Il dio femmina stuprato nel bosco
dieci, undici, dodici, ( ), quattordici
Non fronda verde, ma di color fosco; non ra-
mi schietti, ma nodosi e 'nvolti; [...] Quivi le
brutte Arpie lor nidi fanno, [...] con triste
annunzio di futuro danno. Ali hanno late, e
colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto 'l
gran ventre; fanno lamenti in su li alberi
strani. [...] "Perché mi scerpi? [...] Uomini
fummo, e or sem fatti sterpi: [...]Dante
Alighieri, Inferno, XIII |
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10
Noi che abbiamo letto e riletto questa storia e ne conosciamo perfettamente l'epilogo,
con il senno di poi riteniamo che Veritier avrebbe fatto bene a chiedere a Giacomo
qualcosa di più a proposito del sesso degli alberi. Poiché però l'arroganza è la
maleodorante scoria dell'intelligenza, e come un pesce pilota l'accompagna nella
superficie e negli abissi dell'oceano vita, egli stimò di possedere notizie sufficienti
per tentare di nuovo l'esperimento. Si sarebbe comportato esattamente come nella prima
occasione, ma questa volta avrebbe "preso" quella donna - lui!
Sfidando dunque gli ammonimenti del primo aforisma di Ippocrate:
"La vita è breve, l'arte lunga, l'occasione fugace, l'esperimento pericoloso
e il giudizio difficile",
compilato allo scopo di evitare ai medici i danni di una condotta imprudente, il
professore ritornò al Bosco della Fontana.
Era la prima bella giornata della stagione. Veritier varcò allegro e glorioso il
cancello d'ingresso che cigolò sotto la spinta della sua mano, e si trovò sotto
l'azzurro di un cielo ultralimpido, tratteggiato come a matita dai rami degli alberi, e
punteggiato come da acquerello dal verde delle foglie non del tutto schiuse. Respirò a
pieni polmoni e avvertì, nel sottofondo di una musichetta interiore subliminale, un
profumo lontano di mare e di vacanze. Provò ad annusare i cespugli e i fiori, ma non si
sentì come Silvano e non volle chinarsi per baciare la terra. Ripensando alle parole del
padre di Giacomo, riferitegli dalla signora Canto, non si trovò d'accordo e si disse:
"Il sesso è un piacere che non ha niente a che fare con i fiori, né con i rami e
le radici. E non è affatto un dolore che ci distoglie dai compiti superiori. È un
piacere e basta! Anzi, ci aiuta a sopportare meglio il peso dell'esistenza".
"Non è vero?", aggiunse rivolgendosi al proprio canarino.
Con pochi battiti d'ala, il canarino annuì, ricordandogli la mano azzurrina che lo
aveva accarezzato. Agitato dal pensiero di quel solletico, ma dimentico della frustata e
del duplice avvertimento della fanciulla e di Giacomo, Veritier avanzò più in fretta,
percorse il viale maestro, deviò per vialetti e sentieri, scavalcò una vena d'acqua
sorgiva e dei ranocchi, e serpeggiò nel sottobosco. Calpestò senza rispetto le ortiche e
i pungitopo, ignorò le bacche e i fittoni, e con la mano scacciò le farfalle che gli si
affaccendavano intorno pensando che come al solito fosse lì per recitare poesie.
Quando le azioni sono comandate dal ventre, e solo da questo, è facile perdersi; può
succedere che percorsi sperimentati e sicuri rivelino al loro termine altre destinazioni.
A cagione di quell'infimo istinto Veritier si perse proprio nel bosco che conosceva come
le sue tasche, forse perché a forza d'uso s'erano bucate sul fondo, facendogli sfuggire
la mappa. Così, a un certo punto, pur avendo camminato sui sentieri di sempre si trovò
ai piedi del solito arcidiavolo, ma in un altro mondo.
Si assicurò di essere completamente solo e nel pieno della coscienza di se stesso, poi
si spogliò, togliendosi - unica differenza rispetto alla volta precedente - anche le
mutande. Abbracciò l'albero e l'eccitazione venne subito, fu sufficiente essere
completamente nudo al cospetto della Natura e al ricordo della Venere incontrata. Non
faceva freddo come la prima volta. Piccoli uccelli dai colori semplici volavano bassi tra
gli alberi, rincorrendosi e lanciando fischi d'approvazione alla primavera che riprendeva
all'inverno il dominio del bosco. Il sole aveva fugato in parte l'umidità degli ultimi
giorni e il contatto con l'albero non gli risultò affatto sgradito. Non era come trovarsi
nel letto con una delle sue soffici e carnee amiche, ma il leggero sfregamento su quel
ruvido, vivo legno, gli procurava un discreto piacere.
Teneva i piedi appoggiati alla base dell'arcidiavolo sull'origine di due robuste
radici, il sinistro appena più in basso del destro, le piante flesse per rendere più
salda la presa. Le ginocchia erano leggermente piegate e premute contro il tronco, le
braccia e le mani con le dita aperte l'avvolgevano fin dove potevano giungere. Il ventre
con al centro l'organo eretto, il torace, e più sopra una guancia, aderivano alla scorza
finemente rugosa e asciutta dell'albero. Con la coda dell'occhio vedeva sfuggire il
profilo del tronco e confondersi tra i fusti degli alberi più dappresso e di quelli più
lontani, sfumati. Si rammaricò di non avere portato con sé la macchina fotografica:
sarebbe stato un ottimo scatto.
Le percezioni più intense provenivano dai genitali, sui quali si aspettava da un
istante all'altro la mano a conchiglia di colei a cui stava dando la caccia. Alzò gli
occhi e poco al di sopra della propria testa scorse un grosso cerambice (Cerambyx
cerdo ruinae). Col corpo immobile badava agli affari suoi l'insetto, roteava il capo
e con le antenne tastava l'aria a chissà quale complesso fine. Una livrea da favola, di
pregiato raso verde sul tronco e di marrone finemente puntato d'oro sull'addome,
scintillava su quell'improvvisata ribalta arborea. Il professore scostò una mano dal
tronco e afferrò il cerambice tra pollice e indice. In quel preciso momento una nube
coprì il sole spezzando i raggi che traversavano il bosco, così che egli, toccando con
mano quell'apparenza di principe alieno, lo vedesse come un'orribile e tetra figura.
Com'era brutto, con quelle antenne lunghe, ricurve e seghettate che lo facevano sembrare
un nero caprone. L'insetto, captando forse l'ultimo giudizio del professore, vibrò le
antenne e le portò indietro come orecchie di un cane pronto a mordere, ed emise un verso,
uno stridio acuto e molesto che spaventò Veritier. Lui lo lasciò andare. Lo vide cadere
in una stretta e buia fessura tra le radici e la terra: quasi un ammonimento. Poi levò lo
sguardo a percorrere il tronco fino alla chioma, che era scossa da un leggero vento.
Riabbassò gli occhi, li chiuse, e accostando nuovamente la guancia alla scorza pensò
alla fanciulla. Sentì il membro diventare più teso, si mosse in su e in giù alcune
volte, ma la fanciulla non appariva.
'Forse era stata un'allucinazione, però com'era bella'.
E ricordò quel corpo sinuoso che si faceva più raro e più denso. Si mosse ancora,
Veritier, si sfregò con più forza contro il tronco dell'albero.
"Che te ne pare?", chiese al suo pene, da dentro.
"Niente male! Non è certo mucosa, ma è comunque una gran bella cosa",
rispose quello.
"Cosa fai, giochi di rima, fai lo spiritoso? Ti va che continui?".
L'organo a canna non comunicò altro, ma chi tace acconsente, così il professore, col
viso accaldato continuò il movimento. Piano, perché non voleva raggiungere subito
l'orgasmo, attendeva qualcuno.
"E a voi altri come sembra?", domandò poi al fegato, al cuore, alla pelle e
all'insieme degli organi attenti a quella nuova trovata.
"Niente male", risposero anch'essi in coro.
"Mhm!", fece la pelle con pochissima voce.
"Cos'hai?".
"Sì, non è male, ma sento parecchi filuzzi nervosi gridare che siamo vicini
all'escoriazione".
"Roba da nulla, di' loro di non temere: un po' di dolore aumenta il piacere".
Ancora poco e il professore sarebbe venuto, perciò rallentò. Lo eccitava molto,
davvero, fare l'amore con l'albero, ma non capiva bene il perché. Quel partner non
possedeva affatto le forme che solitamente suscitano i sensi. Non bocca, non seni, non
collo, non cosce, non odorosa e scorrevole umidità. In quella posizione provò strane
sensazioni e bizzarri pensieri. Per un momento gli sembrò di perdere il senso della
gravità e dell'orientamento, si sentì molto leggero e assente nel tempo. Gli parve che
invisibili propaggini vincolassero il suo corpo al tronco dell'albero e la sua testa
venisse portata lontano. Si ricordò della colla di cui aveva parlato Giacomo, ma non vide
nessuno di "loro".
'Qualcosa però si sta muovendo', pensò.
Riaprì gli occhi, guardò ancora verso l'alto e capì che il tronco oscillava per il
movimento trasmesso dal vento alla chioma. Aveva percepito qualcosa che di regola resta
impercettibile. Ma anche altro stava cambiando nell'albero. Sentì la scorza legnosa sotto
la pelle farsi morbida e ricoprirsi di larghe scaglie. Ebbe quindi un'impressionante
visione: il tronco dell'arcidiavolo che si trasformava nel corpo di un'aspide smisurata.
La chioma dell'albero ne diventava la testa, che trigona e con spaventevoli occhi gialli a
fessura, da predatore della notte e dei sogni umani, dirigeva i guizzi di una viscida
lingua biforcuta verso il cielo. E lui stava cavalcando sul dorso quella serpe. Poi il
serpente ritornò albero. Lo visitarono fantasie e pensieri da psicanalista o, quanto
meno, da psicanalizzare.
Era abbracciato a un pene immenso, il proprio, come se l'arcidiavolo avesse radice tra
le sue piccole gambe. Rise, pensando che non l'aveva mai avuto tanto grande (...largo
quanto una torre, s'innalzava con il solo fusto fino a dieci metri di altezza...). Vide il
cielo tra i rami, e il tronco nel cielo...
'Tronco uguale serpente uguale pene
uomo albero cielo
albero maschio, cielo femmina
femmina dio, dio cielo'.
Scattò la soluzione finale:
'Allora quello di Giacomo con gli alberi è un rapporto col cielo. Sì... la mia
teoria! Perché non l'avevo pensato prima? Non avevo collegato Dio col cielo, sono la
stessa cosa. Se l'albero è il pene, dunque l'albero è maschio, e il cielo è femmina.
Avevo ragione: Dio è Femmina. Sto penetrando Dio!'
"Sì, prendilo tutto, oh, Dio! Dio!".
Si sentì pervaso da una gioia immensa, era la sua grande intuizione, il caso del
bambino degli alberi risolto. Ma, se da un punto di vista strettamente laico quell'idea
era da psicanalizzare, sotto l'aspetto religioso, di qualunque religione, quel pensiero
era peccaminoso, e profanatrice l'azione fisica che lo accompagnava. Veritier non se ne
avvedeva. Ahi, le femmine: l'eredità genetica di nonno Nathan aveva raggiunto il culmine!
Osservato da lontano, da molto lontano, il professore non si sarebbe potuto distinguere
dall'albero, né l'albero dalla terra, né la terra dal cielo, né il cielo dal sole e
dalle infinitamente espanse galassie. Dal punto di vista di cui parlo, l'uomo è un
puntino nell'universo, una cacchina di mosca, concime di pianeta, un bacillo
mostruosamente insignificante. Invece, visto da più vicino, dai pressi dell'arcidiavolo e
da "loro", Veritier era concentrato e perso nella sua visione empia dell'albero,
come uno di quegli idoli priapei nani i cui falli sopravanzano disarmonicamente la testa.
Dio è femmina: sì, la sua teoria esatta, ma Ur lo aveva avvertito che lui non poteva,
che lui non era come Giacomo.
Mentre attraverso l'albero-pene faceva l'amore col cielo, Veritier sentì finalmente la
mano, ma non dove se l'aspettava, bensì accarezzarlo sul dorso di un piede, e subito
guardò in basso. Vide la creatura attesa uscire chissà come da una fessura tra le radici
e la terra, la stessa forse in cui prima era caduto il cerambice. Alzandosi, la fanciulla
si insinuò tra il corpo del professore e l'albero, per sostituirsi a quest'ultimo
nell'abbraccio. Lui lasciò la presa del tronco e la cinse alla vita, senza accorgersi
ch'ella mostrava sul volto l'espressione eccitata e al tempo stesso poco serena di chi è
costretto da altri a commettere un grave delitto.
"Tu... non puoi... unirti agli alberi... Non sei... come... Giacomo", gli
disse con austera e ambigua lentezza. "Dobbiamo... smettere... smettiamo".
Il capo era riverso come quello di chi è disposto a perdere la coscienza nel lusso,
gli occhi socchiusi e le labbra, nell'articolare quel sofferto monito, si univano e si
distaccavano sensuali, stirando una sottile rete di libidinosa saliva. Veniva voglia di
mangiarla. Ma le sopracciglia della fanciulla si aggrottavano al centro della fronte
limpida sotto il freno della remora. E parlò con voce tanto languida, tanto lasciva, che
Veritier non udì nemmeno ciò che ella gli stava dicendo.
"Le tue labbra sono un filo di scarlatto", le recitò lui per tutta
risposta, pescando alla rinfusa nel Cantico dei Cantici. "Trascinami con te nella
tua corsa. Come sei bella amica mia come sei bella".
Iniziò a baciarla sulla bocca, sempre più perso. La fanciulla partecipava. Veritier
sentiva i capezzoli turgidi pungergli il petto. Le fece scorrere una mano sulla schiena e
percepì l'armonia della curva che si continuava nei glutei. Si strinse a quel corpo
tenue. Poi, le prese una mano, guidandola sul proprio membro; ma la donna staccò la bocca
da quella del professore, gridò un "No!" deciso, si divincolò dall'abbraccio e
fuggì. Il professore la inseguì, con le mani protese in avanti per agguantarla.
Dopo pochi passi la raggiunse e la prese da dietro. Ne sentì il sedere contrarsi
elastico sul suo sesso, la fece voltare e la riabbracciò intrepido. La baciava affannato
sul collo morbido e flessuoso, dal quale esalava impalpabile un gradevole odore di
fragola, muschio e animale selvatico, di bosco mai violato dall'uomo. La mordeva con
ardore, ma quella bellezza cercava con tutte le forze di sottrarsi al desiderio del
professore che, al contrario, voleva a tutti i costi farla sua. Era lei la colla
dell'albero: una calamita da un milione di tesla. Continuava a gridare: "No,
no!", ma più per avvertirlo di un pericolo ancora evitabile che per sfuggire al
piacere verso il quale era molto ben disposta. Lui, invece, proprio come avrebbe fatto
ogni maschio animale alla ricerca della soddisfazione, interpretava le negazioni della
giovane come una tecnica di seduzione, e controbatteva: "Sì, sì!", ignaro che
le porte di quei mondi non si possono infrangere senza conseguenze.
E così, tira e molla, molla e tira, la fanciulla dell'albero fu piegata a lasciarsi
andare. Sebbene fosse meno densa di qualunque mortale, Veritier le si buttò sopra e
riuscì a penetrarla. Era vergine. Entrambi avvertirono il lacerarsi della sacra membrana
che annulla per sempre l'infanzia, che scoperchia il vaso di Pandora, che rompe
l'incantesimo della vestale. Penetrandola si sentì penetrato dal primo dolore che immette
nel piacere e nella sofferenza senza fine della ruota del samsara, del ciclo
delle rinascite. La fecondazione dell'invisibile è quanto di più elevato si possa
compiere, ma richiede preparazione, umiltà e cautela, perché è raro che gli dèi si
accoppino con gli uomini senza generare mostri.
Per un po' restarono in quella posizione, poi la fanciulla puntando un piede sul
terreno fece rotolare Veritier sulla schiena e gli si mise sopra. Ginocchia a terra, capo
all'indietro e mani sul petto del professore era ormai complice del delitto.
"L'hai voluto tu", disse, restituendogli versi del Cantico dei Cantici.
"Perché l'Amore è duro come la Morte / Il desiderio è spietato come il
sepolcro / Carboni roventi sono i suoi fuochi / Una scheggia di Dio infuocata io
sono, io... sono. Addio!".
E dopo quelle ultime parole, a ogni movimento di copula, mentre la fanciulla urlava e
si dimenava dal piacere, dall'indicibile regione che si affaccia sulla nostra attraverso
gli alberi uscivano creature di ogni sorta, perché non più impedite da una porta ormai
senza guardia. Sfregando il suo membro impuro contro l'arcidiavolo, come sul vetro di
un'incognita lampada di Aladino, egli ne aveva liberato le essenze orfiche. Miriadi di
Angeli e Bestie nude si radunarono intorno agli amanti e, come nugoli d'api e mosche su
una goccia di miele, avvolsero e celebrarono quell'unione tra l'immaginario e la carne.
Il piacere di Veritier era intensificato da quelle presenze, tra le quali spiccavano
delle adolescenti dalle forme particolarmente voluttuose.
"È strano", considerò, "quanto somiglino a Giacomo!".
