IV
L'autunno, quell'anno, maturò in pochissimi giorni. I viali
di Milano si riempirono rapidamente di foglie secche. Io uscivo
ogni giorno, aggirandomi senza meta, a piedi, per i vari
quartieri della città.
Dicevo a mia madre, ogni mattina, che mi mettevo in moto per
cercarmi un'occupazione, ma in effetti non concludevo, forse
volutamente, nulla.
Le ore ruzzolavano con un ritmo lentissimo. Mi pareva di
essere affogato in un'eternità senza uscita e priva di
significato.
A volte mi fermavo a leggere qualche titolo dei giornali
nelle edicole. Vi si parlava sovente di fine della guerra fredda
e disgelo fra le due superpotenze e dei due più grandi
protagonisti della scena mondiale di allora: Kennedy e Kruscev.
Ma io venivo macinando in me i miei assiomi politici e,
convinto che il comunismo è la rovina del mondo, così come
avevo sentito dire da mio nonno fin da quando avevo cominciato a
capire, diffidavo di questi patteggiamenti opportunistici
chiamati "distensione" e pensavo che solo il fascismo
era il sistema adatto per estirpare il male. Sapevo che il
comunismo fa leva sulle sofferenze umane, sulla miseria, sulle
condizioni economiche disagiate, come era la mia, e mi sentivo
vaccinato contro infezioni sinistrorse.
Non potevo, però, non accorgermi che in una società
ordinata i giovani che si sono preparati, studiando e
sacrificandosi, per un avvenire non possono essere lasciati in
balìa a se stessi, ma devono essere, con opportuni programmi
elaborati in base a precisi piani, avviati ognuno al posto più
adatto per il singolo e per la collettività.
Dunque, mi rimproveravo all'affacciarsi di questo pensiero,
vagheggiavo un'economia pianificata di tipo sovietico? No, mi
rispondevo, io pensavo al corporativismo, quello che non aveva
potuto nemmeno essere sperimentato, perché il dannato, fatale
errore della guerra lo aveva impedito.
In ogni caso, come potevo apprezzare il sistema politico in
cui mi ero trovato a dover vivere? Che affidamento e che
speranza potevo riporre in tutto ciò che mio cugino Davide
rappresentava per me?
Ma poi scrollavo le spalle, mi stringevo nel mio striminzito,
e piuttosto malandato, impermeabile e continuavo, impassibile e
abulico, il mio giro di Milano.
Un piovigginoso giorno di novembre m'ero portato in una zona
periferica presso un'azienda che, secondo un'inserzione sul
Corriere capitatami casualmente sotto gli occhi, cercava
personale contabile per un lavoro di qualche mese. Mi presentai
e mi fu spiegato il lavoro che dovevo fare. L'aver trovato
lavoro, sia pure per poco tempo, mi rese euforico. Mi avviai
verso casa, ma giunto a Porta Romana e, accortomi che avevo in
tasca qualche spicciolo, decisi di aspettare un tram.
A una delle fermate c'era Silvia. La scorsi da lontano. Le
molecole d'aria si erano, dunque, concentrate tutte in una sola
parte della stanza e, anziché morirne asfissiato, io ne vivevo.
Non mi ero detto mille volte che Silvia sarebbe stata l'ossigeno
della mia vita? A volte avevo tentato di sbarazzarmi di quel
ricordo. Mi dicevo che, in fondo, essa non mi piaceva, non
corrispondeva al tipo di bellezza femminile che la mia mente
aveva accarezzato lungo l'adolescenza. Occhi e capelli chiari,
non proprio biondi. Qualche lentiggine sul volto. Di linea
esile. Braccia e gambe sottili. Ma continuavo a pensarla. La
sentivo, nel mio vuoto, come la salvezza.
Era lì. A pochi passi da me. Mi feci incontro a lei
sorridendo e anche lei mi sorrise. Ci tenemmo la mano stretta a
lungo.
"Ho desiderato tanto rivederti Silvia."
Ci incontrammo spesso da allora. Tutti i ritagli ai tempo
libero che mi lasciava la mia nuova occupazione, io li dedicavo
a Silvia.
Essa frequentava allora l'ultimo corso del liceo scientifico.
Era figlia unica. La famiglia era di condizioni assai migliori
della mia (sebbene negli ultimi tempi la situazione nostra fosse
un po' migliorata, essendoci stata liquidata da mio zio Oronzo
la parte del vigneto spettante a me per eredità paterna; né si
corse il rischio di essere messi troppo nel sacco, perché fu
necessario il controllo del tribunale, essendo io ancora
minorenne, sulla base di una perizia che, ammesso pure fosse
stata un po' "addomesticata" dallo zio non poteva
però denominare del tutto nero il bianco).
Il padre di Silvia era direttore di una succursale del Banco
Ambrosiano. Scusate, mi perdo in minuzie. Che rilevanza possono
avere questi particolari? Ammesso poi che non ne abbia già
scritto. Aspettate che controllo, visto che sto tirando giù a
scrivere le cose a come vengono. No, non ne ho fatto ancora
cenno. Be' sì, avete ragione, sono particolari inutili. Ma
siamo tutti così quando parliamo di noi stessi o narriamo la
nostra vita. Ci addentriamo nelle minuzie, vogliamo
puntualizzare fino all'esasperazione, precisare e spiegare fino
alla nausea. E tu, amico mio, che fai il giudice e ascolti
quotidianamente le vicende di tante persone, non puoi ignorarlo.
Però, accennare alle idee politiche del padre di Silvia non
mi pare che sia una minuzia. Forse non è nemmeno, questo, il
punto giusto della narrazione per parlarne. Ma mi viene a tiro
adesso, ne parlo e così non ci penso più.
Fu enorme il mio stupore quando appresi che il padre di
Silvia votava da sempre socialdemocratico e si vantava del suo
"socialismo moderato" (così diceva lui). A me pareva
più logico che egli, come chiunque occupa posti di dirigente o
è alla testa di aziende, industrie o uffici, fosse di idee
liberali. Di destra, cioè, differendo da noi missini soltanto
in un punto: che loro credono (o fingono di credere) in quella
barzelletta che penso sia la democrazia, almeno così come è
stata in concreto attuata in Italia, e noi, invece, la riteniamo
una fase transitoria del nostro assetto politico, che prelude a
un meno disarticolato rapporto di poteri da instaurare per mezzo
di una repubblica presidenziale o con la creazione di una sola
camera, espressione delle élites dirigenti, che si
potrebbe chiamare delle corporazioni per esempio, o in altro
modo. Ma i nomi non contano, il problema è dare infine un vero
equilibrio al nostro Stato.
