I
Permettete che mi presenti? Rodolfo Izzo. Da Lecce. Ma sono
cresciuto a Milano. Già, il solito "complesso di
inferiorità" del meridionale che vuole atteggiarsi a
settentrionalizzato. Se penso agli sberleffi dei miei compagni
di scuola, quando a sedici anni venni a frequentare l'istituto
commerciale a Milano, a causa del mio accento leccese...
Che è rimasto, non c'è niente da fare. Imposto, a volte, il
mio parlare con piglio e tonalità milanese. Specie nelle frasi
interrogative non è difficile. Ma non è questione di accento,
si tratta di fonetica. O di fonazione, se più vi piace (che,
fra l'altro, è più esatto). Resta sempre, nei suoni che mi
escono di bocca, quell'asprezza leccese, quella venatura
meridionale, quel non so che di cadenza mediterranea che
caratterizza la parlata della città che è e resta
"mia". Perciò consonanti irragionevolmente rafforzate
e quell'indifferenziazione fra i suoni "nt" e "nd"
che fa suonare sovente "quanto" come
"quando" e viceversa e altre peculiarità di pronuncia
che tradiscono la mia vera origine. E ho un bell'appiccicare la
cantatina milanese alle frasi interrogative. Non ci concludo
nulla. E allora mi arrabbio con me stesso - ma ho ben più gravi
motivi di questo per essere in litigio con me - e mi dico
"ma parla come madre natura, o l'ambiente in cui hai emesso
i primi suoni, t'ha fatto le corde vocali."
Eppure, sapete, a rigore, non sono neanche leccese. Sono nato
a Secugnago, il paese di mia madre. Più lombardo di così?
L'anno di nascita chiarisce tutto: 1944. Mio padre - lui sì
veramente di Lecce - faceva il soldato in provincia di Milano,
non ricordo più se a Lodi, Codogno o Casalpusterlengo.
Fatto il calcolo fra la mia data di nascita e quella di
matrimonio dei miei genitori, mi risultò chiaro che dovette
essere "un matrimonio di gran fretta". E anche una
sorta di fortuna per mio padre, che non finì impacchettato dai
tedeschi, come tutti i soldati del suo reparto, e spedito in
carro piombato in un campo di concentramento per "traditori
italiani". Scusate, non so come la pensiate voi, ma il
voltafaccia di quella mezza-calzetta del re e di Badoglio voi
come lo chiamate?
Insomma i miei genitori si sposarono alla fine di agosto
1943. Così l'8 settembre mio padre era in licenza matrimoniale
e si intanò nella cascina dove lavorava mio nonno. Il resto -
come mio padre se la cavò fino alla Liberazione (cosiddetta) -
non sto a raccontarvelo, perché se no finirei col raccontarvi
la storia sua e non la mia.
Potreste dirmi: ma chi mi ha pregato di raccontarvela?
Giusto, è una libertà che mi prendo io... e, stavo per
scrivere "prento", come pronuncio dentro di me. Mi son
messo in testa di fare il narratore. Vogliate scusarmene. Ero
bravo nei temi fin dalle elementari (c'è chi crede che sia
questa l'"investitura" alla carriera, se così
vogliamo chiamarla, di scrittore). La mia maestra, nella sua
presuntuosa ignoranza di cose linguistiche, aveva un odio
viscerale per il dialetto. E io ero il ragazzo che padroneggiava
meglio degli altri la lingua nazionale. Era ovvio d'altra parte.
Mio padre e mia madre usavano fra loro l'italiano, anche se mia
madre finì col capire benissimo il dialetto leccese e io stesso
mi rivolgevo spesso a lei in dialetto. Ma lei preferiva che
parlassi in lingua e mi fece imparare qualche espressione
dialettale lombarda. Continuarono anche dopo le elementari i
risultati positivi nei compiti in classe di italiano e a qualche
mio professore, non so se della media o dei primi anni
dell'istituto, deve essere scappata di bocca una frase come
"particolare disposizione allo scrivere" o
"stoffa del futuro giornalista" che non è stata senza
conseguenze dentro di me.
Mi "sospettai" scrittore una diecina d'anni fa, sui
vent'anni, e mi sarebbe piaciuto coltivare questa vocazione, ma
non mi ci son potuto dedicare mai con impegno e quelle poche e
brevi cose che ho scritto non sono riuscito mai a pubblicarle.
Vocazione, dunque, la narrativa per me? O tentazione? Non lo so
né me ne importa. Mi è venuta voglia di parlare degli anni
della mia giovinezza travagliata o ormai, direi, conclusa. E lo
farò.
A chi, d'altronde, fa di professione come me il giornalista
è una tentazione, quella del narrare, che può venire. Dalla
matrice del giornalismo, si sa, provengono le leve più fitte di
coloro che si cimentano con la narrativa. Di cui tutti
annunciano, con accenti apocalittici, la morte, ma con la quale
- statene certi - dovremo fare i conti per anni e anni ancora.
Il narratore per immagini ha, sì, tutto per sé il futuro, ma
il rapporto di muto colloquio fra pagina scritta e lettore non
perderà mai il suo fascino.
Sono giornalista, dunque. Regolarmente iscritto all'albo.
Cronista, per l'esattezza, di un giornale romano. Un giornale
che vi dice subito la mia fede politica, "Il secolo
d'Italia". Ma di questo dopo, se permettete. Voglio venire
subito ai fatti.
E da dove posso cominciare per narrarvi la mia storia, cari
amici - ché tali m'apparite, se siete arrivati a voltare
pagina, e meritate perciò, comunque voi la pensiate in fatto di
politica, che io vi chiami così - da dove per rievocare i miei
errori, le mie incertezze, le mie crisi? Questo quaderno, così,
tutto bianco ancora, mi fa persino paura. Eppure so che lo
riempirò. Ne sento il bisogno.
Lascio Roma: mi son dovuto licenziare. Ho trovato lavoro in
un giornale di Milano. Un giornale non politico "Il Sole-24
ore". Ho bisogno, per un po' di tempo, di non pensare più
alla politica, di infischiarmene. O, forse, di portare un po' di
ordine nella confusione che mi si è creata in testa.
Vorrei, quasi, non portarmi dietro me stesso rientrando a
Milano, per iniziare una vita rinnovata. Forse è un tentativo
di liberarmi dai miei ricordi la stesura di questa specie di
confessione che ho intrapreso. Ma le mille cose di cui vorrei
parlare mi si affollano, carosellando, in testa e non so come
sceverarle per dipanare l'intricata matassa. Ma sì, cominciamo ab
ovo.