Con l'aumentare del godimento di Veritier, gli si avvicinarono. Dapprima, lo toccarono
e subito fuggirono, poi ritornarono per restargli accanto, accarezzando il volto, le
braccia, le gambe e i fianchi scoperti; dando luogo, per finire, a una vera e propria
orgia tra i due mondi. Preso da quella torma erotica, ebbe l'orgasmo più violento della
sua vita.
Simultanea a una eiaculazione cataclismatica, ebbe l'impressione di essere espulso
fuori dal corpo come il pilota da un jet in avaria irrimediabile. Superò la troposfera e
le nuvole, salì nel primo cielo, dove rivide Gratien, poi nel secondo e su, su fino al
settimo, in cui stallò contemplando beato la bellezza della Terra diventata
piccola come una biglia di vetro azzurro. Conobbe il pensiero puro, Dante, Beatrice. Gli
apparve dinnanzi l'albero della conoscenza. Era bello a vedersi e sembrava buono a
mangiarsi. Ne spiccò un frutto e quando fece per portarlo alla bocca fu arso dalle spade
dei cherubini posti intorno a difenderlo. L'apice della sua cultura si innalzò e si
sentì capace di pronunziare tutte le lingue sfiorando col cuore l'Aleph. Poi, come una
freccia incendiaria scagliata sugli assalitori dall'alto di una torre, iniziò a
precipitare con accelerazione progressiva. Quando il fuoco sublime cessò di ardere,
Veritier ricadde nel buio dell'ignoranza, avvertì un freddo glaciale e si avvicinò al
suolo, finché poté osservare dall'esterno il suo corpo disteso nel bosco. A quel punto
sentì la sua anima tingersi di scuro e attraversare gli spessi strati della crosta
terrestre, fu trascinato nei gorghi delle acque interiori e si diresse, impotente, sempre
più in basso. Penetrò le rocce viventi, fu attratto nel magma e poi ingoiato dall'orrido
vuoto del centro. Incontrò Pluto e Proserpina, ombre di defunti malvagi lo spaventarono a
morte, e per finire... toccò rabbrividito le ali di Satana. Quindi, lentamente, prese a
salire come aspirato dalle radici degli alberi, rivide il grembo materno, ne afferrò il
cordone e pian piano rientrò nel corpo, perdendo coscienza.
*
Quando si svegliò poteva muovere solo un poco le palpebre, per il resto era
interamente paralizzato. Il suo corpo nudo era riverso supino sul letto di foglie e quasi
annegato nel suo stesso seme. L'unica cosa che poteva vedere attraverso i rimasugli degli
occhi era la base del terribile albero, dal quale continuavano a uscire esseri di fiaba e
leggenda, d'ogni forma, dimensione e consistenza, impauriti o temerari, per visitare lui,
scrutarlo e deriderlo - immaginò.
Tra quelli riconobbe alcuni animali mitici come l'unicorno, la sfinge e la chimera, che
mai avrebbe sospettato esistere davvero. Di altri ricordò i disegni impossibili,
reminiscenze di bestiari medievali... E di altri ancora, i meno teriomorfi di tutti,
percepì nella mente il nome senza averlo mai letto su nessun libro, perché quelle stesse
creature, appartenenti agli orribili inferi sottostanti all'arcidiavolo, glielo
ringhiarono in faccia sfilandogli davanti come in un appello dell'Apocalisse. Senza poter
muovere un dito per scacciare gli esseri repellenti ai quali appartenevano, udì quei nomi
straziargli di terrore panico l'anima. E sullo schermo su cui la mente proietta i sogni,
egli li vide trascriversi in una babelica risma di lettere e simboli.
Non cerchi di capire e passi oltre il lettore impressionabile, perché il solo
guardare, senza dar voce all'accozzaglia cacofonica che li compone, potrà dar luogo a
incubi di cui sarà difficile liberarsi.

Poi, Veritier s'accorse che la sua fanciulla era scomparsa, mentre le altre creature
femminili di sembianze umane, le più impavide, gli erano rimaste addosso. Aveva
l'impressione - esatta - che lo mordessero senza ferirlo, e che a ogni morso gli
sottraessero ancora un poco dell'ultimissima vita rimasta. Gli venne in mente il proverbio
"Ogni animale dopo il coito è triste" per aver perso per sempre qualcosa
di sé. Guardò in alto e, proporzionalmente all'intensità del coito goduto, invocò il
cielo che aveva profanato.
"Perdono! Aiuto! Qualcuno di lassù mi aiuti".
Nessuno rispose. Allora il dizionario interiore si spalancò facendo uscire tutte le
parole che potessero rendere l'idea della sua condizione.
"Ahimè!", si lamentò pentito. "Come mi sento:
abbandonato, abbattuto, accasciato,
addolorato, afflitto, amareggiato,
angustiato, annichilito, annientato,
arido, avvilito, contristato,
crucciato, cupo, demolito,
demoralizzato, deserto, desolato,
diroccato, disgraziato, distrutto,
dolente, fiaccato, fosco,
grigio, indebolito, infelice,
lugubre, melanconico, mesto,
misero, negativo, orfano,
orrido, povero, prostrato,
pusillanime, raso al suolo, romito,
rovesciato, saccheggiato, sconfortato
sconsolato, scoraggiato, smantellato,
sottosviluppato, spianato, spogliato,
squallido, tetro, travagliato,
umiliato, usurato... zeresimo".
Alcune gocce di rugiada, o forse lacrime del dio femmina stuprato nel bosco, caddero
sul suo viso svegliandolo in parte da quell'incanto. Perciò Veritier iniziò a pensare
che qualcosa dell'esperimento non aveva funzionato a dovere. Non era normale vedere tutti
quei mostri e udirne gli impronunziabili nomi. Non era naturale che si sentisse così
stanco soltanto per essersi appoggiato nudo al tronco di un albero. Non era plausibile che
ricordasse a memoria ed elencasse tutti quei sinonimi di "triste" e
"depresso" in ordine alfabetico e in gruppi di tre. Ma ancora, il tapino, non si
rendeva conto che col suo gesto aveva gravemente offeso Dio.
Così iniziò a pensare, quando d'un tratto un fragore secco fece dileguare tutti i
mostri e le bellezze dentro la soglia che prima avevano superato. Ricomparve la fanciulla
che, ai piedi dell'arcidiavolo come una sentinella, lo mirava con compassione da occhi
avviliti e piangenti. E, mentre gli ultimi vampiri e le trasparenti ninfe si staccavano da
lui e scomparivano nel nulla intorno all'albero, le chiome dell'arcidiavolo si contrassero
con un innaturale fruscio.
Da un turbine di vento apparve davanti a lui una nuvola di rami e foglie a forma di
grande stella a cinque punte. Con un movimento rapido, come nell'atto di liberarsi da un
pesante tabarro, uscì da quei vestiti vegetali un uomo bellissimo che reggeva nella mano
destra una verga nodosa. Era tutto nudo, fatta salva una sorta di piccola giacca rossa,
quasi fosforescente e tutt'altro che elegante. Un abito di foggia non comune, con colletto
alto a imbuto, senza maniche né bottoni, che si apriva sul dietro in due corte e dure
code, bombate come le elitre dei coleotteri e sollevate per fare uscire le ali.
Il professore, leggermente rianimato dalla curiosità, che è l'ultimum moriens
dell'uomo intelligente, capì trattarsi di Ur. Era identico al piccolo Giacomo: i capelli
castani, gli occhi chiari eppur buoni, il naso francese, la bocca, il portamento: la
fotocopia a colori del suo bambino, eccetto la chioma lunga fino alle spalle e una tenue
barba incolta.
Gli venne spontaneo pensare:
'Ecco Ur, il padre del mio piccolo genio, il dio padre fitomorfo'.
Perfino la voce non lasciava adito a dubbi, quando Ur gli parlò:
"Mi meraviglio di te, dotto e docente! E sì che ti fanno passare per un
conoscitore dei versi del grande Virgilio, il quale lo sai come te ha meditato a lungo in
questo bosco. Ma, si vede...", e inclinò la bocca e lo sguardo "...una
meditazione errata produce effetti alquanto diversi. Hai dimenticato delle sue Bucoliche:
"Ah, se la mente non fosse cieca! Questo male ce lo avevano spesso predetto le
querce, toccate dal Cielo"?".
Perché lo udissero bene anche gli angeli e le bestie ignoranti, le cui facce oscure o
celesti sporgevano curiose dal profilo dell'arcidiavolo, ripeté:
"Toccate dal Cielo!".
A quell'eco sinistra, gli spettatori parzialmente nascosti tremarono di paura sentendo
Ur nominare per la seconda volta il Cielo.
"Ti avevo avvertito: prima con le parole di Guardine...", disse ancora Ur,
manifestando la sua arrabbiatura e minacciando col pugno la fanciulla. "E poi anche
con questo", aggiunse allungando verso di lui il bastone. "Ma non ti è
bastato!".
"E neppure hai dato ascolto a mio figlio", continuò severo. "Arrogante,
ti sarai detto: "Cosa potrà mai saperne un bambino?". Ma tu... tu non puoi
nemmeno immaginare quello che può fare un bambino. Tu non sei come Giacomo, lo vedi come
sei ridotto?".
Ur, la cui verga puntata in avanti e in basso emetteva una soffusa luce opaca come di
ramo verde scorticato da poco, mantenne fisso lo sguardo su Veritier, il quale, poverino,
ancora nudo e sdraiato, sollevava appena la testa e annuiva debolmente al rimprovero,
mentre tutto ciò che nella sua memoria figurava sotto la voce di eglogae, audes,
carmina, cantica e sermones, gli si affacciava alla mente
perché ritrovasse il passo citato da quel mito vivente che, ormai calmatosi, aggiunse:
"Adesso riparerò le tue ferite e ti restituirò la linfa che ti è stata
sottratta. Ma non sarai più quello di prima. Inoltre, ricordalo, non ti aiuterò una
seconda volta!".
Ur lasciò scendere la mano che reggeva la verga lungo la gamba e abbassò il capo.
Portò l'altra mano al petto e aprì la giacca. Restò in raccoglimento pochi secondi,
sufficienti perché Veritier si accorgesse che l'inguine del nobile defunto era sprovvisto
di pene. Poi Ur rialzò il capo, mentre le code della giacca vibravano.
"Come puoi notare, Dio è femmina", disse solennemente. "Ma tu non
l'avevi capito!".
Dette queste parole, che furono le ultime di quel mistero, il dio vegetale si rifece
stella di rami e foglie, e Veritier percepì dentro e fuori di sé il vortice di un soffio
sconosciuto restituirgli la vita, fuoriuscita dalle innumerevoli ferite che le creature di
quel regno gli avevano inferto durante il piacere. Riaprì del tutto gli occhi appena in
tempo per scorgere l'astro umano e la Venere Guardine - così Ur l'aveva chiamata -
completare il riassorbimento nella magica materia dell'arcidiavolo.
Si rialzò con estrema fatica. Vide la pelle coperta di sangue e di siero rappresi,
estese ammaccature, lividi e graffi profondi. Con un lavoro difficile si rivestì, e si
trascinò distrutto all'automobile. Entrò nell'abitacolo, e quando si guardò il viso
nello specchietto retrovisore si accorse di avere i capelli della parte destra del capo
completamente bianchi. Pensando si trattasse di polvere, cercò di pulirli con mano e
saliva, ma il suo gesto non cambiò nulla. Terrorizzato, emise un urlo e poi pianse, come
non aveva mai fatto. Dalla morte dei genitori non aveva più avuto una ragione valida per
piangere. Quel giorno, con l'esperimento azzardato, se l'era procurata da sé, e la
lezione gli sarebbe servita.
Giacomo, messo subito al corrente dell'accaduto dallo stesso Ur, nell'incontro
successivo parlò al professore come a un fratello minore:
"Mi dispiace per quello che è capitato al Bosco della Fontana. Anche Ur ci è
rimasto male, perché credeva che una persona come te avrebbe tenuto in seria
considerazione i suoi avvertimenti. Era stato molto chiaro, Ur... Ma ora tutti pensiamo
che tu abbia capito, finalmente!".
E sottolineò "finalmente" con un tono che al professore fece sembrare
Giacomo identico al padre.
Veritier aveva capito. La verità gli era divenuta trasparente anche se, come le sirene
di Ulisse, quelle creature avevano lasciato in lui l'eco di una melodia che non ha rivali
nel mondo sensibile, e che avrebbero trascinato un qualsiasi altro uomo nel terzo - e di
certo ultimo - esperimento nel bosco. Ma non lui.
Sì, aveva capito. Di fronte a quell'angelo bambino, come un lampo vicino che illumina
la notte a giorno gli vennero in mente le parole del Cristo:
"Ti rendo lode, o Padre, signore del cielo e della terra, perché tu hai
nascosto queste cose ai saggi e agl'intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o
Padre, perché così è piaciuto a te".
E, ancora, gli si schiarì il cuore:
"Chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo, non vi entrerà".
Infine, comprese la vera natura di Silvano e il destino supremo degli uomini:
"C'è chi si fa eunuco da sé in vista del regno dei cieli".
Egli, era forse entrato come un fanciullo in quel regno tanto sconosciuto quanto
potente? Tutt'altro: lo aveva fatto con la baldanza dell'esploratore del XIX secolo,
convinto di poter varcare quella soglia portandosi dietro ogni sozzezza di adulto. Si era
avvicinato a quella porta lasciandosi trasportare dalla superbia dello scienziato e dalla
brama del piacere, più che dallo spirito di conoscenza. Stuprare Dio: quale sconcio
delitto, anche ammesso che sia femmina.
11
Benché nelle città italiane non fosse raro imbattersi in quei cantautori e mimi di
strada bizzarramente vestiti, che elemosinano spiccioli come ricompensa a brevi spettacoli
di ogni genere e gusto, male si accordava l'aspetto bicolore dei capelli di Veritier con
il suo abbigliamento classico. Per compensare il bianco di qua e il nero di là della sua
capigliatura avrebbe dovuto farsi giullare, indossare una calzamaglia aderente a strisce,
infilare scarpe con la punta arricciata, munirsi di mandolino e farsi seguire da un
piccolo cane pezzato, con un orecchio piegato e in bocca un piattino. Il meno astuto degli
uomini, spaventato da una simile condizione, avrebbe ricoperto il tutto con una buona
tintura, e finita lì. Lui no, perché la gente avrebbe pensato alla vanità di voler
nascondere i primi segni dell'invecchiamento.
Altra soluzione, semplicissima, un cappello. 'Ma il cappello', pensava Veritier, 'è il
prepuzio dell'abbigliamento. La gente oggi non ne vuole più sapere di cappelli, e guarda
male chi ancora se ne serve se non per ripararsi dal sole o dal freddo'.
In ogni caso un rimedio a quel problema si doveva porre.
Dire la verità, allora! Raccontare ai colleghi della società psicanalitica che aveva
avuto "rapporti" con gli alberi? Rivelare ai giornalisti che "amando"
gli alberi si possono conoscere il paradiso o l'inferno? Oppure scrivere un bell'articolo
d'opinione, magari con il risultato dell'imitazione collettiva, l'invasione dei parchi
cittadini che sono pieni di bagolari. Suscitava uno strano sentimento di pietà immaginare
la gente - quella più comune: pingui casalinghe, lavoratori stressati, adolescenti
annoiati - abbracciata agli alberi come bambini al collo dei genitori.
No, no, questa volta non si trattava di una teoria. Non una teoria, ma un fatto
squisitamente personale. La verità è tanto più pericolosa quanto più riguarda persone
singole, con nome, cognome e indirizzo, e non campioni anonimi per indagini statistiche o
entità ideali sulle quali filosofare senza conseguenze. Affermare genericamente che le
donne sono tutte puttane non è proprio come dire che la signora Rosa Ramarri che abita in
via Roma 3 a Ravenna è una puttana. La verità individuale è pericolosa, ma soltanto
all'inizio. Quando viene rivelata provoca dolore, ma poi, quando è accettata... uccide.
Sarebbe stato preso per matto. Gli avrebbe fatto visita un altro Nerone, magari anche
Caligola. Omosessualità libera... e adesso fitofilia. Lo avrebbero consegnato a Cassan
per una cura di neurolettici e benzodiazepine.
Già, Cassan. Forse Cassan poteva essere la soluzione. Si conoscevano, erano in
disaccordo sui metodi di cura, tuttavia avevano sempre avuto stima reciproca. Ma con
Cassan niente verità esplicite. Non poteva raccontargli di Giacomo, di Ur, di Guardine,
dei suoi esperimenti e dell'avventura nel Bosco della Fontana. Ah, se avesse subito
pubblicato qualcosa sul caso del bambino degli alberi! Le cose si sarebbero svolte in modo
canonico: sedute normali, interpretazioni ufficiali e nessun esperimento azzardato.
Qualche collega avrebbe collaborato, gli avrebbe fornito spunti di trattamento, suggerito
metodi alternativi, l'ausilio di farmaci ma, in quel percorso esageratamente medico,
avrebbe conosciuto l'escatologia degli alberi?
La malattia.
Sì, la malattia poteva essere una soluzione, la malattia genera comprensione,
umanità, giustifica ogni comportamento, anche il più immorale. E, la sua, non era una
malattia? Ma, che sorta di malattia è quella che d'un tratto ti sbianca il capo solo da
una parte? Beh, forse una malattia legata all'invecchiamento. Chi lo sa? Poteva essere.
