo radicale vivono così una perenne ambiguità: da un lato rifiutano i modelli e le forme sociopolitiche occidentali, in quanto allogene, dall’altro lato sono forzati ad agire all’interno di una creazione totalmente allogena come lo stato nazionale. Non vi è paese musulmano che non sia organizzato secondo questo modello, o che possa prescindere dal grande mito politico europeo della rappresentanza politica stabilita attraverso elezioni generali (per quanto manipolate ed edulcorate possano essere).

Anzi molti movimenti politici islamici radicali hanno cercato di ottenere una legittimazione popolare proprio attraverso questo sistema elettivo, pur non riconoscendolo come aderente ai precetti e alla tradizione islamica, ma attribuendogli un ruolo meramente strumentale per la conquista del potere. Nel 1990, ad esempio, uno dei leader del Fronte Islamico di Salvezza (FIS) algerino dichiarava :"La democrazia? Non c’è traccia di questa parola nel libro del Profeta. E allora io pongo questa domanda: questo concetto è nato nella terra dell’Islam o nella terra degli infedeli? Nella nostra religione non esiste che un potere, quello di Dio sugli uomini".

Più consono alle tradizioni, in verità tribali più che islamiche, sembra essere anche il sistema della rappresentanza sostenuto dalla monarchia Saudita, da sempre ostile, come molte altre monarchie petrolifere, al modello delle democrazie occidentali. In Arabia Saudita si privilegia una forma di rappresentatività basata sull’appartenenza tribale e sulla possibilità dei singoli sudditi di ottenere facilmente udienze presso i principi della casa reale, e di concertazione delle principali decisioni politiche con i più importanti capi tribali e con il corpo degli ‘ulama. Questo sistema permette anche di impedire la legittimazione politica dei movimenti protestatari ostili agli al-Su‘ûd, la dinastia regnante.

Meccanismi di identificazione e di coagulazione del consenso si sono accentuati negli ultimi due decenni con il fallimento più o meno generalizzato di tutti i tentativi di modernizzazione socioeconomica seguiti alla decolonizzazione del secondo dopoguerra.

Falliti i tentativi di sviluppare le economie nazionali, così da rispondere alle richieste di una popolazione in costante impetuoso aumento, o di frenare la dissoluzione del tessuto produttivo tradizionale, con la conseguente abnorme crescita di un instabile sottoproletariato urbano, naufragata ogni speranza di ridurre lo iato economico e tecnologico con l’Occidente, molte élites politiche post-coloniali si sono progressivamente irrigidite in regimi clientelari.

I fallimenti economici, politici e sociali hanno progressivamente alienato il sostegno delle masse popolari, erodendo il consenso dei regimi post-coloniali; la chiusura degli spazi associativi, di discussione politica e la più o meno generalizzata messa al bando dei partiti di opposizione ha altresì rilanciato la moschea come centro di aggregazione sociale e di polarizzazione del dissenso. In questo modo è venuta fuori l’esasperazione delle masse disagiate e frustrate e la presa di coscienza delle ineguaglianze economiche, della corruzione e della repressione politica. I movimenti islamici di opposizione hanno accentuato nella loro propaganda le caratteristiche e le ideologie allogene dei regimi al potere, denunciando la loro presunta subordinazione alle ideologie e alla cultura occidentale, percepita come ostile all’Islam e profondamente materialista: movimenti e partiti del tutto diversi fra loro hanno così subito le medesime critiche e i medesimi attacchi. La monarchia filo occidentale e modernista dei Pahlavi in Iran, il socialismo panarabo di Nasser, la dirigenza laica e francofona della Tunisia, la linea politica di Sukarno negli anni ’60 in Indonesia ed oggi lo stesso "islamismo" di Gheddafi sono apparsi agli occhi degli islamisti radicali come pericolosi cedimenti all’Altro.

La difesa della frontiera del Dâr al-Islâm diviene in questo modo un qualcosa che coinvolge sempre meno il territorio, la geografia, la frontiera fisica per trasformarsi in lotta contro una certa tecnologia occidentale, che permette la diffusione non mediata e non controllabile di una cultura che le élites radicali islamiche rifiutano totalmente. E "ciò avviene proprio allorché l’Europa riscopre la propria frontiera continentale, la cesura spaziale che divide le due sponde del Mediterraneo e che trasporta sul piano geopolitico una profonda frattura culturale, politica e religiosa. Si sta affermando una geopolitica simile a quella del pensiero arabo medievale, che vedeva il Mediterraneo non come ponte ma come linea di frattura fra civiltà e religioni diverse".