Se ne sentono mille, s'intende, storie come la mia, la storia
di un matrimonio fallito. Che interesse può avere? direte. Ma
la mia s'intreccia con quella della mia collocazione politica,
di cui non so se riuscirei, anche volendo, a spiegare bene le
origini, perché anch'essa, come il matrimonio, è scaturita da
tanti e tanti fattori, fra cui la libera determinazione non so
quanto posto occupi. Matrimonio sbagliato e collocazione
politica sono venuti, com'era naturale, in frizione quando,
postosi il problema del referendum abrogativo del divorzio, la
mia parte si trovò schierata per il sì. E io ero con una causa
di separazione ancora in corso, in attesa di potermi assestare
legalmente con la mia nuova famiglia e "bisognoso"
quindi del divorzio. Mentre, per coerenza ideologica verso il
mio partito, ero chiamato a dire "sì, toglietelo pure di
mezzo il divorzio."
Non so quale sia stato il dramma interiore dei
"cattolici del no"; forse il loro avrà avuto una
dimensione più generale, un respiro magari universale, se è
vero - come credo sia vero - che per molti di essi votare
"no" significava imprimere ancora una svolta, dopo
quella, in parte ormai rientrata, del Vaticano Secondo,
all'ansia, al bisogno della Chiesa di svincolarsi dalle beghe
politiche e di stemporalizzarsi (se mi consentite di usare
questo neologismo brutto ma sintetico e quindi comodo). Ma non
credo che di assai minore entità sia stato il dramma dei
"camerati del no" (e se fate bene i conti, ce ne sono
stati parecchi e vi basti pensare solo ai dati della città
"nera" d'Italia: Catania), che non potevano, o per
situazioni personali o per esperienze familiari o per precise
convinzioni, condividere la posizione, tutto sommato fatta per
tatticismo politico, del partito.
Tattica del resto sbagliata, come poi s'è visto e come io
continuavo a "predicare" nel nostro ambiente (creando
i primi dissapori e buttando il seme delle prime diffidenze
verso di me).
E, comunque, il mio dramma è il "mio". Allo stesso
modo come - l'ho sentito dire tante volte a un mio antico
compagno di scuola, Antonio, rimastomi amico e da qualche anno
entrato in magistratura - allo stesso modo come, per chi è
implicato in un episodio giudiziario, "quel" processo
è "il" processo. E il giudice, aggiungevi, non deve
scordarselo.
Anche a te, vedi, dirigo queste mie righe. E vorrei proprio
che tu, almeno tu, le leggessi. È necessario, sai, che tu mi
legga. Mi pare che s'è creata fra noi una certa aria di
incomprensione, quando ci siamo visti l'ultima volta a Milano.
Tu, sostituto procuratore, con istruttorie in mano contro uomini
della mia parte e io, con tuo grande disappunto, nelle file
cosiddette neofasciste (locuzione, però, che io rifiuto, almeno
per me). E lo strano fu, poi, che, caduto il discorso
sull'imminente referendum, ero io a sostenere la tesi
divorzista, mentre tu - che ti dichiari di fede
"democratica" e ti atteggi a progressista (ma un
magistrato può essere progressista?) - esitavi e dicevi che,
sì, in fondo, la legge del divorzio era bene che restasse,
soprattutto per allineare l'Italia agli altri paesi (una
questione, precisavi, per non creare discrepanze nel diritto
internazionale privato), ma che, tutto sommato, l'ideale del
matrimonio indissolubile...
E io a cercare di persuaderti. A dirti che tu, proprio tu,
uomo di legge, avevi il dovere di riflettere sulle norme che
regolavano il matrimonio da noi prima della Baslini-Fortuna. A
precisarti che, anni or sono, avevo meditato di lasciare
l'Italia proprio per sciogliermi dal vincolo che soffocava la
mia vita e poter dire agli italiani: non volete il divorzio?
affari vostri, mettetelo, toglietelo, io me ne vado e non me ne
impiccio più, sbrogliatevela voi. Ci pensavo seriamente, sai?
Ho parenti di mia madre in Australia, e son certo che mi
avrebbero aiutato a sistemarmi. Ma tu pensaci, ti dicevo. E
pensa proprio a questo, che, per chi riesce ad andarsene, il
problema non esiste più, perché altrove, prima o poi, il
divorzio si ottiene. E ci riuscirà sempre, e con grande
velocità, chi ha molto denaro. Se ti sembra, tutto questo,
aggiungevo un tantino polemico, applicazione del principio
dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, vedi
un po' tu. Sapevo di toccarti così nel tuo "punto
debole", il punto dolente dell'anima di ogni magistrato che
crede nel suo mestiere: il conflitto fra giustizia e legalità.
"Lo so bene, " ti avevo sentito dire una volta non
so a che proposito, ma certo, comunque, sulla non rispondenza di
certe leggi, specie vecchie, al senso attuale della giustizia,
"lo so bene, il giudice non è legislatore. Ma ha le leggi,
ogni giorno, in mano. E se esse sono vecchie o inefficienti o
ingiuste, egli deve averne coscienza, avvertirlo e fare in modo
che altri lo avverta, perché il congegno che porta alla loro
modificazione si metta in moto. Penso che ogni giudice debba
rendere testimonianza alle leggi, con la sua fedeltà innanzi
tutto, ma anche, quando occorre, con la sua critica, fatta da
uomo onesto".
Non so se sono riuscito a persuaderti. Ti lasciai perplesso.
Ma credo che anche tu, come me, avrai votato "no". La
magistratura italiana (si vedeva chiaramente) era compatta per
il mantenimento della legge sul divorzio. Era in fondo una
questione di "gelosia di mestiere". Perché far
regolare le questioni di scioglimento del matrimonio ai giudici
con tonaca di prete e non ai giudici dello Stato che portano
pantaloni e hanno moglie e figli? Disquisiscano pure i giudici
rotali (che, da preti, a rigore, non dovrebbero avere pratica di
sesso) dei vari tipi di coitus e delle varie forme di impotentia
vel coeundi vel generandi e ci parlino nelle loro
sentenze con abbondanza di particolari degli acta per se
idonea ad generandum, ma lascino che i drammi delle
famiglie li risolvano coloro che sono inseriti nelle famiglie e
nella società statale. Il matrimonio appartiene alla gelosa
giurisdizione dello Stato dalla Rivoluzione francese in poi.
Ma divago. Ab ovo ho detto che voglio cominciare la
mia storia. Sì, forse, se non voglio perdermi in chiacchiere,
è bene attaccare subito da quel viaggio da Genova a Milano di
tanti anni fa.
Ero andato a trovare mio cugino Davide che lavorava presso
un'importante industria siderurgica. Un tecnico altamente
specializzato. E dirigente sindacale per giunta. Speravo che
egli riuscisse a mettermi al lavoro in fabbrica. O mi trovasse
una qualche sistemazione altrove.
Da qualche mese era morto, ancora in giovane età, mio padre.
Neanche tre anni era riuscito a mettere insieme della sua
"nuova vita" milanese, da quando aveva afferrato... al
volo un posto di operaio in un'industria chimica, riportando
nella sua terra mia madre, che per quindici anni si era sentita
in esilio, sradicando me dalla mia, e togliendo se stesso da una
situazione, nell'ambito della sua famiglia di origine, divenuta
intollerabile.
