X
M'accadde, proprio nel periodo in cui cominciai a vivere da
solo a Milano, di pensare con una certa frequenza a mio padre.
Nei quasi cinque anni da quando era morto, non me ne ero
ricordato che raramente.
E superficialmente, nel senso che lo ricordavo per quanto
aveva rappresentato per me, non senza avvertire la quantità di
posto che sarebbe spettata a lui occupare nel mio cuore e che
era stata, invece, occupata dal nonno.
Improvvisamente mi misi a pensare a lui non per quello che
era stato per me, ma per quello che era stato per se stesso. Lo
immaginai giovane, alla mia età o poco più, mentre prestava
servizio militare in Lombardia, in tempo di guerra.
Egli era rimasto "sbandato" non avendo voluto
presentarsi ai comandi militari della repubblica di Salò.
Perciò il suo rifugio nella casa del suocero divenne presto
malsicuro. Per mezzo di parenti o conoscenti la famiglia di mia
madre riuscì a collocarlo a Milano, dove gli fu trovato anche
un lavoro. Poiché io stavo per nascere o ero appena nato, mia
madre restò in campagna con i suoi.
Mio padre parlava spesso di questo periodo di otto-dieci mesi
in cui era rimasto solo, fin tanto che mia madre, con me già un
po' cresciuto, era andata a vivere con lui. Egli tornava ogni
domenica a Secugnago in bicicletta. Era, raccontava, l'unico
mezzo sicuro per sfuggire ai blocchi di pattuglie fasciste e per
salvarsi dai mitragliamenti degli aerei americani. Appena un
apparecchio scendeva in picchiata a mitragliare un camion,
un'automobile, qualsiasi cosa transitasse per la strada, si
riusciva sempre a fare in tempo ad appiattarsi in una buca, in
un fosso lungo i margini della strada. L'aviazione alleata,
negli ultimi mesi di guerra, era padrona assoluta del cielo e
Milano visse questi ultimi tempi assediata, perché non c'era
veicolo che vi affluisse che non veniva preso di mira, con i
rifornimenti così quasi completamente tagliati, e perciò
affamata.
Mi pareva di rivedere mio padre che, secondo le sue
solitamente colorite narrazioni, faceva, mezzogiorno e sera, la
fila davanti a una "mensa di guerra", battendo i piedi
sopra una lastra di ghiaccio.
"Avevo in tasca" gli piaceva precisarmi "una
preziosa bustina che conteneva sale..."
"Sale?" chiedevo stupito io.
"Mancava anche quello. Ora immagina, se puoi immaginarlo
tu che sei cresciuto nei tempi in cui non manca niente, cosa
significa la mancanza del sale in tutti i cibi. Bene. Un pochino
in una busta me l'aveva messo tua madre. Ti ricordi,
Cesira?" E mia madre sorrideva proiettandosi col pensiero a
quei primi tempi del loro matrimonio, in cui tanta doveva essere
stata la fame, immense le difficoltà per sopravvivere, ma
sconfinato il loro amore.
"Con un pizzico di sale," riprendeva "riuscivo
a dare un po' di sapore all'intruglio acquoso e nero che
costituiva il piatto di minestra. Accadeva, a volte, di trovare
due o tre fagioli. Invidiosi, con occhi avidi, i vicini
guardavano quel " miracolo" nel cucchiaio. Poi
arrivava la "pietanza": una specie di frittata fatta
certo senza uova, senza patate, senza verdura, senza nessun
altro ingrediente. Ma che cosa la teneva assieme? Di che cosa
mai poteva esser fatta?"
"Non sarà stata" interloquivo io, già studentino
sui quindici o sedici anni, tutto voglioso di far sfoggio di
locuzioni dotte "non sarà stata un'illusione dei
vostri sensi?".
Mio padre sorrideva tutto compiaciuto della mia
"cultura" e riprendeva il racconto della "grande
fame". Ogni sera egli cercava di sedare gli stimoli della
fame, nel chiuso della sua stanzetta, rosicchiando un pezzo di
pan biscottato. Anche questo era una provvista costituitagli
dalla sua giovane sposa.
"Rosicchiavo, rosicchiavo" continuava nella sua
narrazione "sorseggiando di tanto in tanto... immagina che
cosa io, che ero nato in mezzo, si può dire, al vino, ero
costretto a sorseggiare..."
"Acqua?" chiedevo io divertito, con finta
esterrefazione.
"Acqua " assentiva. "Sorseggiavo acqua e...
pensavo a lei..." E indicava mia madre. I cui occhi si
riempivano di un luccichio felice e commosso.
"E anche a te pensavo. Che dovevi ancora nascere o eri
appena nato."
E una volta, sempre parlando di quel periodo che di tutto il
suo passato era quello al quale tornava con maggiore insistenza,
aveva aggiunto, trovando una espressione piuttosto inconsueta
nel suo linguaggio di solito scarno e nel quale non si faceva
largo posto alla descrizione dei sentimenti: "Ero felice e
infelice insieme, come può esserlo un giovane, un ragazzo
quasi, quando è veramente innamorato e lontano dalla donna che
ama. La fame non aveva senso. Nessun'altra cosa aveva senso. Se
non il pensare continuamente a lei."
Come capivo finalmente mio padre ora che anch'io provavo le
pene della lontananza dalla persona amata. Anch'io, come lui,
ogni settimana lasciavo Milano - sebbene in condizioni di
maggiore comodità e non in mezzo ai pericoli della guerra - e
tornavo al paese. Vi trovavo Anna. Era inverno e si andava in un
caffè o in un cinema. Si era vicini sì, ma il ricordo della
maggiore libertà che la campagna nel periodo estivo ci aveva
offerto, mi riempiva di struggimento. Si restava inchiodati a
due sedie, mentre spasimavo di tenerla fra le mie braccia.
Tornato a Milano, mi sfogavo in lunghe lettere. Pagine e
pagine non bastavano per dare fondo alla piena delle "pene
d'amore" di cui mi sentivo ricolmo. Cose trite e ritrite,
certo, avrò scritto, ma per me che le scrivevo e per Anna che
le leggeva c'era dentro l'universo intero.
Fu proprio mentre mi sembrava di rivivere la vita di mio
padre che mi chiesi, per la prima volta (non ci avevo, infatti,
riflettuto ancora), come mai mio padre, dando prova di un
preciso convincimento antifascista, aveva preferito soffrire la
fame, essere passibile di persecuzioni, vivere fra i pericoli,
piuttosto che fare il militare nell'esercito della repubblica di
Salò.
Non era, certo, per vago spirito antimilitarista o per
lavativismo che egli aveva affrontato sofferenze e rischi.
Qualcosa doveva avergli vietato, dentro, di fare il militare.
Opporsi a quel potere politico gli era parso, evidentemente, un
suo preciso dovere morale.
E io mi trovavo inglobato ormai, "inquadrato" anzi,
in uno schieramento politico che si richiamava agli
"ideali" di quello Stato, che mio padre aveva ritenuto
illegittimo, che aveva disprezzato.
Era stato in errore mio padre o ero in errore io?
Mi tornò in mente, a un certo punto, che mio padre sul
finire della guerra era stato arrestato. Un giorno s'era
trovato, non so per che motivo, in pieno centro di Milano e
alcuni reparti avevano bloccato gli accessi a piazza Duomo. Una
retata di giovani, in gran parte militari sbandati o renitenti
alla leva. Così era stato processato come disertore. La
condanna era stata dura. Ma raccontava che egli e i suoi
compagni di carcere, fra cui molti partigiani, avevano una sola
paura, quella di una condanna a morte. Le altre condanne
apparivano parole prive di significato. Si erano visti
partigiani, condannati all'ergastolo, fare salti di gioia. Si
sapeva ormai che l'ergastolo dato dai tribunali fascisti non
poteva durare che pochi mesi.
Questo discorso che mio padre aveva fatto quando io ero
ancora quasi bambino - forse non avevo più di dieci o undici
anni - non doveva tornargli molto gradito, se non l'aveva
ripetuto più. Ma ricordo bene che pose l'accento sul rischio
della vita che tutti i detenuti correvano in quel periodo.
"Io non ero" disse press'a poco "un pezzo
importante. Ero uno dei tanti anonimi che avrebbero potuto
costituire materiale umano di riserva per rappresaglie. Condanne
o no, il pericolo di essere mandati a morte, dunque, poteva
maturare per quelli come me in qualsiasi momento. Com'era
accaduto per le vittime delle Fosse Ardeatine. Ma il tempo
lavorava per me e per chi come me attendeva l'aurora della
salvezza. Ogni giorno era come se si sgretolasse un pezzo del
muro della prigione. Era (questa frase m'è rimasta impressa e
forse la mia memoria l'ha resa più pregnante, perché non so se
mio padre la formulò proprio così) era come se la notte in cui
eravamo immersi si avvicinasse, attimo per attimo, alla
fine."
La notte in cui eravamo immersi. E che cosa faceva la notte?
La guerra con la sua ineluttabile, schifosa presenza nelle
vicende umane? O il regime fascista che aveva portato l'Italia a
una tragedia così enorme? E la guerra era stata solo uno
"sbaglio" o era l'epilogo di tutta un'impostazione
politica interna e internazionale che l'aveva deliberatamente,
criminosamente preparata?
Quando cominciai a riflettere sulle opposte posizioni in cui
c'eravamo trovati mio padre giovane e io all'inizio della mia
"presenza attiva" nella società, questi e altri
interrogativi, specie quelli sulla mostruosità dell'avventura
hitleriana, cominciarono a crucciarmi.
