VII
E mi trovai così in una caserma. Recluta. Attanagliato dalla
malinconia. Il pensiero fisso a Silvia. Ma le sue lettere si
facevano aspettare a lungo ed erano sempre più tiepide e
talvolta superficiali. Io non sapevo conformarmi alla vita
militare e non riuscivo a legare con nessuno dei miei nuovi
compagni. Continuando a chiudermi e appartarmi, non facevo che
aumentare l'atmosfera gelida che mi ero creato attorno.
E un giorno l'antipatia, che io senza saperlo ispiravo,
esplose in un litigio - Dio solo sa quale, e quanto futile,
fosse il motivo - con un compagno, che era tanto più robusto di
me. Ebbi la peggio e la cosa si concluse prima in infermeria e
poi in prigione per sette giorni.
Quell'episodio veniva a dare terribilmente peso ai pensieri,
che, da quand'ero militare e forse anche da prima, si agitavano
in me in modo informe, senza che io ne sapessi o ne volessi
prendere piena coscienza .
Nella vita - mi dissi finalmente in maniera chiara - c'è un
solo valore: la forza. La bontà, l'onestà, tutte le altre cose
tanto belle a dirsi e di cui gli uomini si riempiono la bocca,
che peso hanno? sono retorica. Il diritto non è che il diritto
del più forte.
Su quali fattori poggia - mi chiedevo abbastanza ingenuamente
e forse stoltamente - la valutazione dell'individuo nella vita
militare? Sulla sua capacità e resistenza fisica, sulla sua
forza, sul suo addestramento muscolare, sulla sua abilità
sportiva. Io che possiedo, concludevo sconfortato, questi
requisiti in misura assai limitata, sono l'ultimo degli ultimi.
E la vita militare - specialmente quella che si fa
"gustare" agli allievi ufficiali perché se ne
imprimano bene in mente il sapore - altro non è che una
sintesi, una prova generale della vita vera e propria, che in
fondo - così mi sembrava - non ho ancora pienamente affrontato.
(Del resto il vezzo di rimandare l'"inizio" della vita
vera e propria è un difetto di tutti: "la vita comincia a
quarant'anni" si dice quando cominciano gli anni della
discesa).
L'idolatria della forza era propria dell'ideologia che avevo
accettato e poteva accadere che anche a individui come me, miti
nel fondo e sostanzialmente alieni dalla violenza, gli atti che
denunciano l'origine ferina dell'uomo - come il colpo di catena
sulla faccia dello studente, per cui a volte avvertivo un
invincibile senso di colpa - apparissero come qualcosa di cui
andare orgogliosi, qualcosa che li svincolava, almeno per
un'ora, un attimo, dal loro destino di pecore, e l'idolatria
della forza apparisse come la vera religione.
In questo inizio di estate 1974 - a un mese circa dal
referendum e a pochi giorni dalla strage di Piazza della Loggia
- in cui sto scrivendo queste righe e tutto quello in cui finora
ho creduto è smosso dal fondo, ribaltato, spappolato in un
cumulo di frantumi che non so più ricomporre, mi chiedo con
angoscia come era possibile che io fossi giunto a ragionare
così, a credere nella "legittimità" della forza e
della violenza.
Se a un giovane come me, che pure aveva una sua cultura anche
extrascolastica, che aveva un suo, per lo meno normale, spirito
critico, cui non erano mancate altre "fonti di
convincimento" politico - in particolare mio cugino Davide
- che aveva sempre istintivamente aborrito dal sangue e dalla
violenza, poteva a un certo punto apparire saggio il culto della
forza, che cosa poteva far germogliare un "vangelo della
violenza politica" in uno spirito più debole, in una mente
meno perspicace e più culturalmente impreparata?
Ricordo, comunque, che quei pensieri mi crocifiggevano. Era
un continuo accorgermi di essere sbagliato, un continuo
rimproverarmi di essere in preda a un sentimentalismo non più
di moda e ridicolo nel mondo d'oggi, un constatare che il
rimuginio interiore, il ripiegarsi su di sé non potevano che
portarmi a risultati disgraziati. Continuando a ragionare, o a
sragionare, io sovrapponevo una testa gigantesca a un corpo
estremamente fragile. Mi costruisco, dicevo, l'infelicità con
le mie stesse mani. O meglio, ce l'ho bell'e pronta. Il motivo
è semplice: sono un debole.
Passavo così da considerazioni di ordine generale a
"querimonie" sulla mia vita interiore. Devo, devo
cambiare, mi ostinavo. La vita va vissuta nella sua pienezza:
movimento, sviluppo e armonia dell'organismo, soddisfazione dei
sensi, lotta (che mescolanza di cose! E come potevo metterle
insieme?) Per vivere - così venivo... scoprendo l'America - è
necessario essere forti, non sentimentali inquieti rosi da
scrupoli: perché, per esempio, continuare a vedere quelle mani
sugli occhi e di tra le dita sgorgare il sangue? Solo i forti
hanno il diritto di vivere, concludevo da... autentico idiota.
Certo oltre all'influsso che aveva esercitato su di me
"Marco" con le sue teorie sulla necessità che il
comunismo, peste del mondo, doveva essere combattuto con la
violenza, influivano in questo guazzabuglio di pensieri i
tormenti del mio farmi adulto.
Mi accorgevo delle pecche del mio carattere: una certa dose
di abulia, un continuo tentennare dinanzi a qualsiasi decisione,
e quell'inclinazione di non pochi esseri umani a lasciarsi
trascinare nei fatti più che a entrare in essi, imprimendovi
l'impronta della propria volontà.
Se esaminavo, persino, i miei rapporti con Silvia, mi
accorgevo che era lei a dare l'indirizzo, il tono, e non io.
Scoprivo, quasi con sorpresa improvvisamente, che mi lasciavo
guidare interamente da lei. Io ero stato, infatti, di fronte a
lei come in una specie di adorazione, stordito in un'ubriacatura
sentimentale, incapace di manifestare veramente il mio amore e,
quel che è peggio, incapace di suscitare in lei vero amore.
Devo mutare, dobbiamo mutare io e lei. L'amore non può
continuare a essere amicizia spirituale.
Di tutti questi miei pensieri, certo, non traspariva che una
minima parte nelle lettere dirette a Silvia, ma tanto quanto
bastava per metterla in apprensione.
Doveva essere quello un periodo particolarmente difficile per
lei. In un modo o nell'altro, forse scrivendole, forse chiedendo
e, magari, ottenendo un incontro, Davide doveva già averle
manifestato i suoi sentimenti. Probabilmente Silvia cercava di
sfuggire a ciò che sentiva nascere e crescere in lei, tentava
di aggrapparsi a quello che credeva amore per me. Perciò nelle
sue lettere c'erano frasi come queste: "Se crediamo a tutto
ciò che ci siamo detti in più di un anno, se abbiamo fede in
noi e nei nostri sentimenti, questa lontananza non deve farci
paura. Non sappiamo cosa ci riserva l'avvenire (questa ansia di
Silvia per il futuro mi stupiva), ma qualunque cosa avvenga, io
sono certa di me: ti vorrò bene sempre."
Era una grande, inconsapevole bugia.