Precipitammo, mia madre e io, dopo la sua improvvisa
scomparsa, nella più nera disperazione. Mi restavano ancora
pochi mesi di scuola per diventare ragioniere. Decisi di
lasciare gli studi e trovarmi assolutamente un lavoro. Avrei
completato il corso alle scuole serali. Mia madre, che si era
trovato intanto un lavoro come donna di servizio, non consentì
che io lasciassi la scuola. Ma raggiunto il traguardo del
diploma, mi pareva un impegno d'onore lavorare.
Facevo tanto assegnamento su Davide. Di qualche anno più
vecchio di me, era stato la prima persona a cui, appena giunto a
Milano, mi ero attaccato. Fratelli più che cugini.
Suo padre, che era fratello di mia madre, lavorava come
contadino, capo-uomo per l'esattezza, in una azienda agricola di
Secugnago. Perciò Davide, nell'ultimo anno del suo corso
scolastico, aveva abitato da noi, da poco arrivati a Milano,
nella nostra povera casetta al terzo piano - un abbaìno quasi -
in Ripa Alzaia del Naviglio grande.
Ero certo, andandolo a trovare, che egli non mi avrebbe
lesinato il suo aiuto. Ma le sue promesse erano state vaghe:
egli aveva poche conoscenze, poca influenza; avrei potuto
trovare più facilmente un lavoro a Milano; e poi... con la
crisi di Cuba...
La crisi di Cuba. Ne sentii parlare per tutto il viaggio di
ritorno, il pericolo di una guerra di proporzioni planetarie, i
missili sovietici, la ferma posizione di Kennedy. E chi diceva
che terza guerra mondiale, fatta dapprima a base di
"confetti" atomici distribuiti a manciate qua e là e
poi da una logorante lotta fra i superstiti, era ormai
inevitabile. E chi diceva che questa, davvero, sarebbe stata, a
differenza della seconda, una "guerra-lampo", un lampo
che avrebbe inghiottito il mondo. E chi, invece, insisteva nel
dire che un conto è il lampo e un conto la tempesta. E tempesta
è la guerra, non lampo.
"È uno schifo!" aveva esclamato un tale che sedeva
in un angolo dello scompartimento e raramente interveniva nella
conversazione. Aveva tutta l'aria di un professore in pensione.
"Ma mi facciano il piacere. Le bombe atomiche! La
prospettiva soltanto di un conflitto nucleare avrebbe dovuto far
scomparire dal mondo l'idea stessa della guerra. Se
nell'umanità ci fosse un residuo di saggezza. Ma non c'è. A
paragone i carri armati e i bombardamenti sulle città della
seconda guerra mondiale hanno la nobiltà di armi di
"cavalieri antiqui"!"
Aveva detto proprio così il "professore": antiqui.
E a me era venuta voglia di ridere, ma il discorso era, invece,
serio. Quelle discussioni su una possibile guerra non mi
facevano né caldo né freddo. Mi sembravano fastidiose, come se
non mi riguardassero.
Guardavo fuori dal finestrino. Nel cielo batuffoli di nuvole
sparsi qua e là raccoglievano gli ultimi raggi del sole. C'era
tanta pace.
Oppure, di sfuggita, di tanto in tanto, mentre gli altri
nello scompartimento s'accaloravano nella discussione guardavo
una ragazza che stava seduta, timida timida (o così pareva), di
fronte a me.
Da dove viene? Dove è diretta? Come si chiama? Mi sarebbe
piaciuto saperlo. Ogni essere umano che si incontra è un mondo
sconosciuto. Quello fu, certo, il primo mondo a cui avrei voluto
accostarmi.
Cosa pensava? Pareva ora annoiata, ora malinconica. Ma noia e
malinconia non ne alteravano i bei lineamenti.
I viaggiatori che occupavano lo scompartimento erano scesi
via via, chi a Serravalle, chi a Tortona, chi a Voghera,
l'ultimo, il "professore", a Pavia. Eravamo rimasti
solo io e quella ragazza ancora sconosciuta.
C'era in me un'impazienza, un nervosismo che non riuscivo
più a dominare. La sosta in stazione mi parve estremamente
lunga. E forse lo fu davvero. Si aspettava una coincidenza.
Altra gente era salita e io seguivo, senza riuscire a capire
il perché, il rumore dei passi. Poi, messosi il treno in moto,
lo scalpiccìo nel corridoio era andato cessando, ognuno aveva
trovato da sistemarsi.
Capii che se volevo "vincere il mistero" della
sconosciuta dovevo cominciare a parlare subito, che tra Pavia e
Milano non mi restava, ormai, che pochissimo tempo.
Con che pretesto cominciai a parlare? Non me lo ricordo più.
Probabilmente con la storia del finestrino che mi dichiarai
disposto a chiudere o aprire, non saprei, secondo che a lei
facesse più comodo. Ma mi piacque poi, per molto tempo,
immaginare che la conversazione fosse scaturita spontanea dai
nostri sguardi, che gli occhi avessero fatto un lungo e chiaro
discorso e le labbra si fossero mosse inconsapevolmente.
Seppi poi che quello era stato il primo viaggio da sola di
Silvia, che tornava a casa dopo aver trascorso un periodo di
vacanza a Sestri Levante con la nonna.
Di quante cose, che poi mi turbinarono nel cervello
farraginosamente, avevo parlato con Silvia. Di letteratura e di
cinema, di sport e di scuola. Certi momenti, la mia timidezza
aveva fatto arenare la conversazione. E un silenzio, che mi
faceva quasi paura, era dilagato ogni volta nello
scompartimento. In quegli attimi, forse pesanti per entrambi,
perché certo in entrambi era vivo il desiderio di parlare, di
conoscerci, di fare amicizia, il mio sguardo correva fuori,
quasi per afferrare, fermare un pensiero qualsiasi.
Ma era come se la mia capacità di formulare pensieri e di
esprimerli... sobbalzasse ritmicamente col vagone, girasse
oziosamente intorno e si disperdesse nella campagna circostante.
II
(torna all'indice)
Ma credo che son partito col piede sbagliato. Mi son messo
subito a parlare del mio incontro con Silvia, credendo così di
entrare in medias res e dimenticando che altre cose sono
ugualmente (e forse più) importanti nella mia vita.
Per capire su quale terreno cadeva il germe di quell'incontro
forse sarebbe stato meglio parlare del me di prima, del me
ragazzo, del me adolescente. Allora, scusate, facciamo un passo
indietro. Mi sbrigo presto, non abbiate paura.
E poi come potrei omettere di dire quanto felice ero stato a
Lecce fino a quindici anni e quanto infelice mi sentii a Milano?
La mia Lecce. Chi me la toglierà mai dal cuore? Ogni città
italiana, si sa, ha una sua fisionomia particolare e distinta da
ogni altra e dire perciò che Lecce non è uscita da una catena
di montaggio, come le parti moderne delle città attuali, è
dire meno che niente. Ogni centro storico di tutti,
indistintamente tutti, gli agglomerati urbani italiani ha un suo
tono, un suo sapore. Così la mia città.