Parlava spesso, il signor Scalet (era di origine valdostana),
con enfasi del suo socialismo moderato. E a me veniva da ridere.
Ripensavo a mio cugino Davide che chiamava i socialdemocratici
"socialprofilattici": evitano, cioè, che il
"germe" - o, per essere più aderenti al nome, il
"seme" - del socialismo prolifichi. Gliene avevo
chiesto la ragione, nel periodo in cui egli mi aveva
catechizzato un po' in tutti i campi (raggiungendo, però,
scarsi risultati nel terreno politico che era, poi, quello che
gli stava maggiormente a cuore) e cercando di capire la
differenza fra il credo dei comunisti, quello dei socialisti e
quello dei socialdemocratici.
È presto detto, mi aveva risposto Davide che aveva idee
semplici - o fors'anche semplicistiche - e comunque amava
esprimersi in termini chiari e sintetici. I comunisti vogliono
instaurare, o con le buone o con le cattive, la proprietà
collettiva dei mezzi di produzione, terre e fabbriche,
sostituendo alla società capitalistica quella socialistica. I
socialisti pensano allo stesso traguardo e sperano di arrivarci,
anche se a tempo di mazurca, gestendo intanto da socialisti la
società capitalistica. I socialdemocratici, infine, si
contentano di avere un tantino di potere nella gestione della
società capitalistica per poter attuare - loro dicono - delle
riforme e del traguardo si sono scordati completamente.
Ma naturalmente non dissi mai al signor Scalet la definizione
che degli uomini della sua parte aveva escogitato Davide. Né
per la verità ebbi, mai, in seguito, con lui veri e propri
scontri a causa delle nostre diverse fedi politiche.
Gli scontri ebbero altra origine. Ma non anticipiamo i tempi
e torniamo all'alba dei miei rapporti con Silvia: un'alba tanto
serena per una giornata tanto tempestosa.
Neanche Silvia aveva molto tempo libero (si impegnava
seriamente negli studi) e solo raramente la madre, che teneva
ben salde in mano le redini della famiglia, le consentiva di
trascorrere qualche ora fuori di casa, specie di sera.
Ci si dava appuntamento di solito a una fermata tranviaria
nelle vicinanze di casa sua. Nei giorni di festa, quando non
c'era nebbia o cattivo tempo, ci si trovava a Porta Venezia e si
filava ai giardini, a quel rachitico e moribondo angolo di verde
rimasto nel cuore della metropoli odiosamata. Diversamente ci
ficcavamo in un cinema. Quando Silvia, per una ragione o per
un'altra, mi diceva che non poteva venire a un appuntamento
credevo di cadere nella disperazione.
Qualche volta le tenevo la mano fra le mie, cercavo, mentre
si stava seduti al cinema, di starle quanto più vicino
possibile. Una sola volta avevo osato, sempre al cinema,
cingerle le spalle con un braccio. Ero di una timidezza
terribile e ridicola. Eppure mi sembrava che l'incontrarsi, il
guardarsi negli occhi bastasse. E bastava.
Quando il primo giorno di primavera ruppe l'uggia
dell'inverno, io e Silvia ci guardammo sorridenti. Non ci
sembrava nemmeno vero che fosse così velocemente trascorso
l'inverno e che da circa cinque mesi noi continuavamo a vederci
quasi ogni giorno, sia pure, a volte, solo per pochi minuti. E
che ci eravamo detti in tutto quel tempo?
La mia più grande felicità era stata intessuta di una serie
di niente. Di silenzi. Di un mazzetto di viole offerto a Silvia.
Del continuo domandarle "mi vuoi bene?". Del sorriso
del mondo intorno.
Ma non lo vedi? mi obietterete, non lo vedi che sei ancora
innamorato di tua moglie? Che altro è questo tuo ricordare se
non nostalgia?
Se voi, miei ipotetici lettori, e tu, Antonio, mio buon amico
e lettore "certo", leggendo queste righe, vi
convincerete che soffro di rimpianto per quel periodo della mia
vita, che fu l'unico veramente felice, sarete nel vero. Ma se da
questo vorrete arguire che io sono ancora innamorato di mia
moglie o, peggio, che il mio matrimonio sia ancora recuperabile,
allora sarete del tutto in errore.
Silvia - è proprio quello che tenterò di puntualizzare - fu
nella mia vita come due donne diverse. E non ditemi per favore
(con la falsa scienza dell'esperienza generale da cui nasce il
luogo comune) che ogni donna è, nella vita di un uomo, due
donne diverse, quella prima e quella dopo il matrimonio. E del
resto ogni uomo, a sua volta, è due uomini diversi nella vita
di ogni donna. No, non parlo di questo luogo comune, stupido e
generalmente infondato. Parlo di un farsi, volutamente, due.
E della prima Silvia, che non esiste più, potrei anche, in
linea di ipotesi, essere innamorato. Ma della seconda non vedo
come potrei sentire la mancanza. E, ammesso che io ne fossi
inconsciamente innamorato, son certo che l'amore sarebbe
ricambiato con odio.
"Hai tolto ogni senso alla mia vita!" mi disse
l'ultima volta che ci vedemmo in tribunale. Mi sibilò la frase
passandomi accanto. C'era una carica di odio, che ci si rifiuta
di pensare possa esser contenuta nel petto di un essere umano.
Ogni senso alla sua vita. Se questo senso essa l'aveva
trovato nel rimpiangere un uomo amato, che non ero io, e perduto
in una disgrazia, allora veramente sono stato colpevole di aver
tolto questo senso alla sua vita. Ma se fosse dipeso da me,
immediatamente glielo avrei restituito, cancellando persino il
ricordo del nostro matrimonio.
Quando cominciò a parlarsi, con serietà di intenti, nelle
nostre Camere, di divorzio, io ero già fra gli "irregolari
del matrimonio". M'ero fatto una nuova famiglia e il
pensiero che il figlio che stava per nascere sarebbe stato
"figlio di ignoto" mi rendeva feroce.
Fu allora che cominciai a pensare a un trasferimento in
Australia. Vi ci si erano stabiliti, e con successo, i figli di
un cugino di mia madre. Presi contatto. Ma cercai di saperne
qualcosa di più circa la possibilità di ottenere il divorzio
in Australia. Non venni a capo di nulla.
Supposi che le leggi australiane non fossero diverse da
quelle inglesi e che solo acquistando la nazionalità
australiana, avrei potuto ottenere il divorzio. Ma,
approfondendo la questione, appresi che due criteri regolano il
divorzio nei paesi di diritto a tradizione anglosassone: o
quello dell'ultima legge nazionale comune dei due coniugi (nel
qual caso io non avrei mai potuto ottenere il divorzio) o quello
della legge del luogo dove la domanda di divorzio è proposta.