Io non so quando Silvia si scoperse irrimediabilmente
innamorata di Davide. Allora, certo, non sapeva di mentirmi.
Forse anche lo stesso Davide, dapprima, doveva essere ben
lontano dal progettare una relazione con Silvia e magari si
illudeva di spegnere quella simpatia. Sentiva l'assurdità del
pensiero che da un po' di tempo lo crucciava? Ma è assai raro
che gli uomini siano più forti dei propri sentimenti.
Le cose, con la loro forza oscura, sembrarono favorire il
sorgere della loro relazione. Silvia, non so perché, finito il
liceo, anziché iscriversi all'università, troncò gli studi e
andò a vivere con la nonna a Roma, forse su insistenza di
costei o perché si sperava che presto si sarebbe persuasa a
dire di sì al "pretendente". Contemporaneamente
Davide, che si era fatto sempre più strada in sede sindacale,
ottenne un incarico presso la sede centrale della CGIL a Roma.
Fu proprio da Roma che mi giunse una lettera di Silvia nella
quale mi scriveva che notava in me, da qualche tempo, una
diversità che non riusciva a definire. Le sembravo, sì, sempre
affettuoso, ma a volte strano, strampalato addirittura in certe
affermazioni. E questo, concludeva, non poteva che condurre a un
allontanamento delle nostre anime (non era piuttosto il suo
inconscio che preparava una "onorevole ritirata"?).
Già in una precedente lettera Silvia mi aveva fatto
chiaramente intendere - poiché io, non so a che proposito, mi
ero lasciato sfuggire una frase sarcastica sulla
"Repubblica nata dalla Resistenza" - che non poteva
condividere le mie idee. E mi aveva così rivelato che suo padre
aveva fatto il partigiano e che parlava sempre di un suo caro
amico fucilato dai fascisti e il cui corpo era stato buttato, a
piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, insieme a quelli di altri
quattordici partigiani. Quell'essere, diceva sempre suo padre,
che sembrava tanto scettico, che sghignazzava quando gli si
parlava di dovere, di ideali, seppe combattere per un ideale
vero, di quelli che la gente nemmeno chiama così, tanto son
veri, e morire da eroe. "Era la difesa della dignità
dell'uomo l'ideale per cui egli era morto - precisava Silvia,
riferendo le parole di suo padre - ma forse lui stesso nemmeno
gli dava un nome. Non gli sentii mai in bocca parole come:
patria, libertà, democrazia. Gli sentii dire solo una volta:
"Ci vorrebbero trattare come scarafaggi, i nazisti." E
c'era, tutta, in queste parole, la spiegazione della sua
rivolta. Ora ce li siamo scordati, lui e gli altri. O meglio
vengono esaltati nella retorica delle celebrazioni ufficiali
ogni 25 aprile. Il che non serve a niente."
Replicai a quella lettera un po' scocciato, quasi sprezzante.
Dopo tutto, scrissi, ogni fatto storico può essere narrato da
diverse angolazioni ideologiche e appare un fatto diverso. Ma
alcune parole del padre di Silvia mi restarono impresse. E in
modo particolare: "Un ideale vero, di quelli che la gente
nemmeno chiama così, tanto son veri."
Oggi, non so perché, continuo a pensare a quella frase e
credo che essa ben si attaglia a quella fede, che mi pare
sorgere dalle macerie che ho dentro di me, la fede nella
dignità e nell'intangibilità di ogni, dico "ogni",
vita umana.
Ma è chiaro che allora quella lettera di Silvia e poi le
successive in cui essa trovava strampalate le mie idee - che
presentavo come "nuove certezze" - sull'idolatria
della forza fisica e sull'ineluttabilità della violenza,
cominciarono a creare nel mio sentimento d'amore screpolature
da... abbassamento di temperatura.
Intanto, sebbene continuassi a proclamare dentro di me il mio
amore per Silvia quasi fosse un articolo di fede, un
inattaccabile dogma, ero tutto proteso alla ricerca dell'amore
fisico. Di un'avventuraccia, magari, purché raggiungessi il
traguardo della mia prima relazione erotica con una donna. Mi
pareva che, solo in questo modo, non mi sarei più sentito un
essere debole.
Forse vi faccio sorridere, miei pazienti amici (e se siete
arrivati a leggere fin qui, il titolo di amici, ormai, ve lo
meritate di pieno diritto) e viene voglia di sorridere anche a
me, riesumando questi miei pensieri di ragazzo.
Ero, e sono per molti aspetti ancora, un essere debole. Ma,
cercando di non esserlo, riuscii solo a divenire cattivo.
La fermezza, la fortitudo, invece, può andare
d'accordo con la bontà. Com'è stato difficile per me arrivare
a questa certezza, che è, in fondo, un luogo comune.
Non è vero che il mondo, come ho creduto per tanti anni,
appartiene e apparterrà sempre a chi detiene la forza e che
spesso si tratta di un forte malvagio. Certo la storia non manca
di esempi di tal genere e il passaggio del potere, quasi senza
soluzione di continuità, da un detentore a un altro detentore,
spesso più bieco, della forza può fare accettare questa errata
concezione come un'ineluttabile verità.
Ora so che la civiltà umana è stata creata dalla tenerezza
e dalla mansuetudine, dai fondatori di religioni, dai portatori
di parole ai amore e di pace, e non dai conquistatori, dai
carnefici, dai guerrieri. Da Zoroastro e non da Assurbanipal, da
Cristo e non da Giulio Cesare, da Francesco d'Assisi e non da
GengisKhan, da Gandhi e non da Hitler.
E so, quindi, ora, che il mondo appartiene, e apparterrà
sempre più ai buoni, a una sola condizione, però, che essi
abbiano la forza di sapere restare se stessi, agnelli cioè,
anche in mezzo ai lupi. E salire, quand'è il momento, il
Calvario e lasciarsi inchiodare in croce. La funzione del
Cristianesimo nel mondo, perciò, non è finita a dispetto di
diciannove secoli di nauseante storia ecclesiastica.
Son caduto, senza volerlo, in una specie di predicozzo, di
quelli che anche un parroco di campagna appiccica sempre alla
sua omelia domenicale. Scusate. Ma non ho saputo significare
meglio di così il mutare faticoso, quasi lacerante delle mie
idee. Quello che mi premeva dire - e non so se ci sono riuscito
è questo: non era del tutto colpa mia se allora ragionavo in
ben altro modo. Mescolavo insieme, in un unico giudizio di
riprovazione, debolezza e bontà. E, ciò che è più ridicolo,
nel gran caos di idee che regnava in me, mi pareva che la
debolezza fosse collegata con la temperanza sessuale.
Ogni sera, in libera uscita, mi disponevo alla ricerca di
un'avventura amorosa. Ma me ne tornavo sempre con le pive nel
sacco. "C'è chi dice di sì, c'è chi dice di no"
squillava la tromba suonando le note della ritirata, secondo
l'ingenua versificazione che i soldati hanno appioppato a tutti
i segnali di tromba, "lascia la bionda, ché passa la
ronda, ritìrati cappellòn!"
E per me, ogni sera, quelle note erano la sinfonia mesta, la
musica desolata, che accompagnava la mia sconfitta.