Lecce, decisamente barocca in quasi l'interezza dei suoi
edifici, è profondamente diversa da altre città dove il
barocco predomina, Catania per esempio, o Noto, Acireale e così
via. Il barocco leccese - sempre ugualmente folle - è di una
follia allegra, ridanciana.
È una torta Lecce, una torta decorata con riccioli di crema.
È tutta una panna montata che sfuma in ghirigori. Una pasta di
mandorle tutta arabeschi. Un pasticciotto dolcissimo del Sud.
Il suo è un barocco zuccheroso. Che stufa, forse, il
forestiero come un dolce troppo dolce, ma che rende allegro,
sereno, ottimista chi ci vive dentro.
Nella tenera pietra bianca, che la natura metteva lì a
disposizione e di cui si servirono i costruttori degli inizi del
sec. XVII, quando la Lecce attuale venne formandosi, fu facile
"ricamare" secondo il barocco esige, ma in misura tale
come sarebbe stato impossibile con altro materiale costruttivo.
Quel duttile elemento e l'esuberanza meridionale fecero
esplodere, straripare il barocco come in altri posti mai. Il
gusto della linea curva, il piacere dell'ornato, la mania del
ricciolo, del controricciolo, del ghirigoro, a Lecce divennero
incontenibili onde spumeggianti... schiuma del mare spazzato dal
vento.
Non avete visto ancora Lecce? E che ci state a leggere,
allora, queste righe? Buttate via questo libro e prendetevi un
aereo (se ci fosse) o un treno per Lecce.
E quando siete lì, ascoltatemi, prendetela da dove volete
Lecce. Portatevi, se credete, subito in piazza Duomo - una
strana piazza chiusa come la corte di un castello, con fondali
da teatro, ché tali appaiono i palazzi che la circondano,
l'episcopio, il seminario, fondali per recitarvi un'opera di
Mozart o un risuscitato melodramma del Metastasio - oppure
cominciate dal castello - fortezza costruita per difendere Lecce
dai turchi quando questi tenevano Otranto - o dal centro, piazza
S. Oronzo, dove tutto è mescolato, dagli avanzi di un
anfiteatro romano a un loggiato cinquecentesco, il Sedile, fatto
costruire da un sindaco (pensate un po') veneziano e perciò vi
fa spicco il Leone di San Marco, dagli edifici moderni alla
colonna dove è sistemato il santo protettore, colonna romana
perché si tratta di una delle due colonne che a Brindisi
segnavano la fine della via Appia. Da qualunque parte
comincerete la visita, il barocco leccese vi assalirà. Ma non
potrete che andare a finire nel clou di tale stile, la
facciata di Santa Croce.
No, non starò a dire che è bella. Se il barocco è tutto
carico, se quello leccese è stracarico, quello di Santa Croce
è strabocchevole.
È la festa del santo patrono di un paese del Sud, è tutta
fuochi di artificio, canti, strilli, piedigrotta, canta tu che
canto io, orgia, baccanale, paganesimo, banda cittadina,
chiasso, risate...
Sì, non colpisce il senso estetico del visitatore, non
suggestiona come le grandi cattedrali romaniche, o gotiche, non
fa pensare come le costruzioni dei grandi artisti, non stupisce
e sconcerta come il barocco a livello d'arte, ma diverte, mette
allegria. È uno spasso, insomma, e fa soltanto dire: ma come si
può concepire una cosa tanto pazza?
Vi ci ho portato per mano. Ecco, in quest'angolo di Lecce
aprii gli occhi alla conoscenza. Forse fu questo il primo
"bello" che ammirai. Da un lato della facciata sta
attaccato l'antico monastero dei Celestini - ora sede della
prefettura, che non è da meno degli altri edifici in ghirigori
ornamentali - e dall'altro lato si apre un vicolo. E nel vicolo
si forma uno slargo, quasi una piazzetta (un budello diciamo) e
lì apriva le fauci l'osteria di mio nonno. E che vino ci si
beveva, e ci si beve credo! E il vino di Lecce non scherza...fa
scherzare, semmai.
L'osteria col bancone zincato e sei belle botti, antichissime
(forse fatte costruire dal mio bisnonno), bene allineate, dalle
quali il vino viene spillato direttamente per i clienti. E due
enormi tavoli e gli sgabelli attorno. Un'osteria, gente, come
ormai ne son rimaste poche in Italia. Non so, però, se mio zio
l'ha voluta "rimodernare" e guastare perciò. Ci son
capitato sette-otto anni fa e non mi parve più quella dove ero
vissuto dai due ai quindici anni.
Sì, vissuto in osteria. Perché in osteria stavamo, tutti,
bambini e grandi. E spesso io mi ci facevo anche i compiti. E
d'altra parte i componenti della famiglia dovevano darsi il
turno per servire la clientela.
Ma, un momento, procediamo con ordine. Due soli figli aveva
mio nonno: mio padre che era il più giovane e mio zio Oronzo -
ogni due o tre famiglie leccesi c'è, almeno, un Oronzo - che,
sebbene più vecchio, si sposò tre o quattro anni dopo di mio
padre. Di questi figli egli avrebbe voluto fare due grossi
commercianti di vino, persuaso com'era - non so se a torto o a
ragione - che era destino di tutte le famiglie (ordinate,
s'intende) migliorare di generazione in generazione le proprie
condizioni economiche. Se, perciò, - egli veniva ragionando -
suo padre era riuscito a metter su, dopo una vita di economie,
un'osteria, se lui a sua volta l'aveva ingrandita e corredata di
altre attrezzature e soprattutto era riuscito a comperare un
vigneto, il cui prodotto forniva il vino consumato all'osteria
per almeno una parte dell'anno, che altro dovevano fare i suoi
figli se non divenire due grossisti di vino? E, perciò, due
veri signori.
Mio nonno non aveva voluto che mancasse ai propri figli quel
tantino di necessaria istruzione adatta a uomini di commercio.
Ma né Oronzo né mio padre avevano fatto grandi passi nella
"via della sapienza". Erano inciampati dopo due o tre
corsi postelementari e non se n'era parlato più. Né si erano
avviati gran che bene nel mestiere dei traffici. L'unica cosa
che erano riusciti a imparare era quella di andare a contrattare
l'acquisto del vino presso i vari vignaioli.
La guerra poi aveva portato via i due ragazzi, sovvertendo i
progetti di mio nonno che, a stento, in quegli anni difficili
era riuscito a mandare avanti l'osteria col solo aiuto della
moglie. Mio zio era tornato assai malconcio nella salute dopo
molti anni di prigionia in India. Mio padre invece - ve l'ho
già detto - aveva pensato bene di... buttare le premesse per
farmi venire al mondo e così finita la guerra s'era presentato
con moglie e figlio di quasi due anni.
Cesira, la nuora settentrionale, era piaciuta moltissimo al
nonno ma era rimasta sul gozzo alla nonna che, forse un po'
anche per questo - lei diceva perché ero troppo monello - aveva
in uggia anche me.