Insomma le cose non sono poi così semplici come si pensa per
chi, trapiantatosi all'estero, intenda ivi ottenere il divorzio.
A parte poi - incongruenza che andava assolutamente riparata
e cui provvide la recente legge - che per il coniuge rimasto in
Italia il matrimonio continuava a essere indissolubile, perché
era ben difficile che una sentenza di divorzio, ottenuta
dall'altro coniuge all'estero, potesse essere, come si suol
dire, "delibata" e resa quindi efficace nel territorio
nazionale.
Un conflitto di leggi, insomma, che da solo avrebbe dovuto
bastare a fare adottare il divorzio in Italia almeno vent'anni
prima e avrebbe dovuto far tingere il volto di "rossore
giuridico" a quelli che - non digiuni certo di diritto -
misero in moto il congegno del referendum.
Ricordo che quando ci capitò, caro Antonio (mio unico
lettore e unico amico leccese, il solo compagno di scuola, sia
delle elementari che delle medie, con cui ho mantenuti i
legami... e ora che ci penso, sì, sei stato proprio tu il
ragazzo rimasto, dopo la rottura del marmoreo naso di Palmieri,
in mano al vigile urbano; perciò, se non ricordo male, la tua
famiglia si vide presentare un "conticino" dal Comune
e fui io - non ti dispiaccia ch'io lo ricordi - che mi feci
promotore di una colletta fra gli altri ragazzi veramente
colpevoli), quando ci capitò, dicevo, di conversare, di
discutere quasi, insieme del conflitto di leggi di stati diversi
in materia di matrimonio e divorzio, notando che razza di
confusione si era creata nel mio cervello, mi dicevi
benevolmente, con modestia certo eccessiva, che anche per i
giuristi non è facile orientarsi in quel particolare settore
del diritto internazionale privato che riguarda il matrimonio. E
ricordo che tu continuavi a parlare di Convenzioni dell'Aja,
sottoscritte dall'Italia e sempre valide, dei cosiddetti
princìpi dell'ordine pubblico, del Concordato con la Santa
Sede, dell' art. 7 della Costituzione. Così la confusione nella
mia testa cresceva.
Ma a un certo punto tu stesso, deciso assertore
dell'indissolubilità del vincolo matrimoniale ("Quali mani
possono avere il potere di scioglierlo?" chiedesti
perentoriamente e io pronto: "Quelle stesse degli sposi che
l'hanno annodato"), tentennando la testa, finisti col
concludere che, nel vertiginoso infittirsi di rapporti fra
cittadini di nazionalità diversa e nel crescente movimento
migratorio, sarebbe stato assurdo per l'Italia ostinarsi a
considerarsi un'"isola giuridica" in punto di
divorzio. Un'isola di uno sparutissimo arcipelago che non brilla
nel campo dei progressi sociali.
Quella lunga conversazione con te, Antonio, mi fece
apprendere tante cose e mi fornì argomenti validissimi, quando
nelle discussioni che precedettero il 12 maggio mi trovavo da
solo, in mezzo ai colleghi di lavoro e a rappresentanti di
partito, a sostenere la tesi a favore della conservazione del
divorzio.
Probabilmente, dicevo, non c'è nulla da controbattere quando
si afferma che un ordinamento giuridico tanto più si avvicina
alla perfezione quanto più corrisponde alle naturali esigenze
dell'uomo. E do per ammesso anche - lo do addirittura come
un'affermazione ineccepibile - che è esigenza della natura
umana creare un consorzio fra uomo e donna destinato a durare
tutta la vita e che, per conseguenza, sia più conforme agli
ideali del diritto naturale quell'ordinamento che sancisca, come
quello canonico, l'indissolubilità del matrimonio.
Ma allora, continuavo non senza un tantino di enfasi, perché
tutti gli ordinamenti moderni hanno considerato il divorzio una
conquista? E mi volete dire, per favore, perché nella cattolica
Austria una sola legge, fra quelle imposte dal nazismo, è stata
conservata, la legge del divorzio?
Ma sì, sono polemiche passate. La maggioranza del popolo
italiano ha ragionato come me, è inutile riparlarne. Meglio
riprendere a narrare la mia storia.
V
(torna all'indice)
Un amore semplice fu, dunque, quello tra me e Silvia. Un
amore limpido, senza scosse, che avrebbe potuto portarci a un
matrimonio sereno, fare di me e di lei due buoni coniugi come
tanti altri. Ma il diavolo ci mise dentro la coda.
So che tu, Antonio, odii la concezione fatalistica del
matrimonio: il matrimonio-scatola-chiusa, il
matrimonio-salto-nel-buio. E forse ha ragione chi dice che al
matrimonio occorre arrivare con una adeguata preparazione
spirituale (e non dico necessariamente un corso cattolico
organizzato in parrocchia). Forse il matrimonio è, davvero, una
conquista che va fatta, rifatta e mantenuta ogni giorno. Perciò
la preoccupazione che la valvola del divorzio può far
dimenticare questa verità, degradando il matrimonio a
un'avventura che o la va o la spacca, non era e non è senza
consistenza. Onestamente bisogna riconoscerlo.
Ma lasciatemi dire che anche la sfortuna ha giocato il suo
ruolo nella mia vicenda, come certo nella vita di tanti altri
infelici come me.
La strada mia e la strada di Silvia furono intersecate da
altri viandanti.
Fu verso la fine dell'estate - io ero già in attesa di
partire da un momento all'altro per il servizio militare - che
avvenne un fatto decisivo per il destino di Silvia e, quindi,
anche mio.
Destino, diciamo tutti. E lo ripeto anch'io. In questa
parola, forse, non occorre ravvisare altro che il fortuito
intrecciarsi delle vite di quegli esseri che il Caso ha
avvicinato. E non scandalizzatevi, vi prego, se scrivo Caso con
la lettera maiuscola, quasi fosse il dio cui io credo.
Concedetemi che a un arbitro di tali proporzioni, che ha acceso
la scintilla della vita o meglio che consentì il formarsi degli
anelli del DNA, che ha manovrato tutta l'evoluzione della specie
sul nostro pianeta, che tira le fila di ogni essere vivente, si
conceda la lettera maiuscola. Se poi il Caso sia l'articolarsi
delle decisioni di un indecifrabile Dio non tocca a me
stabilire. Né, in fondo, mi interessa gran che.
Un fatto decisivo, dicevo. Ma piccolo piccolo, in apparenza.
Margherita, la figlia di mio zio Ambrogio e sorella di Davide,
si sposava. Io persuasi Silvia a venire con me a quella festa di
nozze. Ci volle del bello e del buono per convincere la madre di
Silvia, che era già a conoscenza della simpatia sorta fra me e
la figlia e stava sempre sul chi vive. In quella circostanza
Silvia mi consigliò di farmi conoscere da sua madre.