Essi divennero più assillanti, quando un giorno venni
arrestato e portato a San Vittore per ragioni opposte a quelle
per cui, a suo tempo, vi era stato "ospitato" mio
padre.
Ho sorvolato su un particolare importante, perché finora non
mi si era presentata l'occasione di parlarne. Consigliato da
"Marco", fin dai primi tempi del mio inserimento
nell'organizzazione del partito, mi ero iscritto
all'università. Facoltà di economia e commercio della Bocconi.
Giunto il momento della cosiddetta contestazione studentesca, il
compito che il partito mi affidava era ovviamente quello della
controcontestazione. Raramente, però, io partecipavo ai
tafferugli, in quanto il mio era lavoro preparatorio e
organizzativo fra le file degli studenti. E il terreno non era
affatto sfavorevole alla diffusione del nostro
"verbo".
Una volta rimasi impigliato in una "battaglia" fra
due gruppi contrapposti. Non m'era capitato più da quando,
ancora ragazzo, avevo ferito negli occhi con una catena di
bicicletta uno studente e per anni mi ero visto davanti
quell'immagine del sangue che spillava fra gli interstizi delle
dita con cui il ragazzo s'era coperto gli occhi.
Non potevo sottrarmi in quella contingenza dal menare anch'io
le mani. La polizia intervenne con tempestività. Mi arrivò una
manganellata in testa che mi stordì e fui caricato su una
camionetta.
Sarei stato rilasciato subito, come molti altri giovani della
mia e della parte opposta, se non ci fosse stato un
"ma": appresosi che io facevo parte dei quadri del
partito e disposta una perquisizione - gli zelanti antifascisti
fra la polizia e la magistratura non sono tanti, ma non mancano
- furono trovati nella mia abitazione esplosivi e armi. Poca
roba, ne ho già parlato, ma quanto bastava per mettermi nei
pasticci.
Ero incensurato, come potevano negarmi la libertà
provvisoria? - si arrabbiava il mio difensore, un parlamentare
del nostro partito, quando veniva al colloquio. Invece di uscire
da San Vittore in libertà, ne uscii una mattina per essere
trasferito in un altro carcere della Lombardia. Per
"sfollamento" dicevano. In effetti c'erano stati
litigi e botte fra detenuti politici e si era preferito
sparpagliarci.
Quel viaggio, di prima mattina, nel pieno della stagione
invernale, in cellulare, ammanettato. L'alba cominciava ad
alzarsi pigramente e la campagna veniva a poco a poco invasa da
un grigiore di perla. Lontano un po' di nebbia andava man mano
sfumando e ridava i contorni netti ai filari d'alberi intorno.
Ma pareva che dai canali e dai corsi d'acqua altra nebbia,
levandosi pian piano come tenuissimo fumo, venisse a sostituire
quella già scomparsa. Poche stelle tremolavano ancora, incerte
a occidente. Rimasi a lungo a guardarle, finche le vidi
scomparire a una a una.
Ero precipitato in una crisi profonda. Mi sentivo veramente
incanalato in un sentiero sbagliato, che, dopo avermi portato in
prigione, poteva addirittura condurmi a un precipizio.
La libertà provvisoria mi fu concessa dopo un mese circa. Mi
sostenne, in quel mese che fu certo il peggiore della mia vita,
il ricordo di Anna. Mi chiedevo se fosse stato un sogno fugace
la felicità che essa mi aveva dato o se fosse, invece, frutto
di un incubo il mondo in cui vivevo. E, sforzandomi di illudermi
che fosse vera questa seconda ipotesi, rivivevo ogni istante,
ogni più piccola inezia dei miei rapporti con Anna: il modo
come abbassava le palpebre e come piegava la testa, le parole,
anche le più insignificanti, che io le avevo rivolto e quelle
che lei mi aveva risposto, l'attimo in cui l'avevo vista
procedere da lontano in bicicletta e l'ultima volta che eravamo
stati insieme al cinema, senza per nulla impicciarci della trama
del vecchissimo film, ma intenti solo a stringerci le mani e a
stare quanto più vicini possibile.
Uscii dal carcere profondamente diverso. Da una parte il
bisogno di creare per me e per Anna una vita serena mi induceva
a ritirarmi dalla attività esplicata come da un campo minato,
dall'altra il ricordo di mio padre, arrestato dai fascisti, mi
faceva apparire il partito in cui ero inserito sotto una luce
del tutto diversa. Non mi sentivo di abbandonarlo, è vero, ma
preferivo non legarmici mani e piedi. Da queste due componenti
usciva una sola decisione; trovarmi un lavoro e non impicciarmi
più di politica.
Decisi di rivolgermi a un amico, Stefano Corsari, che sapevo
inserito bene nel campo delle rappresentanze. Io avevo già da
qualche tempo acquistata una utilitaria e mi fu facile
presentarmi e farmi assumere come agente di commercio. Il
settore era quello delle vernici e di altri prodotti chimici.
Ma, all'uscita dal carcere, avevo trovato anche un'altra
grossa sorpresa. La famiglia di Anna si era trasferita a Novara,
di dove il padre era originario; egli aveva lasciato il fondo
che conduceva in affitto dalle parti di Cassano e si era dato al
commercio.
Per giunta le mie traversìe politiche non mi mettevano in
buona luce agli occhi della famiglia di Anna: gli
"scalmanati", da qualunque parte stiano, che vanno a
finire in prigione per politica non godevano le simpatie di
quella gente "ordinata".
Cercai di mantenere con Anna rapporti almeno epistolari. Ma
notavo anche in lei un certo raffreddamento. Pensai che dovevo
consolidare la mia posizione economica e presentarmi ai
familiari di Anna con un'occupazione "seria", perciò
mi buttai nel mio nuovo lavoro a capofitto. Volli inoltre
riprendere gli studi universitari. Una laurea avrebbe potuto
aprirmi nuove prospettive. Ma ero già sui venticinque anni,
quando forse si comincia a non essere più adatti per studi
metodici scolastici.
Mi interessavo, invece, di altri argomenti soprattutto di
studi sociologici. Volli leggere le pagine del
"profeta" delle nuove generazioni, Marcuse, che fu
però un'enorme delusione. Eppure molti suoi concetti hanno
lavorato dopo dentro di me, come, per dirne qualcuno, quello del
carattere razionale dell'irrazionalità della nostra attuale
civiltà e quello che l'unidimensionalità dell'uomo è la fine
della sua libertà interiore.
E, prima o poi, i miei stessi studi economici dovevano
portarmi a una migliore conoscenza del marxismo. Avevo, come
tutti - credo - coloro che professano idee di destra estrema una
conoscenza grossolana e manichea del pensiero di Marx. Mi venivo
accorgendo, attraverso lo studio, che molta ruggine
antimarxista, che io non so se avessi ereditato direttamente dal
nonno o mi si fosse venuta formando attraverso altre
suggestioni, era priva di serio contenuto e derivava soprattutto
dall'ignoranza. Ma contemporaneamente scoprivo valide
motivazioni per rifiutare il marxismo come panacea dei mali
della società umana.
Cominciai così a temere che nella parte dove mi ero messo la
sola tessera d'ingresso fosse molta disinformazione dei fenomeni
storici, economici, sociologici. Più studiavo e più il
fascismo mi appariva condannabile e il suo più brutto parto, il
nazismo, mi si mostrava in tutta la sua nefandezza. Quanto più
nobile, e come più confacente a quelle che erano in fondo le
vere idee da me professate, mi appariva il conservatorismo
inglese. La difesa convinta dell'assetto socio-politico
esistente, ammettendo solo dei cauti e sperimentati ritocchi, mi
parve che potesse essere una bandiera degna di tutto rispetto.
Mi parve e mi pare.
Forse le cose della vita, l'educazione ricevuta, la
estrazione sociale, che non era propriamente borghese ma neanche
da sottoproletariato, gli incontri fatti, tutte le vicende che
ho tentato via via di delineare, facevano di me un conservatore,
ma non un neofascista.
Avevo sbagliato collocazione. In una delle prime competizioni
elettorali a cui mi fu possibile partecipare per l'età, restai
a lungo indeciso se dare il voto al partito per il quale avevo
lavorato. Ma poi mi parve che avrei dato una smentita a tutto
ciò che ero stato e che, forse, ero ancora.
XI
(torna all'indice)
La mia attività di rappresentante di commercio, che mi
assorbiva interamente, mi ricordava anch'essa un periodo della
vita di mio padre, di cui l'avevo sentito parlare abbastanza
spesso (e questo accorgermi delle tracce profonde che mio padre
aveva lasciato nella mia memoria e, certo, anche nel mio modo di
essere, mi stupiva, persuaso com'ero sempre stato che fossero
scarsi i legami spirituali con lui, e nello stesso tempo mi
rallegrava perché mi sentivo meno privo di radici di quanto
avessi pensato).
Raccontava mio padre che, finita la guerra, aveva cercato di
fare un po' di commercio. Ma quello, diceva, che si scatenò
come una bufera sull'Italia dell'immediato dopoguerra non fu
commercio ma caotico traffico. Si comprava e vendeva di tutto.
Le autorità dapprima posero una specie di cordone economico fra
nord e sud, ma senza con questo spaventare troppo i trafficanti.
I camions andavano e venivano da un capo all'altro della
penisola. Andava e veniva il denaro, anche, con grande
facilità. Sembrava di arricchirsi ogni momento - sorrideva mio
padre - ma si restava invece sempre al punto di prima. Sicché,
concludeva il suo racconto, la piantai presto perché è meglio
fare nella vita il mestiere che si sa fare e non improvvisarsi
commercianti.