Per l'uno e per l'altra, comunque, restai il primo, e perciò
il più "importante" dei nipoti. Ma di una nidiata di
nipoti, alla maniera delle prolifiche donne meridionali,
provvide a rifornirli la seconda nuora, la moglie di zio Oronzo
che, lei sì, andò a fagiolo alla nonna e rimase, invece, un
tantino in antipatia al nonno.
Le ostilità furono presto aperte fra mia madre da un lato e
mia nonna e zia Concetta dall'altra. Ma finché visse il nonno,
che teneva sempre in pugno la situazione e si riteneva - ed era
- il "padrone" di tutti, moglie, figli, nuore e
nipoti, un vero pater familias nel senso (mi sia concesso
questo piccolo sfoggio di erudizione) giusromanistico
dell'espressione, la guerriglia contro mia madre si limitò al
settore dei dispetti, cui mia madre reagiva con una chiara
posizione razzistica, ostentando continuamente il disprezzo più
netto per tutto il "modo d'essere" meridionale:
dialetto, costumi, abitudini e soprattutto (lei diceva) la
sporcizia "innata" dei terroni.
L'urto fra la settentrionale Cesira e la meridionale Concetta
spesso, proprio nel terreno della pulizia e dell'ordine, si
risolveva a favore della prima. "Se non ci fosse lei,"
gridava sovente il nonno (e appena alzava minimamente la voce
tutti ammutolivano) "sia in casa che in bottega faremmo
schifo, sarebbe cosa da vomitare in continuazione".
Io, sebbene bambino, avvertivo che mia madre era, a causa
della protezione del nonno, in una posizione privilegiata, ma
non mi rendevo conto del razzismo che essa impersonava e di cui
un giorno avrei sofferto. Mi pareva che il nonno - che io
adoravo sopra ogni altra persona - non facesse altro che dare il
giusto riconoscimento ai meriti di mia madre. E poi mi pareva
bello che il nonno dicesse dei settentrionali, in linea
generale, il bene che essi certamente meritano. Ritenevo che
questo fosse in lui una manifestazione di autentica italianità,
sentimento che forse, più che da altri, ho imparato da lui.
Insieme - è ovvio (o così mi è parso finora) - a una chiara
impostazione anticomunista.
Mio nonno s'era fatto da sé. Era riuscito a crearsi una
solida posizione economica e quando sentiva parlare di dividere
i beni, di occupazione di terreni e "amenità" del
genere, andava in bestia. "Chi vuole star meglio, impari a
sgobbare come ho fatto io! Sarebbe bello che, dopo aver buttato
sangue tutta la vita, venisse uno e mi dicesse: adesso quello
che hai va diviso fra tutti in parti uguali".
Ogni tanto, nell'osteria, capitava qualcuno che si professava
comunista o socialista e dichiarava che solo nella
"proprietà collettiva dei mezzi di produzione" (per
usare una locuzione appropriata, ma avvertendo che,
naturalmente, gli avventori dell'osteria erano ben lontani da
questo tecnicismo di linguaggio) sta il rimedio di tutti i mali.
Ma mio nonno, sempre con tono garbato - perché un oste deve
trattare bene qualsiasi tipo di cliente - lo distoglieva da
questi pensieri, che egli riteneva fossero panzane da far bere
ai gonzi, portandolo invece a ragionare secondo le sue vedute.
Mi piaceva sentire il nonno dare, nei suoi discorsi, prova di
tanto buon senso e da lui ho ricavato la persuasione che non
c'è bene più alto, in un agglomerato sociale, dell'ordine. È
inutile, mi son detto, almeno fino a ieri, che veniamo
blaterando di libertà di tutti i generi. La libertà
"vera" l'uomo se la giocò quando decise di associarsi
in tribù e di dare la caccia all'orso delle caverne e al
mammuth. Per procedere su questo cammino dovette sacrificare
molto della sua indipendenza, ma solo attraverso questo cammino
è giunto all'era dei viaggi spaziali.
Proprio così: rinuncia alla propria libertà. Limitazioni,
condizionamenti nelle proprie scelte, apparenti
autodeterminazioni che sono invece precise manifestazione di
obbedienza al milieu dove si vive, repressioni in tutti i
campi, divenendo di volta in volta reprimenti o repressi: è
questo il volto della società. Perché dobbiamo blaterare, mi
son venuto persuadendo, di retoriche libertà? Dove stanno?
Spiegatemelo. Perciò sto (o stavo?) al parere di mio nonno:
ordine e disciplina.
Quell'ordine e quella disciplina che avevano protetto la mia
infanzia e la mia adolescenza, che avevano tessuto attorno a me
un bozzolo di sicurezza, da cui era scaturita la felicità dei
miei primi anni (che, forse sì, ora me ne vengo con sofferenza
accorgendo, mi avevano dato un mondo già
"precostituito" che non bisognava affannarsi a
scoprire, a criticare, a cercare di modificare, un mondo di
princìpi, di certezze, di regole fisse), quell'ordine e quella
disciplina, che avevo visto regolare l'andamento
dell'agglomerato familiare dentro cui m'era stato dato di
vivere, restano per me i soli valori su cui si può costruire
una società politica.
Ma non capisco perché, anche non volendo, son cascato
nell'esposizione dei miei convincimenti. Volevo, invece, parlare
della serenità dei miei primi anni ai vita.
Adorato da tutti, considerato un ragazzo eccezionale, un enfant
prodige addirittura per i miei successi scolastici - del
resto assolutamente normali - non crebbi viziato e capriccioso
come può avvenire facilmente in casi del genere (il polso fermo
del nonno si avvertiva anche nell'educazione dei nipoti), crebbi
sereno e perciò diffondevo, con il solo mio esistere, serenità
intorno a me.
Che dovrei dire ai quegli anni? Forse la felicità è più
difficile da descrivere e da spiegare dell'infelicità, che di
solito ha cause precise, fatti che la determinano, stati d'animo
identificabili che ne stanno alla base.
Parlare di che? dei coetanei amici? dei giorni di scuola che
raramente, dato il mio impegno nello studio, mi riuscivano di
peso? delle vacanze estive e dei bagni nella spiaggia di
Frìgole? delle gite? delle monellerie? (Di una, però, mi
ricordo in modo particolare: un giorno sei-sette ragazzi, che
formavamo una vera squadra che appestava i giardini pubblici,
che erano a due passi dall'osteria di mio nonno, decidemmo di
rompere i nasi a tutti i busti degli "uomini illustri"
che scocciano con la loro presenza - secondo il nostro concetto
- coloro che vanno a prendersi un po' di fresco. Ma avevamo
appena portato a termine la prima delle nostre imprese - se non
ricordo male il naso che ci andò di mezzo fu quello di un certo
Palmieri, un "patriota", un nobile liberaleggiante, e
voltagabbana, perciò, della metà circa del secolo scorso, cui
è dedicata anche una strada a Lecce - quando ci piombò addosso
un vigile urbano. Ce la squagliammo e i più svelti ci intanammo
nell'osteria. Ma uno non tanto svelto a scappare e che era
stato, forse, il meno colpevole di tutti, perché non era munito
di martello e si era limitato ad assistere al nostro vandalismo,
restò nelle mani del vigile e passò i guai suoi.)