Mi giustificavo, però. Mi dicevo che le cose mi andavano
così male, perché ero troppo fedele (fedele anche senza
volerlo, per inclinazione incoercibile) a Silvia. Così rifacevo
i miei propositi per la sera successiva, ripetendomi che era
illogico mantenermi fedele a un sentimento "tutto
spirito". Basta, giuravo, con la vita balorda che ho
condotto fino adesso. Sono un giovane come gli altri. Devo
vivere, pensare, godere come gli altri.
Questa mia interna inquietudine non giovava alla mia salute,
che era stata ottima finché ero vissuto a Lecce e che aveva
avuto poi un brusco cambiamento - una tonsillite dietro l'altra,
bronchite quasi cronicizzata, continue emicranee - non solo per
il clima di Milano ma per il mio precipitare in uno stato, quasi
continuo, di infelicità. Da militare la mia infelicità si era
dilatata nuovamente. Così, mentre c'è gente che dal servizio
di leva trae benefici alla salute, io invece ne ricavai una
malattia piuttosto seria, pleurite.
Guarito dopo circa due mesi, ottenni una licenza di
convalescenza. Silvia mi aveva scritto affettuosamente mentr'ero
ammalato e fece in modo - o capitò così, non saprei - di
rientrare a casa a Milano, dai suoi genitori, in occasione della
mia licenza.
In quei giorni, brevissimi e felicissimi, non mi ricordavo
nemmeno più dei miei crucci. Non c'era che Silvia a occupare il
mio cuore. Quasi tutti i pomeriggi ci incontravamo e qualche
volta si riusciva a uscire dopo cena.
Colsi così, una sera, l'occasione per baciarla. Attrattala
in un angolo un po' appartato, dapprima le accarezzai le mani.
Ma non sapevo andare oltre. Dovetti farmi forza per vincere la
mia timidezza.
Fu in questa svolta dei nostri rapporti che capii di non
essere amato da Silvia. C'era ormai Davide nel suo cuore. Ignaro
di ciò, avvertivo tuttavia la sua freddezza. "È amore il
nostro? È amicizia. E allora salutiamoci da buoni amici e
facciamo punto." Ma non ci lasciammo.
Dovrei parlare, ora, dei rapporti fra Silvia e Davide. Ma è
il brano più difficile per me. E non perché mi siano ignote le
varie circostanze o perché debba fare sforzi per immaginare i
loro pensieri, le loro ansie.
A lungo, nel corso della nostra breve vita in comune, Silvia
mi parlò di questo periodo della sua esistenza. Essa stessa,
come in una specie di confessione, cercò di spiegarmi il suo
comportamento e quello di Davide, quasi fosse possibile, dopo
avere sviscerato ogni angolo buio, metterci una pietra tombale
sopra e iniziare una nuova vita.
Non ci accorgevamo che io con la mia morbosa curiosità
provocata da gelosia postuma, lei con la sua voglia di
continuare a parlare di quel periodo, per sbarazzarne, diceva,
la sua memoria, ma obbedendo, invece. all'inconscio bisogno di
restarvi ancorata con il rimpianto, continuavamo a scavare un
abisso fra noi che divenne incolmabile.
Forse a un certo punto, cominciammo a odiarci senza saperlo.
La radice del fallimento del nostro matrimonio sta qui.
Se volessi esporre quel che avvenne nella vita di Silvia, non
mi mancherebbe dunque il materiale per farlo. Ma quanto mi pesa.
Per soffrirne meno, dovrei essere capace, affrontando la
narrazione di questo brano importante della vita di Silvia e per
riflesso importante anche per me, di spersonalizzarmi. Dovrei
saper essere un narratore quanto più obiettivo si possa
immaginare. E capisco che è estremamente difficile. Farò del
mio meglio.
VIII
(torna all'indice)
Quando, dopo la fine della mia licenza, ritornai al mio
reggimento, non ero riuscito, non dico a capire, ma neanche a
intravedere, a sospettare, la silenziosa lotta che Silvia
conduceva contro se stessa.
Invano, forse, essa si diceva pazza. Davide aveva preso
posto, con prepotenza, fin dal primo momento, nelle sue fibre
più segrete. Allietava e crucciava i suoi sogni.
Forse al primo incontro essa accondiscese per leggerezza,
senza rifletterci, ma poi, quando entrambi si trovarono a Roma,
le parve una cosa quasi naturale continuare a incontrare Davide,
che le parlava di amicizia sincera, priva di sottintesi, che
voleva "soltanto" parlare con lei della sua
infelicità coniugale. E lei lo ascoltava, lo confortava, e il
loro legame, ancora da nessuno di loro chiamato con il vero
nome, diventava sempre più saldo.
Ma a un certo punto Davide non volle più mentire con se
stesso e con lei. Durante una sua breve assenza da Roma, le
scrisse parole chiare d'amore e le fissò un appuntamento.
Era il periodo in cui Silvia era in ansia per la mia salute.
Ma la lettera di Davide distrusse - ne sono certo - ogni altra
preoccupazione, ogni altro pensiero.
Si propose (così ebbe a narrarmi) di non andare
all'appuntamento fissatole da Davide. Ma passò una notte
d'inferno. Da una parte un'immagine scialba e lontana, la mia,
cui essa cerca invano di aggrapparsi, e dall'altra Davide e un
desiderio violento di lui, come in vita sua mai aveva provato.
Nonostante tutti i propositi contrari, Silvia va
all'appuntamento. La scena è viva in me, come se l'avessi vista
proiettata su uno schermo. E certo è stata la mia fantasia a
fissarla così. Sono imbarazzati. Davide non sa da che parte
incominciare il suo difficile discorso. E Silvia è inquieta,
intanto. Vuole andarsene senza neanche lasciarlo parlare. Non
riesce a capire come si sia decisa a incontrarsi con lui. Le
pare di avere agito come un automa.
Davide accenna alle ultime vicende con sua moglie. Carla,
dopo un altro violento litigio, l'ha piantato portandosi via
tutto. Si interrompe e le parole, che da un po' viene cercando,
scaturiscono spontanee: "In mezzo a tante amarezze, non
c'è stato che il pensiero di te a sostenermi."
Silvia abbassa gli occhi. Tace per un po'. "Ma lo sai
che io voglio bene a Rodolfo."
"Anch'io voglio bene a Rodolfo. Ma l'amore non è
solo voler bene."
"Restiamo amici, Davide. La questione di una scelta non
posso neanche pormela. Tu sei sposato. Forse vi riconcilierete.
Ragiona, ti prego. E lascia che anch'io mi faccia guidare dalla
ragione."
Silvia si rifiutava, ancora, di ammettere il suo amore per
Davide e di riconoscere di avermi mentito e di continuare a
mentirmi. Ma ogni sera la figura di Davide è piantata lì
davanti ai suoi occhi, nel buio della stanza. Rivede il suo
sguardo pieno di desiderio, le sue labbra, risente la sua voce.
Finché era sveglia - mi confessò una volta - le pareva di
saper combattere e allontanare quell'immagine, invocando quella
mia. Ma nel dormiveglia, mentre pensieri indefiniti svaporano
dal suo cervello, era come se si abbandonasse fra le braccia di
Davide e così, rannicchiata in lui, vibrante e quieta insieme,
riusciva a prender sonno.