Anche altri organi possono invecchiare prima da un lato. Il cuore sinistro non ammala
prima di quello destro, a causa della più forte pressione? E gli ictus, non colpiscono
più frequentemente il cervello sinistro? Si poteva chiamare in causa la genetica o far
intervenire dell'altro.
Cassan aveva una forte personalità, taumaturgica, anche se per timidezza la nascondeva
dietro la chimica. Per umiltà preferiva attribuire ai farmaci una capacità terapeutica
che gli era propria, innata, perché bravi medici si nasce. Cassan era molto preparato,
avrebbe spiegato. Ciò che importa in una malattia originale, in un sintomo strambo e
incurabile, ciò che soprattutto importava era spiegare con abilità, poter dire la
verità in una forma accettabile, scientifica, null'altro. I pazienti sanno poco o niente
di teorie mediche, ma una buona spiegazione riempie un poco l'abisso, agisce come un
farmaco, seda o tonifica, secondo il caso. Poi, a chi gli avesse domandato come mai quel
bizzarro fenomeno, lui avrebbe risposto: "È una malattia! Me lo ha detto il
dottore". Anche con fierezza l'avrebbe fatto, con l'orgoglio interiore di pensare:
'Sono malato perché ho conosciuto Giacomo, Ur, Guardine, le creature degli alberi'.
Telefonò a Cassan, si scambiarono i saluti, gli descrisse il sintomo e fissò un
appuntamento. Raggiunta Verona, parcheggiò l'auto in fondo al corso di Porta Nuova. Gli
rapiva il cuore Verona. Lo affascinava penetrarne il centro per quell'ampio viale che
sapeva ancora d'Impero Austroungarico, vedere spuntare i cedri centenari di piazza Bra, e
assistere al sorgere dell'arena, come un'aurora di marmo, attraverso gli archi delle mura
viscontee.
Superati quelli si trovò nel pieno della piazza, che pullulava di matti e di
bellissime putée, alte, brune, con occhi d'avi tedeschi.
Ne incrociò una particolarmente avvenente, lunghi capelli, tacchi alti e minigonna.
'Non è difficile diventare matti', valutò voltandosi a seguire come sculettava in
passi eleganti, 'dopo essersi innamorati di una di queste stangone e venir rifiutati. Come
Romeo. No, Romeo non fu rifiutato da Giulietta, ma dai suoi parenti. Beh, in fondo è la
stessa cosa'.
Da qualche parte doveva esserci un epitaffio di Shakespeare che parlava dell'esilio di
Romeo da Verona, di esilio e morte. Chissà in che punto? Non ricordava. Forse vicino al
Museo Maffeiano che un giorno aveva visitato, il più antico lapidario europeo. Si voltò
indietro verso gli archi. Sì, l'epitaffio era là, in quell'angolo, all'uscita del
lapidario. Era bello e commovente.
'Ci passerò al ritorno'.
Percorse via Roma, riflettendo sul fatto che Verona è l'unica città, insieme a Roma,
che conserva l'originario nome latino. Alcuni matti gli fissarono curiosi il capo. Se la
sua andatura non avesse mostrato fretta, qualcuno di certo lo avrebbe importunato per
domandargli il perché di quei capelli, forse anche i carabinieri. Arrivò sotto lo studio
di Cassan. Era la prima volta che si rivolgeva a un neurologo come paziente. Puntualissimo
suonò al campanello, fu ricevuto da una segretaria gentile e introdotto nello studio del
collega che lo stava aspettando.
Alcuni convenevoli, mentre il neurologo osservava sorpreso i capelli di Veritier.
"Guarda un po' quello che mi sta capitando...", esordì il professore
toccandosi i capelli.
"Ho già potuto notare", commentò Cassan perplesso. "È molto
strano!". E fu colto dal dubbio che potesse trattarsi di uno scherzo. Ma Veritier non
era tipo da scherzi del genere.
"Senti, Cassan, hai mai visto casi analoghi?".
"No, no, mai. Ma ti prego", lo invitò il collega offrendogli una poltrona
sul cui schienale aveva posto entrambe le mani, "siediti, fatti vedere da
vicino".
Veritier si sedette, il neurologo portò la luce di una lampada provvista di lente di
ingrandimento sul capo di Veritier e osservò a lungo.
"Sono bianchi, ma mi sembrano capelli normali", disse. "Hai presente
quei ciuffi bianchi, che qualcuno ha sin da giovanissimo, davanti o in mezzo, alcuni anche
piuttosto estesi. Sono un vezzo della natura, un'alterazione genetica... Come possono
esserlo le sopracciglia spesse", e sollevò le proprie per sottintendere quelle di
Veritier.
"Non credo che tu debba impensierirti. Hai per caso degli altri sintomi? Non so,
mal di testa, vertigini?".
"Ho avuto un po' di cefalea, ma una cosa lieve e passeggera".
Cassan passò ancora le mani tra i capelli di Veritier. Accortosi della cicatrice sulla
fronte, una lunga linea orizzontale più chiara che si confondeva tra le rughe, domandò:
"E questa? Scusami, ma questa cos'è?".
"Quale? Cosa?".
"Hai una cicatrice sulla fronte. Non te ne sei accorto?".
"Ah, quella! Sì, mi sono ferito con un ramo nel bosco".
...
"Certo!", proruppe Cassan improvvisamente illuminato. Il taumaturgo ch'era in
lui prese a spiegare.
"I capelli bianchi potrebbero essere in relazione con questo trauma. Vedi, la
cicatrice si estende di più sul lato destro, qui sulla tempia".
Con una misurata carezza, vi fece scorrere sopra le dita e domandò:
"È stato prima o dopo l'imbianchimento dei capelli?".
"Prima, prima. Qualche mese fa, alla fine di quest'inverno".
"E come hai fatto?".
"Sai della mia passione per i boschi. Un ramo di rovo mi ha colpito. Ma tu dici
che davvero il trauma potrebbe...?".
Veritier non ci aveva pensato.
'Eccezionale, fantastico! Sì, un trauma... Cassan sei un genio!'.
"I traumi possono molte cose", continuò Cassan con enfasi. "Anche
togliere il sonno a molti disturbi. Voglio dire: svegliare geni che dormono, silenti. Ma
c'è sempre una predisposizione. E, poi, di traumi tu te ne intendi più di me. Lo sai,
no, che in tedesco Traum vuol dire 'sogno'?".
"Ah, Veritier, ti volevo dire, a proposito di sintomi strani...", aggiunse a
quel punto Cassan, dandosi una grattatina sul cucuzzolo della testa. "Vuoi sapere
cosa mi è capitato qualche mese fa?".
"Cosa?", domandò Veritier, al quale mai come ora avrebbe fatto piacere
scovare qualcuno con cui condividere la sua sofferenza. "Dimmi!".
"Non molto tempo fa, forse in febbraio o in marzo, è venuta a consultarmi una
donna il cui bambino - poteva avere dieci o undici anni - aveva dei rapporti sessuali con
gli alberi. Così, almeno, lei mi ha raccontato. Bizzarro, non trovi?".
Veritier ascoltava curioso. Ovviamente, era al corrente che la signora Canto aveva già
chiesto il parere del collega e che, scontenta per la mancanza di risposte adeguate, non
era più ritornata.
"L'ho visitato, ma il ragazzino mi è sembrato a posto", continuò Cassan.
"La madre, piuttosto, aveva un modo di fare che non mi convinceva... Avrebbe dovuto
prenderli lei gli psicofarmaci".
"Come, non ti convinceva?".
"Sì, vedi, aveva tutta l'aria di una che nasconde qualcosa d'importante, come un
ladro, non so, o una spia".
Un primo presagio.
Mentre Veritier si stupiva delle parole del collega sulla madre di Giacomo, e si
chiedeva quali comportamenti avessero potuto suscitare quelle considerazioni, Cassan si
passò la mano sulla fronte, stette in silenzio alcuni secondi, poi disse:
"Visto che erano di Mantova avevo già pensato di inviarteli per una psicoterapia,
ma non si sono fatti più vedere. Scomparsi! Piuttosto, dimmi Veritier, tu che ci navighi
in questo genere di stranezze, come avresti classificato il disturbo del bambino?".
Veritier restò. Con gli occhi appena sbarrati e una faccia velatamente stupita, fece
lo gnorri mentre domandava:
"Hai detto un bambino che si accoppia con gli alberi?".
Dopo che Cassan ebbe annuito, rispose lentamente:
"Io... io lo avrei un nome per quel disturbo. Fa parte delle filie:
fitofilia".
"Certo: fitofilia. Tu sì che te ne intendi!", si complimentò Cassan.
"Io non ci sarei mai arrivato. Certo, la psicanalisi!".
Il neurologo, che fino a quel momento era rimasto in piedi vicino a Veritier per
esaminarne il capo, spense la lampada e andò a sedersi.
Restarono di fronte i due dottori. Si guardarono con reciproca benevolenza, poiché
entrambi sapevano che in medicina non vige la legge grazie alla quale i medici non si
ammalano mai. A volte però lo credono, per questo sono i peggiori pazienti. Si erano
incontrati e confrontati spesso, Veritier e Cassan. Congressi, riviste, simposi. Anche
Cassan era famoso. Non la larga notorietà di Veritier, ma come medico senz'altro più
conosciuto: più pazienti, studio, ospedale, più visite, più dottore in un certo senso,
nel vecchio senso. L'uno dell'altro avevano la medesima opinione: "Medico competente,
terapie discutibili, in qualche caso efficaci". Ma Cassan, nella sua interpretazione
dei sintomi mentali come alterazioni della chimica cerebrale, pensava che quella di
Veritier, la psicanalisi, non fosse vera medicina.
"Senti, Veritier, io ti farei lo stesso una bella visitina neurologica. Che ne
dici? Siediti sul lettino".
Veritier acconsentì e Cassan subito si rialzò. Gli assestò qualche martellata sui
ginocchi per valutarne i riflessi, concentrò un piccolo fascio di luce nelle sue pupille,
gli chiese di eseguire una breve marcia avanti e indietro, poi di estendere le mani con le
dita aperte a occhi chiusi. Gli palpò accuratamente il cranio, lo punse dappertutto con
un piccolo ago, infine, compiaciuto della perizia con cui aveva condotto la visita, tornò
a sedersi.
"Nulla di patologico!", fu la lieta conclusione. "È stato di certo il
trauma alla fronte a scatenare l'invecchiamento del cervello destro e, sopra, dei capelli.
Sai, la gente un tempo diceva che le paure possono incanutire d'improvviso, ti ricordi il
marinaio sopravvissuto al mælstrøm del racconto di Poe? Il cervello destro è la sede
della fantasia, dei sogni. Qualcosa di psicologia ho studiato anch'io, e so che i
comportamenti si generano nei neuroni. È lì che t'avrà colpito il trauma. A causa del
tuo lavoro tu immagini troppo. Nel cervello destro sta la creatività, la parte femminile
dell'uomo. Ti do un consiglio: prendi queste medicine, che ti calmeranno e t'aiuteranno a
non pensare".
Cassan allora aprì il ricettario dalla copertina in pelle, e con la grafia illeggibile
tipica dei dottori scribacchiò su un foglio i nomi di alcuni medicinali dei suoi.
Sollevò il viso e sorrise a Veritier con amabile collegialità.
"A parte questi capelli, che poi a guardarti bene ti fanno più carino, non hai
altro. Forse col tempo questo strano sintomo regredirà, così come è venuto, e senza
dubbio con gli anni non potrai che migliorare, quando imbianchirà pure il lato sinistro.
E, in ogni caso", disse Cassan, pronunciando per Veritier la stessa formula che aveva
usato con Giacomo, "simili aberrazioni è bene soffocarle sul nascere. Mi
riferisco al tuo disagio nel sopportare tale condizione estetica. Fatti sentire tra un
mesetto. Stai bene, ci vediamo!".
Veritier raccolse la ricetta, la piegò con cura e l'infilò in una tasca della giacca.
Con un'espressione riconoscente si congedò dal collega:
"Grazie Cassan, sei stato molto gentile. A buon rendere!".
"Ciao Veritier! Ti ringrazio anch'io per la fiducia", rispose Cassan
amichevolmente. "Ma spero proprio di non avere mai bisogno di te!". Incrociò le
dita dietro la schiena e si lasciò sfuggire un risolino infantile.
Veritier si sentiva già meglio, quella era la prova che la medicina più importante è
la persona del medico, prima dei farmaci e delle stesse parole. Camminava in via Roma
rincuorato.
'Guardatemi pure, veronesi tutti matti. Ebbene sì: sono uno di voi! Ma il dottore mi
ha detto che è una malattia, mi ha spiegato: un trauma, un Traum, un sogno.
Guardate pure e se vorrete anch'io vi spiegherò'.
In effetti, anche se pentito del suo gesto nel Bosco della Fontana, non gli piaceva
quella cicatrice sui capelli. Era pentito, aveva capito, ma non si torna indietro. Cassan,
almeno, gli aveva fornito l'alibi del trauma. E gli aveva fatto anche un complimento:
"Sei più carino!". Non era forse vero che aveva subìto un trauma? Ramo in
tensione o verga di Ur, non importa. Sì, la fantasia, il cervello destro, la creatività,
i sogni. E poi col tempo anche l'altro cervello si consumerà, si farà vecchio. La vita,
quando volge al termine, appiana molti contrasti, pietosa avvicina gli opposti. Le
prenderà le medicine di Cassan, ma non tutta la scatola, le terrà in tasca per
ricordarsi di lui, della sua spiegazione, così per un po' non avrà pensieri da
psicanalizzare. Chissà, se anche Giacomo avesse preso subito le medicine di Cassan?
Comunque è un bene disporre di dottori onnipotenti, che possono soffocare i cattivi
pensieri sul nascere. Viva la medicina: una, umana e molteplice come Dio! Peccato non si
possa dire che è femmina, con tutta quella mania di far trangugiare pillole, pungere,
iniettare, infilare supposte, cateteri, clisteri. Forse la medicina vuole pazienti
omosessuali, è perversa.
*
Piazza Bra. Superati gli archi delle mura viscontee, si sarebbe voltato indietro per
assistere al tramonto dell'arena, simbolo della Verona romana che non vuole arrendersi al
barbaro buio.
'Ah, l'epitaffio dev'essere qui. Forse dovrei chiamarlo epigrafe o iscrizione; gli
epitaffi sono commemorazioni funebri'.
Raggiunto l'ingresso del lapidario, sulla colonna portante dell'arco scorse la tavola
che recava i versi di Shakespeare. Non poteva essere che dentro le mura, prima di uscire
dalla città. Lesse con attenzione, e ripeté più volte a voce alta, con le pause giuste,
per meglio memorizzare e sentirsi tutt'uno col poeta e il disperato Romeo:
"Non c'è mondo fuor dalle mura di Verona, ma solo purgatorio, tortura,
inferno. Chi è bandito da qui è bandito dal mondo, e l'esilio dal mondo è morte".
Un secondo presagio.
Era il presagio di Romeo, allontanato per forza dalla sua città e dall'amore di
Giulietta. Ne sarebbe morto. Anche Veritier sarebbe morto, prima o poi. Spesso i versi
sono presagi, e i presagi sotto forma di versi raggiungono il tabernacolo dell'essere con
occulta determinazione. Per gioco o nevrosi, tutti ci dilettiamo nel fabbricare i presagi:
dalle combinazioni di numeri che appaiono all'improvviso, dagli incontri con umani gobbi o
in qualche altro particolare deformi, dai punti sbagliati del pavimento in cui abbiamo
posto il piede, dagli uccelli neri che solcano il cielo. Ma a pochissimi è dato di sapere
esattamente il quando. Possono passare anche tre anni.
Una folta e ordinata comitiva di turisti stranieri gli sfilò dietro. Ciascuno osservò
quel piccolo uomo di spalle, con bell'abito, occhiali e faccia rivolta al muro. Molti,
incuriositi, gli si fermarono accanto per leggere l'iscrizione di Shakespeare
nell'originale inglese che sovrasta l'italiana. Indugiarono un secondo su quegli strani
capelli, domandandosi perché mai una persona non più giovane e con l'aria perbene
dovesse portarsi in giro conciata a quel modo.
12
Dopo l'avventura nel Bosco della Fontana, tra il professore e il piccolo Giacomo
seguirono altri colloqui tête-à-tête e passeggiate all'aperto.
Fintanto che il sintomo della fitofilia, che suscitava comprensibili ansie nella
signora Canto, non fosse scomparso, il professore si fece promettere da Giacomo che non si
sarebbe più accoppiato con gli alberi da solo, ma soltanto in sua presenza, in modo che
la madre (tenuta all'oscuro dell'accordo) non avesse più di che preoccuparsi. Il divieto
di entrare nei boschi fu tolto, e con la frequenza di una o due volte al mese, tempo
permettendo, Veritier passava a prelevare Giacomo dalla sua abitazione e insieme partivano
alla volta di uno dei numerosi spazi naturali dei dintorni di Mantova. Ora sugli argini e
lungo le rive del Mincio e del Po, ora tra le deliziose colline moreniche circostanti, ora
nel Parco Bertone e nel più intimo Bosco della Fontana, il professore poté assistere
all'unione sessuale di Giacomo con gli alberi.