Niente. Niente di tutto questo. Quando ho detto che fui un
bambino e un ragazzo felice, ho detto tutto.
Poiché tutto, unità della famiglia, coesione dei vari
componenti di essa, sicurezza economica e prosperità
dell'azienda, poggiava sulla guida del nonno, fu logico che alla
sua morte - una morte improvvisa e immatura che doveva
ripetersi, a età tanto più giovane, per mio padre: un
congenito difetto cardiaco? - ogni cosa sembrasse precipitare.
Piansi tanto la morte del nonno. Più di quella di mio padre
qualche anno dopo. Avvertii che tutto stava per mutare attorno a
me. E bastarono, infatti, pochi mesi, perché risultasse
impossibile ai miei genitori convivere nella stessa casa dove
erano vissuti fino allora.
Mio padre si fece dare dallo zio Oronzo la sua parte di
eredità paterna sull'azienda, restando però comproprietario
della vigna, trovò - non so come, forse attraverso un'amicizia
contratta ai tempi della guerra - un posto di operaio in
un'industria milanese e ci unimmo anche noi al flusso migratorio
che caratterizza la storia italiana di questi ultimi anni e che
da un paio di decenni riempie, ogni giorno, di valige legate con
lo spago e di scure facce incavate dall'ansia la "freccia
del Sud" e il direttissimo Lecce-Milano.
Quel primo autunno a Milano. La prima nebbia. La solitudine a
scuola. La solitudine a casa. Non posso ripensarci. Cominciavo
intanto a crescere. Lasciai Lecce ancora ragazzo e non più alto
di un metro e quaranta e nel giro di due o tre mesi raggiunsi a
Milano quasi la statura attuale.
Un mondo era stato smontato attorno a me, come quinte di un
palcoscenico rimosse improvvisamente e irragionevolmente, e in
quello scenario che mi vedevo sorgere al suo posto non mi ci
trovavo, lo sentivo non legare con me.
In quel primo anno scolastico frequentato a Milano mi fu di
grande aiuto mio cugino Davide, il solo amico. Attenuò, certo,
la mia solitudine. Ma non la eliminò.
E se solo è, sempre, un ragazzo alle soglie della pubertà,
se l'improvviso insorgere dell'istinto sessuale, che si traduce
contemporaneamente in un bisogno fisico dell'"altra"
persona e nello stesso tempo in uno spasimo di comprensione, di
corrispondenza di anime, precipita sempre il ragazzo in uno
stato di segreta tortura che non è molto lontano, talora, dalla
disperazione, ancor più grande fu lo stato di infelicità per
me che non avevo più gli amici di prima e non ero riuscito a
trovarmene.
Certo, da una parte mio cugino mi aiutò a sentirmi meno
solo, almeno nei primi tempi. Ma dall'altra egli cominciò a far
sorgere i miei primi dubbi, incrinò le mie certezze, fece
ulteriormente precipitare il mondo della mia fanciullezza. I
miei genitori, prendendo la decisione di trasferirsi a Milano,
avevano distrutto il mio mondo "esterno". Davide
provvide a distruggere quello "interno". Egli,
s'intende, non lo fece coscientemente. Ma io vedevo in lui il
modello secondo cui atteggiarmi nella vita e le sue idee, i suoi
convincimenti trapassavano dritti in me.
Ero venuto su nell'ambito della vita parrocchiale e non c'era
in me certezza più certa del corredo delle dottrine cattoliche.
Ed ecco che Davide faceva improvvisamente, in vari punti del
cristallo di tali mie certezze, scattare una quasi inavvertibile
crepa. E le crepe poi si delinearono chiaramente e mandarono in
frantumi il cristallo. Nel campo religioso il seme del dubbio,
infatti, fruttificò abbondantemente e le certezze ne rimasero
offuscate per sempre.
Non così nel campo dei convincimenti politici. Anche in
questo settore Davide attaccò le certezze che mi provenivano da
mio nonno - il rifiuto della demagogia, la credenza nella
necessità della conservazione dell'ordine sociale - cercando di
convertirmi alle sue idee socialiste (come? mi diceva,
apparteniamo a famiglie proletarie noi! Lo sai? Sì o no? E tu
ti schieri a destra?), ma c'era qualcosa che mi immunizzava
contro i suoi vaneggiamenti internazionalistici e marxistici ed
era il comportamento razzistico dei settentrionali verso di me
che ero e avevo deciso - dopo i miei inutili tentativi di farmi intus
et in cute lombardo - di "restare" meridionale. Mi
dicevo che solo un regime politico che puntasse - come quello
amaramente finito nel 1945 per avversa sorte - sull'unità degli
italiani e sul sentimento nazionale avrebbe potuto por fine alle
assurde divisioni fra nord e sud e risolvere una volta per
sempre la "questione meridionale".
III
(torna all'indice)
O la "questione meridionale", nata da dislivelli
economici, solo in forze economiche, sapientemente (e non
dilettantescamente come oggi) messe in moto, può trovare la sua
soluzione?
Non so. Da un po' di tempo ho un gran guazzabuglio in testa.
E mi pento di essermi lasciato trascinare dalla foga dello
scrivere su questioni politiche, generali e un po' astratte.
È meglio piantarla qua e riprendere la narrazione vera dal
punto in cui l'avevo lasciata, dal mio incontro con Silvia.
Scendemmo insieme dallo scalone della Centrale, conversando
ancora e avviandoci alle fermate dei tram. Io dovevo andare in
centro e poi prendere un tram da via Orefici, Silvia, invece,
doveva andare a Porta Romana. Le fermate erano perciò diverse,
ma io presi la valigia di Silvia e l'accompagnai alla sua
fermata. Non osai chiederle - che tenerezza fa il pensare alle
proprie timide perplessità giovanili e che tortura è il
viverle - se ci saremmo potuti incontrare ancora.
Dopo, non mi ricordavo nemmeno di una sola delle parole che
avevo detto. E invece chiare e distinte mi tornavano a mente
quelle di Silvia. Ne percepii, per più giorni, persino il tono.
E le diverse modulazioni della voce di lei risuonavano come una
musica dentro di me e spesso mi parevano riecheggiare nella
stanza.
La mia squallida casa di Ripa Alzaia del Naviglio grande. La
rivedo. Il cortile umido e senza mai uno spiraglio di sole,
pieno di mucchi di neve sporca d'inverno, con i bidoni della
spazzatura allineati in un angolo. E le scale trasudanti umido
dalle pareti. E i ballatoi - le "ringhiere" meglio -
che giravano tutto intorno al cortile, quella del primo, del
secondo e del terzo piano, con tutte quelle porte o buchi di un
formicaio. E le tre stanze, in tutto, di cui si componeva la
casa, cucina compresa.
Ma, quella sera, si illuminò di una luce speciale che la
trasfigurava. Non divenne anche il sorriso della mia povera
mamma, già allora così precocemente invecchiata, più luminoso
e più largo?