A volte la mattina si sentiva interiormente svuotata. Senza
desideri, senza rimorsi, senza amore. Cercava, invano, di
studiarsi, di esaminare serenamente la situazione e la verità
dei suoi sentimenti, di capirsi insomma.
Quell'incontro, comunque, finì con un nulla di fatto. Ma
Davide insisteva con altre lettere.
Fu tutta un'altalena di propositi, di pentimenti, di
smarrimenti, la vita di Silvia in questo periodo. Né io posso,
per quanti sforzi possa fare per essere narratore obiettivo,
riuscire a metter su un'esatta ricostruzione.
Ecco, piuttosto, cercherò di far rivivere un momento della
vita di Silvia di allora, un momento di cui lei ebbe a parlarmi.
Uno di quei momenti - ci capita a tutti di viverne - in cui
facciamo come un bilancio di ciò che ci è accaduto, tentiamo
una valutazione delle nostre azioni, abbozziamo il punto della
situazione e cerchiamo di proiettarci, con propositi, verso
l'avvenire.
Malinconia d'un quieto pomeriggio domenicale, mentre il tempo
si dilata, si stende sonnacchioso...Quel po' di verde, un angolo
di villa Borghese, che s'intravede dalla sua finestra sembra
diluirsi nei bagliori del tramonto. Tinte leggere, incerte.
Anche i suoni smorzati. Il chiasso che fanno giocando alcuni
bambini giunge come un'eco velata.
Silvia ripensa all'ultima lettera di Davide. Le chiede di
andare a vivere con lui. Sente che deve decidere, in un senso o
nell'altro non importa, ma decidere definitivamente.
Dopo una sua breve assenza da Roma (quasi mensilmente andava
a trovare i genitori) aveva acconsentito a incontrarsi ancora
con lui, ma subito dopo si era eclissata. Gli aveva scritto
pregandolo di non cercarla più.
Davide insiste, riesce diverse volte a parlarle. Dopo un po'
di tempo Silvia si irrigidisce di nuovo. Lo saluta "per
sempre" dicendogli che ha deciso di farsi suora. Poi
s'accorge che la sua decisione è inconsistente, che non ha
alcuna vocazione per la vita del chiostro, che non riesce a
soffocare il sentimento, lo spasimo meglio, che si è
impadronito ormai della sua esistenza.
Quando incontra ancora Davide, acconsente a seguirlo in
albergo. Tenta qui un'ultima e illogica resistenza. Poi si
abbandona.
Si allontana da lui, dopo, senza guardarlo, salutandolo
appena. Non vuole pensare a quello che è avvenuto. Il cervello
le ronza in maniera strana. L'unica immagine su cui il pensiero
riesce a fermarsi è un ricordo di bambina: il suo stupore
dinanzi a una grande ruota da mulino azionata da un corso
d'acqua. L'acqua sbatte violenta sulle pale e la ruota gira,
gira...
A casa Silvia cerca di calmarsi, di assumere un aspetto
normale, ma sua nonna vede che è sconvolta, gliene chiede la
ragione ma ne ottiene una risposta elusiva. La sera, dopo cena,
mentre son sole, torna a insistere, le è venuto un dubbio. Le
telefonate e le lettere di Davide erano state abbastanza
eloquenti. Silvia si sforza di non tradirsi, ma non sa negare e
arrossisce finendo coll'ammettere che il cugino di Rodolfo le
aveva dato fastidio ma lei, però, se ne era sbarazzata.
Per una reazione illogica, ma spiegabilissima, Silvia dopo
essersi data a Davide decide di non incontrarlo più. Fa assurdi
acrobatici ragionamenti: che era stato soltanto il corpo a
cedere ma non lo spirito, rimasto legato, le sembra, al suo
primo amore. Rimacina il progetto di farsi suora. Ma se si mette
a pregare, prega solo con le labbra. È libertà, si dice,
quanto è avvenuto, libertà dalla tentazione. Aveva trepidato,
difatti, al pensiero di essere stretta dalle braccia di Davide,
ma ora che questo è avvenuto in modo tanto banale e meschino,
prova solo disgusto ripensandoci. Immagina, anzi, che tale
episodio possa divenire una barriera che le impedirà di seguire
il suo istinto, il principio di una vita emancipata dal richiamo
che fino a quel momento l'ha turbata.
L'arrivo della lettera di Davide, che le chiede, in maniera
perentoria, di andare a vivere con lui ("che senso hanno,
ora, i tuoi tentennamenti?") manda a gambe in aria i suoi
propositi e i suoi arzigogoli.
E nel quieto pomeriggio domenicale la decisione è presa.
La notizia della separazione di Davide da sua moglie aveva
già turbato abbastanza la famiglia di mio zio Ambrogio, nella
quale regnavano princìpi piuttosto tradizionali, ma quella che
aveva portato via la "morosa" a me fu motivo di
autentico scandalo.
Io l'appresi poco prima della fine del mio servizio militare.
Mi ci dannai, perché pensavo meno al torto che mi faceva
Silvia, quanto a quello che subivo da Davide. Come ha potuto
avere il coraggio di tradirmi così? Come può vivere senza
rimorso? Come può pretendere di costruire la sua felicità
sull'infelicità altrui?
Crollava dentro di me il "mito di Davide". Era la
persona, l'unica, a cui da ragazzo avevo voluto rassomigliare,
il mio modello, colui che, forse, più di ogni altro aveva
modificato la chimica, se così mi consentite di dire (e come
pare debba correttamente dirsi secondo gli scienziati) delle mie
cellule cerebrali. Aveva in misura notevole plasmato il mio modo
d'essere. E se non ero riuscito a far miei i suoi convincimenti
politici era perché essi erano stati screditati in me, fin da
ragazzo. Eppure il fatto stesso che egli professasse idee
marxiste, me le rendeva per lo meno rispettabili.
Il suo tradimento, il suo "sgarbo" a me meridionale
fatto da lui settentrionale, a me uomo di destra da lui
militante nel comunismo, facendomi odiare tutto ciò che si
riferiva a lui, aggravava il mio complesso sudvittimistico, mi
faceva deridere la sua fede democratica, destava il mio scherno
per la stessa parola democrazia, per il mito della società
socialista, per la beffa autentica che il marxismo, secondo me,
costituisce per le classi meno abbienti.
Ecco, mi dicevo il frutto di un comportamento
"democratico", disordinato cioè, negatore delle norme
della civile convivenza, nell'ambito della stessa famiglia.
Io non so se siano stati felici Silvia e Davide in quel
periodo di poco più di un anno in cui vissero assieme. Silvia
tentò più volte di farmi credere che fu un vivere inquieto,
con trasferimenti continui da una pensione all'altra, da un
appartamento mobiliato all'altro - quasi la precarietà e
irregolarità della loro convivenza si riflettesse nella
mancanza di un ubi consistam - e con continui reciproci
rimproveri che inquinavano quel rapporto nato da tanto
slancio...di anime, dicevano loro, erotico dico io.