Per il professore erano occasioni meravigliose quelle in cui osservava Giacomo, mentre
abbracciato al tronco di una betulla, di un pino o di una quercia cadeva in uno stato di
vera trance. Era presenziare al ritorno della carne al legno, alla fusione del sangue con
la linfa, dell'animale col vegetale, nei luoghi dove hanno avuto origine tanti miti delle
religioni precristiane. Seppure durante l'avventura con l'arcidiavolo gli fossero toccati
in sorte momenti di schietta chiaroveggenza, la mente del professore, ancora troppo
oscurata dal raziocinio e dalle passioni carnali, vide poco o nulla di ciò che realmente
accadeva. Quando Giacomo, sfregandosi per pochi minuti contro la scorza degli alberi,
perdeva la sessualità più normale dell'adolescente - quella così ben disegnata da
Groddeck, che induce i ragazzini a sputare e le ragazzine a piangere - il professore
entrava soltanto in uno stato di silenzio interiore e di beatitudine, come se si trovasse
di fronte, dal vivo, alle più grandi opere d'arte. Con l'infatuazione per Guardine aveva
sprecato l'occasione d'oro per entrare in quel regno, perciò anche concentrandosi
fortemente non riuscì a gustare che le briciole dei lauti pasti ai quali era ammesso
Giacomo. Saltuariamente intravide dei "loro", ma non incontrò più la sua
fanciulla né Ur, e per fortuna nemmeno i mostri e le vampire ninfomani. Poiché Ur
stimava sincero il pentimento del professore, si dichiarò disposto a rispondere per il
tramite di Giacomo ai quesiti che più gli stavano a cuore. Veritier ne approfittò per
interrogarlo sulla fitofilia, sulla vita oltre la morte nonché sugli ebrei.
Si chiarirono molte cose, prima fra tutte quella che il rapporto sessuale tra un albero
e un essere umano è possibile senza pericoli solo prima della pubertà, quando gli
effetti del primo errore non si sono ancora manifestati. Come aveva parzialmente intuito,
sebbene con deprecabili contraddizioni tra teoria e pratica, il "peccato
originale" è la maturazione sessuale. Geneticamente presente sin dal concepimento,
fino alla pubertà il sesso resta quasi silente. I bambini non provano ancora il desiderio
di riprodursi, per il quale sono indispensabili ovuli e spermatozoi maturi. In codesto
stato di grazia si possono perciò accoppiare con chi (o cosa) più desiderano, senza fare
né ricevere danni, perché sono innocenti: il serpente non li ha ancora tentati. E
Giacomo si univa con gli alberi, ma - lo abbiamo visto - era il germoglio di un dio.
Da Ur, Veritier venne a sapere che aveva peccato nelle intenzioni. Penetrare
sessualmente il cielo: che idiozia, per l'uomo che anela a ritornare nell'Eden, servirsi
dello stesso veicolo che da lassù lo ha costretto a precipitare. Per attingere all'albero
della conoscenza del bene e del male dopo quello della vita è necessario trascendere
Adamo.
E aveva sbagliato nella scelta dell'albero. C'è albero e albero. Gli alberi sono porte
sul cielo. Vari strati di cielo, cieli sopra i rami e cieli sotto le radici. Cieli
affollati di vita sempre più luminosa e sottile in alto, progressivamente più tenebrosa
e più densa in basso. Lui, Veritier, aveva sedotto l'ingenua sentinella di una di quelle
porte, violandola s'era introdotto senza diritto in uno di quei cieli. Ma l'arcidiavolo ha
radici oscure e profonde quanto il nome che porta. Più illuminata è la quercia, toccata
dall'alto. Anche gli alberi sono "buoni" o "cattivi". Buoni il tiglio,
il faggio e il castagno. Ottimi i larici e i pini. Sublimi gli abeti montani. Con le loro
cime di aghi, tali creature pungono il cielo e lo distillano sulla terra; per questo sono
simboli del Natale pagano. Ed emanano, tra la terra il cielo, dove si trova la verità, il
profumo delle loro resine. Ma, all'apice della gerarchia degli alberi celesti è appunto
la quercia, perché: "Quando sulla Terra non cresceranno più querce", avverte
il profeta, "per l'uomo non vi sarà che il destino degli inferi".
Veritier arricchì con dettagli iniziatici le sue conoscenze sulla relazione tra il
mondo dei vivi e quello dei morti. L'anima sopravvive al corpo e si reincarna, restando
nel punto in cui l'hanno trascinata i sentimenti provati e le azioni compiute durante la
vita. Per questo, anche se arduo, è importante ricercare la perfezione morale: perché
più l'anima è stata lorda e materica, più quando lascerà il corpo calerà verso il
basso e le radici degli alberi. Più si è mantenuta pulita e pneumatica, più salirà
verso le chiome.
E seppe altre cose.
Che gli ebrei sono davvero il popolo eletto, che eletto vuol dire votato, deputato al
governo del mondo. Il loro compito è, e deve, restare spirituale. Con maggiore impegno
rispetto ai gentili, essi devono dare l'esempio, aborrendo l'ostentazione delle qualità
che più generano invidia e delle quali sono dotati in sovrabbondanza: l'intelligenza, la
bellezza, e la ricchezza interiori. Che il Dio Femmina ha mandato di volta in
volta un eletto a correggere le traiettorie sbagliate: Mosè e i profeti, Cristo,
Maimonide, Steiner, Freud, Einstein. Anche Marx purtroppo, per punire i suoi figli rimasti
fedeli a Mammona. Che la circoncisione può essere evitata, perché non produce nessun
aumento dell'intelligenza: è il pene mentale che dev'essere rimosso per ricongiungersi a
Lei. Che la conversione degli ebrei al cristianesimo non è necessaria, perché tutti
coloro che sono nati dopo Cristo sono automaticamente cristiani (basta chiedere
all'anagrafe). Infine, che non solo il Vecchio Testamento contiene degli errori
grossolani, ma anche il Nuovo, perché il primo, grande convertito avrebbe detto
"perdonate..." e non "odiate il male".
Se Veritier avesse scelto la quercia, che più tardi lascia le foglie e più tardi le
prende, quando è sicura della primavera, o il resinoso abete che mai se ne priva, avrebbe
conosciuto l'Aleph, e soltanto quello. Se si fosse unito alla quercia, invece che
all'arcidiavolo, non vi avrebbe incontrato la lussuriosa Guardine sulla soglia, ma lo
stesso Virgilio l'avrebbe accompagnato nel viaggio. L'umile quercia: scafo di nave, trave
di cattedrale, ceppo durevole nel focolare. L'arcidiavolo: dalle foglie con le punte
ritorte, dai frutti a bagola come cacche di capra, dove altro avrebbe potuto condurlo se
non molto vicino alle corna del più grande caprone? Ogni uomo ha il suo dio e il suo
albero, così Veritier, succube dei sensi e del canarino dovette accontentarsi di una
chiaroveggenza episodica in vita, in attesa di una migliore occasione in un altro tempo,
in un ulteriore ritorno.
Le frequentazioni si susseguirono senza prendere la struttura di una psicanalisi, né
il professore chiese mai un compenso per le sue prestazioni. Trattandosi di un caso unico
al mondo - aveva comunicato alla madre del bambino - il suo impegno di medico doveva
essere gratuito, in onore all'avanzamento della scienza. Per quasi tre anni si protrasse
quella che la signora Canto chiamava "la cura", senza mai indovinare che in
verità il paziente era il professore. Ignara di ogni accadimento, non sorprese più il
suo bambino a fare l'amore con gli alberi, ritenendolo perciò guarito dalla malattia che
- ora lo sappiamo per certo - non aveva.
Con la prima cotta verso una graziosa coetanea e l'emissione di seme, Giacomo sembrò
dimenticarsi delle creature invisibili dei boschi e di Ur. Ma quello strano padre
continuò a ispirargli silenziosamente il cammino, mentre l'Ineffabile Tipografo stampava
nel suo destino le pagine di uno straordinario futuro politico.
*
Fu verso la fine della cura che Giacomo baciò il professore. Fu una cosa incredibile.
Tra loro si era stabilita complicità e amicizia e, quantunque fosse un bambino
"speciale", Giacomo non aveva mai perduto l'umano bisogno di dare e ricevere
affetto. Anche il professore parlava, raccontando della fuga dei nonni dalla Russia,
dell'infanzia a Parigi, dei giochi con Gratien alla vecchia fabbrica, dei suoi genitori,
di Rachel, dei suoi "loro". E il bambino era affascinato dalle storie di
Veritier, perché in lui scopriva il padre tangibile che non aveva mai avuto. Spesso,
durante le passeggiate, Giacomo aveva chiesto al professore di tenergli la mano. Egli
aveva sempre acconsentito, ma quel contatto lo turbava ogni volta, perché lo riportava
con la memoria al tempo in cui lui e Gratien, da adolescenti, si scambiavano confidenze e
dolori in un tenerissimo affetto.
Una sera dell'estate in cui fatalmente terminò il loro rapporto, al rientro da una
delle passeggiate si erano seduti su una panchina del viale ornato di tigli antistante al
Palazzo Tè. Forse fu il profumo dolce e inebriante di quegli alberi a ispirare l'idillico
evento. Veritier aveva appena finito di raccontare a Giacomo l'ultimo e commovente
abbraccio con Gratien prima di lasciare Parigi, e di come poi si erano scritti di nascosto
per alcuni anni fino a quando, dopo mesi di silenzio, era giunta la lettera di una zia di
Gratien, indirizzata al padre di Abramo, e in cui con disperato tatto comunicava la triste
notizia che Gratien era morto durante un bombardamento aereo. Veritier guardava davanti a
sé assorto nella nostalgia della sua più grande amicizia, quando Giacomo gli saltò al
collo e stringendolo forte gli diede un bacio sulla guancia. Il volto di Veritier
impallidì, poi si accese di tutti i colori caldi dell'iride. Egli accolse il gesto e lo
ricambiò nell'identico modo, con la stessa affettuosa intensità con la quale un giorno
lontano si era congedato da Gratien e dalla vecchia fabbrica. Ma ne fu alquanto sconvolto,
perché la notte fece un brutto sogno.
Sognò di parlare a Giacomo, presente la madre ad ascoltare. Egli abbracciava e baciava
il bambino e gli diceva:
"Figlio mio, sei così importante per me che baratterei la vita del mio canarino
con la tua, perché tu sei lui estroflesso, finalmente staccato dal corpo, circonciso e
cosciente. Sì, sei lui, con voce vera, esterna, da tutti udibile. Sei lui riprodotto, ed
eretto nel mondo".
Poi, come era già avvenuto nel Bosco della Fontana, Ur discese dal cielo e gli
strappò Giacomo dalle mani rimproverandolo:
"Tu sei impuro, come la carne degli animali dall'unghia non fessa. Ricordati di
quel che hai fatto nel bosco. Non hai mai voluto bambini e ora vuoi prenderti quest'angelo
che m'appartiene. Proprio non riesci a vederlo che porta la mia stessa giacca?".
Veritier cercò di rispondergli:
"No, non desidero prenderlo, lui ha bisogno di un padre vero e non di un fantasma.
Io li avrei voluti i bambini. Erano le altre, "loro" che non volevano. E, poi,
francamente non vedo nessuna giacca".
Senza ribattere, Ur prese con sé Giacomo e la madre, e insieme scomparvero.
Veritier si risvegliò sudato e spaventato, per avere rivisto Ur; e il fastidio del
sogno fu tale che non provò nemmeno a interpretarlo. Dopo le parole di Cassan sulla madre
di Giacomo e l'iscrizione di Shakespeare sugli archi di Verona, con quel sogno gli piombò
addosso il terzo e ultimo presagio.
( )
Il sole era alla suprema culminazione. Delle lunghe ombre del mattino non rimanevano
che ritagli minimi alle basi delle costruzioni e qualche umida fuga tra le lastre delle
vie, sulle quali sazi gatti cittadini posavano sdegnati i loro morbidi cuscinetti. La luce
che proviene dal punto più alto del cielo, e lo stesso cielo, azzurro e limpido, danno un
senso di sicurezza e di potenza nel bene. Forse noi uomini siamo come i girasoli. Almeno
in parte il nostro sentire è simile a questi fiori, che si rivolgono sempre verso la luce
chinando il capo quando ogni sera dopo il tramonto vi debbono rinunciare. Sono belli il
mezzogiorno e la piena estate. Ma è proprio quando la coscienza dei sensi è all'acme
della luce che si affaccia sottile la tentazione, la necessità d'ombra.
I dodici rintocchi del vicino campanile di Santa Maria del Gradaro riportarono Veritier
alla realtà. L'intensificarsi del rumore del traffico nell'ora di punta e un indisponente
brontolio dello stomaco risucchiarono la sua attenzione dalla regione dei ricordi,
riportandola sul quotidiano. Lo riaprì.
Negli articoli di seconda e terza pagina erano annunciate le prime proposte di legge di
Giacomo Canto, accompagnate da commenti esclusivamente favorevoli. Per la prima volta dai
tempi dei Re Illuminati Iperborei, nella nazione erano tutti d'accordo con la volontà del
premier. E ai deputati e ai giornalisti sembrava impossibile non avere argomenti per dar
vita a polemiche, perché l'armonia e una pax non romana avevano assunto il
controllo del paese senza spargimento di sangue né la più lieve manganellata.
Tra i provvedimenti di Giacomo Canto figuravano in primis la programmazione di
un'alimentazione vegetariana di massa e, in pieno accordo col pontefice, l'istituzione di
un culto cristiano degli alberi.
"Già, già! Proprio la naturale evoluzione del caso del bambino degli
alberi", pronunciò sottovoce il professore, mentre dentro, come la progressione
incalzante dei timpani in un mosso sinfonico, sentiva crescere a dismisura la rabbia.
"Vanno proprio così le cose nella vita. Questo mondo è un luogo di apparizioni e di
scomparse, il più spesso improvvise".
"Altro che natura non facit saltus!", disse ad alta voce, imprecando
contro Linneo, coniatore di quel motto insensato. E meditò che la natura, invece, fa solo
salti, capitomboli e precipitazioni. Fu assalito dall'ira, strinse i denti e serrò i
pugni.
"La nascita, la morte, l'addormentamento e il risveglio, l'eiaculazione e il
mestruo, i salti degli elettroni negli orbitali, il Big Bang dell'universo, le eruzioni
vulcaniche, i terremoti, i fulmini, le cascate e perfino gli starnuti: cosa sono queste
cose, allora", strillò, "se non salti?".
"Certo, è vero", ammise, "dietro ogni salto c'è una preparazione
graduale, lenta e spesso nascosta, ma la natura non conosce altro che salti!".
"Maledetta belin Belandis!", sbottò irritato, rivolgendosi alla governante
assente. "Perché mi hai portato in casa questo?".
Se in quel momento si fosse visto, avrebbe avuto pietà delle strie di bava che si
affacciavano agli angoli della bocca. Se avesse offerto il viso alla lastra imparziale di
uno specchio, sarebbe stato mosso a compassione verso se stesso, desolato per quelle rughe
tirate, quell'esplosione vana di rosso e di verde sulla pelle del volto, in una battaglia
perduta in partenza contro la memoria. Se si fosse visto. Ma non si vide.
Afferrò il giornale che aveva davanti, lo richiuse piegandolo in quattro e lo lanciò
lontano con stizza, credendo con quel gesto di allontanare anche il doloroso ricordo di
Giacomo. Raccolse gli occhiali e con voce rotta seguitò:
"Un giorno ti portano un ragazzino che è creduto malato, tu ti affezioni, lui ti
fa fare esperienze che ti portano quasi alla morte e ti lasciano segni come questo".
Si toccò furioso i capelli. "Poi guarisce e all'improvviso scompare. Ed eccolo che
riappare, dopo tanti anni, come l'uomo più importante del Paese. E nemmeno si ricorda di
te".
Dopo la guarigione, Giacomo e sua madre erano scomparsi, forse trasferiti in un'altra
città. Spariti nel nulla. Il professore aveva provato di tutto per rintracciarli, senza
risultato. Aveva setacciato i registri d'accettazione degli ospedali di zona, si era
rivolto al commissariato, ed era stato attento alle notizie della televisione e dei
giornali. Aveva chiamato l'ufficio delle persone scomparse e consultato l'ordine generale
degli architetti, dove aveva scoperto che non figurava nessun professionista sotto il
cognome Canto o Eris. Forse, come era avvenuto per i Pravdakim diventati Veritier, anche
loro avevano cambiato nome per fuggire da qualcosa o qualcuno. Per lungo tempo e senza
pietà i loro volti e le loro parole lo avevano perseguitato di giorno e di notte. Poi,
col passare degli anni, se n'era fatto una ragione.
*
'Eris?'.
*
Al vecchio professore parve di sentire nel petto una seconda martellata, il tuono di
chiusura della gonfia nuvola di ricordi che si era aperta qualche ora prima scaricando il
suo temporale. Il cuore di Veritier prese allora a battere più tranquillo. Egli tacque, e
malinconico pensò di rialzarsi per tornare alle faccende di pensionato che l'aspettavano.
Ma quella nuvola aveva ancora in serbo il catino più plumbeo e polveroso di pioggia, ed
era ormai pronta per bagnare di vergogna la testa stanca del professore.