Non ero scontento del mio lavoro né mi sentivo un
"addetto al commercio" improvvisato, perché mi ero
fatto, coscienziosamente, una cultura nel settore in cui m'ero
introdotto. Mi rammaricavo solo che l'intensa attività mi
lasciasse pochissimo tempo e che, stanco com'ero ogni sera, non
riuscivo a trovare la forza per dedicarmi allo studio.
Ma, individuo aggrovigliato in mille contraddizioni come mi
venivo sempre più scoprendo, ero da una parte contento di una
vita vissuta intensamente, senza tregua, con dinamismo, e
dall'altra in certi momenti mi pareva di bruciare inutilmente i
giorni della mia vita e sentivo un forte bisogno di una pausa,
di una sosta soprattutto interiore.
Mi pareva che, sebbene gravi vicende si fossero verificate
intorno a me - la morte di mio padre, l'abbandono di Silvia, la
fine tragica di Davide e, soprattutto, il crescere della parte
politica a cui m'ero legato , un crescere anche in numero, sì,
ma principalmente in potenza, in disponibilità di forze da
potere imporsi prima o poi sulle altre parti e ridurle al
silenzio - io ero passato sopra a tutto con grande indifferenza.
Non era forse, mi venivo chiedendo, un difetto comune a me
come a tutti i giovani della mia età quello di trasvolare da un
giorno all'altro, da un anno all'altro, quasi non facendo caso
al vero valore degli eventi? E i giovani delle generazioni
anteriori alla mia si erano resi conto della tragicità, della
grandezza, dell'apocalitticità di alcuni fatti, cui non erano
stati estranei o cui avevano addirittura dato esca? E quelli
dell'età all'incirca di mio padre, che erano stati chiamati ad
assistere agli avvenimenti più grandi e terribili della storia
del secolo ventesimo, che altro avevano fatto se non ficcarcisi
dentro con la più assoluta indifferenza, intenti solo a passare
velocemente da un giorno all'altro? Ci si rende mai conto,
mentre si vive, di ciò che si vive, e, mentre si opera, della
storia che si viene creando?
Mi parve, a un certo punto, di intuire con estrema lucidità
che ciò che stava ineluttabilmente maturando nel mondo era un
ritorno a regimi saldi e forti - autoritari se così più vi
piace dire - e che presto da noi avremmo avuto un ritorno, puro
e semplice, al fascismo, forse sotto altro nome, forse in forma
ipocrita e pseudodemocratica, continuando a far retorica sui
"valori della Resistenza" e sulla repubblica nata da
essa, oppure, con più schiettezza, smettendola di parlare di
antifascismo e parlando seriamente di anticomunismo.
Capii che io ero stato una pedina, piccola quanto si vuole,
ma pur sempre inserita nelle regole e nelle mosse del gioco, di
questo qualcosa che veniva preparandosi.
E, all'improvviso, ora che avevo sentito il bisogno di
disertare la vita di partito, che mi ero dato a una attività
non politica, mi sorgeva una necessità di capire, di
approfondire, di meditare su ciò che accadeva intorno a me, sul
mondo che mutava sotto i miei piedi e sulla necessità di essere
inserito consapevolmente nei moti che si vogliono determinare.
Non avevo fatto altro - e ricordavo di avere fatto questa
constatazione anni prima - che farmi trascinare dalle cose. Ero
stato in un modo anziché in un altro, non perché io lo avessi
voluto, ma perché così dall'esterno mi era stato
"comandato". E le "cose" cui avevo
partecipato, sia pure in misura modesta e limitata, erano forse
più importanti di quanto avessi creduto: forse la preparazione
di un'altra "era fascista", forse l'intrappolamento
nelle file del neofascismo di una parte delle forze armate e dei
servizi del controspionaggio, forse lo sgretolamento delle basi
dello Stato antifascista attraverso l'alleanza - dite pure la
connivenza - di alcuni centri di potere politici ed economici;
attraverso l'"apoliticità" - o il sonno - della
magistratura e della polizia; attraverso alcuni riusciti colpi
di mano terroristici da attribuire ai sovversivi di sinistra.
E di tutto quello che avevo fatto, che avevo visto fare -
certamente poco, meno che poco, anzi, un nulla di fronte a un
così vasto disegno (che solo perché fallito può esser
chiamato "disegno eversivo nero", ma che avrebbe avuto
ben più glorioso nome se fosse riuscito) - non restava nulla
nella mia memoria, perché c'ero stato dentro con
superficialità e noncuranza. Nulla, fuorché pochi pensieri,
pochi stati d'animo.
Ma questa constatazione è riferibile all'intera mia vita, mi
sembra, cioè, di aver divorato i miei giorni, senza aver dato
il dovuto peso a ciò che accadeva in me e attorno a me, con una
superficialità che credo mi faccia un campione abbastanza
esemplificativo della mia epoca. Dovendo, infatti, ora che mi
son messo a fare il "narratore di me stesso", parlare
di anni passati, a così tanta distanza di tempo, a stento
ritrovo nella memoria le vicende esteriori di cui fu intessuta
la mia vita, e devo orientarmi, in questa ricostruzione, con
qualche frammento di vita interiore. Non so - a voler essere
d'una precisione da atto notarile - se questo mio accorgermi di
esser stato "dentro le cose" senza pienamente
comprenderle, questo mio sforzo di capire a posteriori sia stato
assolutamente chiaro già allora, in quel periodo - non molto
lungo peraltro, perché durò appena un anno - in cui non mi
occupai più di politica e facevo il procacciatore d'affari. O
se, invece, questo bisogno di chiarificazione sia sorto ora, in
questa mia seconda, più manifesta e definitiva, crisi
interiore.
Ricordo certo con chiarezza che mi condannavo per la mia
superficialità, mentre accarezzavo segretamente il sogno di
"scrivere" e quindi cercavo di capirmi e di capire il
mondo circostante.
Ma, in fondo, la mia vita in quei mesi trascorse serena e,
dal punto di vista economico, in maniera un po' più agiata di
prima. Un po' meno stentata, sarebbe più esatto dire. Dalla
morte di mio padre in poi, non mi ero mai potuto concedere più
del necessario e spesso, nei primi tempi, neanche quello. Ed
ecco che mi trovavo improvvisamente, se non a largheggiare, a...
saziarmi in abiti, in locali da frequentare, in divertimenti.
Feci anche nuove amicizie particolarmente per mezzo di
Stefano Corsari - un buontempone, senza complessi, senza
preoccupazioni, senza pensieri politici ("dei partiti"
diceva e bisogna fedelmente citare la sua espressione "me
ne sbatto altamente le palle"). Tutti i giovani e le
ragazze che conobbi, con cui parecchie sere si andava a ballare
o si andava in gita la domenica ai laghi o al mare, non avevano
un solo - dico uno solo - pensiero rivolto alla politica. Con
loro io parlavo soltanto di campionato di calcio, delle canzoni
in voga, delle avventure dei divi del cinema e del canto. Io
stesso mi stupivo di essere stato fino a quel momento un
"fanatico".
Se non fosse stato per il processo che era ancora pendente a
mio carico, mi sarei persino scordato di aver fatto parte di
squadre "attive" di destra. E quanto al processo,
nessuno ne sentiva più parlare. "Meglio" diceva il
mio difensore "con una giustizia che va avanti a suon di
rinvii e che sembra priva della forza di portare a termine una
sola vicenda, il tempo lavora non solo per i nostri giovani
camerati, come te, accusati da questa repubblica ipocrita, ma
lavora anche per l'instaurazione di uno Stato come diciamo noi:
una giustizia in sfacelo, come questa, è il chiaro segno di uno
Stato putrido, anzi in via di putrefazione, perché è già
cadavere."
Alla politica, perciò, non pensavo più. E quanto alla mia
vita sentimentale fu quello un periodo di sbandamento. Ero
andato a trovare Anna pochi mesi dopo la mia uscita dal carcere.
Ma poi, dopo averle scritto un po' di volte e dopo un diradarsi
della corrispondenza, non tentai più di rivederla. Un paio di
lettere, infine, rimasero senza risposta. Allora - non so
nemmeno io come sia potuto accadere - subentrò in me una forma
di indifferenza per quel sentimento che, fino a poco prima,
sembrava fosse la cosa più grande che avesse occupato la mia
vita.
Non mi mancavano, a dir vero, le avventure con donne. Forse
è questa la spiegazione vera dell'improvviso affievolirsi del
mio sentimento per Anna. Forse ci rimasi male perché lei non
aveva risposto alle mie ultime lettere. Forse era la mia natura
fatta così: incoerente.
Ma a volte il ricordo di Anna tornava in me. Mi proponevo di
scriverle, di darle un appuntamento. Poi non ne facevo nulla e i
mesi passavano. A un certo punto mi parve che era passato troppo
tempo perché potessi decentemente rifarmi vivo. Mi persuasi che
essa, ormai, non poteva non avermi dimenticato.
E mi parve di averne conferma, quando, dopo quasi un anno
dacché non ci si vedeva, ci incontrammo casualmente.
Anna lavorava a Milano. C'era stato un grosso rovescio
economico a casa sua. Il padre aveva tentato speculazioni nel
campo granario, risultate sbagliate, e tutti i loro beni erano
andati sotto sequestro.
Ebbi l'ardire di muovere io, e con convinzione, rimproveri ad
Anna. Perché non mi aveva risposto? Anna si sorprese, disse di
aver ricevuto poche lettere da me e di aver risposto a tutte.