L'accoglienza non fu per nulla calorosa.
La famiglia di Silvia, infatti, aveva già progetti diversi
per lei. Anche quell'estate - per completare il discorso,
scusate, devo tornare di qualche passo indietro - Silvia era
andata a trascorrere parte delle vacanze con la nonna. Si
trattava della nonna paterna, una distinta signora, nella quale
erano ancora chiari i segni di un'antica bellezza. Essa era
stata - non seppi mai perché - abbandonata ancora giovane dal
marito, partito per uno Stato del Sud-America, da dove non aveva
più dato notizie di sé. Si era poi unita more uxorio a
un ingegnere calabrese, che per un certo tempo aveva lavorato a
Milano. Con lui aveva trascorso tutta la vita e con lui
trascorreva la vecchiaia a Roma.
Silvia era al centro dell'attenzione, della vita sarebbe
meglio dire, non solo dei genitori ma anche della nonna e del
nonno "acquisito".
Da tempo si progettava di dare a Silvia come marito un nipote
dell'ingegnere, ingegnere anche lui, che aveva però una
quindicina d'anni più di Silvia. La quale, si capisce, non lo
digeriva.
Nell'ultimo periodo di vacanze trascorso da Silvia con la
nonna, sempre a Sestri Levante, si era fatto in modo che i due
"promessi" si incontrassero, anzi che stessero insieme
quanto più a lungo possibile. Ma credo che Silvia restasse
nella sua posizione di cortese indifferenza.
Avevo intuito, da mezze parole, tutto ciò, quello che la
famiglia tramava e il suo dissenso. M'ero sentito, perciò,
morire - e non fate una smorfia a questa parola, tacciandomi di
esagerazione : i sentimenti bisogna misurarli col metro di
allora, perché se li guardiamo con gli occhi di un decennio, o
più, dopo, non riusciamo a capirli - "morire" dicevo
dunque, quando, verso la seconda metà di luglio, Silvia aveva
preso congedo da me per un mese. M'era parso che quella prima
separazione non le desse troppo pensiero.
Fu per me, al contrario, un distacco che mi fece soffrire
immensamente. Mi dannavo di non avere denaro sufficiente per
permettermi un po' di vacanze anch'io vicino a Silvia. Ma una
capatina di un giorno riuscii a combinarla.
Come attesi quel giorno. E quanti progetti, nella notte quasi
insonne che l'aveva preceduto... la troverò certamente in
spiaggia, mi avvicinerò "Ciao, Silvia, come stai?"
Lei sorriderà felice. Starò qualche attimo, incantato, a
guardarla mentre i suoi capelli, al sole, manderanno riflessi
d'oro... Non c'era particolare di quell'incontro che io non mi
prefigurassi. Mi vedevo fare il bagno con lei, invitarla a
salire su un sandolino e remare felice mettendo in mostra la mia
bravura. Lontano, lontano... soli, si elettrizzava la mia
immaginazione. E dietro le palpebre vedevo l'azzurro abbagliante
di quel panorama, il golfo del Tigullio, il promontorio di
Portofino reso bluastro dalla lontananza. Una cornice di lusso
per il nostro amore. Avremmo traversato col sandolino la Baia
del Silenzio (il quale silenzio, però, ormai è un mito)...e
aprivo quasi la bocca per chiedere a Silvia se preferiva andare
ancora più al largo o dirigersi verso quegli scogli laggiù. Li
vedi? quelli là. Punta Manara. E tutta docile la Silvia
fabbricata: "Come preferisci, Rodolfo." Ecco un tratto
di spiaggia deserto - cose che nell'immaginazione potevano
ancora sussistere - un triangolo di greto, fra gli scogli,
nascosto. Lo vedo, lo tocco quasi. Vi avrei tirato il sandolino,
ci saremmo seduti. Baciarla! Baciarla per la prima volta,
afferrare infine quest'attimo sospirato per mesi e mesi. Essa mi
avrebbe serrate le braccia al collo, si sarebbe stretta a me.
Con la punta delle dita avrei lievemente accarezzato le sue
spalle nude... Ma possibile che ricordo ancora questi miei
sospiri giovanili dopo un decennio, mentre di tante altre cose,
di emozioni assai più profonde si è perduta ogni traccia? Come
è chiaro e vivo ancora in me, invece, il tumulto del sangue
nelle mie vene in quella struggente notte di desideri e di
sogni.
E non era solo lo slancio erotico che sembrava, in quella
vigilia, mettermi le ali verso la ragazza che amavo, ma anche un
altro impellente bisogno: parlare a qualcuno di ciò che da un
paio di mesi mi accadeva, la "tentazione" di scrivere.
Mi stavo cimentando con un lungo racconto, ambientato negli anni
della guerra, e lavoravo completamente, mancandomi ogni
esperienza diretta, sul filo della fantasia. Naturalmente non vi
nascondevo i miei convincimenti politici. L'"eroe",
quindi, non era un partigiano ma chi, fino in fondo, aveva
creduto, obbedito, combattuto in una specie di cupio dissolvi.
Mi occorreva il parere di qualcuno per quella mia prima prova
narrativa, quello di Silvia, almeno. Non è affatto vero che la
soddisfazione di chi scrive si addensa soprattutto nel momento
in cui si crea. Senza la prospettiva di "comunicare"
nessuno mai al mondo, piccolo o grande scrittore che fosse,
avrebbe messo insieme un rigo.
Non ricordo nemmeno se quel primo lavoro lo feci leggere mai
a qualcuno né, addirittura, se riuscii a completarlo.
So solo che finora nessun critico letterario, nessuna giuria
per lavori inediti, nessun "lettore" di casa editrice
ha mai apprezzato ciò che son venuto scrivendo. Ma in fondo la
mia prosa l'ho sempre sentita come un esercizio per il
giornalismo.
Mi si rimprovera soprattutto la minuzia del narrare, l'amore
dei particolari anche più inutili, la precisione al limite
della pignoleria, talché non lascio al lettore nessun margine
per intuire, collegare, integrare. Un modo di narrare
ottocentesco, in una parola, e quindi del tutto sorpassato.