Non mi sento di condividere del tutto tale visione; ma è certo che emerge, in questi anni, una grande difficoltà per i diversi paesi occidentali di impostare delle efficaci politiche, nei confronti di questo complesso fenomeno; si tratta di politiche che oscillano, spesso disorganicamente, fra i due opposti estremi del mito della "integrazione" totale fra Nord-Sud e della chiusura ermetica dell’Europa dinanzi alle spinte demografiche del Sud.

Se l’Europa torna ad una visione di cesura, di opposizione conflittuale basata su frontiere fisiche, sulle possibili minacce militari e terroristiche da parte del mondo islamico, per l’Islam il conflitto si fa, al contrario, più sfuggente, dato che non si tratta solo di salvaguardare l’integrità fisica e geografica del Dâr al-Islâm, quanto piuttosto di difendere la propria peculiarità culturale, ideologica e giuridica.

Se infatti è relativamente agevole condannare e rifiutare a livello ufficiale dottrine e ideologie come il marxismo materialista, il capitalismo imperialista, oppure limitare la diffusione di scritti e libri non permessi (si pensi ad esempio alla censura che colpisce la maggior parte della stampa periodica e di costume), meno agevole diviene controllare e limitare il flusso di immagini e parole della cosiddetta "cultura bassa" televisiva, ovvero di testi e informazioni che possono essere trasmessi e ricevuti attraverso il fax, la E-mail o collegandosi nelle reti telematiche mondiali tipo Internet.

È il caso della rete musicale MTV che in Asia è divenuto un vero e proprio fenomeno culturale e politico contro la quale si sono mossi diversi governi, giunti fino a proibire l’uso delle antenne paraboliche necessarie per riceverne il segnale. È anche il caso della diretta televisiva di manifestazioni sportive mondiali; durante l’ultimo mondiale di calcio in Francia, paesi come l’Iran e l’Arabia Saudita hanno adottato la "finta diretta": le partite di calcio venivano trasmesse con alcuni minuti di ritardo, così da potere garantire l’intervento dei censori in caso di immagini sconvenienti, come le panoramiche degli spettatori, primi piani di spettatrici, e così via. È ancora il rifiuto di certi sport, ad esempio il nuoto, che forzano all’esposizione del corpo umano, e che sono considerati inaccettabili per il pubblico televisivo.

Va ricordato che non è difficile controllare l’operato delle televisioni dei paesi islamici grazie alla TV via satellite che permette di vedere tali canali televisivi anche in Europa.

Sembra così che il mondo musulmano debba pensare non tanto e non solo in termini di difesa da un’aggressione fisica, quanto come difesa da una omologazione socioculturale che la massificata società occidentale sta imponendo con accresciuta velocità. La difesa della propria specifica identità, della propria tradizione, della supposta islamicità originaria diviene così una sorta di nuovo gihâd tecnologico e culturale per la difesa delle frontiere del Dâr al-Islâm.

L’accanimento che i gruppi radicali islamici mostrano verso tutte le forme di occidentalizzazione nei diversi paesi del mondo musulmano e che si manifesta in modo spettacolare con la persecuzione di cantanti, intellettuali, letterati, donne occidentalizzate e il rifiuto delle ideologie, delle mode, degli usi e dei costumi allogeni può essere così letto in modi diversi. È certamente il tentativo di una parte della classe politica di divenire nuova élite di potere e di governo attraverso la islamizzazione (o ri-islamizzazione) della società; rappresenta nondimeno anche una reazione difensiva alla diffusione del modello socioeconomico-culturale occidentale.

Tutti coloro i quali propugnano delle tesi riformiste sono, agli occhi dei movimenti più radicali, come agenti di un complotto per minare le basi stesse dell’Islam. E questa idea del complotto occidentale contro il mondo musulmano è molto radicata e diffusa. Quasi ogni avvenimento storico degli ultimi due secoli è riletto da molti studiosi musulmani come la prova di un complotto segreto mondiale teso a ridurre in schiavitù le masse musulmane.