(Forse le mie ultime erano andate smarrite con il trasloco della
famiglia). Dopo di che non aveva saputo come spiegarsi il mio
silenzio.
Ma ebbi l'impressione che essa parlasse di tutto come di cose
passate, che guardasse al nostro amore come a un episodio
concluso.
La verità, invece, era che essa non voleva farsi più
illusioni su me. Non riuscimmo, con uno sforzo di sincerità, a
superare la barriera di convenzioni dietro cui ognuno si
nasconde nei suoi rapporti con gli altri.
Mi finsi allegro, spensierato. Conversammo come due buoni
amici che si incontrano dopo parecchio tempo. Insistetti perché
accettasse di entrare in un bar, ma essa disse che aveva fretta,
mi spiegò dove era impiegata e aggiunse che non voleva arrivare
tardi in ufficio. Ci stringemmo la mano a lungo. Forse in quel
gesto ciascuno di noi mise tutto quello che non avevamo saputo
dirci.
Avvertii come un leggero capogiro nel vederla allontanare.
Salì su un tram e scomparve.
Così ci smarrimmo. Io per una strada, lei per un'altra.
Tutt'e due sbagliate. Quante volte ho ripensato a quel distacco.
Perché non ebbi il coraggio di richiamarla? "Aspetta,
Anna, non te ne andare. Io ti voglio bene, ti ho voluto sempre
bene." Spezzare, con la mia sincerità, quella specie di
lastra di freddezza che si era interposta fra noi, che le aveva
vietato di capirmi e di dirmi quanto aveva sofferto pensando a
me. Niente, invece.
La guardai, finché mi fu possibile, tristemente. Un pezzo
della mia vita che se ne va, pensai. Così, a brani a brani, che
il tempo strappa, lacera come un vecchio manifesto dal muro, la
vita si consuma tutta. E per ogni brano strappato un pezzo di
rimpianto. E quando tutto sarà rimpianto in noi, concludevo,
non ci resterà più nulla da vivere. (Da giovane facevo certe
"scoperte"!)
Per parecchio tempo, dopo quell'incontro, provai un senso di
vuoto che non riuscivo a colmare in nessuna maniera. Mangiare,
dormire, camminare, andare in giro, fare affari, tutto ciò che
avevo sempre fatto mi parve improvvisamente privo di senso.
Cominciai a disertare il lavoro. Preferivo, quando potevo,
starmene lunghe ore ozioso, inerte. Ad ascoltare il vuoto dentro
di me. Niente pensieri, niente ricordi, niente propositi. Mi
pareva che la mia anima, la mia vita si racchiudesse ed
esaurisse nel respiro.
Non so se fu il mio spirito a fare ammalare il mio corpo o
viceversa o, come è più probabile, se malattia dello spirito e
malattia del corpo furono manifestazioni di un unico fenomeno
patologico.
Rivedo quella grigia giornata d'autunno - la risento anzi -
in cui, cedendo alle insistenze di mia madre (che era intanto
venuta a vivere con me a Milano), preoccupata della mia tosse
continua, andai a farmi visitare da uno specialista in malattie
polmonari. Non ne uscii, nonostante il responso, sconvolto.
Guardavo, anzi, intorno distrattamente, con indifferenza.
Sebbene lo specialista mi avesse consigliato di prendere al
più presto la via del sanatorio, la sua diagnosi non era stata
catastrofica. Si trattava di un male appena insorto e la
guarigione doveva considerarsi - sempre come previsione umana -
certa.
Trascorsi poco più di un anno al sanatorio di Sondalo. Per
non lasciarmi sommergere dalla noia dedicavo parecchio tempo
alla lettura. Ma mi venne voglia anche di scrivere. Mi era
ripresa la fissazione della narrativa.
Nei primi tempi, ogni sera, una febbre leggera, impalpabile
come la nebbia, pareva avvolgermi e attutire le mie sensazioni.
E quel leggero prurito dentro, nel petto. Come se la crisalide
di una farfalla tentasse di svolazzare dentro con le sue ali
appena nate. La tosse, allora, stizzosa, secca.
A un certo punto, come se il mio organismo si fosse ribellato
a quel mio deliberato lasciarmi andare, come se mi fosse nata
dentro un'inconscia volontà di vivere, ci fu una svolta nella
mia malattia. Il pneumotorace cominciò a produrre i suoi
effetti. Mi sorse un formidabile appetito. Scomparve la tosse
incoercibile. Scomparve infine anche la febbre serale. Uscii dal
sanatorio perfettamente guarito.
Non mi soffermerò su questa "pausa" della mia
vita, su questo brano di tempo che sembra non appartenere a
quell'unità esistenziale che ognuno di noi costituisce. La
memoria non ama neanche riportarvisi. Ricorderò solo che,
quando le migliorate condizioni di salute cominciarono a
consentirmelo, presi l'abitudine di fare lunghe passeggiate nei
dintorni del sanatorio. Spesso mi sedevo a scrivere. Sfornavo
soprattutto racconti, a volte allo stato di abbozzo, ma anche
divagazioni e piccoli "pezzi" di giornalismo sul tipo
di corrispondenze o quasi.
Un sentiero mi era particolarmente caro. Esso si addentrava
in un bosco di abeti, poi sboccava in una piccola gola fra due
alture. Un rigagnolo, sbucando da una parete a strapiombo,
andava a confondere le sue acque con quelle di un torrente che,
tortuoso, precipitando di sasso in sasso, assordava la piccola
valle.
Mi sedevo sulle rive del torrente e stavo ad ascoltare il suo
scrosciare. A volte sentivo il mio pensiero disperdersi e un
senso di beatitudine mi invadeva. A volte invece, inseguivo i
mille pensieri che passavano per la mia mente. Tentavo di
guardare la mia vita con un colpo d'occhio unico e la trovavo
priva di un filo logico, inconcludente. Che avrei fatto se fossi
guarito? E valeva la pena guarire?
Quando i miei pensieri, però, prendevano questa piega,
cercavo di strapparmi a essi quasi a viva forza. Mi rimettevo ad
ascoltare la voce del torrente. Che cosa narrava, in quel
linguaggio strano in cui si mescolavano mormorii e scrosci?
Forse ricordi di antiche leggende, di maghi, di cavalieri in
cerca della propria Angelica, di orde di barbari che valicavano
quelle valli per rovesciarsi sulla fertile pianura, di feudatari
crudeli scorazzanti lontani dai loro castelli, di resti di
compagnie di ventura che si allontanavano dal luogo della
sconfitta... E tutti i tempi si fondevano in quel racconto al di
fuori del tempo.
Uno degli ultimi giorni della mia vita di sanatorio non
resistetti al desiderio di andare a rivedere quel luogo caro.
Bisognava, dunque, reimmergersi nel torrente della vita? Era
come se, in quell'anno, io fossi rimasto ai margini della vita a
vederla scorrere, senza alcun desiderio di starvi dentro. E il
flusso mi aveva investito, mi aveva restituito la salute. Via,
allora.
Il primo segno che ero di nuovo dentro il flusso fu la
fissazione del processo.
Fu un processo agli "opposti estremismi". Da una
parte un gruppo del movimento studentesco, dall'altro un gruppo
più sparuto di "sanbabilini", come erano chiamati
ormai i giovani delle nostre organizzazioni milanesi. Il mio
lavoro aveva dato anch'esso i suoi frutti e ci fu un tempo in
cui andavo orgoglioso di essere uno dei "fondatori"
dei sanbabilini. Ma se dovessi dire perché fosse stata scelta
come nostra "zona d'operazioni" piazza san Babila,
dovrei ammettere di non saperne niente.
Le imputazioni erano di resistenza alla forza pubblica, di
rissa, di porto d'armi, per lo più "improprie",
qualcuno, specie quelli di sinistra, di oltraggio e infine io di
detenzioni d'armi da guerra ed esplosivi.
Io e quelli della mia parte fummo assolti dal reato di
resistenza, anche se non passò del tutto la tesi del nostro
difensore che noi eravamo intervenuti per dare man forte alla
polizia. Per le armi e gli esplosivi mi affibbiarono sei mesi
con la condizionale.
E tornai così fra le "braccia paterne" del
partito. Dopo circa due anni che me ne ero allontanato, sentivo
di non condividerne più le posizioni. Ma non sempre nella vita
si riesce ad agire in maniera conseguente a ciò che si pensa.
Lieto ai avermi ritrovato, "Marco" mi rimproverò
del mio assenteismo, anche se le ragioni gravi di salute mi
giustificavano, disse, di questo e d'altro.
Gli parlai delle mie "esercitazioni" letterarie e
giornalistiche e della necessità di trovare un'altra
sistemazione di lavoro, più confacente alle mie possibilità,
alle mie inclinazioni e alla mia salute non certo di ferro. Per
esempio, azzardai, presso il giornale del partito.
L'idea non parve malvagia a "Marco". Egli aveva
sempre ritenuto che io dovessi far parte dell'intellighentsia
del partito e nel giornale mi ci vedeva a pennello. Ma, disse,
per il momento i quadri erano al completo e doveva ottenere
un'assunzione che gli stava particolarmente a cuore, quella d'un
giovane che aveva "entrature" presso i servizi segreti
di informazione dello Stato e che, collocato nel giornale,
poteva svolgere un lavoro assai importante.
Così "Marco" ebbe occasione di parlarmi degli
ultimi sviluppi della situazione. Si era all'inizio dell'estate
1969. "Siamo all'alba," disse "di grandi eventi.
Forse è questo l'anno della vigilia dell'era nostra. Gli
anni settanta ci apparterranno."