Ma io - e certo voi che mi avete seguito ve ne siete venuti
accorgendo - penso che narrare sia soddisfare tutte le
curiosità del lettore, sia sedersi al centro di un crocchio di
amici e parlare, parlare non consentendo che nessuno si
distragga o faccia domande o perda il fìlo, quindi esporre
fatti, o pensieri agganciati ai fatti, senza svaporamenti in
nebulosità, riferire dialoghi che significhino qualcosa, che si
inseriscano nel tessuto narrativo e delineino i personaggi,
descrivere persone, luoghi e cose, anche se non per forza con
pignoleria curialesca (come faccio, a volte, io) ma in modo tale
che tutto sia nitidamente preciso, illuminato da sole
mediterraneo davanti agli occhi del lettore (quel sole
mediterraneo che spesso manca in certa letteratura narrativa,
pur grandissima, di altri paesi).
Forse sbaglio. Anzi, senz'altro sbaglio. Non ho capito
niente, voi direte, delle esigenze del lettore moderno, della
rivoluzione di tutte le tecniche narrative operata da Joyce, in
testa, e poi, ognuno per la sua parte, da Kafka e da Musil, da
Proust e da Sartre, da Bulgakov e da Soltjenitsin.
Ma son persuaso che non si possano condividere le
impostazioni di coloro che narrano solo di non sapere - o di non
potere, a causa dell'incomunicabilità - narrare o di chi,
negando ogni valore semantico alle parole così come la
grammatica e la sintassi vogliono siano strutturate e collegate
fra loro, preferiscono fonemi disarticolati. "Le veglie di
Finnegan", che nessuno ancora è riuscito a tradurre in
italiano, poteva scriverle solo Joyce. Ma Joyce era Joyce e
aveva scritto già l'"Ulisse". E francamente per me -
e per molti lettori italiani - è come se non avesse scritto il
suo ultimo libro.
Nei miei modestissimi limiti, se devo dire una cosa, amo
dirla con chiarezza. E se c'è confusione, contrasto,
sommovimento di idee in me, non lo nascondo. E cerco le parole
più chiare per esprimere la mia non chiarezza interiore. È
quello, infatti, che sto facendo per narrare la mia vita. Mi
attengo, da buon giornalista, alla fedeltà della relazione ai
lettori.
Da buon cronista, anzi, sto attaccato alle "cinque
W": who? what? when? where? why? Dire tutto - di chi
o di che cosa si tratta, in che tempo, in che luogo e per quali
motivi il fatto è accaduto - e ogni cosa in breve spazio.
Chiedo scusa per queste chiacchiere. Non pretendo di fare,
come quando ero ragazzo, il narratore. E meno che mai di esporre
teorie estetiche in fatto di narrativa. Ho voluto solo
giustificarmi, visto che il discorso ci è caduto sopra, del mio
sistema di portare avanti questo "sfogo rievocativo della
mia vita" (non ha altre pretese il libro), cercando di non
trascurare nulla né fatti piccoli e superflui né fatti grandi
e importanti. Diranno i lettori se qualcosa serviva e qualche
altra no, distingueranno essi stessi le cose ultronee e quelle,
invece, che non potevano essere dimenticate. E mi concederanno,
spero, in ogni caso, venia.
Quanto a quel primo esperimento di narrativa cui altri ne
seguirono, tutti, in fondo, a vederli oggi, non riusciti o forse
puramente "propedeutici" rispetto a questo lavoro, in
cui, senza preoccupazioni di invenzione, senza schemi narrativi
preconcetti, senza cercare di accostarmi all'una o all'altra
tecnica dei maggiori narratori attuali, altro non sto facendo
che "buttare tutto me stesso" in queste pagine - non
ebbi nemmeno occasione di parlarne a Silvia.
E del resto le cose, nella realtà di quel giorno tanto
atteso, andarono ben diversamente da come le avevo sognate.
Dovetti penare per trovare Silvia nella spiaggia, fra file
interminabili di sedie a sdraio e di ombrelloni. L'intera
mattinata andò via così. Trovai finalmente Silvia insieme alla
nonna e al "pretendente". Presentazione, scambio di
poche chiacchiere, fingendo un incontro casuale. Consumammo
insieme una bibita al bar. Neanche il bagno fece Silvia,
preferì restare al sole. Poi con i suoi andò a fare colazione
e per il pomeriggio non si profilò alcuna speranza di
rivederci, perché avevano già progettato una gita in
vaporetto, né mi si precisò per dove.
Deluso, tornandomene a Milano, cercavo di confortarmi
ripensando al lampo di gioia - o era sorpresa? era comunque
troppo poco - che avevo colto negli occhi di Silvia.
Ma chiudiamo la lunga digressione e torniamo al matrimonio
della figlia di zio Ambrogio.
Riuscii, dunque, a ottenere il permesso di condurre Silvia a
Secugnago al pranzo di nozze.
Nella cascina - tenuto conto che lo zio era il capo dei
contadini - si fece gran festa. La tavola, lunghissima, perché
c'era un intero paese invitato, fu imbandita sull'aia. Canti,
fisarmoniche, balli e "ciucchi" a ogni angolo.
Silvia, in tutta quell'allegria campagnola, sembrava un po'
spaesata. Poi Davide cominciò a farla ridere e ballò a lungo
con lei.
Una corrente, una corrente sotterranea e prepotente, di
simpatia si stabilì quel giorno fra Silvia e Davide. Io lo
avvertii immediatamente, anche se in modo oscuro. Ma mi
distoglievo da questo pensiero, da questa sensazione confusa.
Una morbosa manifestazione, mi dicevo, di un'irrazionale
gelosia. Ma per lunghe ore, la sera, ripensandoci, non riuscii a
prender sonno.
E, certo, anche Davide, proprio fin da quella prima sera,
doveva avere avuto precisa coscienza di quello che era nato in
lui. Forse, con gli occhi aperti nel buio e le braccia
incrociate sotto la testa ripensava agli avvenimenti di quella
giornata, vedeva Silvia davanti, la sentiva ancora fra le sue
braccia come nella danza.
E Silvia? Istituiva, senza volerlo, confronti fra me e
Davide? Se rivedeva quella bella figura di giovane, alto,
atletico, bruno, pieno di maschio vigore, l'immagine mia - del
povero Rodolfo, esile, pallido e timido - ne rimaneva offuscata,
cancellata.
Né io né Silvia stessa, per parecchio tempo, ci rendemmo
conto che fra noi tutto era finito. Il suo trasporto per Davide
nacque senza che lei stessa riuscisse mai ad ammetterlo come una
realtà, prima ancora, forse, che il suo sentimento, la sua
simpatia per me raggiungesse la pienezza dell'amore.
Spesso, negli anni, nei tanti anni, che sono venuti dopo, mi
son chiesto se Silvia mi abbia veramente amato, allora quando
eravamo ragazzi, dopo quando fummo marito e moglie. E il mio per
Silvia fu veramente amore? E, messo a confronto con l'altro
sentimento che doveva dominare la mia vita, merita ancora il
nome di amore?