"Come sta, dunque, Davide?" "Bene, mamma, ti
manda tanti saluti." I soliti discorsi più o meno vuoti di
cui riempiamo le nostre giornate: ma con il vuoto non si
riempie... E che cosa poteva contare, per me e per lei, chiedere
e dire come stava Davide, parlare di sua moglie, Carla, e del
suo carattere difficile? Tornavo da mia madre a mani vuote, ecco
tutto. Una mia sistemazione in un posto di lavoro restava ancora
oltre la linea di orizzonte.
Dissi a mia madre che Davide mi aveva dato una lettera per un
suo amico sindacalista, ma che ci speravo poco. "Speriamo,
invece, in bene. È necessario che ti trovi una sistemazione,
prima o poi. E parlo mica per me, lo sai. Io non mi lamento del
mio lavoro. È per te. Ti vedo inquieto, insoddisfatto."
"Sì, sì, speriamo," tagliai corto io.
Non volevo pensarci, non volevo assillarmi, quella sera
rivivendo le pene dell'ultimo periodo. "Mi manda il
commendator Tizio, con questa lettera." "Sa, oggi è
così difficile, dove potrei metterlo?" "Mi manda
l'onorevole Caio per vedere se..." "Ah, sì, sì,
Caio, che cara persona. Ma per ora non c'è niente da fare.
Ripassi fra qualche mese." "Il segretario del senatore
Sempronio mi manda da lei. Sa, sono rimasto da poco orfano. Ho
conseguito il diploma di ragioniere..."
Deputati e senatori democristiani, ai quali con gran fatica
arrivavo, mi facevano consegnare ciclostilate "lettere di
segnalazione".
Presi allora a odiare questo regime che guida (fingendo di
non essere "regime") l'Italia da quasi trent'anni.
Questo regime la cui... ispirazione cristiana è soltanto puzzo
di sacrestia, che mi apparve ipocrita, scorretto e sorridente,
rapace e zuccheroso, torvo e cane con i suoi sudditi - come la
gerarchia cattolica nei secoli passati con i suoi - e tutto
mellifluo e bonario alle apparenze.
Siete anticomunisti, gente? Allora state con noi, facciamo un
regime forte e mettiamo tutti a posto, sindacalisti e anarchici.
Mettiamogli, per dirla con un'espressione dialettale del sud,
cara a mio padre, mettiamogli i testicoli nella cassa.
Non lo siete? E allora prendeteveli a braccetto, fate la
società socialista, nazionalizzate ogni cosa e benedite il
tutto con acqua santa e aspersorio.
Che odio dai precordi mi salì allora per questo sgangherato
carrozzone che dovrebbe portare ancora avanti l'Italia per
chissà quanto.
Ma via dalla testa tutte queste storie, mi dicevo quella
sera. Via tutte le ore di anticamera, le file negli uffici, le
corse da un capo all'altro della città. Il giorno dopo ci avrei
ripensato, forse. Ma quella sera, no.
Mi affacciai alla finestra. La notte autunnale era
limpidissima e fresca. Del cielo si vedeva solo un settore, ma
abbastanza vasto. Il Naviglio era buio buio. Qualche luce della
strada vi si rifletteva. Le stelle che si intravedevano dalla
finestra erano, data l'aria tersa, quanto mai lucenti. Ce n'era
un gruppetto di piccole, ma vividissime, tutte ammucchiate.
Forse le Pleiadi. Ma io non conoscevo e non conosco il nome
delle stelle: il cielo mi incuriosisce di più. Quante volte mi
era capitato, da quando vivevo a Milano - mi sentivo così
spesso soffocare dalla realtà, da me stesso che non capivo e, a
volte, mi sembrava di odiare - di guardare il cielo stellato. E
il provare un attimo di smarrimento dinanzi a quello sconfinato
scintillìo è come un liberarsi da se stessi. Da ragazzo mi
accadeva. Ora, ovviamente, no.
Ma quella sera il cielo era per me un brulichio di sorrisi.
Il riflesso degli occhi di Silvia. Quanta altra gente, mi
chiesi, guarda in questo momento le stesse stelle? Gli
astronomi, certo, sono intenti a scrutarle con i loro telescopi
per penetrare nei misteri dell'universo. Ma gli altri? Quelli
che non si ricordano mai delle stelle, perché l'illuminazione
delle città moderne ne ha fatto dimenticare l'esistenza. Deve
esserci, mi dicevo, gente come me, comuni mortali, che le
guarda. Chi con malinconia, chi con ansia, chi con gioia, chi
con tormento.
Perdo il filo, me ne sto accorgendo! Ma lasciate - e tu, in
particolare, Antonio, che spero mi leggerai, consentilo (ma, tra
parentesi, toglimi una curiosità: il ragazzo che rimase nelle
mani del vigile e che pagò per tutti la rottura del naso di
Palmieri non fosti, per caso, tu?) - lasciate, dicevo, che io mi
fermi a questo lontano ricordo. Il ricordo dei pensieri di
quella sera. A volte il ricordo dei pensieri è più importante
di quello dei fatti.
Fu quella la prima volta che io pensai al matrimonio. Le
ragazze, a quell'età, ci pensano spesso, forse. Ma i ragazzi
no. Quasi mi sorpresi io stesso di pensare con tanta lucidità
ai problemi della vita in due.
Direte voi che non si capisce come si combinano il mio
guardare le stelle con il pensare al matrimonio. Ma ve lo
spiegherò subito.
Certo, non pensavo al matrimonio come potrei pensarci adesso,
come a un fenomeno sociale, cioè, regolato da un insieme di
leggi di varia natura. Mi son fatto una cultura in materia. Te
ne sei accorto subito, tu, da buon giurista, Antonio, e con
garbo un tantino mi hai preso in giro. Ti parve che ero
diventato un maniaco degli istituti giuridici matrimoniali. Allo
stesso modo come - mi raccontasti sorridendo - quel tale
professore di lettere che, avendo cominciato con un ricorso
gerarchico contro un provvedimento del suo preside, finì, a
furia di ricorsi, col diventare uno specialista di diritto
amministrativo.
Allora, ragazzo, non sapevo niente intorno alle nullità
previste dal diritto canonico e a quelle previste dal diritto
civile. Ignoravo che il divorzio esiste in quasi la totalità
degli stati e l'indissolubilità del matrimonio continua a
sussistere solo in pochissimi e arretrati paesi, fra cui, fino a
pochi anni fa, il nostro (e il referendum di qualche giorno fa
pareva dovesse risospingerci indietro). Non mi intendevo affatto
di quella brutta copia che era la separazione personale dei
coniugi, prima di diventare, come ora, un esperimento
predivorziale.
Pensavo, invece, al matrimonio come a una svolta, una svolta
meravigliosa che la vita mi avrebbe messo un giorno davanti. E
ci pensai quella sera, per la prima volta. Guardando le stelle.