Sui particolari di cui mi parlò "Marco", scusate,
non intendo soffermarmi: se ne sta occupando la magistratura nei
processi per i tentativi di golpe e per ricostituzione del
partito fascista. E d'altra parte io ho già fatto il mio dovere
di cittadino di questo Stato (mi piaccia o no), ho
spontaneamente deposto davanti al giudice istruttore che dipana
i principali grovigli neri.
Tu, Antonio, che mi hai indotto a questo passo, sai quanto mi
è pesato: mi sembrava di tradire la mia parte. Ora so che è
stato necessario e onesto farlo.
XII
(torna all'indice)
Perché il mio destino volle che incontrassi ancora Silvia?
Continuo a parlare di destino. Sbaglio, lo so. Ma quando le
"coincidenze" sono così precise da sembrare
architettate da un compilatore di orario ferroviario, non si sa
cosa dire.
Poiché le promesse di " Marco" per una assunzione
al giornale erano state molto aleatorie, mi diedi da fare per
riprendere il mio lavoro di agente presso la stessa ditta. Fui
riassunto ma destinato a una zona molto lontana e scomoda da
girare. Mi accontentai, ma non cessavo dall'andare negli uffici
della ditta per lagnarmi e chiedere un cambiamento. Fu così che
scopersi una volta che nella stessa azienda lavorava Silvia da
un paio d'anni come addetta alla contabilità.
Non l'avevo più rivista dagli anni della prima giovinezza,
da quando aveva piantato me e lasciato i suoi e la sua casa per
seguire Davide. L'avevo cancellata - mi ero illuso - dentro di
me. Ma niente e nessuno cancelliamo dentro di noi.
Il primo incontro non fu nemmeno imbarazzante, come avrei
creduto se lo avessi immaginato. Silvia mi rivolse la parola con
naturalezza, rispose alle mie domande, mi sorrise.
E ora? mi chiesi per tutto quel giorno. Come avrei dovuto
comportarmi? Come un qualsiasi conoscente? Un compagno di
scuola? di infanzia?
Alcuni giorni dopo giunsi davanti ai locali della ditta con
qualche minuto di anticipo. Speravo di incontrarla e di parlarle
ancora. Ma forse era giunta prima di me. L'attesi all'uscita.
Stavolta lei era con colleghi d'ufficio, rispose al mio saluto e
tirò dritto.
Per più giorni stetti sulle spine. Che fare? O trovarmi un
altro lavoro, eliminando ogni possibilità di ulteriori
incontri, o avere un chiarimento con Silvia. Ma chiarire che?
Sentivo, comunque, il bisogno di parlarle.
Una sera mi decisi. Presi l'elenco telefonico e cercai il suo
numero. Mi rispose sua madre. "Sono Rodolfo "dissi.
"Ah" rispose senza sorpresa la signora Aldina "le
chiamo Silvia."
La invitai al cinema. Silvia si fece pregare un po', ma poi
accondiscese. Non parlammo che della trama del film quella sera.
Ma essa - sebbene si trattasse di un film
sentimental-stupido-americano - parlò per noi, imperniandosi
tutta sul rinascere di un sentimento amoroso. Perché noi due
non potevamo tornare a essere quelli di prima? Perché
l'abbandono di Silvia non poteva essere annullato nei nostri
ricordi?
E, in fondo, era giusto che io drammatizzassi tanto l'errore
di Silvia? Tutto sommato avevo avuto anch'io un'altra esperienza
amorosa. Dovevo ragionare secondo le mie origini di
"terrone" i cui princìpi consentono all'uomo di fare
quello che vuole, ma vietano alla donne di sbagliare? Far mia
l'etica meridionale della "integrità e illibatezza"
della donna? Sarebbe stato proprio impossibile, dopo le nostre
diverse e cocenti esperienze, ricucire il nostro antico amore?
Così fui riammesso in casa di Silvia. Quasi tutte le sere
uscivamo insieme. Talvolta si andava al cinema o a qualche
spettacolo di prosa o rivista, spesso facevamo dei giri a piedi
in centro. Arrivava la primavera e Milano mi appariva bella -
mah! punti di vista - come non mai.
Tutto era avvenuto con semplicità, come una cosa logica,
attesa da tempo. "E allora a quando le nozze?" mi
chiese una sera la madre di Silvia.
Dissi che avrei voluto metter su casa, come si deve, come
avevo sempre sperato. Dato il costo degli affitti, pensavo
piuttosto a un appartamento a riscatto. Perciò mi occorreva
ancora del tempo. Del resto né io né Silvia - che eravamo
quasi coetanei - avevamo ancora compiuto i ventisette anni.
Ma i genitori di Silvia non riuscirono a dissimulare la loro
fretta. Il ragionier Scalet elogiò l'ampiezza del loro
appartamento e disse che, essendo Silvia figlia unica, ci si
poteva sistemare tutti nella stessa casa. La signora Aldina
tacque e non fece alcun segno di assenso. Non pareva molto
d'accordo, ma sentiva anche lei la necessità di sistemare
presto questa figlia che aveva dato e continuava a dare
grattacapi. Silvia, infatti, come seppi in seguito, aveva avuto
altre "simpatie" verso uomini sposati e d'età (era e
restava ultrasensibile alla bellezza maschile di tipo atletico e
un tantino matura) e aveva preteso di avere una propria
indipendenza con un impiego, soprattutto per godere di maggiore
libertà.
La convivenza con persone alle quali non ero mai riuscito a
voler bene, che un tempo mi avevano visto come il fumo negli
occhi, non era per me una lieta prospettiva. Se, ora, con tanta
entusiastica fretta, il ragionier Scalet e la signora Aldina
volevano darmi in moglie la figlia, era perché l'antico
"pretendente", dopo il colpo di testa di Silvia, si
era ritirato. Il legame, poi, di quasi-parentela che li legava a
lui si era spezzato a seguito della morte della nonna di Silvia.
Si era perciò rifatto vivo quel fesso di Rodolfo? Ma bene,
prendiamolo al laccio.
Mia madre mise il broncio quando le dissi che avevo
intenzione di sposarmi con Silvia. Ma non disse nulla, sebbene
anch'essa designasse quella donna che era passata da un uomo
all'altro dello stesso ambito familiare con le stesse parole con
le quali la si designava in casa di mio zio Ambrogio: "la
puttana che fece morire Davide". Il che era, chiaramente,
una cosa falsa.
Quando le nozze furono imminenti, mia madre osservò che,
tutto sommato, era meglio che io e Silvia fossimo andati a
vivere con lei.
"In questa casa, che ci sta appena una persona in
piedi?"
"È la casa che sei riuscito a metter su tu con le tue
possibilità. Per lo meno è tua."
Non risposi nulla. Mi limitai a una alzata di spalle.
Era fatale che, non rimandando il matrimonio, io e Silvia ci
sistemassimo in casa dei suoi genitori. Quasi quattro anni sono
trascorsi da quel passo sbagliato. Ci sposammo senza amore,
illusi di averlo ripescato dal fondo del nostro passato.
L'unione fu triste fin dai primi giorni: c'era poco slancio da
una parte e dall'altra. Cominciammo dapprima a pensare, poi ad
accusarci a vicenda di essere ancorati ai nostri ricordi. Una
mano di ghiaccio sembrava serrarmi allo stomaco, negli attimi in
cui un uomo e una donna non dovrebbero avere altri pensieri se
non quello di essere un maschio e una femmina, se appena appena
la mia "partner" mi appariva distratta, poco
partecipe. "Pensa a lui ancora." "Fa confronti
fra me e lui." E tutto finiva amaramente.
Chi cominciò per primo a rinfacciare all'altro il passato?
Amico mio, caro Antonio che, spero, mi hai seguito fin qui
leggendo queste pagine - checché esse si siano - come fate voi
giudici quando dovete ricercare la causa di un matrimonio
fallito? Vi contentate delle semplificazioni della realtà che
vi offrono gli schemi legali, delle formulette insomma?
La moglie è andata via di casa? Bene, dite, "abbandono
del tetto coniugale". E se è giunta a uno stato di
esasperazione tale da non poterne più? Ma, mi sembra di
sentirti obiettare, lo stato di esasperazione nascerà pure da
una serie di fatti, che sono suscettibili di prova in giudizio.
Oh sì, certo. Ma l'esasperazione non può nascere anche da
fatti che non sono propriamente "fatti", da
un'atmosfera, da screzi irrazionali, da dissapori taciuti,
malintesi inesplosi e, perciò, insanabili, non propriamente
riducibili in "capitoli" di prova?
Il marito ha mollato un ceffone? O, peggio, ha preso la
moglie per il collo, come avvenne a me di fare, sì da
strozzarla quasi? Bene, dite ancora voi, "sevizie"
"eccessi". Ma se la moglie ha lacerato in lui ogni
residuo di umana dignità?
Come ci arrivammo? Chi cominciò? Dio mio, non lo so più,
forse non l'ho mai saputo.
Che pazzia fu quella di raccontarci a vicenda, prima ancora
di sposarci, le nostre passate esperienze. "Dobbiamo
liberarcene," diceva Silvia. "Sì" rispondevo
"hai ragione" e continuavo a torturarla con domande,
richieste di ulteriori dettagli. Da sposati, poi, quando il
fallimento cominciò a delinearsi nel settore dell'intimità, fu
facile buttarci in faccia a vicenda un "tu non pensi che a
quella donna" e un "tu non pensi che a quel
morto". E fu la fine. Da allora i litigi, i bronci, i
dispetti. Poi ci si misero di impegno i miei suoceri a scavare
l'abisso.