Se mi sforzo di capire il me stesso di allora, il ragazzo che
ero, se cerco di riafferrarne i sentimenti, mi pare di provare
un senso di smarrimento. Non riesco più a veder chiaro. Ma
forse non sbaglio pensando che, allora, dovette essere amore.
Era un sentimento timido e impacciato, etereo e pieno di
idealistiche esaltazioni, senza dubbio. Suppongo, anzi, che io
non sapessi raffigurarmi la mia unione con Silvia se non come un
tenersi per mano, per andare incontro alla vita (e come questi
teneri luoghi comuni possono riempire il cuore di un giovane!).
Ma c'era - ed è il ricordo preciso della prima lontananza che
me lo conferma - la pienezza del trasporto fisico. Certamente
dentro la estrema "spiritualità" del mio sentimento
già sentivo avvampare il desiderio. Ma Silvia, pur nei momenti
in cui la brama di lei me la costruiva vicina, restava per me,
secondo quell'ingenua e forse un po' ridicola definizione
trovata allora, l'angioletta aureolata di sogno.
Frasi e parole, sì senz'altro, ridicole, a ripensarle da
tanta distanza di tempo e dopo tutto quello che è successo.
L'"angioletta", divenuta mia moglie, mi diede una
volta un morso in un braccio da staccarmi quasi un pezzo di
carne. Ma lasciamo andare.
E del resto di questo episodio si parla nella sentenza del
tribunale, quella che dava la colpa a tutt'e due. Poi in
appello, morso o non morso, la colpa fu tutta mia. Ma lasciamo
andare anche questo.
Così la chiamavo, comunque, con un amico di cui mi sia
consentito tacere il nome e che fu quello che mi inserì nelle
fìle di quel movimento che con disprezzo qualcuno chiamava
neo-fascismo e che io ho sempre considerato e chiamato "di
riscossa nazionale" (ma una profonda crisi, in questi
giorni in cui sto scrivendo, mi dilania il cervello).
L'amico aveva subito cominciato a prendermi in giro con
questa storia dell'"angioletta". E tutte le volte che
mi incontrava, ci tornava su, abbinando questa storia a
quell'altra delle stelle. E questo perché io una volta avevo
avuto l'ingenuità di dirgli che, quando la tristezza più cupa
mi pesava addosso, riuscivo guardando il miracolo del cielo
stellato a scrollarmela un po'.
Ma per lui un ragazzo moderno se ne doveva impipare delle
stelle. Che se ne fa? Le stelle ci sono nelle canzoni e nei
presepi e buona notte al secchio.
VI
(torna all'indice)
Non so se mi convenga, per riuscire a parlare con
assoluta chiarezza di me stesso, dire qualche parola in più di
questo mio amico. Lo potrei chiamare XY o indicarlo - come ha
fatto per i personaggi di un suo libro uno scrittore a cui son
disposto a fare tanto di cappello - con una formula matematica.
Ma gli do un nome fittizio. Quasi un nome di battaglia. Del
resto egli usava fra gli amici (o i camerati, se così
preferite) nomi di battaglia che cambiava sovente. Lo chiamerà
"Marco", Marco fra virgolette.
Di lui a te, Antonio, dirò che il suo nome sta scritto su
una copertina di uno dei fascicoli processuali che girano nel
tuo ufficio e che è attualmente... ospite di San Vittore,
coinvolto mani e piedi in quelle indagini processuali chiamate
"trame nere".
Non dirò nulla di lui, né l'età, né la città di
provenienza (era, quando lo conobbi, anche lui un immigrato a
Milano), né l'attività economica che svolgeva, né per che e
per come si trova implicato in quella grossa faccenda che è
definita ormai da tutti - dagli stessi iscritti e simpatizzanti
del M.S.I. - "eversione nera", che ci ha veramente
sconvolti - me e tutti gli altri che, come me, credono nella
necessità di una svolta a destra, ma senza nefandezze - e che
ci tiene in uno stato di grave disagio. O siamo degli ingenui?
Non importa, qui, del resto, parlare di lui, mi importa dire
ciò che egli ha rappresentato nella mia esistenza.
Era ancora vivo mio padre e frequentavo l'ultimo corso
dell'istituto commerciale quando, per ripicca contro le botte
che mi ero preso dai miei compagni di scuola in occasione di uno
sciopero a cui non volevo partecipare, accortomi, poco tempo
dopo, che si stava costituendo un gruppo di contro-manifestanti
per non so quale agitazione o dimostrazione, mi inserii in tale
gruppo. Era guidato da "Marco": così lo conobbi. Ci
munirono di fionde e di catene di biciclette. Usai quella che
capitò a me con la furia con cui un antico guerriero faceva
roteare uno spadone sulle teste dei saraceni. Avevo da
vendicarmi delle botte e delle umiliazioni che, per razzismo
antimeridionalistico, avevo subito dal miei compagni. Pensavo a
quel tal giovane meridionale, di cui non ricordavo bene se avevo
sentito parlare da mio padre o letto in cronaca su un giornale,
che venuto a Milano per cercare dei parenti, era stato trovato
sfinito di stanchezza e di fame non avendo osato interpellare
nessuno per informarsi, non volendo svelare, attraverso il suo
accento, la sua "negritudine" di meridionale.
A voi, dicevo esaltandomi fra me e me, a voi studenti, che
figli di papà capitalisti vi atteggiate a filoproletari, che
parlate di fratellanza universale e ostentate la vostra pura
"razza" milanese di fronte ai terroni, a voi che
disprezzando i meridionali violate il sentimento di italianità
e ora fate scioperi e dimostrazioni a servizio del nuovo zar che
siede al Cremlino, botte da orbo in testa. E con quella catena
di bicicletta continuavo a menare staffilate e a rotearla sopra
di me.
M'accorsi a un certo punto di aver colpito in pieno viso un
ragazzo. Lo vidi coprirsi gli occhi con le mani e spillò sangue
fra le dita. Atterrito, angosciato, me la diedi a gambe.
Seppi poi che un ragazzo era stato in ospedale, per una grave
lesione a un occhio. Stetti molto tempo in ansia per lui. Ero
certo che si trattava dello studente che avevo colpito in piena
faccia. Giurai da allora che mai più avrei partecipato a quelle
mischie che definii schifose.
"Marco", però, mi aveva notato. Aveva apprezzato
la mia furia, la mia risolutezza nel "combattere".
Egli usava, sempre, questo verbo. Venne a cercarmi a scuola, mi
portò alla sezione del M.S.I. dove operava lui e cominciò a
discorrere del più e del meno, ma soprattutto di politica, con
me.