Infatti, sin dall'inizio della sfilata di ricordi, una tenue ma affilatissima unghia
aveva preso a graffiare insistente alla cantina dei rimorsi, nell'anima di Veritier. Fino
a quel punto egli era riuscito a dirigere i ricordi del caso di Giacomo senza dover far
conto con i sensi di colpa. Tutto sommato, anche se con qualche discutibile divagazione,
durante lo studio di quel paziente egli si era comportato in modo corretto e più che
scientifico. Certamente aveva osato un po' nella sperimentazione, però questa, se mai si
poteva parlare di danni, ne aveva procurati a lui stesso e non al bambino. Sotto questo
punto di vista, perciò, la sua coscienza era tranquilla. Ma l'unghia di cui sopra, con
notizie allegate, si faceva spazio in quella montagna di fatti più grossolani, e ora
puntava come un coltello in una profonda ferita.
'Eris?'.
I pensieri che hanno il compito di nascondere altri pensieri stavano cedendo alla
pressione dell'ultima verità. Come palloncini stragonfi, appoggiati a punte di aghi,
pronti a scoppiare. Nella buia cella in cui erano stati imprigionati i ricordi più amari
del caso del bambino degli alberi entrò improvvisamente la luce. Rimozione rimossa.
E finalmente Veritier si ricordò di quel nome:
'Virginia!'.
Avvertì una fitta alle tempie.
'Forse per colpa mia Giacomo e Virginia se ne andarono senza spiegazioni', fu costretto
a pensare. "Maledetto quel giorno!", gridò abbattendo una mano come una mannaia
sulla propria coscia, quasi per punirsi.
Si chiamava Eris Virginia la madre di Giacomo, la desiderosa di prenderlo pentita.
Quanto tempo aveva lasciato passare senza chiederle il nome, tant'era preso dal caso del
figlio! Soltanto alla scomparsa apparente della fitofilia egli si era occupato in
dettaglio della signora Canto, e tutto in un giorno, anzi in pochissime ore.
*
Era il tredici di settembre, un bel pomeriggio ancora caldo di fine estate. Come il
tredici di ogni mese, sull'agenda di Veritier vi era il solito cerchio rosso, a ricordare
che l'uno e il tre accoppiati sono le cifre di Giuda il traditore. Come al solito si era
riproposto la più cauta attenzione. Ma quel giorno avrebbe fatto meglio ad assecondare
con puntiglio più fanatico i capricci della sua superstizione, perché oltre che il
tredici era anche un martedì.
"In tutto questo tempo, mi sono talmente preoccupato di Giacomo e del suo
disturbo, che non le ho mai chiesto il suo nome, signora Canto. Mi perdoni!", disse
Veritier alla madre di Giacomo, che si trovava da sola nel suo studio per essere
aggiornata, come periodicamente avveniva, sui progressi del figlio.
"Non importa, professore, non se ne dia pena. Il mio nome è Virginia", gli
rispose timidamente la donna fino a quel giorno conosciuta solo come signora Canto.
"Eris Virginia!".
"Sarai vergine, dea della discordia!", esplose il professore, felice della
pronta associazione venutagli in mente. Eris, aveva osservato tra sé, è sia il futuro
semplice del verbo latino "essere", sia il nome della dea greca della discordia,
che indisse un concorso di bellezza tra le dee dell'Olimpo e scatenò la guerra di Troia.
"Come della discordia?", aveva reagito Virginia, offesa dalle parole del
professore.
'Accidenti a me!', si rimproverò lui, mordendosi il labbro inferiore. 'Perché non mi
sono fermato alla quinta elementare? perché non sono diventato dottore senza dover
passare per il liceo? Di certi collegamenti non sarei capace!'.
"No, no, non si offenda!", la tranquillizzò allungando il collo.
"Pensavo alla mitologia greca". E, poiché ella ne aveva solo una vaga
reminiscenza, le fece ripassare il prologo del più famoso assedio della letteratura.
"Allora, professore", chiese Virginia rassicurata, "come le sembra che
vada il mio Giacomo?",
"Direi bene, anzi benone!", rispose Veritier aprendosi in un sorriso di
soddisfazione. "Penso che lo possiamo ritenere guarito. Ancora una o due sedute, e
potrà fare a meno di me", aggiunse falsamente, ben sapendo che l'aiuto era lui a
riceverlo.
Dopo le parole entusiastiche del professore vi fu silenzio, un silenzio che ricordava
quello dei primi incontri con Giacomo. Ma si trattava di un tacere diverso, teso ed
elettrico, anticipo di qualche appassionante rivelazione. Come vuole la regola, Veritier
si dispose ad ascoltare senza fretta di sapere. Intuiva però che la donna avrebbe parlato
presto, perché piccoli movimenti della mimica facciale e l'inclinazione del busto verso
di lui, ne segnalavano chiaramente l'intenzione.
"Vede, professore...", iniziò cautamente Virginia, "ci sono cose che io
avrei dovuto dirle, e che per vergogna ho sempre taciuto...".
"Mi dica pure. Non abbia timore. So già tanto di lei...".
"Ma queste non le ho mai dette a nessuno". E ringoiando un accenno di
singhiozzo rinforzò: "A nessuno!".
"Vada avanti", la pregò Veritier incuriosito, anche se, dopo le esperienze
del Bosco della Fontana, credeva che niente più l'avrebbe scandalizzato.
"Sento che sto arrossendo", disse piano Virginia, sfiorandosi delicatamente
le guance con le dita. "Vede, io... mi sono sempre sentita in colpa per il
comportamento sessuale di Giacomo con gli alberi. Le ho già raccontato che tradivo
Silvano...".
E si mise a piangere.
"Via, via. Questo lo so. E non faccia così, non è il caso, Giacomo è ormai
guarito", intervenne Veritier. "E, poi, era normale che tradisse suo marito,
visto che si occupava tanto poco di lei. Nessuna donna farebbe l'amore soltanto una o due
volte l'anno. Anche se i vostri amplessi erano più che soddisfacenti, il sesso è un
appetito non differente dalla fame. Mangiando dieci torte il giorno di Natale, si può
forse estinguere per tutto l'anno il desiderio di dolci? Non si deve sentire in colpa per
questo. Era tutto legittimo per lei, Virginia... Posso chiamarla Virginia?", espresse
Veritier con tenerezza, non accorgendosi che stava parlando troppo.
"Sì, sì, non ci sono problemi. Faccia pure", rispose la donna tra i
singhiozzi. "Ma, i miei... i miei non erano semplici tradimenti. Lei non sa, non sa.
Tutti quegli uomini, tutto quel sesso sfrenato. Io ero così ancor prima di conoscere
Silvano. Mi piacevano gli uomini, troppo mi piacevano i loro cosi. Per questo Dio mi ha
punita, togliendomi Silvano e facendo ammalare Giacomo".
Nell'udire la parola "cosi", il professore ebbe un sussulto. Gli ricordò le
espressioni "bisogno di carne" e "carne umana" che la donna aveva già
usato all'epoca dei primi incontri.
"Ma no, ma no...", cercò di rincuorarla Veritier. E, non potendo rivelarle
ciò che era venuto a sapere su Silvano Canto, diventato Ur, tentò in un altro modo di
mitigare quel dolore e quel senso di colpa.
"Bisogna accettarsi così come si è, questo è il segreto della felicità.
"Natura sepoltura", dice il proverbio. È difficile cambiare il carattere. Ma
lei ci è riuscita, grazie a Silvano".
"Invece bisogna che le dica tutto, così magari capirà, professore", fece
allora Virginia, dandosi il piglio coraggioso di chi è disposto a subire le conseguenze
di un segreto rivelato. Drizzò il busto, fino a quel momento piegato, e due poppe di
fattezza statuaria emersero dal suo petto protendendosi verso il professore, il quale non
poté fare a meno di complimentarsi dentro di sé con le ave di Virginia per quella
notevole eredità.
'Perché non le ho mai notate prima?', fu il suo pensiero. Sentì una stretta al collo.
'Forse il nodo della cravatta'. Lo allentò. Nulla. Con gli occhi puntati sul seno di
Virginia, credeva di soffocare. 'Forse il colletto della camicia'. Portò le dita di
entrambe le mani dentro il cerchio inamidato che l'opprimeva e, ruotando il capo a destra
e a sinistra e contemporaneamente alzando il mento, cercò di liberarsi. Ironia della
sorte, o un folletto dell'inconscio, di quelli addetti a mettere in piazza con un lapsus
le nostre intenzioni più segrete, fece saltare il primo bottone. Non potendo essere
fermato dal nodo della cravatta, che era stato allentato, il bottoncino partì a schizzo
in avanti, rimbalzò sul cristallo della scrivania e raggiunse la fessura tra i seni di
Virginia, dove sarebbero volute andare le mani del professore.
"Oh!", esplose Virginia. Coprì con una mano la bocca, con l'altra la
scollatura del seno e si mise a ridere, mentre il professore moriva di vergogna. Era
davvero un fatto incredibile, un cartone animato. Come spesso si commenta di fronte a casi
simili, se di proposito avesse voluto ottenere quel risultato non ci sarebbe riuscito
nemmeno dopo cento tentativi.
Quel curioso avvenimento fece rilassare Virginia, che affondò delicatamente indice e
medio tra i seni, recuperando con nonchalance il desiderio del professore materializzatosi
nel bottone. Sorridendo glielo restituì. Come se fosse il corpo di un ignobile reato,
egli lo ripose frettolosamente in una tasca della giacca. Poi si domandò una seconda
volta perché non avesse mai notato il seno di Virginia.
Da qualche tempo aveva però registrato qualche cambiamento nella signora Canto. Molto
gradualmente, lungo il succedersi delle lune, gli abiti erano diventati più aderenti e i
colori più vivaci. I capelli, pur essendo ancora pettinati a caschetto, ora portavano la
frangetta arruffata e sollevata da qualche gel o schiuma moderna, lasciando la fronte
parzialmente scoperta. Le unghie erano più lunghe, verniciate con uno smalto delicato.
Quel giorno, un leggero velo di ombretto celeste le colorava appena le palpebre, uno
straterello di fard dava un po' di luce alle gote, e le ciglia erano addensate in
ciuffetti da qualche toccatina di mascara. Infine, un rossetto le tingeva le labbra senza
la minima volgarità, e un profumo quasi impercettibile di liquirizia o verbena, o
comunque di umile vegetale, si levava di tanto in tanto dalla sua persona.
Veritier aveva davanti una signora Canto molto diversa da quella conosciuta tre anni
prima. Adesso sì che si vedeva la sua origine zingara: musetto intelligente e occhi vispi
illuminati da dentro. E sensualità che scaturiva nomade da ogni punto, retta o curva
delle sue forme, sotto una maglietta ampiamente scollata e una gonna corta che non avevano
più nulla del lutto, come la collanina fine e d'oro che le ornava il collo, non più
nascosto dietro un foulard. E, al posto delle due fedi sullo stesso anulare, portava in
ogni mano più di un anello, libero e gaio.
Virginia si sentiva sicura di Veritier, era il grande sessuologo che aveva guarito suo
figlio da un disturbo gravissimo. Pensò all'orrendo vocabolo "fitofilia" e fu
felice di aver deciso di confessarsi. Avvicinò alla scrivania la poltrona sulla quale
sedeva di fronte al professore, vi puntò sopra i gomiti e, tenendosi la faccia tra le
mani per impedire che il venir meno del pudore gliela facesse cadere, iniziò a raccontare
la sua storia.
"Sin da quando ero piccola, sentivo che i miei desideri non erano normali. Scoprii
molto presto il piacere sfregandomi sul dondolo. Poi, già all'asilo e alle elementari ero
curiosa di vedere i maschi, cos'avevano nelle mutande, e loro... mi lasciavano fare, si
eccitavano, anch'io mi eccitavo, molto, e toccavo, toccavo e mi piaceva, godevo. Fin lì
niente di male, eravamo bambini, ma con lo sviluppo scoppiai. Ero carina, molto carina
allora...".
"Ma lei è bellissima anche adesso!", intervenne il professore con un
complimento fuori luogo, vista la sua professione. E anch'egli, incuriosito, e forse un
tantino eccitato, avvicinò la poltrona alla scrivania e il proprio viso a quello di
Virginia.
"Alle medie la stessa cosa. Durante le lezioni frugavo i compagni, facevo finta
fosse un gioco, e i più svegli bucavano il fondo delle tasche per farsi toccare dal vivo.
Più di tutti mi piaceva Michele, che l'aveva più grosso degli altri, sentivo le
vene...".
Virginia sorrise appena, per le immagini ingenue degli anni trascorsi, asciugandosi una
lacrima col dorso della mano.
"Non glielo avevo mai visto. Sa, professore, Michele era bello, ma uno di quei
prepotenti... Era la seconda volta che ripeteva la terza classe".
Il professore pensò al coso di quel tale Michele e lo confrontò mentalmente col
proprio. Annuì e si tese curioso all'ascolto, perché l'argomento della misura tocca in
profondità tutti i maschi. E sul soffitto di quella profondità il filo della spada di
Damocle prendeva a sfilacciarsi inesorabilmente. Come quando subiamo un brutto incidente,
o quando ci tocca morire davvero e per sempre, le cose vanno da sé, è destino,
"loro" lo vogliono. A chi resta spetterà il vano compito dell'autopsia delle
cause, perché tutto quello che potrebbe capitare si può in un certo senso evitare, ma
quello che è già capitato non ha rimedio. Così Veritier non fece nulla, e sì che
avrebbe potuto, ma lasciò che Virginia continuasse a scavargli dentro, con le sue parole,
un altro giorno cicatrice dell'anima.
"Un giorno a scuola, Michele mi chiamò con una scusa dal bagno, e si chiuse
dentro con me. Prima me lo fece toccare come al solito dalla tasca bucata, poi lo tirò
fuori. Pretendeva che glielo succhiassi. Io lo guardavo incantata, non l'avevo mai visto,
così turgido, con quel colore intenso alla punta, le vene sinuose... Ma ciò che Michele
mi chiedeva mi sembrava una cosa molto brutta, e non volevo farla. Allora, mi prese con la
forza e mi fece inginocchiare. Io stavo per gridare, ma lui mi afferrò i capelli e mi
disse: "Mangialo, mangialo, che ti piace la carne", e mi tappò la bocca col suo
coso. Cercai di staccarmi, ma lui insisteva e me lo spingeva dentro la gola: "Ti
piace, ti piace, vero?", mi diceva. "Dimmelo che ti piace! Non soltanto
toccarlo". Io volevo ribellarmi e dirgli: "No, no", ma mi piaceva, mi
piaceva, aveva un buon gusto e godevo".
'È da Michele allora che ha imparato a usare la parola carne per indicare il
pene', pensò lo psicanalista, mentre il maschio Veritier guatava bruto la donna, e per la
prima volta si sentì cuocere dal desiderio verso la bella bocca di lei.
Le lacrime avevano ripreso a scorrere copiose sulle guance accaldate di Virginia, che
non le asciugava, e pertanto solcavano il trucco come rivoli d'acqua su terreno appena
fresato, cadendo a pioggia sul cristallo della scrivania, dove formavano laghetti salati,
mentre lei continuava a raccontare. E a Veritier diventava sempre più duro.
La confessione di Virginia ne rivelava il forte esibizionismo che fino ad allora era
stato evidentemente represso, ed egli sentendosi tanto eccitato pensò che avrebbe dovuto
interrompere quello sfogo, o cercare di modularne l'andamento, per non lasciarsi
coinvolgere emotivamente. Quella donna aveva bisogno di parlare delle cause del suo
comportamento, dei problemi che lo avevano generato, e non, come invece stava facendo,
degli effetti. Ma in lui prevalse il brivido e lasciò che il racconto di Virginia si
svolgesse spontaneamente, proponendosi di indurla a parlare dei suoi conflitti in un
secondo tempo, quando sarebbe stato raggiunto, ahimè, il punto di non ritorno.
"Mi piaceva, mi piaceva. E continuai a succhiare con delizia, finché non venne lo
sperma e io lo ingoiai. Era abbondante e di buon sapore".
'Accidenti!', considerò tra sé il professore. 'Ci vuole davvero del coraggio per
raccontare queste cose', e quasi gli sfuggì un verso. L'agitazione, dovuta alle scene
stuzzicanti che Virginia offriva alla sua immaginazione, lo indusse a strofinare a più
riprese il sedere sulla poltrona, per cercare di sentirsi, in una posizione più comoda e
meglio assestata, meno imbarazzato.
"Poi, Michele mi fece alzare, mi scoprì i seni e li accarezzò, pizzicando
dolcemente i capezzoli. Mi guardò intensamente negli occhi, e mi disse: "Ti
amo!". E, prima che io rispondessi qualcosa, mi abbracciò forte e mi baciò sulla
bocca. Fu tenerissimo. Il bacio più bello della mia vita. Sa, professore, anche adesso ci
penso spesso a quel bacio...".
Virginia restò in silenzio, come se la parola "bacio" fosse stata
pronunciata insieme a un colpo di gong tibetano in una grande sala di meditazione, vuota,
con al centro il più saggio dei monaci.
Chiuse gli occhi.
BACIO...
BACIO...
BACIO...
BACIO...