Nemmeno tre mesi riuscii a resistere in quella casa. Me ne
tornai da mia madre. Cercai e trovai un altro lavoro presso
un'altra industria. Non me la sentivo più di lavorare per la
stessa ditta dove lavorava mia moglie. Conclusione: mi ritrovai
con tutti i colleghi d'ufficio di mia moglie e i miei colleghi
agenti e piazzisti schierati come testimoni contro di me, nella
causa di separazione.
Dapprima restammo separati circa due mesi. Comuni amici ci
fecero incontrare, di sorpresa, in terreno neutro. Silvia
acconsentì a venire a vivere presso mia madre. E fu questo uno
degli argomenti maggiormente sbandierati dall'avvocato di mia
moglie, questa donna "piena di virtù" che si era
persino piegata a seguirmi nella modesta casa dove abitava mia
madre, pur di farmi contento, acconciandosi anche al
"capriccio" del marito di non voler più vivere coi
suoceri.
Ce le ho tutte stampate in testa le frasi della sentenza sia
del tribunale che della corte d'appello. Quest'ultima è fresca
fresca, di pochi giorni fa. Forse voi giudici, caro Antonio, non
potete rendervi conto di come certe frasi scritte nelle vostre
sentenze ( che per voi sono pane quotidiano, esercizio
giornaliero, noia o diletto intellettuale, tormento o
asfissiante buro-lavoro) si imprimano nella mente delle persone
implicate in cause e processi.
"Il contrasto portato al giudizio del Collegio deve
essere valutato inquadrandolo nell'ambiente donde
scaturisce." E qui si poneva in rilievo la diversità
sociale fra la famiglia di origine della moglie e quella del
marito: da una parte una famiglia "borghese",
dall'altra una famiglia "operaio-contadina" e il
trapianto "irragionevole e ingiustificato" di mia
moglie nella mia famiglia, dopo l'"incapacità" del
marito di adattarsi all'ambiente della famiglia della moglie.
"Tale convivenza, sia nella prima che nella seconda
soluzione, doveva portare a insanabili dissidi. Le parti e i
testi hanno riferito puntualmente screzi sempre più gravi fra i
coniugi. Vi son state scenate con reciproche ingiurie: i testi
attribuiscono le ingiurie all'uno o all'altro coniuge, secondo
che si tratta di testi indicati dall'uno o dall'altro, ma v'è
chi riferisce imparzialmente che, quella volta che egli fu
presente, gli insulti furono reciproci. E non solo alle parole
si limitarono le parti, ma trascesero a vie di fatto: la moglie
fu percossa e ferita, almeno una volta, e per ritorsione morse a
un braccio e graffiò il marito."
Nella fredda prosa giudiziaria continuava l'elenco degli
episodi accaduti nei giorni di inferno che furono quelli, pochi
del resto - non più di un mese - in cui Silvia visse con me
nella casa di mia madre e che furono l'epilogo della nostra vita
coniugale.
"Inutile elencare" concludeva la sentenza
"altri fatti a riprova della miseria di un matrimonio
fallito."
Ma Silvia e i suoi non si acquietarono alla sentenza del
tribunale che addossava la colpa a entrambi. Vollero il giudizio
d'appello. Tre anni in tutto: una velocità - mi dicono coloro
che si intendono dei "tempi" della giustizia -
assolutamente supersonica. Tant'è che, vista la mia
"fortuna " in velocità giudiziaria, ho pensato che
proporrò ricorso per cassazione. Non mi va di inghiottire
questa pillola che ha addossato l'intera colpa a me.
Mi ha spiegato l'avvocato che mi ha nuociuto in sede di
appello la mia relazione con Anna, che in primo grado non era
venuta fortunatamente a galla.
Appena Silvia mi piantò - e seppi poi che s'era intanto
fatto un... amico che pare rassomigliasse fisicamente a Davide -
io mi diedi da fare per riagganciarmi ad Anna. Non fu difficile
ritrovarla. Le narrai tutto. Piansi, disperato, fra le sue
braccia. Un naufrago - le dissi di essere - che cercava salvezza
in lei. Non esageravo.
Anche lei aveva imboccato una strada sbagliata: era l'amica
del suo principale, come mi confessò poi. In un baratro tutt'e
due, in un fondo cieco e buio, dal quale l'unica via di uscita
sarebbe stata la nostra unione.
Fu allora che pensai di emigrare in Australia e mi misi a
contatto con i parenti di mia madre. Ma una novità
graditissima, inaspettata, mi cambiò le carte in mano, venivo
assunto come giornalista a "Il secolo d'Italia". Era
la professione sognata. Di andarmene non era più il caso di
parlare.
Qualche mese dopo, per giunta, il divorzio in Italia era già
divenuto realtà. Iniziai subito la causa di separazione e
intanto vivevo segretamente con Anna.
Ed ecco che siamo arrivati al punto di partenza, perché non
mi resta più nulla da narrarti, Antonio. Siamo cioè giunti al
nostro ultimo incontro al palazzo di giustizia di Milano.
Non parlammo di politica o del ruolo della giustizia nella
società, come era accaduto in nostri precedenti incontri, per
paura di mutare l'incontro in scontro. Preferimmo ricordare
qualche episodio di quando eravamo ragazzi a Lecce. Ma poi, non
so come, il discorso cadde sulle mie traversìe coniugali e ti
confessai che vivevo già con un'altra donna. Ci rimanesti male,
ricordo. "E la causa di separazione l'hai promossa
tu?" mi chiedesti. "Sì, per forza, io spero di
sposarla la donna con cui vivo." "Ma la perdi la
causa, se si viene a sapere che vivi con un'altra donna, perché
prende consistenza il sospetto che ti dividi dalla moglie per un
incapricciamento. E se tua moglie rifiuta la separazione
consensuale o non chiede, a sua volta, la separazione per colpa
tua, il tribunale rigetterà la tua domanda e tu il divorzio te
lo scordi."
"Come sarebbe?" chiesi io stupito. E tu mi
spiegasti che, secondo la nostra legge, il coniuge incolpevole,
se tale è veramente e tale riesce ad apparire davanti al
tribunale, è nelle condizioni di impedire, volendo, all'altro
coniuge il divorzio. Il che, con molta disonestà intellettuale,
democristiani e uomini della mia parte, si guardavano bene dal
fare apparire nella recente campagna pre-referendum.
Ho il dente avvelenato con la storia del divorzio?
E per forza. Metterei chiunque nelle mie condizioni e vorrei
vedere se non c'era da rodersi il fegato, da dannarsi, da aver
voglia di distribuire legnate attorno, sentendo che si voleva
spazzare via dalle nostre leggi il divorzio.
Ho finito. Non ho altro da dire.
XIII
(torna all'indice)
O, meglio, qualche altra cosina mi resterebbe da dire. Fate
pazienza, vi prego. Se m'avete sopportato fin qui, un piccolo
sforzo siete in grado di farlo ancora, via.
Qualche altra "cosina" che sono, poi, un gruppetto
di considerazioni che io butterò senza un ordine preciso, ma a
mano a mano che me le troverò sotto la penna.
Innanzi tutto la prima considerazione è che voi
dall'esposizione della mia vita tirerete subito una conseguenza:
che io non ho mai brillato né per fermezza di propositi né per
logicità di decisioni e consequenzialità di comportamenti.
Incline alla vita di pensiero, propria di chi scrive, ho
trovato sempre (e non, certo, senza averle cercate) occupazioni
confacenti a chi fa professione di "attivismo".
Negato per la vita militare perché mi è connaturato un
individualismo che nulla si sente di sacrificare allo
"spirito del clan", mi sono imbevuto di un'ideologia
che vede nell'individuo solo una componente della società e a
questa lo asserve, ho sguazzato dentro formazioni paramilitari e
ho scelto un "inquadramento" che predilige la
disciplina militare e il culto delle forze armate.
Di indole mite, alieno dalla violenza e dal sangue,
impressionabile più del necessario, ho idolatrato la forza e la
violenza e ho creduto per lungo tempo anch'io che i problemi
politici andassero risolti con la forza perché l'historia
è sì magistra, ma non di vita, di violenza.
Amo una ragazza, negli anni della prima giovinezza e non
riesco a suscitare in lei vero amore, ad accendere fra noi due -
o con il fuoco dello spirito o con le attrattive dell'ardore
sessuale - alcunché di duraturo, sicché un altro può portarmi
via facilmente tale donna; trovo finalmente la donna con cui
c'è perfetta consonanza, ma la lascio andare per la sua strada
e mentre amo ancora questa seconda, sposo la prima che non amo
più.
Sì, lo riconosco, una serie di contraddizioni nella mia
vita, da poter pretendere il diploma di maestro di incoerenza.
Oh, certo, se volessi, potrei trovare giustificazione per
ognuna di queste contraddizioni. Potrei dire che, sì, mi
sarebbe piaciuto fin dagli anni della prima giovinezza fare
unicamente lo scrittore. Ma questo è destino di pochi
privilegiati, non soltanto toccati dal dito della divinità,
quella che non distribuisce fra gli uomini il genio a manciate,
ma per di più favoriti anche da particolari circostanze.
Sicché è riuscito di fare soltanto il letterato al Petrarca ma
non all'Ariosto, a D'Annunzio ma non a Pascoli, a Proust ma non
a Kafka.