Forse, nel dipingermi gli aspetti negativi della loro
convivenza, esagerava un po' per farsi perdonare più facilmente
da me. Mi ripetevo, quando Silvia mi parlava di quel periodo, la
stessa frase che mi ero detto subito: non si costruiscono grandi
felicità sull'infelicità altrui. Davide, del resto, scontò
tutto con la sua morte atroce. Uscito dalla carreggiata, forse
per un colpo di sonno, mentre percorreva di notte un'autostrada,
era rimasto privo di soccorso per ore e ore. Morì dissanguato
per ferite non gravi e forse rendendosi pienamente conto della
fine.
Ho detto "scontò", adeguandomi anch'io a quella
concezione che vede in una disgrazia, che può capitare nella
vita, una contropartita di eventuali colpe. Ma forse una
concezione più inumana e ingiusta di questa non può esistere,
perché postula un "reggitore del mondo" gretto e
vendicativo.
Davide morì così perché così capitò. Come mille altre
cose càpitano indotte dal capitare di un milione di altre
premesse.
Intanto io, ultimato il servizio militare, ero andato a
vivere con mia madre a Cassano d'Adda. Mio zio Ambrogio era
riuscito, dopo anni e anni di risparmi, a prendere un piccolo
fondo in affitto proprio nei pressi di Cassano, da salariato
aveva fatto il salto - un salto notevole - a coltivatore
diretto. Perciò egli aveva sollecitato la sorella Cesira a
stabilirsi nella sua cascina, anziché continuare a vivere a
Milano facendo la donna di servizio. Qualche lavoretto in
campagna le sarebbe bastato per vivere. Per mia madre era il
ritorno alla sua giovinezza.
Ma col mio rientro a casa, il problema di una mia occupazione
si pose in maniera più seria perché del mio diploma di
ragioniere c'era poco da servirsi in mezzo alla campagna.
Così ogni mattina, insieme a tanti altri pendolari, prendevo
il treno per Milano e, sulla guida degli annunci economici,
tentavo tutte le possibilità che c'erano. Prima o poi, come il
protagonista di un indimenticabile film di Ermanno Olmi, anch'io
avrei raggiunto il traguardo de... "Il posto".
Quieto, la sera, mi mettevo a guardare la campagna dalla mia
finestra e il cielo che era, sebbene fosse autunno, ancora
limpido.
L'aria spesso profumava di passato. Riportava, come in un
soffio, come in un alito che subito però dileguava,
inquietudini pensieri sogni perduti. Era come un affacciarsi,
per un attimo, dentro un me stesso scomparso. E Silvia era come
un detrito di questo me stesso, che non riuscivo, non potevo
più essere. Prima ancora che fossi informato del suo abbandono,
s'era insinuata in me una freddezza verso di lei mai ancora
avvertita, nemmeno quando il mio amore m'era parso inquinato da
esaltazioni puerili e romantiche. Certo il
"tradimento" di Silvia e Davide mi schiantò, mi
sembrò una mazzata in testa da cui non sarei più riuscito a
riprendermi. Ma poi venni persuadendomi che, da un po' di tempo,
in fondo, Silvia io non l'amavo più.
Un'esperienza della mia vita, concludevo, che andava
evidentemente vissuta, che magari è servita a qualche cosa,
forse alla conquista della mia vera personalità, ma che,
vissuta, superata, non occorreva più ricordare.
Esperienze, mi ripetevo. E tutto il passato pareva quasi
perdere significato e polverizzarsi. Diveniva scialbo, incolore,
come vissuto da altri, alla luce di quella parola.
Da questa malinconica calma vennero a scuotermi due fatti
importanti: l'esplodere di un nuovo sentimento d'amore e un
incontro con una persona che aveva esercitato già un influsso
importante nella mia formazione giovanile: " Marco".
Penso che sia bene cominciare da questo secondo fatto. Non
vedevo "Marco" da prima di partire per il servizio
militare. "Raccontami, raccontami!" mi faceva. Né si
accontentava della mia reiterata assicurazione che non avevo
nulla da narrargli. E intanto, in pochi minuti, egli mi veniva
ruzzolando addosso mille cose, fatti suoi personali,
considerazioni sul momento politico, previsioni sul futuro
assetto degli stati europei : una federazione di stati
fascigollisti che avrebbe riportato l'America alla sua vera
funzione anticomunista assegnatale dalla storia.
Poi mi parlò di suoi recenti, "misteriosi", viaggi
all'estero, mi accennò anche a un viaggio in aereo in Grecia
per incontri che non mi precisò ma che mi lasciò capire assai
importanti per il fermentare in quel paese di nuovi eventi
(pochi mesi dopo, quando avvenne il colpo di Stato del 21
aprile, ripensai a quell'accenno) e infine tornò a chiedermi
che gli parlassi di me. "Ma, insomma, cosa fai di bello
tu?"
"Come di bello?"
"Te ne stai con le mani sulla pancia in momenti come
questi, in cui per noi camerati c'è tanto da fare?"
"Cerco un'occupazione, te l'ho detto. E finora
nulla."
"E per far che? Il ragioniere in una ditta? L'impiegato
di banca? Ce l'ho io l'occupazione per te. Nei quadri del
partito. Tu scrivi bene. Ne avessimo di giovani come te!"
Così entrai nel pieno della mia carriera politica con un
regolare stipendio. Mi fu affidato dapprima il lavoro di
preparazione di ciclostilati, manifestini, materiale
propagandistico. Poi fui destinato al settore
dell'organizzazione giovanile "La giovane Italia",
come si chiamava allora, poi divenuta "Fronte della
gioventù" e così mi toccava muovermi sovente da un posto
all'altro. Cogli introiti del mio nuovo lavoro, intanto, avevo
potuto comprarmi una moto. Venne poi la volta
dell'organizzazione dei campeggi. Su questa faccenda dei
campeggi del nostro colore - quelli che parte della stampa ha
definito con ironia "campeggi dux" - si è fatto tanto
parlare in questi ultimi tempi. Ma così come li vidi sorgere
io, non mi parve che ci fosse motivo di "scandalo
democratico". Nego che avessero carattere militare. Almeno
dapprima.
D'altra parte io non mi occupavo di questioni di
addestramento dei giovani, a me toccava la parte amministrativa,
logistica.
Naturalmente i campeggi avevano luogo nella stagione estiva,
che divenne per me il periodo del massimo lavoro. Mi ridussi
stanco dopo la prima stagione di campeggi.
Mi rivedo, una mattina d'autunno, mentre andavo in moto in un
paesino della Valle d'Aosta per questioni riguardanti un
campeggio.
Ero partito presto. Il sole rompeva appena le brume del
mattino. In mezzo ai campi fumavano mucchi di concime. Le zolle
smosse di recente, in alcuni punti, stavano a indicare che era
già cominciata l'aratura e la semina. Percorrevo una strada
fiancheggiata da un canale, che lambiva filari di platani e di
pioppi. Era tutta tappezzata di foglie secche. Scarsissimo il
traffico. A un certo punto mi fermai e mi sedetti su un
paracarro. Mi piaceva quel posto.
Dove correvo, mi chiesi, e perché? Tutto girava attorno a me
e dentro di me con una precipitazione da far pensare a un film
proiettato vertiginosamente da un operatore impazzito. E mi
pareva di non capire niente né di me né del mondo in cui
stavo.