Accertò dapprima il mio risoluto anticomunismo. Se ne
congratulò, anzi, dicendomi che su questa base, e solo su
questa, si poteva procedere alla formazione di un nuovo
"camerata".
Egli adoperava chiaramente questa e altre parole del
vocabolario fascista. Io, invece, avrei preferito che di questo
frasario non si facesse più uso, perché il fascismo, secondo
me, era stata una sperimentazione fallita - e ciò che la storia
condanna con il fallimento o con la sconfitta è vano volerlo
riesumare - e occorreva trovare "qualcosa" di nuovo
che al fascismo, sì, (alle cose che allora almeno mi apparivano
le "migliori" di esso: il patriottismo, il senso di
disciplina da inculcare in tutte le categorie sociali, la
autorità degli organismi statali, la potenza e onnipresenza
della polizia) si ispirasse, ma che fosse tagliato secondo la
misura dei nuovi tempi, delle nuove esigenze e, soprattutto,
secondo i bisogni ideologici delle nuove generazioni.
Dissi, perciò, a "Marco" con molta schiettezza che
a me l'ideale della rinascita, sic et sempliciter, del
fascismo non mi andava assolutamente a fagiolo. Che io pensavo,
piuttosto, a dei "correttivi" del tipo di Stato
esistente già in Italia, a una democrazia di tipo gollista (De
Gaulle, allora, nel nostro ambiente, era... di gran moda), a una
repubblica presidenziale, alla gerarchizzazione dei sindacati
inquadrati nella struttura piramidale corporativa. E tutto
questo da raggiungere gradualmente, con la lotta politica in
parlamento e, quando occorreva, nelle piazze.
"Allora," disse "Marco" "avrai da
fare sempre i conti con la diccì che, ogni tanto, lo vedi tu
stesso, il recente esempio della caduta di Tambroni docet, ha
dei ripensamenti e, dopo averci schiacciato l'occhiolino, si
sente presa da soprassalti resistenziali e antifascisti e ci
manda al diavolo."
"Non hanno importanza," replicai "nella
realizzazione dello Stato a cui penso io, i momenti tattici e le
alleanze contingenti. È l'ampia portata del disegno che conta.
Occorre guardare all'esercito e penetrarlo, con le nostre
vedute, nei suoi quadri. Occorre far leva sulla burocrazia,
specie quella alta, perché capisca che, volgendo le sue
simpatie verso di noi, riguadagnerà il perduto prestigio.
Occorre lavorare seriamente, con scritti, opuscoli, giornali,
nell'ambito della magistratura - terreno sempre un po'
difficile, perché è l'intellighentsia dell'impiego
pubblico - dove si avverte qualche sintomo di sbandamento a
sinistra, perché al momento giusto non ci siano defezioni, che
sarebbero pericolose, in questo importante apparato statale.
Occorre far capire a tutti i corpi di polizia e ai singoli
gregari che solo in chi ha i nostri ideali di ordine e
disciplina sociale essi possono trovare appoggio, potenziamento,
autorevolezza. Occorre inserirsi bene nella classe
imprenditoriale e fare entrare chiaramente in testa agli
operatori economici che siamo solo noi la garanzia del loro
successo e della prosperità economica generale. Non possiamo
fare salti nel vuoto. La politica, come la natura secondo
Leibniz, non facit saltus. Seminiamo nella macchina
statale e nell'ambito delle forze economiche, facciamole
ideologicamente nostre, fascistizziamole se così più ti piace
dire, e allora l'instaurazione di uno Stato forte, di tipo
gollista o, che so io, anche peronista ( perché qualche
concessione alla classe operaia bisognerà pur farla), sarà
operazione quanto mai facile."
Non giurerei, certo, che parlai proprio così a
"Marco" - forse allora, nemmeno ventenne, non avevo
così chiaramente delineate nei dettagli le mie idee politiche,
ma la sostanza c'era - né che quello riportato sopra fu un
discorso di una sola "seduta". Probabilmente lo
facemmo in più volte. Ci incontrammo spesso, infatti, sia negli
ultimi mesi del mio corso scolastico sia successivamente.
"Marco" mi disse che, a esser sincero, lui aveva
sperato di aver fatto con me un "arruolamento" per
nuclei "operativi" e che, invece, ora veniva scoprendo
un ideologo. "E ne sono contento, bada, perché abbiamo
bisogno degli ideologi. Mi piace, per esempio, questo tuo
teorizzare un nuovo Stato che sorge da questo che c'è, senza
scossoni rivoluzionari ma per naturale evoluzione."
"Vedi," precisai "in fondo anche Mussolini che
fece? tolse forse di mezzo lo statuto albertino? abolì la
monarchia? No, corresse il primo, condizionò l'altra al suo
potere. Così dovrebbe avvenire per l'instaurazione dello Stato
a cui penso io. In un periodo, per esempio, in cui una lunga
crisi di governo travaglia la vita pubblica, come quella di
quest'estate, basta un gesto "forte", per cominciare,
del presidente della repubblica. Se esercito, polizia,
magistratura, burocrazia e, soprattutto, confindustria sono per
la "correzione" delle istituzioni, queste muteranno
con gran facilità e..."
"Mi pare," m'interruppe "Marco" "che
sei un ideologo in gamba... ma troppo idealista."
"No, lasciami dire. Guarda, io conosco bene la
costituzione dell'attuale nostra sgangherata repubblica. A
scuola ho studiato un po' di diritto, ma io in questo settore ho
voluto approfondire un po' la mia cultura. Credi, davvero, che
attraverso gli articoli stessi della costituzione non si
riuscirebbe a creare uno Stato forte, autoritario, avente il
pieno controllo delle forze sociali? Si dovrebbe cominciare
dall'articolo 40, quello che dice "Il diritto di sciopero
si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano". Dove
sono queste leggi? Subito, facciamole: divieto di sciopero agli
statali e agli addetti ai servizi pubblici, decisione dello
sciopero rimesso agli organi rappresentativi dei lavoratori,
previo un tentativo di arbitrato affidato per legge a un organo
statale. E sistemato l'articolo 40, pensare subito al
precedente, il 39, per mezzo del quale, dando regolamentazione
ai sindacati, si possono creare organismi unitari nazionali
coordinati in gruppi per settore economico, insieme alle
associazioni imprenditoriali: le corporazioni insomma. Il resto
verrebbe da sé: una legge elettorale maggioritaria, un uso più
frequente da parte dell'esecutivo dei decreti-legge e deleghe,
deleghe al Governo da parte del Parlamento per legiferare
ampiamente. S'intende che uno Stato così dovrebbe anche
garantire gli essenziali diritti ai lavoratori. La sicurezza
sociale dovrebbe essere uno dei pilastri del nuovo regime. Ma
niente indisciplina: ogni lavoratore al suo posto e basta coi
mestatori e gli sfruttatori dei malcontenti"
"Marco" seguiva i miei discorsi affascinato. Ma
sorrideva e tentennava la testa. "Non lo so se queste tue
teorie coincidono col programma del partito, del resto neanche
le mie sono assolutamente coincidenti con quelle dei nostri
capi. Trovo molto interessante questo tipo di regime che
dovrebbe germogliare dal demomarciume di adesso. Ma dove tu
pecchi assolutamente di ingenuità idealistica è nel concepire
il modo di realizzarlo. Del resto la tua giovane età e la tua
inesperienza ti giustificano. Un regime forte, amico mio, lo si
può instaurare solo con la forza."