E se, perciò, accortomi che la mia "vocazione"
allo scrivere non solo era incostante, ma mancava di quegli
estri e quegli slanci che antepongono una certa attività dello
spirito a qualsiasi altra cosa della vita, e per giunta non
trovava occasioni di amicizie opportune, agganci con
intenditori, quel pizzico di fortuna insomma che, in questa come
in ogni altra cosa, non può mancare, mi decisi a dedicarmi ad
attività pratiche, non posso muovermi grossi rimproveri.
L'antimilitarismo, poi, di tipo innato - forse mi proveniva
da mio padre, direttamente attraverso i cromosomi - mi dava e mi
dà nausea anche alla sola vista delle divise e di certi
tavolati pettorali che sembrano medaglieri (i sovietici poi - ve
li raccomando - i medaglieri li fanno anche sull'abito civile) e
mi faceva e mi fa stare, senza volerlo, male quando sentivo e
sento che in una parte del mondo si instaura un altro regime
militare. Ma poi alle idee "innate" (oh, se aveva
ragione Platone e se in ogni pensiero di filosofo antico non
c'è una grande intuizione di un futuro accertamento operato
dalla scienza moderna!) si aggiungevano le idee acquisite: la
necessità di combattere il comunismo, il mito dell'ordine
sociale e così via. Perciò mi piegavo alle esigenze pratiche
che imponevano alla parte in cui mi ero messo di conservare,
come una preziosa tradizione da perpetuare, lo spirito
militarista.
E lo stesso discorso vale per la violenza e l'idolatria della
forza come fermento della storia. Ciò che si rifiuta, in linea
personale, nell'ambito dei rapporti privati, perché contro i
propri princìpi etici o semplicemente contro il proprio modo di
sentirsi uomo, può invece apparire del tutto giustificabile,
superiore a ogni morale, nell'ambito dei rapporti fra gruppi,
fra partiti, fra stati.
Su tale argomento m'accadde - e non è trascorso molto tempo
- di avere un'animata discussione con "Marco".
"Non posso ammettere" mi scappò detto "che
quello che è ingiusto o, addirittura, infame se fatto a scopo
privato, una rapina, un'estorsione, un omicidio per esempio,
possa trovare giustificazione se si fa per uno scopo
politico."
"Guarda che tu sei ancorato a certi idealismi, a certe
vedute romantiche da cui ti devi sganciare. Ti devi
svegliare!" replicò "Marco". "Di fronte
alle concezioni che i comunisti impongono ai loro iscritti,
guarda che tu stai proprio dormendo. Il partito può esigere
tutto da loro, anche la rinuncia alla loro personale dignità di
uomini, come quando si riconoscono colpevoli di misfatti
politici inesistenti. Come possiamo combatterli se non
adottiamo, quanto meno, la loro stessa disciplina?"
Mi ribellai a queste concezioni e questionammo. Velatamente
(ma poi non tanto) rivolsi a "Marco" l'accusa di
machiavellismo di basso conio.
Ma tutto sommato finivo coll'accettare almeno una parte del
suo corredo di idee. E se vim vi repellere licet, se la
legge penale stessa autorizza, in sede privata, a opporre
violenza a violenza per difesa che, se proporzionata all'offesa,
diventa legittima, a maggior ragione in sede politica si può
opporre violenza a violenza.
Da queste asserzioni a quelle di "Marco", secondo
cui la violenza può e deve essere stroncata anticipatamente con
la violenza e che il terrorismo rosso va prevenuto con
terrorismo "preventivo" o "dimostrativo", il
passo non è poi molto lungo.
Se da queste contraddizioni che si riferiscono ai
convincimenti, alle attività, alla posizione che si assume nel
consorzio umano, passiamo alle contraddizioni più intime,
quelle della vita dei sentimenti, allora ben più ampie e ben
più convincenti possono essere le mie giustificazioni. E se
tutto quello che son venuto scrivendo circa i miei rapporti con
Silvia e con Anna, i miei errori, le ansie, gli impulsi
irragionevoli, le illusioni, le speranze di rapporti d'amore
duraturi, non è servito a farmi assolvere da voi - come ogni
essere umano va, per tutto ciò che concerne le vicende del
cuore, assolto sempre - allora ho fatto una ben inutile fatica.
Ma, poi, tutto sommato, che i miei improbabili lettori mi
assolvano o meno, non è cosa che mi assilla tanto, se scopo
essenziale di queste mie righe era lo sfogo e dar prova a me
stesso di una sincerità, se necessario, anche spietata.
Ci si nasconde, spesso, a se stessi. È comodo. No, io avevo
bisogno di verità. Ecco, in questo senso, mi sento
assolutamente giornalista.
Chi scrive per l'informazione, qualunque sia la sua fede
politica, non può che amare la verità. E in questo, date retta
a me, il giornalista di destra non differisce da quello di
sinistra. Certo ognuno di essi presenterà la
"notizia" secondo il proprio angolo visuale, ma
l'accertamento della verità di essa sarà un'ansia per l'uno
come per l'altro.
Ma, nel sommovimento di idee, che si è prodotto dentro di me
in questi ultimi tempi, anche il problema della posizione di un
giornalista in un regime autoritario mi si è posto dinanzi con
un'evidenza dilemmatica come mai prima d'ora m'era apparsa: la
libertà di stampa non può andare a braccetto con nessun
regime, comunque esso si denomini, se di "regime" si
tratti, cioè una detenzione del potere che non solo non ammette
alternative ma schiaccia le opposizioni, soffoca le
irrequietezze, condanna le critiche e le censure, imbavaglia la
stampa.
Come potevo, dunque, io giornalista, che avevo sempre sognato
di divenirlo, che avevo ritenuto, divenendolo, di essermi
veramente realizzato, accettare l'idea di uno Stato autoritario
che, per il solo fatto di esser tale, non può che sopprimere la
libertà di stampa?
Questa sì mi appare la mia più grande incoerenza. E me l'ha
resa manifesta, scaturendone come tutta la mia crisi, una
incoerenza apparente: l'avere io, militante nelle file della
destra, votato "no" al referendum.
Sì, certo, l'incoerenza è una gran brutta piaga della vita
umana. Ma guardate intorno quanta ce n'è. L'incoerenza di chi
predica bene e razzola male, di chi non sa essere come è e si
adatta a essere come la società vuole che sia. L'incoerenza di
chi smentisce continuamente i propri princìpi, di chi li cambia
come le carte d'un gioco, di chi finisce col deriderli.
L'incoerenza di chi si adatta al mutare del vento politico, di
chi, pur di restare sempre a galla, adotta una sola bandiera, il
camaleontismo. L'incoerenza di chi non sa fare andare d'accordo
il sentimento d'amore con le pulsioni sessuali, tradendo il
coniuge cui pure vuole bene. L'incoerenza di chi, perduta la
fede in Dio, si tiene addosso la tonaca di prete o, se è laico,
la sovrastruttura di pratiche religiose. E così via. Ognuno di
noi, se ci guardiamo bene dentro, è impastato di incoerenze.
Ma se l'incoerenza è il frutto dell'accendersi in noi di una
luce che fuga le tenebre in cui vivevamo immersi, se è il colpo
di timone che ci evita di fare arenare la nostra barca, se è il
campanello d'allarme che ci avverte di un imminente disastro,
allora benedetta l'incoerenza.
"Ma come? Tu, missino, giornalista del Secolo,
voti "no" il 12 maggio?"
"Missino, giornalista del Secolo, voterò
"no"."
"Ma non è un'incoerenza?" Sì, amici miei, è tale
incoerenza che mi ha svegliato, che mi ha fatto cambiare di
rotta, che ha messo un punto fermo con il me stesso di prima e
apre un nuovo capitolo della mia vita. È tale incoerenza che mi
ha fatto dire, definitivamente, chiaramente, no al neofascismo.
Fascista, forse, nel senso più pieno della parola non lo
sono mai stato e ho continuato, pur vivendo e lavorando in mezzo
ai neofascisti, a rifiutare questa denominazione. Ma allettato
da molte delle premesse e delle vedute politiche proprie del
fascismo e dei sistemi affini, certamente, sì.
Ho vergato queste righe tra la fine di maggio, poco dopo la
strage di Piazza della Loggia e i primi di agosto. La strage
dell'"Italicus" è di ieri.
Basta, grida la maggioranza degli italiani indignata, con
questi nefandi tentativi di instaurare in Italia un nuovo
fascismo. Basta, ho detto anch'io a me stesso. Son giunto,
perciò, a una specie di esame di coscienza.
Mi smarrisco io stesso cercando le cause della mia
collocazione politica. In che terreno ha potuto germogliare e
poi prosperare, dando anche copiosi frutti - in contributi
attivi, in sincero convincimento propagandato attorno -
l'ideologia neofascista? Detriti romantici e sentimentaloidi?
Contraddittorie concezioni filosofiche della vita? Nessuna
chiarezza di idee sui processi storici, sui conflitti sociali
degli ultimi centocinquant'anni, sui problemi dilemmatici che
incombono sopra l'avvenire dell'umanità? Non so. Forse tutte
queste cose messe assieme.
Ma una ragione - e chi di dovere dovrebbe farci bene
attenzione - mi pare abbia influito sopra ogni altra nella
determinazione della scelta politica degli anni della mia
giovinezza ed è questa: il fascismo esercita ancora, sui
giovani della mia età e su quelli delle generazioni che vengono
via via alzandosi al livello dell'età adulta, un'indiscutibile
attrazione. E non parlo del fascismo come fatto storico, che i
nostalgici di esso sono ormai una scarsa frangia in seno allo
stesso M.S.I., ma parlo di fascismo come atteggiamento dello
spirito: prepotenza giovanile, sfoggio di forza e di virilità,
ambizione di leadership, gusto di appartenere a una élite
"produttrice" di storia, disprezzo aristocratico delle
masse, mitologia nazionalistica, pretesa di ergersi a
castigatore dei matti, svegliarino dell'avventura per
l'avventura, fascino del diverso, comunque, dalla realtà
politica che si vive.