Mi piacque, infatti, immaginare che anche Davide, quella
sera, guardasse le stesse stelle. Davide, questo cugino-fratello
al quale mi sforzavo, ma inutilmente di rassomigliare - cercando
addirittura di comprenderne le idee politiche che sentivo,
però, non poter divenire mai le mie - questo
"maestro" nella mia ricerca (non coronata da successo)
di farmi lombardo e di "inserirmi".
La fantasia mi costruì dinanzi un brano della vita di
Davide. Supponevo l'insorgere di un litigio fra lui e sua moglie
che avesse peggiorato l'atmosfera un po' elettrica che regnava
in casa loro. L'immaginazione ha bisogno, di solito, per
sbrigliarsi, di una base concreta, un dato della realtà o
un'ipotesi plausibile.
Immaginavo parole aspre correre fra loro, rimproveri e
offese. E infine la decisione di Davide di rompere la
convivenza, che si traduce poi in una più modesta risoluzione:
uscire di casa sbattendo la porta. Raffigurandomi per la prima
volta rapporti coniugali difficili, ero proprio lontano dal
pensare che era la sorte che mi aspettava.
Il tonfo che fa la porta - e già, perché la fantasia si
dilettava a dipingere anche i minimi particolari - chiudendosi
dietro di lui, lo ferma per un attimo. Gli pare che quel tonfo
deve aver ferito Carla assai più delle sue dure parole, che
forse si ripercuote nell'animo di lei, come un'eco impazzita,
mille volte. Ma Davide scrolla le spalle. L'amarezza, il
risentimento, l'astio traboccano. Egli sente che era stato
cattivo, ma prova un amaro gusto a questo pensiero. E le strade,
ecco, si vanno vieppiù spopolando e le stelle (capite il filo
del discorso? le stelle che guardavo io e che immaginavo
guardasse anche Davide, le stelle causa di tutta quella
scorribanda dell'immaginazione) sembrano più fredde e ostili.
Rientrare? No, mai, sarebbe andato via. Per sempre. L'avrebbe
fatta finita, maledizione! E invece, dopo aver girovagato, solo,
mentre alla domanda "rientrare?" risponde ancora:
"no, mai" le mani stringono istintivamente le chiavi
di casa.
Quando Davide rientra, Carla è già a letto, il viso
affondato nel cuscino. Di tanto in tanto un singulto la scuote.
Sono gli ultimi strascichi di una crisi di pianto. E a questo
punto li immaginavo abbracciati, riconciliati nell'amore.
Non cercherò di ripescare dal pozzo della memoria le altre
acrobazie della mia fantasia di ragazzo. Vi farei sorridere. Ma
una cosa è certa: che quella sera mi parve di scoprire il punctum
dolens dei matrimoni falliti. Una delle scoperte di cose
ovvie, che a ognuno di noi tocca ripetere nella vita.
Se Davide e Carla si amano così come penso io, mi dicevo,
possono litigare mille volte al giorno, ma non succede niente.
Già bravo, mi ribattevo. Che discorsi sono? Allora secondo te -
che ero sempre io stesso - due coniugi si dilaniano a parole,
poi vanno a letto insieme e con quella "faccenda"
(perché da ragazzo la mia pudicizia era persino interiore)
mettono a posto tutto? Non è scendere al livello delle bestie?
Ma scemo, mi rispondevo, che vuoi tu capire di una cosa che
non hai ancora provato? Nella pienezza dell'atto d'amore si
scorda tutto, si bruciano i dissapori, s'annullano le
divergenze. Ne sono certo.
I matrimoni falliscono per mancanza d'amore, concludevo
sicuro di avere attinto una "verità suprema". E non
posso dire, ora, col peso di tutti questi anni passati e delle
varie esperienze fatte, che questa banale constatazione sia
sbagliata. Solo che si tratta di intendersi bene sul significato
da dare alla parola amore.
I matrimoni falliti, il divorzio: è il mio chiodo fisso.
Casco in questo discorso da qualunque parte prendo le mosse. Una
rabbia, quando in occasione del referendum, il mio schieramento
politico, coltivando chissà che illusioni, si pronunziò contro
il divorzio. Non è il divorzio, continuavo a dire in giro fra
gli amici, nel mio ambiente di lavoro, mettendomi in chiaro
conflitto con coloro di cui avevo sempre condiviso le idee, non
è il divorzio che può mandare a rotoli la famiglia. È la
mancanza di amore. Di quello vero, di cui nel mondo c'è tanto
difetto. E rifiutare il divorzio a chi è veramente - come sono
stato io - infelice è, se avete voglia di pensarci bene, una
grande mancanza di amore.
Ma andiamo avanti coi fatti.
Coricandomi, quella sera, e ripiegando i pantaloni, ne
guardai i lembi smozzicati. Mi ricordai dello stato di povertà
in cui mi trovavo. Forse non avrei più rivisto Silvia o, se
l'avessi incontrata ancora, mi sarei sentito handicappato dalle
mie condizioni economiche.
Naturalmente - continuai a ripetermi finche presi sonno -
anche quella, come tante altre simpatie sorte e subito spente,
sarebbe finita nel mondo dei sogni.
Ed ecco dalla strada si levò un canto. Un canto triste, con
le note strascicate, come una nenia. Forse un ubriaco.
L'ascoltai col cuore sospeso, quasi vi sentissi tutto il pianto
chiuso in me, tutti i miei tormenti dalla pubertà in poi.
Sentivo che l'unica sera di felicità era ormai avvelenata.
Ma dovevo, mi dissi l'indomani, dovevo ritrovare Silvia. Non
mi aveva dato un appuntamento, né io avevo osato chiederglielo.
Non c'era che affidarsi al caso.
Il caso, questo padrone assoluto - me ne dichiaravo convinto
- delle sorti umane, questa legge suprema, in cui le cosiddette
leggi scientifiche, come è ormai riconosciuto, tutte si
ricomprendono.
Allo stesso modo come un individuo, chiuso in una stanza, non
cade a terra asfissiato perché le molecole d'aria ivi
contenute, anziché raccogliersi tutte nel lato opposto della
stanza dove sta l'uomo, si dispongono uniformemente e ciò non
perché le molecole abbiano l'"obbligo" di disporsi
uniformemente, ma perché la distribuzione uniforme ha un numero
di probabilità di innumerevoli miliardi di miliardi maggiore di
quante ne abbia una concentrazione in un sol punto (badate che
l'esempio non è mio, ma del fisico, premio Nobel, Max Born);
così io pensavo che fra i milioni di incontri, che si possono
fare in una città come Milano, sussiste sempre la possibilità
di un incontro fra me e Silvia.
Essa non mi aveva dato il suo indirizzo, ma mi aveva indicato
soltanto la zona dove abitava. Era troppo poco, ma già
qualcosa. Non potevo più dire che la concentrazione delle
molecole d'aria in un sol punto di una stanza - questa
possibilità di morte per un uomo - aveva lo stesso numero di
probabilità: una contro un'infinità di miliardi, quanto un mio
incontro con Silvia, questa possibilità di "vita" per
me.
continua... |