Da mesi, da quando ero entrato nell'organizzazione attiva del
partito, non avevo avuto un momento di pausa. Non l'avevo
cercato nemmeno, forse. L'"attivismo" è una delle
componenti della fede politica che avevo accettato. Ma erano i
traguardi che non capivo. Che non intravedevo, meglio. Era
soprattutto l'argomento di eventuali esercitazioni con armi e
con esplosivi, di cui si cominciava a parlare per i futuri
campeggi, che mi turbava. Ma allora si preparava una guerra
civile? Secondo la teoria di "Marco" no. Erano gli
altri, i comunisti e gli ultramarxisti, che erano sempre pronti
a scatenare la rivoluzione. Noi, stante la fiacchezza dello
Stato, dovevamo prepararci a dare man forte alla polizia e
all'esercito. E, parato il colpo rivoluzionario, si sarebbe
potuto concretare un "assetto saldo e ben piantato".
Si è, a un certo punto, presi dal giro delle cose, dal
turbine degli avvenimenti e dei fatti. E il turbine spinge
avanti verso l'avvenire.
Mi sentivo "spinto". Anzi fu, in quell'attimo di
pausa, che m'accorsi di essere spinto in avanti dalle cose,
senza che io avessi avuto il tempo di indugiare un istante a
riflettere, a ponderare.
Nell'appartamentino che avevo preso in affitto a Milano c'era
ormai un piccolo arsenale: bombe a mano, due mitragliatori e
alcuni moschetti. Roba vecchia, per la verità, ma funzionante.
Facevo bene a espormi così? E a che scopo? Certo mi sembrava
di esser saldo, allora, nei miei convincimenti politici. Avevo
un chiaro disprezzo per la barzellettistica nostra democrazia
che, presto o tardi, finirà coll'alzare bandiera bianca verso
il comunismo. L'anticomunismo della diccì, mi dicevo, è tutto
finto, e non soltanto perché non tutti i democristiani sono
anticomunisti e, se lo sono, il motivo è soltanto religioso, ma
soprattutto perché si tratta di un anticomunismo tattico, che
serve solo per non dare grattacapi ai nostri "tutori"
americani. Se la diccì volesse essere veramente anticomunista,
solo in noi avrebbe i veri alleati. Forse fra comunismo e
fascismo tertium non datur.
Non sapevo individuare le ragioni attraverso cui la mia
diffidenza verso il comunismo si fosse tramutata in odio. Ma
ripensandoci ora, a distanza di tempo, m'accorgo che in tale
evoluzione non era stata ultima causa il crollo del mito di
Davide, originato da quello che io chiamavo il suo tradimento.
E m'accorsi, quella mattina, che quest'odio, trapassato da
una persona a un'ideologia, era l'unico moto del mio animo che
mi faceva sentire la pienezza della vita.
Io che tanto spesso mi ero sentito fuori della mia epoca -
romantico, sentimentaloide - vi rientravo, o così mi sembrava,
proprio attraverso questo sentimento. In me moriva il fanciullo
e nasceva l'uomo ed era l'odio a operare la metamorfosi.
IX
(torna all'indice)
Sono andato troppo avanti. La necessità di stare in
argomento mi ci ha costretto. Ma devo tornare indietro, perché
era successa, nell'arco di tempo in cui si stendono gli eventi
di cui ho parlato, una cosa troppo importante nella mia vita. Ne
ho fatto cenno, era esploso un nuovo amore. Avevo conosciuto
Anna. Essa aveva allora diciott'anni e abitava a Cassano d'Adda.
Io ero da poco rientrato dal servizio di leva.
Non lo so se capii subito che sarebbe entrata nella mia vita
in maniera decisiva. Ma forse sì.
Colpito, fin dal primo incontro, sentii che me ne sarei
innamorato in maniera... catastrofica. E non volevo che
accadesse. La recente bruciante esperienza con Silvia mi
induceva a girare alla larga da altre donne e a evitare altri
legami.
Ne avevo sofferto, dapprima, in maniera che non so se sono
riuscito a dire. Mi pare proprio di no, ma confido che si possa
immaginare. Poi mi accorsi, a un certo punto, quasi
improvvisamente, di non soffrirne più. Non sentivo neanche più
quella sorta di umiliazione - mista di gelosia amore rabbia
impotente - propria di chi viene piantato dalla persona amata.
Ma quando la sofferenza vera e propria scomparve, mi rimase
dentro un senso di vuoto che non sapevo come colmare, una
sensazione simile a quella di vedersi crollare tutto attorno,
restando indifferenti.
Ricorderò sempre un episodio di guerra che continuava a
raccontare mio padre. È proprio di ognuno continuare a
rinarrare una diecina - o poco più - di episodi della propria
vita, ripetere una ventina di frasi fatte, per lo più luoghi
comuni, arroccarsi su alcuni "princìpi" continuamente
sciorinati.
Un giorno, raccontava mio padre, il reparto a cui egli
apparteneva era stato impiegato per prestare soccorsi e
rimuovere macerie dopo i bombardamenti su Milano dell'agosto
1943. Mentre spalava, egli s'era fermato - non si ricordava
perché - a guardare in alto un appartamento sventrato. C'erano
ancora i quadri appesi e in un angolo, quasi sospesa sul vuoto,
una macchina per cucire. "Ma guardi" egli aveva detto
a un uomo sulla cinquantina che, zitto zitto, se ne stava lì
vicino con gli occhi anche lui in alto "guardi che strano
quella macchina rimasta lassù in bilico." "È casa
mia" aveva risposto l'uomo, "mia moglie e i miei
bambini sono là sotto." E gli aveva indicato un mucchio di
macerie cadute davanti all'entrata di un rifugio, dove altri
soldati spalavano.
I commenti di mio padre erano, a questo punto, in ogni sua
rinarrazione dell'episodio, sempre diversi. Ora diceva che si
era sentito correre un brivido per la schiena e, senza dire una
parola, aveva voltato le spalle all'uomo riprendendo a spalare.
Ora precisava che, di fronte alla fredda calma di quell'uomo, il
solo sentimento possibile non era la pietà ma il terrore. Ora
aggiungeva che forse, quando il dolore è troppo grande, non
può trovare manifestazione, e perciò né l'impassibilità
apparente di una persona tanto duramente colpita né il suo
tacere e l'incapacità di trovare anche mezza parola
consolatoria dovevano destare sorpresa.
Vedersi crollare tutto attorno e restare indifferenti: ci ho
ripensato spesso. Mi son sentito, non poche volte, in tali
condizioni interiori.
Il paragone può sembrare - è, anzi, certamente - esagerato,
ma io, quando il dolore vivo dell'abbandono di Silvia cominciò
ad attutirsi e subentrò quello stato di indifferenza cui ho
accennato, pensai più volte, senza volerlo, a quell'episodio
narrato da mio padre e mi sentii, per la prima volta, nelle
condizioni di quell'uomo.
Ricordo che una sera mi misi a guardare il cielo che era
coperto di nubi. Lasciavano trasparire appena il chiarore della
luna. Venti contrastanti le spingevano. Si spezzavano, si
riunivano, si perdevano all'orizzonte. Mi sembravano i frammenti
di un mondo crollato in balìa di forze ignote. Così tutta la
mia vita passata, i sogni fatti, le speranze della prima
giovinezza, frantumati da una bufera, venivano trascinati verso
l'oblio.