"Un colpo di Stato? E dove trovarne le premesse?"
"Le premesse, appunto. Dobbiamo fare in modo che la
gente, la gente comune che vuole lavorare in pace, il bottegaio,
il camionista, l'avvocato o che so io, si stufino del disordine,
degli scioperi, del casino che fanno gli studenti, dello
strapotere dei sindacalisti..."
Mi distrassi per un attimo e pensai a mio cugino Davide, il
quale, chiaramente, una volta, mi aveva esposto le sue teorie
sul sindacato e sulla necessità che esso acquistasse sempre
più forza e peso nella vita politica. "Qualcosa, aveva
precisato, come il gabinetto-ombra inglese, la vera opposizione
a un governo che è espressione della classe padronale." È
vero, pensai, facendo stufare la gente, sarà questa stessa
democrazia che si scaverà la fossa.
"Ma non dobbiamo rifuggire," diceva intanto
"Marco", "dallo scontro fisico. Nelle agitazioni
operaie e nelle manifestazioni studentesche intervenire sempre.
Dapprima sparpagliati per suscitare tafferugli o fomentarli. Poi
a fianco delle forze dell'ordine. Farci vedere, con
ostentazione, a fianco della polizia. Unire il nostro al
manganello dei poliziotti. Quando saremo abbastanza organizzati,
abbastanza forti, vedrai che il mantenimento dell'ordine
pubblico passerà in mani nostre. I governi deboli che
continueranno a susseguirsi con questo centro-sinistra, che
tutti vogliono e nessuno sa con precisione cosa effettivamente
sia perché tutti lo interpretano a modo loro, si dimostreranno
sempre più incapaci di mantenere l'ordine pubblico. È qui il
nostro spazio."
Ma forse io ricordo male. Queste teorie così precise per
giungere al potere "Marco" non me le espose allora,
una diecina di anni fa, quando ci conoscemmo, ma in seguito.
Per alcuni mesi, anzi, non lo rividi più. Io ero assillato
di ben altro: cercavo un'occupazione dopo quella di un paio di
mesi trovata nel corso dell'inverno. Non mi importava più
nemmeno delle idee politiche che avevo nutrito, non mi perdevo
in vagheggiamenti di un diverso tipo di Stato. Né frequentavo
più la sezione del partito.
Fu verso l'inizio del nuovo inverno che incontrai
"Marco". In quell'occasione parlammo a lungo e forse
molte delle cose che ho riferito ce le dicemmo allora.
"Ehilà!" mi apostrofò "Marco" da
lontano. "A che punto è la contemplazione delle stelle e
l'estasi con l'angioletta?". Gli piaceva, sempre,
sottolineare la mia inclinazione alle cose astratte e
romantiche.
Sorrisi e gli annunciai che presto sarei partito per il
servizio militare. "Già, non ti fa comodo per via
dell'angioletta. Ma guarda che è una cosa importante per noi il
servizio militare. E impara bene l'uso degli esplosivi."
"Perché?"
"Niente, niente, può servire."
Io non avevo particolari impegni, perciò rimasi con lui
tutto il pomeriggio e finimmo coll'andare a cena insieme.
Non so se faccio confusione, ma credo che fu proprio allora
che "Marco" mi parlò della tecnica del colpo di
Stato: due, tre reparti dell'esercito, qualche carro armato nel
centro della capitale e delle principali città, un gruppo di
carabinieri in azione e il fermo notturno di tutti gli esponenti
della sinistra.
Ricordai queste "teorie" quando si fece tanto
discutere su ciò che nell'estate 1964 e nel dicembre 1970
poteva essere, per dirla alla guidogozzano, e non era stato.
Altri "discorsi" - mezzi discorsi piuttosto - ho
colto poi nelle conversazioni con "Marco" che mi si
sono chiariti in seguito... che cosa significava per esempio
"fare in modo che gli anarchici e gli ultrasinistri
compissero gesti nefandi, da suscitare l'abominio di
tutti"? come "fare in modo"? E la precisazione
fatta una volta che in politica non è necessario che un
avversario "abbia fatto" ma basta che "sembri
aver fatto"? E il ricordo dell'incendio del Reichstag? E
perché, una volta, aveva parlato della bomba al cinema Diana di
Milano che di poco aveva preceduto la marcia su Roma?
Negli anni che seguirono scoprii sempre più in
"Marco" un machiavellismo cinico che non sospettavo in
lui e che lo allontanava sempre più da me. Ma forse sto
precorrendo i tempi di questa narrazione ed è meglio tornare
alla vigilia della mia partenza per il servizio militare.
L'addio con Silvia, il giorno prima della partenza, fu
convenzionale, freddo. E perciò amaro.
Passeggiammo un po' per il centro. Era un giorno di festa e
c'era tanto sole, pur essendo pieno inverno, sul sagrato del
Duomo (e chi non l'ha visto in una di queste rare,
inimmaginabili, eppur vere, giornate invernali non può avere
idea di che cosa sia questa stupenda piazza).
La testa ciondolone, triste, accanto a Silvia, parlavo di
cose futili. E ogni tanto le chiedevo "Mi
dimenticherai?"
E giravamo, intanto, per quella parte di Milano che, forse,
perché era stata cara a mio padre, era cara anche a me. La
parte che dall'abside del Duomo, il "Camposanto", si
apre a ventaglio fino alla linea dei Navigli. Ben altra cosa -
diceva mio padre spesso - di quello che è adesso. Allora,
allora, avresti dovuto vederla, prima dei bombardamenti. Era
innamorato, pover'uomo, di Milano.
Io no, invece, anche se ci torno volentieri. Roma mi è tanto
estranea. Ma quell'angolo della vecchia città, pur come è
adesso, è caro a me come a mio padre. Forse perché con
quell'ultimo incontro con Silvia si chiuse definitivamente una
breve, indimenticabile stagione della mia vita.
All'ora di pranzo Silvia prese il suo tram. Ci stringemmo la
mano e tutto finì lì.
continua... |