I laghetti di lacrime sulla scrivania si dilatavano, sotto l'effetto di un'alluvione.
Le palpebre ferme di Virginia erano fenditure di roccia che stillavano gocce disciolte da
neve, incatenati ricordi che tradotti in parole liberavano le ardenti emozioni di quella
prima esperienza di bacio. Sulla carnagione olivastra del viso zingaro, le rime bagnate
degli occhi chiusi sembravano brevi tagli sul legno vivo di un albero esotico, gementi
linfa pregiata.
Veritier parve risuonare anch'egli sotto la vibrazione dolce di quella parola, avvolto
dagli eco delle vocali. Immaginò la scena di Michele e Virginia, i due ragazzi
abbracciati stringersi e toccarsi, baciarsi. Ne fu commosso. Come se fosse anche lui
dentro quel bagno, si figurò le loro bocche innocenti sfiorarsi e poi premersi l'una
sull'altra. Rivide i baci della sua mamma, la dolce Judith, e quelli dell'affettuosa
Rachel, e il suo primo bacio a un'altra persona.
Gratien.
Era stato Gratien il suo primo bacio a un altro. Poco importa a chi è dato, il primo
bacio è androgino. Lui e Gratien non avevano usato la lingua, soltanto due labbra e una
guancia, uno alla volta, seduti nell'oscurità silenziosa e complice della vecchia
fabbrica. Meravigliosa essenza del patto, il primo bacio è riconoscenza reciproca. Viene
dal cuore: angeli e bambini, non importa l'età, spettatori e protagonisti.
Poi furono due labbra e due labbra, non più a Parigi con Gratien, ma a Padova con
Arianna, la prima passione. Il secondo bacio viene dal ventre, non è più solo cuore.
Mucosa contro mucosa, pasto mutuo e consenziente, il secondo bacio è l'unione con l'altro
per dare origine a un altro ancora. Sotto il dominio di Bios, secrezioni che esplodono
dentro secrezioni, e le anime si contendono là vicino il privilegio della rinascita.
Ma il terzo bacio nasce dal secondo, non dal primo, che è diversa, sublime cosa. Fu
una qualunque Lucia, il terzo bacio di Abramo, già adulto. Ne ricordò a malapena il
nome, lo punse dentro però il primo senso del peccato. Il terzo bacio si dà a
sconosciuti, a corpi di cui non si stima la faccia, viene da sotto, da più sotto del
ventre, dai piedi, dalle radici degli alberi. È fatto di piacere egoistico, di
compulsione cieca, di collezionismo, di esperimento e trasgressione a tutti i costi. Nel
terzo bacio c'è sempre uno dei due che soffre, che non ci sta, che ama un altro, che si
annoia, che cerca il potere, che vuole comprare, che si considera superiore. Eros
macchiato di Tanatos, è fatto di dolore, aveva ragione Silvano.
Finché si resta nell'Uno, ci sono solo femmine dentro. È sulla guancia il bacio che
Dio dà all'anima umana prima di immergerla nel fiume dell'oblio e della tragedia.
Dall'uno ha origine il due e dal due il tre. L'uno è la femmina, il due è il maschio e
il tre è il figlio.
Virginia, Veritier, Giacomo.
Perché Virginia gli faceva quelle confessioni? Perché lui, Veritier, era diventato il
padre di Giacomo. Giacomo lo aveva baciato, un bacio numero uno, sulla guancia, come se lo
avesse dato a Silvano, il padre mai conosciuto. Un padre defunto, anche se principe degli
alberi, può suggerire, rivelare, ma non può baciare suo figlio.
Giacomo aveva baciato Veritier, e l'aveva abbracciato, stretto forte. Veritier non
aveva famiglia. Giacomo era stato come un figlio, lo aveva fatto soffrire. Un figlio è la
porta dopo la porta, nell'arcano corridoio dell'essere che, cieco dell'origine, si
rigenera.
"Quando ci amiamo fisicamente siamo fiori, poi diventeremo rami o radici".
Anche il professore aveva baciato Giacomo. È una cosa che un dottore non dovrebbe mai
fare, dare un bacio a un paziente, anche se un bacio innocente. Ma Veritier non aveva
potuto resistere: un bacio a un bambino, al bambino degli alberi. Con tutta
probabilità la madre lo aveva saputo. 'Giacomo, meraviglioso Giacomo'. Per questoVirginia
confessava proprio a lui il bacio più bello della sua vita.
Il volto di Virginia, come quello di una Maddalena piangente, affrontava quello di
Veritier rapito nell'apologia del bacio.
"Accadde che molte altre volte Michele mi prese così, e io acconsentii sempre. Un
mattino, qualche tempo più tardi, dopo la fine delle lezioni, quando tutti i compagni
erano già usciti, mi condusse nel bagno e mi baciò a lungo sulla bocca, poi si
inginocchiò lui quella volta. Mi sfilò le mutandine e si mise a baciarmi sotto, con
foga. Poi, si rialzò, mi strinse al petto, mi fissò negli occhi deciso, e mi disse:
"Eris Virginia, da oggi non sarai più vergine!".
Mi fece allargare le gambe, e mi penetrò. Sentii un po' male, dapprima, ma poi fu
speciale. Non so quante volte raggiunsi l'orgasmo".
"Ma allora... allora mi aveva mentito", la interruppe il professore, mentre
la spina del risentimento (e della gelosia) feriva il suo cuore, "quando disse che
Silvano era stato il suo primo ragazzo?".
"Sì... le avevo mentito!", rispose Virginia, annuendo mestamente col capo.
"Temevo che la fitofilia di Giacomo fosse causata dal mio passato. Mi perdoni,
professore, se può. Non la conoscevo ancora bene e non mi fidavo. Oggi so quanto è bravo
e quanto ha aiutato il mio Giacomo. Lui le è molto affezionato, le vuole bene. È come se
fosse suo padre, il padre che non ha mai avuto. Non potevo dirgliele subito queste cose,
mi avrebbe frainteso... si sarebbe fatto una pessima opinione di me come moglie e come
madre. Ma se Giacomo non fosse migliorato entro breve mi sarei confessata, glielo
giuro". E portò la mano aperta sul petto per confermare l'intenzione.
Qualcosa venne da pensare a Veritier.
'Non lo so cosa sei!', pensò. Ma si controllò e non disse niente, anzi rimproverò se
stesso per aver avuto quei pensieri:
'Con quale arrogante diritto fai questa predica? È la madre di un paziente. Anche se
confessa cose immorali, con che autorità fai il moralista e il censore tu; le sei forse
superiore o migliore? Tu sei un dottore, ricorda...
...e ricordati del Bosco della Fontana, non te ne dimenticare mai'.
Gli sembrò quasi di udire la voce di Ur accompagnare la propria in quel breve monologo
interiore.
Era indignato solo perché Virginia gli aveva mentito? O, forse, visto che per Giacomo
rivestiva in qualche modo il ruolo di padre, si sentiva anche marito della madre? Non le
aveva neppure chiesto il nome. E se ella si fosse confessata prima, tra l'altro, forse lui
non avrebbe risolto il caso. Interpretò mentalmente il racconto di Virginia:
'È sul piano verbale la sua esibizione, adesso. Oggi riesce a immaginare e a esprimere
in parole ciò che prima era capace soltanto di agire. È tornata normale, come prima
della morte del marito!'.
Quelle riflessioni lo placarono e gli fecero rispondere:
"È perdonata. Le credo e la capisco. Sarebbe stata difficile, all'inizio, questa
confessione. Ma, la prego, continui", la invitò con un gesto della mano.
Virginia proseguì.
"Spesso Michele e io ci fermavamo in quel bagno dopo le lezioni, nascosti. Io
avrei voluto che ci incontrassimo fuori, ma lui diceva che là dentro era più bello:
l'odore, le pareti vicine. Anche a me piacevano quel bagno, l'intimità, il luogo
proibito... Un giorno, mentre in ginocchio aveva la testa sotto la mia gonna, mi fece
voltare, poi mi spinse verso il water, e mi fece piegare in avanti. Io appoggiai le mani
sul coperchio, e sentii la sua lingua dietro che spingeva dentro. Michele restava sotto la
gonna e a due mani mi apriva giù, in fondo alla schiena.
Dio! che imbarazzo", esclamò Virginia, ma il professore non capì se voleva
riferirsi a quel giorno lontano oppure a questo, davanti a lui.
'Ecco che comincia a rendersi conto della sua esibizione. Ma... non vorrà anche un
tantino eccitarmi? Non può non tener conto che anch'io sono un uomo'.
Seppure l'espressione di Veritier non ne aveva tradito i pensieri, Virginia, che forse
li aveva colti, ebbe alcuni attimi di esitazione. Con movimenti dosati e timidi passò la
lingua agli angoli della bocca. Poi, abbassando un po' il capo ma tenendo gli occhi fissi
sul professore, come per dire "Aspetta! senti come va a finire", riprese:
"Michele raccolse l'orlo della gonna e me lo ribaltò sul dorso. Sentii un brivido
caldo corrermi giù dalla nuca, e mi venne la pelle d'oca sui glutei. Prese a leccarmi nel
solco tra i muscoli della schiena, che quasi da sola si inarcò, mi morse più volte il
collo, poi mi mise un dito sulle labbra e mi chiese: "Bagnalo, dai!".
Io obbedii, non sapevo, la saliva mi veniva abbondante, e poi lui lo infilò dietro,
piano, con molta dolcezza. Ebbi un piccolo scatto, perciò lui mi domandò: "Ti fa
male? Ti piace? Ti va che continui?". Io non risposi, ma chi tace acconsente, così
lui entrava e usciva, mi piaceva, mi piaceva, non potevo negarlo".
Virginia ripeté: "Dio! che imbarazzo", abbassò il volto e lo coprì con le
mani.
Veritier, più eccitato che mai, perse del tutto la stima di sé.
"Continui, continui!", la incitò, ebbro di interesse poco scientifico, senza
accorgersi che con la sua richiesta offriva spontaneamente il collo alla spada che lo
minacciava.
Virginia filtrò lo sguardo tra le dita, lui si fregò il mento e finse distacco. Ella
liberò il viso dalle mani seguitando il suo sfogo:
"Ero innamorata di Michele, era il mio primo ragazzo. Quel dito mi piaceva, ma mi
sentivo più larga e non mi bastava. Mi misi carponi, volevo stare più comoda, appoggiai
il seno sul piano del water e fui io a volerlo. "Mettici il coso, adesso", gli
sussurrai. Non si fece pregare. Mi chiese: "Davvero?". "Sì", gli
risposi, "davvero!". E godevo. Allora lui... mi scivolò dentro".
'Allora sei..?!', osò di nuovo pensare il professore. 'No, no, non devo pensare queste
cose. Sono uno stupido. Mi sto lasciando prendere troppo. È gelosia', si rese conto,
'umana gelosia. Ma questa donna non è nulla per me, nulla. Soltanto la madre di un
paziente, la madre di Giacomo. Però com'è bella! È così. Devo stare calmo, calmo. Devo
ricordarmi del Bosco della Fontana. Chi sono io per giudicare? Chi sono io? Sono un
dottore. Sono un uomo, non un prete'.
Virginia tacque.
Un silenzio pesante si dispose tra la sua faccia e quella del professore. Virginia ora
teneva gli occhi alti, non più lucidi. Veritier, al contrario, non osava guardarla. Era
inebetito, confuso, non trovava parole. Provava della gelosia e un'incontrollabile
eccitazione. Quella di Virginia era una confessione troppo vivida e suggestiva perché la
sua ragione potesse contrastarla. Non l'evasiva e distaccata cronaca dei tradimenti di
un'adultera da romanzo, ma la descrizione dettagliatissima dei preliminari e del primo
rapporto anale di una ninfomane in carne e ossa. Nell'animo di Veritier quelle scene,
francamente pornografiche, presero a lottare con il Vangelo che anzi lo aveva illuminato.
E poeticamente prevalsero, per giustificare l'errore. Per la seconda volta nella sua vita,
il professore vergò di getto, segretamente, dei versi:
'È la vita che unisce le ombre alla luce / nei corpi più densi del mondo. Solo
Lassù la materia è sottile / e non genera il chiaro davanti allo scuro. Lassù / dove la
Luce penetra tutto / non penetra altro'.
Invece quaggiù "altro" penetra, eccome! Altri penetrano altre, altri
penetrano altri, tutti penetrano tutti, in un modo o nell'altro. Virginia aveva fatto la
confessione più difficile che si possa fare, quella che, pur non essendo un delitto,
genera più vergogna e turbamento in chi parla e in chi ascolta: l'ammissione del piacere
anale.
Veritier se ne intendeva di quell'argomento e, benché fosse a conoscenza della propria
omosessualità latente, quel piacere non aveva mai voluto sperimentarlo. Se l'avesse
provato si sarebbe fatto un'idea differente della vita. Sarebbe stato meno arrogante, meno
maschio nel senso della teoria che Dio è femmina... E meno pericolosamente sicuro di sé.
Eppure, senza aver mai suffragato teoria con pratica, tra sé e sé fece le proprie
autorevoli considerazioni:
'Sodomia. Penetrazione contronatura. Femmine alla pecorina. Maschi nudi in ginocchio.
Preti cattolici che offrono la loro eterosessualità a un Signore che li vorrebbe eunuchi
e casti nel pensiero, e che inorridisce nel vedersi continuamente frainteso. Musulmani
prostrati che offrono il culo ad Allah, ciecamente convinti che Lei sia maschio, mentre
oscurano con veli e mantelle le Sue più autentiche immagini: i volti di donna.
Nel rapporto anale c'è l'abbandono completo all'altro. L'ano è apertura comune a
maschi e a femmine, ma è orifizio femminile nel maschio e maschile nella femmina. Il
maschio che si lascia penetrare vuol farsi femmina. La femmina che si fa penetrare da
dietro è una superfemmina, perché di sé concede al maschio anche la parte
maschile. Il piacere anale ha origini antiche, è già nei rettili, negli uccelli, e
forse... è il piacere infantile di Dio'.
Considerazioni che Veritier stralciò in silenzio dal saggio Ano e Onan, libro
che gli era costato la conoscenza di Nerone e il rogo delle sue idee eretiche.
Nerone era andato a "punire" il professore, non come egli aveva erroneamente
creduto all'inizio, perché commissionato da un sinodo di cardinali, rabbini e ayatollah
maschilisti. Aveva preso l'iniziativa da sé, per dare una lezione a chi, con quel libro,
cercava di affrancargli la moglie dalla schiavitù di sodomie coniugali senza consenso.
Era un disperato, Nerone; sì, un disperato. Uno che brucia i propri libri, in fogli
sparsi o rilegati, compie un gesto eroico contro l'autolatria che si è specchiata nelle
lettere. Ma chi arriva a bruciare i libri degli altri, fossero anche contenitori dei
pensieri più infami e scellerati, è messo male: nel profondo del cuore vorrebbe
impiccarsi o rifondare il nazismo, azioni che suscitano lo stesso tipo di orrore.
Nerone era un pover'uomo, un malato piromane. Un malato si deve comprendere, lo
sappiamo. Il professore era andato a fargli visita in carcere, dopo averlo identificato
nella fotografia del giornale che riportava la notizia del suo arresto a seguito di una
rapina a mano armata. Un fatto di grande scalpore perché, dopo aver freddato la guardia
alla porta della banca presa d'assalto, Nerone ne aveva cosparso di benzina il cadavere,
incendiandolo.
Nemmeno lo aveva riconosciuto, tanto era depresso, dietro lo spesso vetro forato che lo
separava dal professore nella stanza dei colloqui.
"Ma chi sei... chi siete?", gli aveva chiesto stringendo gli occhi e
scuotendo il capo.
"Dai, non ti ricordi?", lo sollecitò il professore ricambiando il tu per
compassionevole fraternità. "Sono quel professore cui hai incendiato il libro...
sotto i miei occhi".
"E che ne saccio!". Nerone socchiuse le palpebre, alzò le sopracciglia e il
capo. "Nella mia vita ne ho incendiate tante di cose: case, boschi, persone... Cosa
vuoi che mi ricordo di un libro. Abbiate pazienza, professò", e giunse le mani,
"siete forse quello che dovete farmi la perizia pissichiatrica?".
Teneva il capo basso, Vit' Passat' (Vito Passati), in arte Nerone, operaio meridionale
scansafatiche e piromane, frequentatore di bische e infine rapinatore. Ma quando il
professore spiegò con parole semplici il contenuto del libro, si ricordò.
«Ah, quello! quello giallo con dentro le figure nude. Era soltanto un libro. Manco
l'ho letto. Però lo leggeva mia moglie Teresa, e quando mi bisticciavo con lei perché
non voleva farsi inc... ehm, scusate professò, volevo dire... prendere da dietro, mi
gridava: "Senti cosa dice questo professore: che le donne non devono avere rapporti
sessuali solo per dovere, ma che gli spetta sempre la loro parte di piacere. E se
una cosa non gli piace non devono farla. Capito?!"».
Il professore, allibito come nel giorno del rogo, guardava Nerone senza ribattere.
"Prima di leggere quel libro, no, prima di conoscere quelle sue amiche, quelle
stronze che glielo avevano imprestato, Teresa era una bonafemmena, nu piezz'e pane, si
lasciava fa' tutto, poi ha cumminciato ad alzare la voce, a ribellarsi... ho dovuto
menarla forte...