Anna era destinata - come poi dirò: ma a volte non ci
resisto al bisogno di anticipare qualcosa, e voi scusatemi - era
destinata a ricomporre i frantumi di un naufragio ancora più
grande che non quello derivante dalla mia prima delusione
amorosa. Un naufragio vero e non piuttosto immaginario come
quello che, con spirito romantico, m'ero voluto
"costruire" da quella delusione.
Non volevo, dapprima, dare briglia sciolta alla simpatia che
avevo sentito nascere in me per Anna. Da ragazzi, si sa, si è
portati a generalizzare (e del resto, questa inclinazione
tipicamente infantile o da uomini primitivi di dedurre da una
sola esperienza particolare una regola valevole per tutti i
casi, è una delle più gravi debolezze del vivere umano). Dopo
quello che aveva fatto Silvia, ero portato a definire tutte le
donne leggere, perverse addirittura. Ma mi bastava vedere
qualcuno avvicinarsi ad Anna, farla sorridere o darle un
passaggio in macchina, farla salire in moto o farle anche un
semplice complimento, che tutta la mia misoginia andava in fumo.
Quando questi moti di gelosia divennero frequenti e chiari,
capii che ero davvero innamorato di Anna. Cessai di contrastare
questo sentimento. Che non fu, però, corrisposto subito. Passò
un po' di tempo fra i primi approcci e l'inizio del nostro
"parlare insieme", come si dice in Lombardia.
Ma come ogni minuzia, ogni attimo dello sbocciare di
quell'amore è scritto in maniera indelebile nella mia memoria.
E non so se scriverne o tacerne.
M'accorgo, riguardando a quello che son venuto scrivendo, che
ho dato più spazio di quello che forse avrei voluto - e dovuto
- alle osservazioni politiche, all'evolversi, all'ingarbugliarsi
meglio, dei miei convincimenti, alle mie professioni di fede e
all'insinuarsi in esse di filoni di dubbi. E non volevo scrivere
altro, invece, che una spiegazione del perché io, uomo di parte
missina, avevo votato "no" al referendum. Ma da un
canto mi è accaduto di trovar modo di chiarire a me stesso che
cosa, nel campo del pensiero politico, è avvenuto in questi
ultimi tempi in me. E dall'altro mi è parso che, nel settore
delle mie vicende personali, questo arruffato racconto, a cui da
una quindicina di giorni di ozio forzato mi sto dedicando,
veniva ad avere per me un valore di liberazione.
Ma se scopo di questo libro-sfogo dev'esser soprattutto
quello di distruggere, nello stesso tempo che li fisso, i
ricordi più sgradevoli della mia vita e anche quelli lieti che
sono avvelenati dai loro legami con le cose tristi, allora qui,
del mio amore per Anna, che dura ancora, che è l'unica base,
ormai, della mia vita, una base sicura - lontana dalla politica,
dalle crisi, dalle incertezze, dai ripensamenti non dovrei
parlare.
Non è mancato chi, nelle polemiche tutt'altro che serene e
intellettualmente oneste contro il divorzio, ha osato sostenere
che nei paladini di questo c'è sotto sotto, confessata o no,
una visione amor-liberistica dei rapporti fra i sessi o,
addirittura, una decisa inclinazione alla poligamia e alla
poliandria. Tale falsa semplificazione è stata respinta da
oltre diciassette milioni di "no".
Ma, di me, io chiedo a coloro che fossero venuti fin qui
leggendomi, se come mi sembra, sono riuscito a delinearmi pur
nelle mie contraddizioni, e chiedo anche a te, Antonio - ché
tu, non deludermi, devi leggermi - di me, dicevo, si può
onestamente sostenere che ho avuto inclinazioni poligame? Avrei
voluto una donna per farne la regina della mia vita. Una donna
sola. L'amore è come la divinità, a mio parere. O non esiste o
è uno. E quell'Uno - appunto come la divinità - è il Tutto.
Nell'amore uno c'è infatti tutto, persino tutte le anomalie
sessuali. Un pizzico di esse, intendo: di feticismo, di
esibizionismo, di sadismo, di masochismo (e chi più ne ha più
ne metta...). Le anomalie sessuali, infatti, altro non sono che
esagerate esplosioni di un solo aspetto del rapporto sessuale a
scapito della sua unitarietà. Nell'unità, invece, può stare
tutto, ma sapientemente dosato in un assoluto equilibrio. In una
donna il tutto.
E questa donna unica e sola fu destino che non dovesse essere
mia moglie, ma Anna. Mi ha dato due figli. I nostri poveri figli
"adulterini" come dite voi giuristi, amico mio, nati
da padre "ignoto" alla legge. Ma spero che, prima di
iscriverli a scuola (l'ultimo è appena nato) io avrò ottenuto
il divorzio e potranno avere il cognome Izzo e non subire così
il trauma di un cambiamento di cognome... ma non è di questo
che voglio parlare: appena si affacciano i problemi pratici
della mia situazione familiare, sbando e perdo la... sinderesi
narrativa. Scusate, volevo dire - e torno a bomba - che proprio
per dimostrarvi che in me non c'è mai stata alcuna
inclinazione, non dico alla poligamia, ma neanche allo
sfarfallare, frequente in età giovanile, da una donna
all'altra, vorrei parlare del mio amore per Anna, l'unica
"cosa in sé" della mia vita, qualcosa cioè che non
ha legami - o così mi pare - con altri fatti o pensieri, con le
mie idee politiche, con la mia condizione di meridionale
settentrionalizzato, con la mia vocazione giornalistica in cui
fa capolino il gusto del narrare, con la mia situazione di
infortunato del matrimonio e così via. Forse non mi spiego
bene: come ogni fatto della vita, certamente, anche il mio
incontro e il mio amore per Anna nasceva, prodotto dal caso, per
l'intrecciarsi di mille altri casi, ma tale amore fu autonomo,
colmo di se stesso, autosufficiente, svincolato da ogni altro
fatto, pieno e completo. Sì, la "cosa in sé",
realtà noumenica (e voltiamo subito, dopo questa parola, le
spalle alla filosofia).
Non riuscirò mai a dir tutto di esso. Ma qualche momento
voglio fissarlo. Sarà un rispolverarlo e renderne più viva la
luce.
Ricordo il primo bacio... anzi, no, non il primo bacio
ricordo, ma il mio sforzo di indovinare quali potessero essere
state le interne reazioni di Anna, di afferrare i suoi pensieri.
La vidi allontanarsi veloce in bicicletta dal viottolo di
campagna dove c'eravamo trovati. "Ecco" mi dicevo
"adesso se lo porta lì, incollato sulle labbra il mio
bacio. Forse brucia ancora. Lo sente come se la gente glielo
potesse leggere stampato sopra? Ripensa ai brevi attimi di
attesa? Brevi ma lunghissimi. Risente il pulsare del cuore? Per
quanto tempo si ripercuoterà in lei questa emozione? Oppure vi
ripensa delusa? Questo il bacio? Tutto qui? Questo ciò di cui
romanzieri e poeti l'hanno fatta sognare negli anni della sua
adolescenza, di cui le dive dello schermo l'hanno fatta
trepidare? E tutto, allora, le apparirà come menzogna, si dirà
che la sua fantasia, galoppando dietro alle sue prime
impressioni, ai suoi primi sogni, le ha mentito... No, essa
sentirà che da questo piccolo avvenimento qualcosa di nuovo e
di decisivo è nato per entrambi."