Si aggiunga a ciò che sono poche le ideologie in auge che
riescono a far presa nei giovani. Non il comunismo per le sue
chiare, abominevoli dimostrazioni di sopraffazione dell'uomo, da
Stalin in poi, ché la musica non è gran che mutata. Non il
socialismo che non sa più lui stesso da che parte voltarsi per
indicare la sua strada e non è più in grado di dire se il sole
che mostra sul suo simbolo sia nascente o calante. Non il
cristianesimo "applicato alla politica" che ha dato le
più nauseanti prove di cesaro-papismo - nonostante la parentesi
giovannea - che si potesse immaginare. Da che parte, dunque,
devono voltarsi i giovani?
E intanto, fatalmente, la "precipitazione" in senso
fascistico degli stati a struttura capitalistica, anche di
quelli che hanno adottato correttivi neocapitalistici, si va
sempre più determinando.
E non parlo, come penso crediate, soltanto dell'Italia, in
cui è ormai chiaro, in questa estate 1974, che da un
quinquennio si stava preparando l'instaurazione dello stato
neofascista e che solo alcuni errori di manovra, qualche
imprevisto, qualche colpo di sfortuna (sfortuna per i
neofascisti e fortuna, forse, per tutti) hanno potuto fare così
miseramente naufragare il piano. Piano che, solo perché non è
riuscito, viene chiamato con dispregio "eversivo", ma
che se fosse andato a buon fine, si sarebbe detto "piano di
ripristino dell'atlantismo", "piano del ritorno
all'ordine democratico", "piano del potenziamento
della stabilità delle istituzioni", "piano della
ricristianizzazione dell'Italia" allo stesso modo come il
21 aprile 1967 instaurò la Hellàs tòn christianòn!
Ma qualcuno, suppongo, ha sbagliato i calcoli, qualche altro
ha pensato ingenuamente che in Italia il neofascismo si possa
instaurare senza passare per la diccì o per il portone di
bronzo (e forse sia a piazza del Gesù che in Vaticano c'è
qualche idea "variante" o addirittura diversa in
proposito), qualche altro si è scordato che un colpo di Stato
in Italia si può fare solo con il beneplacito della CIA (e
forse zio Tom ha in questo momento altri grattacapi e, tutto
sommato, d'un'Italia così "senza infamia e senza
lodo" dal punto di vista atlantico ci si può anche
accontentare); forse, infine, qualche frangia fanatica ha
precorso i tempi e si è illusa che si può far tutto a suon di
bombe e seminando il terrore fra la gente pacifica e innocente.
L'ondata di sdegno antifascista comunque passerà. I morti di
piazza della Loggia e dell'"Italicus" saranno
dimenticati come quelli di piazza Fontana. I processi sulle
stragi e sulle trame nere si rinvieranno, si sparpaglieranno, si
riuniranno, si ingarbuglieranno con conflitti di competenza,
decisioni della Cassazione, altri rinvii, altre decisioni della
Suprema Corte, altre istanze, altre impugnative, eccezioni,
nullità, supernullità, annullamenti e ricominciate, signori,
tutto daccapo...
Il neofascismo riprenderà, intanto, lentamente il suo lavoro
continuo e metodico, quello legittimo nella sede del
"partito ad hoc", quello fra il legittimo e il
clandestino nei movimenti affiancati che, appena sciolti, si
ricostituiscono, e quello segreto e sotterraneo fatto dentro i
servizi segreti dello Stato, dentro la magistratura, dentro la
polizia, dentro i ministeri e gli uffici statali periferici,
dentro gli istituti previdenziali, dentro i mille e mille enti
statali. E, in questo settore, il neofascismo non chiede
"adesioni", no, non vuole che si indossino camicie,
cerca solo insofferenza e stanchezza verso il sistema
democratico, verso la dialettica politica, verso il dinamismo
delle lotte sociali che si manifestano negli scioperi e nelle
irrequietudini di piazza.
Passato lo scossone delle recenti bombe fasciste, tutto
l'apparato burocratico tornerà quello che è sempre stato:
neutrale e talora non alieno dal fascismo. Terreno, dunque,
praticabile al fascismo.
E continuerà poi, oltre al lavoro visibile e invisibile, il
lavorìo sotterraneo nelle coscienze dei cittadini: ah questo
carovita! ah questi scioperi! ah questi disordini studenteschi!
ah questo disservizio di tutti i servizi statali! ah questa
delinquenza! ah questa debolezza della polizia! ah questi
sbandamenti filo-operai e sinistrorsi di certi settori della
magistratura!
Il fascismo come "stato d'animo" comincerà di
nuovo a sormontare le coscienze, perché il futuro è - e me ne
dispiace, ora che si è operato in me questo rovesciamento di
idee - il futuro, dicevo, è del fascismo.
Un fascismo che sarà di tutti gli ordinamenti, anche di
quelli che si servono del più verboso antifascismo, come
l'Unione Sovietica, un fascismo che attanaglierà nella
disciplina e nel più assoluto rigore il mondo e impregnerà di
sé gli stati, qualunque sia la loro struttura economica,
privata o pubblica o mista che sia la proprietà dei mezzi di
produzione.
Perché l'essenza del vero fascismo, di quello che si
delineò in Italia fra la prima e la seconda guerra mondiale (la
cui importanza storica, come capostipite, resterà
inoppugnabile), di quelli che son via via sorti con vari nomi,
di quello che tenterà, e forse otterrà, la conquista del mondo
(e solo un comunismo democratizzatosi gliela potrebbe
contrastare, ma per ora fra comunismo e democrazia c'è
contraddizione in termini), sta nella soppressione intera della
libertà del singolo a favore di un'"organizzazione
purchessia", ma sempre a profitto di pochi privilegiati,
costituiscano essi una classe economica o una casta di
superburocrati insediata nei vari cremlini.
È fatale, imprescindibile alla società umana la legge della
"complessificazione esponenziale", tutto cioè va
complicandosi moltiplicando il tipo di complicazione sempre per
due. Mi spiego meglio: se una cosa è oggi complicata una volta,
domani sarà complicata due volte e dopodomani quattro volte, e
fra tre giorni otto volte, e poi sedici, trentadue,
sessantaquattro... e vi saluto, continuate voi a farli i conti.
In fondo rassomiglia alla legge naturale della
complessificazione degli organismi, che ha guidato l'evoluzione
della specie dal protozoo all'uomo. Così ogni problema che
concerne l'organizzazione sociale si sdoppia (ogni cellula si
divide in due cellule) e i due problemi ne creano due per
ciascuno e così via e, come ogni cellula viene poi
specializzandosi - la legge della specializzazione, si sa,
affianca in natura quella della complessificazione - ogni
problema diventa uno specialissimo complicato problema.
Ma quanto più le cose si complicano, tanto più ci vuole
organizzazione. Ci vogliono leggi, regolamenti, controlli,
supercontrolli, disciplina. Tanto più, dunque, bisogna
sacrificare la libertà umana...
E allora ecco la tentazione. Poiché organizzare, quanto più
le cose si complicano, diventa sempre più difficile,
"affrontiamo" si dice "il problema alla base,
tagliamo il male, la libertà, alla radice, facciamo un ordine assoluto,
cioè il fascismo."
Non lo so, tutto sommato, se queste "profezie"
abbiano il benché minimo fondamento né mi spiego come la mia
mente sia riuscita a formulare questi pensieri.
Quando ho scritto le prime righe di questa narrazione, il
pensiero di un mondo fascistizzato (o, per non usare questa
parola che allora evitavo, diciamo, gerarchizzato, impiramidato)
mi avrebbe fatto piacere se fossi riuscito a formularlo come una
prospettiva dell'avvenire, come un "futuribile". Ma,
nella crisi di idee con cui ho cominciato a scrivere, questa
prospettiva non mi si affacciava alla mente. Ed ecco che essa mi
arriva alla fine di questa fatica.
E mi arriva proprio quando, forse perché attraverso la
narrazione sono riuscito a chiarire me a me stesso, m'accorgo
che in mezzo alle mie vedute filofasciste ha sempre serpeggiato
una certa inclinazione alle idee di libertà. Sarei ora capace
di stare, qualunque cosa avvenga, dalla parte della libertà?
Saprei lottare per difenderla con le unghie e coi denti?
Le mie previsioni - ammesso che non siano balordaggini di un
momento di confusione della mente non sono davvero rosee per chi
avesse il culto della libertà umana. E se il mio
"posto" fosse, come mi pare ormai certo, scelto
definitivamente, esse sono pessimistiche anche per me.
Temo davvero che non si tratti, proprio no, di balordaggini
di un visionario. Probabilmente la marea autoritaria, la
necessità di ordine - sia rosso, che nero, che giallo, che
color-cane-che-fugge - ci sormonterà, ci travolgerà tutti.
Tutti quelli che amiamo, chi da sempre, chi da poco come me, la
libertà. Ci schiaccerà.
Ma starò sulle barricate dove la vera essenza dell'uomo,
prima che egli diventi fantoccio, sarà venduta cara.
E dopo una sparata di tal fatta, posso posare la penna.
"Sparata" sì. Perché penso che, come milioni di
altri individui, se il "fascismo universale" ci
arrivasse addosso veramente, sarò pecora anch'io, fra le
pecore.
FINE |