...poi un giorno se n'è andata. Così, me la sono pigliata col libro, mi dispiace,
professò, come hai detto che ti chiami, scusate, come avete detto che vi chiamate?".
Ci sono aggressori che le vittime incontrano due volte: nel momento del delitto e in
quello del castigo. Ma il professore sapeva perdonare. Era dispiaciuto, perché conscio
che gli avvenimenti più importanti di ciascuno sono scritti, anzi incisi, e per questo
indelebili: infinite spade di Damocle penzolano dai soffitti delle vite umane.
"Mi chiamo Abramo", rispose il professore dicendo solo il nome, impietosito
da un destino diverso dal proprio ma dalle cause tanto simili.
"Ah! Abramo", commentò Vit' Passat', con lo sguardo forzatamente beato che
frugava in una lontana e confusissima Bibbia. "Abramo... come Gesù!".
E proprio come Gesù si comportò Abramo Veritier nei riguardi di Vit' Passat', alias
Nerone. Sentendosi in colpa per avere influenzato seppure involontariamente la vita di
quell'uomo, ne ebbe pietà. Continuò a fargli visita in prigione e a volergli bene fino
al punto di trovargli, dopo la scarcerazione, un lavoro che gli avrebbe permesso di
sfogare nel sociale la piromania patologica: un posto di addetto alle cremazioni nel
cimitero di Venezia, dove il professore aveva delle amicizie influenti.
"Sapessi, professò, come mi trovo bene accà. E che soddisfazzione quando li vedo
bruciare. Uommene e femmene grand'e gruosse che si credono ddio, farsi piccirilli
piccirilli dint'a vasetti di cenere. Aggio visto tanti tipi di fuoco ma, credetemi
professò, cumm'abbrucia chisto nunn'abbrucia nisciuno. E cumme scoppiano! Quando do tutto
gas si gonfiano, fanno nu botto accussì: bum!, e poi si riducono a nniente. Polvere
siamo, e polvere ritorniamo. Grazie di tutto, professò. E venitemi a trovare quando
morite, che vi faccio un trattamento speciale!".
Così, Vit' Passat', con un nome che richiamava alla mente le vite precedenti, finì
per occuparsi da stipendiato dell'incenerimento delle spoglie dei trapassati. E tutto a
partire dal rogo di un libro.
*
Quante belle riflessioni erano contenute in quel libro con la copertina gialla, colore
del sole e della gelosia, quanti bei suggerimenti per liberare la sessualità e dirigere
con arbitrio le sue varianti, le devianze, le frustrazioni e i sensi di colpa. Emancipare
ed emanciparsi. Tante belle parole, ma da quale pulpito veniva la predica?
Faccia a faccia con quella paziente, anche se sottoposto a inusitata provocazione,
avrebbe dovuto mantenersi distante, censurare le associazioni offensive.
Con l'immobilità fisica Veritier cercava di controllare l'agitazione dei pensieri che
inseguivano le immagini del passato e dei peccati di Virginia. Se non l'avesse avuta
davanti sarebbe riuscito a distrarsi, ma con sotto gli occhi quella bella bocca e quei
seni prosperosi sapeva che il falco sarebbe presto caduto in picchiata.
Fece un colpo di tosse, una salve di colpi di tosse, per cercare di espellere il
disagio. Con un movimento secco delle dita assestò gli occhiali alla radice del naso, si
fregò forte con l'indice il sotto delle narici, si grattò con forza il capo, il collo, e
tirò su e giù le spalle. Infine, simulando indifferenza disse:
"Dicevamo...?".
Virginia riprese a parlare e venne il racconto dei baci a tre e quattro cifre: cento,
seicento, mille. Matricole anonime di sentimenti clonati e coatti, di vita che si consuma
stupidamente, che distoglie dalla scalata verso il cielo (così avrebbe detto Silvano).
Baci promiscui, contaminati, di visceri e genitali.
Virginia raccontò ancora, raccontò degli altri. Ancora di Michele, poi di Carlo, di
Giovanni, Maurizio, Antonio, Gennaro, Eurialo e Niso (sì, anche loro!), e di un secondo
Michele, di Giorgio, Roberto... e tanti, tanti, dei quali non aveva nemmeno saputo il
nome. E rivelò che lo aveva fatto sempre in un bagno. Ah, quanti bagni!
Aveva conosciuto anche Silvano in un bagno, nel bagno del treno che portava a Padova.
Gli era sempre piaciuto Silvano, più degli altri, perché non mostrava interesse a
possederla. E ciò la eccitava in particolar modo. Un lunedì sera, che erano rimasti a
lungo a parlare nel corridoio, le era venuta un'irresistibile voglia. Come aveva fatto
Michele la prima volta con lei, con una scusa lo aveva attirato nell'angusta toilette in
fondo al vagone. E lì dentro glielo aveva preso, in ginocchio, come a Michele. Silvano
era venuto subito, goffamente, da inesperto si era fatto subito benvolere.
Anche quando era già sposata aveva continuato le sue avventure nei bagni: di
ristoranti, di bar, di discoteche, di stazioni, di uffici. Bagni, bagni e sesso sfrenato.
Ma Silvano, l'utopista, Ur, non disse mai nulla, non la rimproverò mai, ma la fece
cambiare, come sappiamo.
Durante l'ultima parte del racconto Virginia restò più distaccata, e fredda, non
pianse più, forse perché la spada era ormai caduta e, invisibile, restava saldamente
piantata sul collo del nostro professore, il quale invece rimase sempre coinvolto, caldo,
caldissimo, dimentico della religione e della psicanalisi. Incatenato dagli effetti,
lasciava libere le cause.
Quando la storia ebbe termine, Virginia si aspettava una risposta, un commento, ma il
professore era imbarazzato e ancora eccitato. Sentiva il proprio sudore, un afrore
emotivo, esalargli su verso il naso, come quando da solo, nella camera dei suoi genitori
assenti, esplorava se stesso. Alle ascelle - recita una poesia sufi - gocciano i
turbamenti del cuore.
I segreti di Virginia erano rivelati, il suo racconto concluso.
Per un po' Veritier costrinse gli occhi a vagare, li deviò in ogni angolo dello studio
cercando un riparo dal tormento che gli faceva palpitare forte il petto e più sotto.
Fermò l'attenzione sulle larghe spalle dei libri che gli erano più cari, dai quali aveva
tratto sostegno nei momenti più drammatici della sua vita: la Bibbia, il Corano e il
compendio di Upanis.ad e Bhagavadgi¯ta¯. Verso la libreria che si ergeva sulla parete
dietro Virginia, come all'altare di una chiesa indirizzò la sua preghiera di soccorso.
Per salvarsi dalla catastrofe avrebbe dovuto prenderli quei libri, scappare lontano e
leggerli nel silenzio. Ma non c'è talismano contro una fattura che si è contribuito a
preparare.
Poi, per dare inizio a un approccio, prese le mani di Virginia tra le sue e disse
soltanto:
"Suo marito è vivo, e la guarda dall'alto. Sì! e vede i suoi sforzi per cercare
la verità. Le assicuro, Silvano è lassù".
Con un cenno laterale del capo e corrugando la fronte indicò in alto e pensò alla
chioma dell'arcidiavolo nel Bosco della Fontana, da dove Ur era disceso con giacca rossa e
bastone, mentre Virginia, più romantica, si figurava il cielo al di là delle nuvole.
Virginia, allora, con le mani in quelle del professore, e con quell'immagine del marito
nel cuore si sentì in pace. Per qualche istante lasciò che le mani di lui, bollenti,
stringessero ancora le sue, e sospirò ripetutamente. Poi, si accorse dei laghetti di
lacrime sulla scrivania e, viste le tracce di mascara sulle proprie dita, le disimpegnò
dal contatto:
"Dio, come devo essermi conciata!", esclamò toccandosi il volto. Agitata,
estrasse uno specchietto dalla borsetta. Si rimirò bene. Due smorfie e due occhiate di
sbieco, poi guardò il professore e gli sorrise senza malizia:
"Può indicarmi dov'è il bagno, per favore?".
"Il... il bagno?", balbettò Veritier sorpreso e turbato dalla richiesta di
Virginia. Quella parola aggiungeva esca e durezza a un fuoco ormai insaziabile.
"Ah, sì, il bagno. Da quella parte, prego, la prima porta a destra", rispose
indicando l'imbocco di un corridoio sul lato opposto della stanza.
Virginia si alzò. Si ravviò i capelli. Poi si voltò, prese l'orlo della gonna e la
stirò in basso con ambe le mani, aiutandosi con un movimento alternato dei fianchi e
delle punte dei piedi, leggermente flessa in avanti. Veritier la osservò bene, e gli
parve bellissima, la più bella donna che avesse mai conosciuto. Come aveva potuto non
notare mai quel seno, quella bocca, quegli occhi? Troppo preso da Giacomo, forse. Oppure,
perché non l'aveva mai sentita parlare? E, mentre lei gli voltava le spalle e procedeva
in direzione del bagno, egli fissò la grazia del fondo schiena tornito che si stava
allontanando da lui con l'intenso desiderio che i veri maschi provano verso le
superfemmine.
Quando Virginia scomparve dalla sua vista, Veritier in preda a un ampio tremito
afferrò lo specchietto che ella aveva dimenticato sulla scrivania, e pure lui volle
guardarsi.
'Come sono brutto!', pensò. 'Con questi capelli, poi! Strano che non mi abbia mai
chiesto niente. E anche se Cassan mi ha detto che mi fanno più carino, sono proprio
brutto. E lei così bella! E così desiderosa di prenderlo. Quanto sarebbe stata più
felice con me, e appagata, invece che con Silvano!'.
Si specchiò ancora, di fronte e di profilo, e variò l'inclinazione per scovare sul
proprio viso qualche particolare con il quale poter interessare Virginia. Nulla, era
brutto davvero. Scrutò le proprie iridi, di un opaco e quasi giallo marrone, che sua
sorella Rachel scherzando definiva "come il colore del cane che la fa e se ne
scappa".
'Sì, proprio brutti i miei occhi!', constatò, come aveva fatto più volte da
adolescente. "Loro" avevano ragione'.
Ma, d'un tratto, oltre la cornea e la pupilla, avvistò lo scintillio dello Shen, la
bellezza del dentro e del sopra. In fondo a quei piccoli pozzi sull'anima colse il
luccichio delle idee, tastò la sua scienza e si rincuorò:
'Sì, sono brutto, però sono un tipo simpatico!'.
Gli ritornò in mente Virginia:
'Il bagno! Virginia è nel mio bagno! Ma non ho sentito la chiave e neanche la porta!?
L'ha lasciata aperta'.
Depose lo specchietto sul piano della scrivania, nel medesimo punto dal quale l'aveva
prelevato, perché al suo ritorno Virginia non si accorgesse che era stato usato. Poi, si
alzò piano dalla poltrona, spingendola indietro senza farla stridere sul parquet. A passi
felpati, da predatore della savana, si incamminò per il corridoio che conduceva al bagno.
Vide la luce, che attraversava la porta aperta, formare sulla parete di fronte un
rettangolo chiaro, dentro il quale si proiettavano incerti movimenti di ombre nel
sottofondo di piccoli rumori domestici. Era eccitatissimo. Non aveva mai avuto una
paziente là dentro. Si fermò e trattenne il respiro. Nei brevi istanti in cui aggiustò
il nodo della cravatta Veritier ebbe molte illusioni.
Si affacciò dunque alla soglia del bagno e vide Virginia. Ma non era nuda e carponi.
Gli offriva il fianco, mentre si rifaceva il trucco disastrato dalla confessione. Veritier
la rimirò da capo a piedi, con la stessa emozione che si prova sul ciglio di una strada
di montagna con sotto uno strapiombo mortale e davanti un panorama di eccezionale
bellezza. Col ventre appoggiato al lavabo, Virginia piegava il busto per tenere il viso
vicino allo specchio. Il profilo della sua schiena declinava come la parete di un monte
nel salto di una cascata, inarcandosi in fuori rotondo e avvenente. Veritier la osservò
compiaciuto, come se fosse già cosa sua, mentre lei tamponava il fard sulle guance e
finiva di darsi il rossetto alle labbra. Poiché Virginia non si accorgeva della sua
presenza, con le nocche della mano bussò leggermente allo stipite della porta, e si
annunciò con un educato e tremulo:
"Si può?".
Nell'udirlo Virginia si voltò.
"Fatto!", disse, riponendo lo stick nella borsetta. Guardò Veritier e gli
sorrise. Egli ricambiò il sorriso, le si avvicinò e repentinamente la cinse ai fianchi.
Sospirando disse:
"Mi dispiace molto che abbia sofferto!".
Lei lo lasciò fare, come prima aveva lasciato che le prendesse le mani. Ma, quando
sentì l'impronta calda che il membro eretto le stampava sulla pancia nei pressi
dell'ombelico, e vide la sua faccia avvicinarsi alla propria con la bocca socchiusa e
proterva, in principio restò, poi lo respinse decisa ponendogli le mani aperte sul petto.
"No, professore", dichiarò. "Anch'io sono guarita!".
Veritier, allora, freddato nel cuore dal gesto e da quella brusca frase, ma ancora
acceso nel basso, la tirò a sé e insistette:
"Almeno un bacio, Virginia, ti prego!".
Forse per riconoscenza all'ascolto indulgente e gratuito che lui le aveva prestato, o
forse chissà perché, acconsentì. Veritier non avvertì alcun trasporto in
quell'abbraccio, nessuna passione in quella lingua. Osò comunque portare una mano sotto
la gonna di Virginia, scostò l'elastico degli slip e fremente avanzò le dita nell'organo
vacuo della voluttà. Non vi trovò l'entusiasmo umido che si aspettava, perciò, svilito,
si ritrasse.
Al termine del bacio, Virginia si cavò dal seno un fazzoletto e con un gesto
affettuoso ripulì le labbra del professore dalle tracce di rossetto. Poi, con nello
sguardo una luce severa, disse:
"Sa, professore, perché quando lei prima mi ha detto "Sarai vergine, dea
della discordia", mi ero un po' risentita?".
Non lasciò che Veritier rispondesse.
"Perché in un certo senso aveva detto la verità", incalzò. "Quegli
uomini, io li ho fatti soffrire tutti. A ciascuno raccontavo che amavo anche altri, con la
stessa tenerezza speciale, e li facevo ingelosire. E quando loro erano innamorati
e arrovellati a puntino... io li lasciavo, scomparendo nel nulla. Era il mio modo per
dominarli e vendicarmi".
"Iniziai con mio zio, che di me non vedeva altro che questo...", disse ancora
Virginia, mentre faceva scendere le mani sui seni e sui fianchi. "E mi fermai con
Silvano".
Poi, assunse un'aria soddisfatta:
«Soltanto lui mi ha aiutato a prendere consapevolezza di me stessa! Soltanto lui
non mi ha mai detto: "Ti amo"».
Veritier non fiatò. Rimase.
'Lo zio!', pensò. 'Ecco la causa del vizio, rivelata soltanto alla fine dello
spettacolo'.
Troppo tardi. Così, tacito, comprese di appartenere al novero degli uomini che di
Virginia avevano amato solo la forma. Ma ci voleva un dio per trascendere quella
irresistibile esibizione.
"L'ultima cosa!", disse ancora Virginia pietrificando il professore.
"Non credo sia Silvano il padre di Giacomo!".
Mentiva, e pronunciò quella frase con la chiara intenzione di ferirlo, un piccolo
anticipo della grande vendetta.
*
Benché indiscutibilmente sicuro della paternità di Giacomo, il professore fu trafitto
a morte da quell'affermazione. Con gli occhi aperti, ma resi ciechi dall'amarezza, non
vedeva più Virginia davanti a sé, ma il baratro, l'abisso-femmina spalancato, nelle sue
spire più maschili l'immenso dolore della sessualità frustrata. Sperimentava una
sofferenza sorda e infinita, con metastasi in ogni località dell'anima, pativa come un
paese dalle cui carceri siano evasi in un sol colpo tutti i reclusi: tutti i raggi di
prigione vuoti, distribuito il crimine per ogni via e contrada. Perduto ogni brio,
depressa ogni volontà di festa.
Era caduto nella trappola. Virginia aveva voluto eccitarlo e arrovellarlo a puntino
(come da copione) per poi lasciarlo per chissà quanto tempo con quell'affanno dentro, con
il ricordo di lei, divina e irraggiungibile, a visitarlo dietro le sbarre
dell'innamoramento non corrisposto. Uno stupido, sì, era stato uno stupido. Non avrebbe
dovuto seguirla nel bagno, non elemosinare quel bacio. Quella menzogna era un colpo basso,
un attacco subdolo a sorpresa. Perché non era rimasto ad aspettarla seduto alla
scrivania, dandole l'interpretazione psicanalitica più classica e banale che ci sia?:
"I suoi comportamenti sono curiosità infantile repressa". Sarebbe bastata, e la
confessione di Virginia avrebbe apportato beneficio a entrambi. Perché, invece, aveva
permesso che si esibisse in quel modo osceno?