Ci incontravamo ogni sera. Era il periodo in cui mi recavo
giornalmente a Milano per trovare lavoro, dapprima, e
successivamente per lavorare nella sede della federazione
provinciale del partito.
Ci si aspettava nelle vicinanze del fiume. Di solito ero io
che arrivavo per primo. Ma a volte era Anna ad attendermi da
qualche minuto, ancora a cavalcioni della bicicletta, un piede
poggiato a terra, l'altro sul pedale. Come mi pare ai rivederla.
Il tramonto aveva ogni sera colori diversi. Certe sere il
colore arancione si stingeva lentamente senza dar luogo a forti
variazioni. Certe sere invece una lunga striscia di nubi
intensamente colorate in rosa inghirlandava il cielo che
sovrastava sull'immensa pianura. A volte infine un turchino
intenso degradava da oriente a occidente attraverso tutte le
tonalità del violetto, del giallo, del rosa fino a un rosso
smagliante. Era l'amore nostro una gamma di colori, una gamma di
profumi, ogni sera più intensi, ogni sera diversi.
Sentivo che amavo "veramente" e per la prima volta.
I ricordi del rapporto con Silvia impallidivano di fronte a una
realtà così nuova, così stupenda. Mi convinsi che amare è
solo quando si sente questo sentimento ingigantire ogni giorno,
fino a temere di non poterlo più contenere, fino a sentirsene
travolti.
Dal molle tappeto dei prati, dai verdi nascondigli che la
campagna ci offriva benigna, esalava un intenso fresco profumo
di giovinezza da inebriare e smemorare. Che significato aveva
per noi tutto ciò che stava all'esterno dello stretto cerchio
in cui si circoscriveva il nostro rapporto? Apparteneva alla
realtà ciò che succedeva intorno nel mondo? La mia stessa
nuova occupazione non aveva per me alcuna incidenza dentro di
me. Lavoravo lì come avrei potuto lavorare altrove. O non
lavorare. Non intendo dire, certo, che io lavoravo per un
partito di cui non condividevo idee e princìpi. No, c'ero
dentro - e fino a poco tempo fa ci son rimasto dentro - con
piena convinzione, con interiore aderenza completa. No, non
dicevo questo. È che, in quel periodo, vivevo quella stagione
meravigliosa della vita umana in cui, di fronte allo sbocciare
dell'amore, ogni cosa sembra perdere significato.
Mi ero incamminato, nella vita, su una strada giusta? Ero in
perfetta consonanza nello svolgimento della mia attività con il
mio io interiore? O ero su una strada sbagliata? La mia
particolare conformazione psichica, incline alla mitezza,
all'accettazione serena di sé, degli altri, del mondo, il mio
sotterraneo e sorpassato - come, dannandomi, venivo costatando-
romanticismo, non facevano di me un camerata anomalo? Erano
problemi che non sentivo. Che non potevo sentire. Tutto privo di
rilevanza di fronte al pensiero di Anna. E tutto niente, per
entrambi, mentre vivevamo il nostro amore.
Le stesse parole ci sembrarono, a un certo punto, che
potessero sciuparlo. Appena ci incontravamo, pedalavamo
velocemente, muti, o procedevamo sulla mia moto, con lei
avvinghiata a me, alla ricerca di un angolino solitario. Solo
quando eravamo seduti sull'erba, appartati, ci sembrava di
incontrarci veramente. Ci sorridevamo e ci abbracciavamo. Questa
stagione "immensa" durò un mese o poco più.
Una sera l'attesi inutilmente. Rifeci triste la strada verso
il paese ripetendo cento, mille volte, fra me e me:
"Perché non sei venuta? Se tu avessi sentito come fra le
alte cime dei filari dei pioppi stormiva il vento, annunciando
l'autunno! Pareva dicesse di amarci, di non sciupare il tempo,
ché l'estate è fuggita."
Vissi giorni tormentosi, in cui mi sembrava di non essere in
uno stato di normalità psichica. Non immaginavo che l'amore
potesse fare spasimare così. Mi giunse infine un biglietto di
Anna che mi spiegava la ragione della sua assenza: eravamo stati
visti uscire assieme da una stradetta di campagna e la cosa era
stata riferita a casa sua. Le sue sortite erano perciò
sorvegliate. Mi dava tuttavia appuntamento per il giorno dopo.
Ma un acquazzone ci pose in fuga.
Mi parve, quello, il primo segno di una forza malvagia che ci
avrebbe disunito. Come si è superstiziosi a volte, anche quando
si crede di essere immuni da paure insensate. Certo il
presentire è una facoltà della nostra mente che avvertiamo di
rado e cui non diamo il peso che dovremmo.
No, mi ribellavo, nessun ostacolo riuscirà a disunirci. Anna
è la sola creatura che il destino può avermi assegnato, essa
sola è fatta della mia stessa sostanza. La sento in me, non ne
uscirà mai.
Prima che l'estate morisse del tutto riuscimmo a trovarci
ancora nel posto divenuto solito. Il granoturco era stato
raccolto e gli steli abbattuti. Ma la nostra "alcova
verde" formata da alcune piante di platano e di salice
sulle rive di un fosso era ancora intatta.
La sera scese improvvisa senza che ce ne accorgessimo. Una
stella cominciò a luccicare all'orizzonte. Forse la stella
della sera, Venere. Ci richiamava alla realtà, dicendoci che
era il momento di tornare? O ci sorrideva?
Sono stupidamente romantico? Non lo so, amici miei. Ma il
luccichio di quella stella è, dopo tanti anni, vivo nel mio
cuore. E quel luccichio chiuse il primo capitolo del mio amore
per Anna.
Fu tosto inverno. Io avevo dovuto sistemarmi di nuovo a
Milano. M'ero trovato un appartamentino di minuscole proporzioni
in zona non eccessivamente periferica. Mia madre dapprima aveva
manifestato l'intenzione di ritrasferirsi con me a Milano, poi
preferì restare, dissuasa anche da me, nella cascina di mio
zio. Che era, come ormai tutte le cascine della pianura padana,
quasi disabitata. La meccanizzazione consentiva che un fondo
delle dimensioni di quello condotto da mio zio potesse tenere
occupato non più di un contadino estraneo alla famiglia del
coltivatore.
Non volevo che venisse recisa la mia "seconda
radice". La prima, e più importante, era Lecce e da essa
non potevo trarre più linfa. L'altra era la campagna della
pianura padana, da cui traeva origine e a cui era legata mia
madre. Occorreva che essa vi restasse, perché tale mia, sia pur
secondaria, radice non venisse tagliata.
Ogni settimana, tornando nella cascina, mi riempivo gli occhi
della visione della pianura, i filari di pioppi lontani, i
prati, il fumigare della nebbia e la neve poi quando veniva a
coprirla...
continua... |