Questa sindrome del complotto si è venuta amplificando con l’accentuazione progressiva dello iato militare e tecnologico fra mondo occidentale e mondo musulmano. Nonostante gli immani sforzi economici e finanziari compiuti e l’adozione di strategie, tattiche e organizzazioni di tipo occidentale, l’inferiorità militare dei vari paesi islamici nei confronti di quelli occidentali, e di Israele in particolare, non è mai venuta meno; si è così diffusa l’idea che il trasferimento di tecnologie militari, da parte tanto del blocco occidentale quanto di quello che fu socialista fosse volontariamente boicottato da parte degli stessi paesi che cedevano quella tecnologia tramite un addestramento inadeguato, la semplificazione degli armamenti venduti, ecc.

I ripetuti fallimenti militari hanno ridato valore alle figure tradizionali del combattente dell’immaginario simbolico islamico; la dottrina e la letteratura hanno sempre esaltato la figura dell’eroe solitario, del ghâzi (il guerriero), del mugiâhid (di colui che combatte il gihâd), del fidâ‘î (colui che è disposto a dare la sua vita per un altro, oggi anche chi compie attentati terroristici). Il ritorno a queste forme di lotta e di guerriglia da parte di tanti gruppi islamici radicali è un ritorno alle forme conosciute e tradizionali del gihâd. Quale che ne sia la percezione di minaccia e di offesa da parte occidentale, essi rappresentano per lo più il tentativo di restaurare un mitico ordine islamico originario, che rifletta la volontà di parte della variegata società musulmana di difendere e riaffermare le proprie peculiarità, i propri riti e miti dinanzi ad una realtà socioeconomica che la sta progressivamente marginalizzando.

La violenza, il fanatismo, il dogmatismo, la determinazione talora feroce mostrata da molti di questi movimenti radicali, e che tanto spaventano in Occidente, sembra in quest’ottica rappresentare uno sforzo difensivo teso ad annullare influenze e modificazioni sociali provenienti dall’esterno, a bloccare e proibire innovazioni tecnologiche, più che una coerente politica aggressiva diretta contro l’Occidente.

È al contrario l’Occidente, secondo questa visione, a manifestare uno spirito aggressivo: lo manifesta tramite un’aggressione militare diretta, come nel caso dell’espansione territoriale di Israele dei decenni scorsi, o indiretta, con l’occupazione di punti strategici in Arabia, durante la Guerra del Golfo. Ma lo fa soprattutto attraverso una aggressiva ed irreparabile osmosi culturale, che mina le basi tradizionali della società (la famiglia, la morale pubblica, la separazione dei sessi ecc.) e delle economie islamiche, senza che queste ultime riescano peraltro a raggiungere gli agognati livelli di sviluppo e di benessere. Il rifiuto dei costumi, delle mode e delle "degenerazioni" dell’Occidente rappresentano, in conclusione, un tentativo compiuto da ceti sociali diversi in contesti sociali diversi per modificare una realtà sociale, economica e politica che si va progressivamente drammatizzando. La crescita demografica in generale aumenta la disoccupazione, e accentua le inadeguatezze dei sistemi sanitari ed educativi statali; un numero crescente di giovani diplomati o laureati disoccupati o sottoccupati rafforza le file di un ceto intellettuale deluso ed esacerbato; la corruzione amministrativa e politica ha raggiunto livelli insostenibili in tutto il mondo musulmano, mentre rimane ancora irrisolto il problema di una democratica rappresentanza politica.

Di fronte a questa drammatica realtà non stupisce che un numero crescente di musulmani si rivolga ad un mitico e mitizzato passato per ricercare adeguate soluzioni, né che regimi politici con scarso consenso popolare diffidino dei moderni mezzi di comunicazione telematica. Ma la crescente marginalizzazione politica ed economica delle diverse aree del mondo musulmano e la sempre più drammatica crisi demografica ed economica pongono ai gruppi islamici radicali una sfida decisiva: quella di passare da una fase meramente protestataria ad una propositiva.

 

[ Indice | Introduzione | Capitolo I | Capitolo II | Capitolo III | Capitolo IV | Conclusioni | Appendice | Bibliografia ]