Ma a questo punto che fare? Ora doveva liberare la zampa dalla trappola, chiederle
scusa, riguadagnare il bordo del precipizio, annaspare graffiandosi le mani lungo le
pareti della vergogna e dire: "Mi scusi Virginia, ho sbagliato, sono stato uno
sciocco". Oppure voltarsi, uscire subito dal bagno e tornare a sedersi in studio
facendo finta di nulla.
Virginia ora lo guardava maliziosa, ma lui teneva il capo basso e dopo una fugace
quanto pavida occhiata si voltò per fuggire o forse soltanto per orientarsi. Con l'abisso
alle spalle fece un passo, un passo solo, e si fermò. L'abisso lo seguì. Non riusciva a
pensare né a procedere, non aveva una bussola per quella profondità, per
quell'indesiderato buio. Dappertutto dentro il suo corpo l'oscurità pulsava, fino alle
estremità il cuore trasmetteva sangue grigio, senza pensieri, senza desideri, sangue
senza sesso, senza più vita. Non aveva mai subito una simile frustrazione. Sono le
pazienti che si innamorano degli psicanalisti, non viceversa. Tentò un secondo passo in
avanti, per frapporre qualche metro in più tra sé e quella intollerabile umiliazione;
per trovare dei pensieri, dei motivi, la ragione. Fece quel secondo passo, ma l'abisso
ancora lo seguì...
...e gli posò le mani sulle spalle. Mani zingare, che rubano. Non capì cosa, e le due
mani, come manovrando un volante d'auto su un tornante, lo costrinsero a girarsi
nuovamente dalla loro parte. Il suo corpo reagì passivamente, come un manichino su di un
perno lubrificato.
L'abisso era di fronte a lui, senza punti cardinali, i suoi occhi esterrefatti la
videro: Virginia nuda. Nel breve tempo in cui cercava di allontanarsi da lei con quei due
passi, Virginia s'era liberata dei vestiti lasciandoli cadere sul pavimento: gonna,
camicetta, reggiseno, calze, slip, uno sull'altro, senza rumore.
L'abisso-femmina non ha fondo, è imprevedibile voragine. Virginia allungò una mano
dietro la nuca del professore, con l'altra lo cinse in vita e lo trasse dolcemente a sé,
finché le bocche non si toccarono per la seconda volta. A contatto avvenuto, tra le
labbra di lui passò la lingua che si avvolse dentro come un colubro in lotta. Dopo un
lungo e caloroso bacio, con evidente trepidazione Virginia gli levò la giacca, snodò la
cravatta e sbottonò la camicia. Scivolando in basso tra le braccia di lui, gli elargiva
lievi e caldi baci al petto: ogni bottone aperto un bacio. Giù, giù, sotto, lo sterno,
l'addome, l'ombelico, il rilassato ventre di studioso. Fu in ginocchio, come una schiava
devota. Dall'alto, Veritier osservò l'arco dei muscoli del torso di Virginia e le
perfette natiche muliebri portarsi indietro, e aprirsi, richiudersi. Virginia raggiunse la
cintura. Prima di aprirgli i pantaloni, appoggiò una guancia sul gonfiore teso del
professore, lo abbracciò alle cosce e strinse forte.
"Oh, caro!".
Veritier teneva tra le mani il capo di Virginia, le accarezzò i capelli serici,
vivaci. Scalzò i piedi, i pantaloni caddero. Mentre sentiva l'elastico delle mutande che
scendevano sfregargli contro la pelle delle gambe, osservò la lingua di Virginia
ripassargli il sesso come un gelato e rivestirlo di saliva, da sopra a sotto, da sotto a
sopra. Sfilate le mutande al professore, Virginia portò le mani all'asta, una sull'altra.
Mani morbide, intellettuali, da architetto. Pompavano con ritmo e geometria, prima quella
in basso, poi quella in alto. Lui rispondeva serrando i glutei, e col riflesso dei muscoli
pudendi rendeva più forte l'erezione già gagliarda. Il glande, dentro la mucosa
vellutata e accesa della bocca di Virginia, trionfava come la cupola di una moschea nel
fuoco di un tramonto arabo stellato. Poi la mano in alto scese sulle ali del canarino,
pollice e indice si chiusero ad anello intorno alla radice dello scroto. Virginia
succhiava e mungeva, muovendo delicatamente in basso, come su corda di campana. Lui non
sapeva cosa dire, come comportarsi, poteva solo assecondare. Aveva deciso tutto lei, lei
guidava.
"Non sono mai stata nel bagno di un dottore così importante", disse a quel
punto Virginia, dopo aver staccato la bocca dal membro del professore. Si leccò i baffi e
scrutò intorno con aria soddisfatta. "Tutti questi libri... non ho saputo
resistere!".
Poi fermò lo sguardo sul viso di lui. "È molto bello qua dentro, e mi piace la
luce dei tuoi occhi".
Sedutasi, accarezzò il disegno fine del tappeto che ricopriva il pavimento. Prese il
professore per le mani e lo diresse in basso, finché non cadde anche lui in ginocchio,
tra le cosce d'avorio divaricate. Ardente le fu sopra, il viso al petto, le mani, la bocca
avida al cavo delle ascelle, ai capezzoli, all'ombelico, al pube, alla sorgente del
Clitumno. Poi dentro, calore umano, scorrevole libidine, non albero, comunque dea.
Virginia chiuse gli occhi, riverse il capo, aprì la bocca e gemé più volte. Orgasmi.
Il professore non aveva mai avuto una femmina così, ma un tale oggetto non può essere
di un uomo solo, è chiaro; le gemme più preziose producono contese, a meno che non le si
tenga prigioniere. Ma non esistono più torri con segrete, né madonne infelici che
muoiono piangendo. 'Del dio femmina è giunto forse il tempo', pensò.
Contagiato dal mugolio di lei, il professore prese a spingere più forte, allungando la
corsa degli affondi, e anch'egli a gemere. Le sarebbe venuto dentro, non importava, forse
prendeva la pillola, oppure no, ma lei aveva scelto, non gli sarebbe dispiaciuto
un figlio da Virginia. Il vulcano era vicino all'eruzione. Virginia udì i versi di lui
farsi animali, animali che dopo il coito saranno tristi, e premendogli le mani sulle
spalle lo fermò.
"Aspetta!", disse.
Il professore resistette, non voleva lasciarla proprio ora.
"No, aspetta!", ripeté lei. Egli sollevò il capo e la guardò contrariato,
ma quando vide i suoi occhi pieni di promessa acconsentì. Virginia, allora, sgusciando da
sotto la presa del professore si mise prona, poi carponi. Usando le ginocchia come punte
di compasso si voltò, mostrandogli la schiena. Sulle ginocchia camminò fino al water.
Sempre di spalle e mantenendo il busto eretto, si pose le mani ai fianchi, simmetriche, le
dita volte indietro. Sfiorandosi con voluttà la pelle morbida le fece scivolare aperte
sopra i glutei. Piano li afferrò. Girò il capo verso di lui e disse:
"Voglio offrirti questo...".
A piene mani divergendo le natiche si chinò in avanti, si appoggiò al coperchio.
"...questo...".
Il professore, allucinato, vide le dita di Virginia strisciare generose verso il solco,
portarsi dentro al meridiano zero del prodigioso mappamondo, divaricare ancora...
"...questo...".
...il venerabile orifizio, perché lui vi entrasse.
"Vienimi vicino...", lo invitò languida.
I polpastrelli del professore si approssimarono romantici, con tatto di commerciante
ebreo dei tempi andati che stima stoffa rara, seta che non ha prezzo. Coprì le mani di
lei con le proprie, baciò le unghie di madreperla, e in ciò che dolcemente distendevano
insinuò la lingua. Strabico, vide la pelle d'oca sui glutei di Virginia. Alle narici gli
giunse un lieve odore d'ombra, d'animale sottomesso all'uomo, di selva già violata, di
parco cittadino a sera. 'Femmine alla pecorina, maschi nudi in ginocchio'.
"Mettici il coso, adesso...", sussurrò Virginia.
Il professore, fattosi Michele, mise. Spinse. Gioì Virginia. Ancora, ancora, ancora.
Una mano di lei da sotto entrò nella capanna delle quattro gambe. Fu in mezzo,
conformata a conchiglia accolse i genitali. Egli percepì gli spasmi del venerabile
sull'asta e si sentì fluire: il naufragar m'è dolce in questo mare, questo
segreto oceano di superfemmina.
Mezz'ora in tutto, forse anche meno, perché del tempo si perde la nozione nell'amore,
seppur carnale. Ma la spada sul soffitto - lo sapeva bene Damocle - è meglio non
lasciarla cadere, perché una volta a terra il suo manico è afferrato da mano impietosa.
Infissa tra capo e collo del professore, a ogni colpo di lui infieriva i propri, l'ultimo
con l'ultimo.
Tredici settembre, martedì.
Virginia si rivestì e, come se si fosse trattato della fine delle compere in un grande
magazzino, uscì senza nemmeno salutare.
Dopo quell'incontro il professore non la rivide più, e nemmeno Giacomo. Era avvenuto
tutto in un giorno. Tante parole e un solo insignificante fatto: un coito umano a tergo.
*
Il professore restava seduto meditabondo, e si dondolava sulla poltrona con
oscillazioni più ampie e agitate. Annuendo e negando col capo a se stesso accavallò le
gambe, e con il piede libero prese a calciare l'aria in modo reiterato e nevrotico. Era
acceso in volto, poiché tratteneva il respiro e serrava la mandibola come se fosse in
procinto di scaricare la rabbia per quell'abbandono. Per quanti anni aveva continuato a
rimuginare su quel caso con la speranza mai esaudita di rivedere Giacomo e Virginia?
Quante notti l'aveva sognata? Quante volte, tra una consultazione e l'altra, aveva tratto
emozionato dal cassetto della scrivania lo specchietto che lei gli aveva lasciato come
unico ricordo? Quante volte vi si era specchiato non vedendo altro che il viso di lei, le
sue grazie intime e le proprie lacrime? Finché un giorno non lo aveva rotto
volontariamente, per frantumare con il vetro anche il dolore, per ricominciare a vivere.
C'era riuscito.
Non era giusto che l'avessero lasciato. Si era comportato male, anzi malissimo,
nell'ultimo incontro con la madre di Giacomo, ma per quel bambino provava un affetto
sincero e pulito, che non meritava affatto l'abbandono come punizione.
Le vene alle tempie, rese tortuose e rigide dall'età avanzata, erano ancora capaci di
piene, come quei fiumi del deserto che dopo lustri di siccità si gonfiano a dismisura e
soverchiano gli argini, trascinando con sé alberi, animali e uomini. Sotto quella
tormenta di furore e di rimpianto pulsavano impetuose con il rischio di rompersi.
Ancora per alcuni minuti le figure di Giacomo e della signora Canto, di Silvano
l'utopista... il Bosco della Fontana, l'arcidiavolo, Guardine, Ur, gli Angeli e le Bestie,
Virgilio, il Vangelo, Nerone, ancora Virginia e i suoi amanti gli passarono davanti,
dietro, lo attraversarono, gli parlarono e lo ascoltarono come allora, senza che egli
potesse cambiare nulla. Poi, tutti quei fantasmi, come il fango sollevato da una pietra
lanciata in uno stagno, precipitarono piano nella mente del professore e si posarono sul
fondo.
"Sì!", disse Veritier, uscendo definitivamente dai ricordi. "È davvero
stata colpa mia se Virginia e Giacomo se ne andarono senza una sola parola. Lei mi lasciò
come aveva fatto con gli altri togliendomi l'amicizia di Giacomo".
Così, il ragazzino, che all'improvviso era entrato nella vita del professore,
all'improvviso ne era uscito senza neanche salutarlo. E adesso, dopo quasi mezzo secolo,
sempre all'improvviso, gli riappariva con una prepotente faccia d'angelo sulla prima
pagina di un quotidiano.
Il professore si alzò, e claudicante andò a raccogliere il giornale nell'angolo in
cui la sua ira lo aveva fatto finire poc'anzi. Lo riaprì, e guardò un'ultima volta la
foto che ritraeva Giacomo sorridente tra la folla in giubilo. Lo rivide bambino, in
calzoncini corti, e i suoi occhi gli sembrarono gli stessi di allora, quando erano teneri
amici.
"No, nemmeno si ricorderà di me!", ripeté lasciando disgustato il
quotidiano sul tavolo. "Tutta colpa della Belandis. Non doveva portarmelo in casa,
questo schifo di giornale. Appena rientra ne sente quattro, davvero!".
Ma la governante non sarebbe tornata da Valle Reggia che il lunedì mattina. Perciò,
prima di potersela prendere con qualcuno e trasferire la colpa dei suoi dolori su un
innocente, sarebbero dovute passare più di trentasei ore: un pomeriggio, una notte, un
giorno intero e un'altra notte. Ce l'avrebbe fatta? Non ne era sicuro, perché ogni
temporale che non si scatena, le cui nuvole brontolano e minacciano a lungo senza
liberarsi, lascia nella natura una insoddisfatta e malata voglia di pioggia.
Poiché si riteneva responsabile di quella perdita, ed essendo al tempo stesso un
vecchio orgoglioso, Veritier non riuscì a piangere. Per questo si sentì mortalmente
infelice. Sì, avrebbe voluto morire! Paradossalmente, si ricordò delle medicine che
allungano la vita. Andò in camera, prese il bicchiere con un po' d'acqua, che la
premurosa Belandis gli aveva preparato sul comodino, e mandò giù le pillole. Infilò il
pigiama, chiuse le imposte, si mise a letto e si spense.
14
"Professore?".
Silenzio.
"Professore!?".
Silenzio e disagio interiore, come da incipit di un romanzo di King.
"Professoreeee! Sono io".
Non le note della sinfonia, della sonata o del preludio che erano solite provenire
dallo studio del professore e accoglierla al suo rientro, ma una strana e ovattata
atmosfera di ospedale o di cimitero. Non il consueto grido "Ehilà, bella
Belandis!", che tanto la faceva gioire e che lui le lanciava i lunedì mattina dei
suoi ritorni nascosto dietro la barricata della poltrona, ma silenzio e preoccupazione.
La Belandis richiuse la porta dietro di sé con nel petto l'ambascia del più terribile
dei sospetti. Percorse lentamente l'atrio e il breve corridoio che dall'ingresso immetteva
nello studio. Non sentì la musica né vide la testa del professore sporgere dalla
poltrona.
'Non sarà mica...?', pensò.
Si avvicinò al tavolo e si accorse del quotidiano che era stato aperto, sfogliato e
maltrattato.
'Gli avranno fatto male le ultime notizie? O l'arrosto di soia che gli avevo
preparato?'
Si diresse in cucina, guardò nel lavandino ma non vi erano, come al solito, piatti
sporchi da lavare. Aprì il forno, e il tegame era ancora lì, con l'arrosto dentro,
intatto. In giro non briciole né tracce di pasti consumati.
'Non sarà mica...', pensò ancora, cominciando a credere che potesse davvero esser
morto.
"Professoreee!", gridò allora con voce spezzata. Ritornò nello studio e
chiamò ancora:
"Abramo! Abramo mio!".
Non lo aveva mai chiamato così, per nome, fuori dal letto. Lui glielo aveva domandato
più volte, ma lei non era mai andata oltre il generico "professore". Dargli del
tu era stato semplice, ma a chiamarlo per nome riusciva solo durante il piacere.
"Sì, Abramo, Abramo mio!", sussurrava quando gli stringeva il torace nudo
tra le braccia o mentre gli accarezzava la nuca tra le cosce.
"Dio mio!", le mani coprirono pietose le guance.
Se in quel momento si fosse guardata allo specchio, la Belandis si sarebbe accorta del
grigiore che le stava stracciando la faccia invecchiandole la fisionomia di vent'anni in
pochissimi secondi. Due gonfi veli di lacrime le riempivano le palpebre offuscandole la
vista, ma non osavano rompersi in gocce. Ricordò le parole che il professore le aveva
detto spesso a in quegli anni:
"Quello che più temi ti accade. Mantieni sempre la calma".
Novella Belandis ormai formulava le sue preghiere al Signore soltanto allo scopo di
vedere esaudito un unico desiderio: morire insieme al suo professore. Così si sorprendeva
a immaginare un terremoto di un grado Mercalli sufficiente a inabissare il centro di
Mantova, maciullandoli tra le pareti del loro nido-appartamento. Oppure arrotati, per
eccesso di lentezza nell'attraversare la strada, da uno di quei truck of the year con
ruote larghe un metro. O, ancora, assassinati da un efferato delinquente d'appartamento:
"Noto professore e governante fedele uccisi nel sonno. Insieme nella vita e nella
morte". Invece, le sarebbe toccata per la seconda volta una triste scoperta.
Non aveva il coraggio di avvicinarsi alla camera da letto del professore, ma doveva
farlo. L'avrebbe lavato e vestito lei. Avrebbe gettato lei, vestita a lutto dal bordo
della fossa, la prima manciata di terra sulla cassa. Col viso al riparo di una veletta
nera, con in mano il fazzoletto inzuppato dalla pioggia e dalle lacrime, come in quei
vecchi film romantici, non le sarebbe importato nulla dei giornalisti precipitatisi lì a
raccogliere l'ultima intervista. Perché se ne sarebbe tornata per sempre a Valle Reggia.
E, dopo, quale destino davanti?
Davanti alla porta della camera da letto del professore, con le persiane ancora chiuse,
l'occhio di Novella cadde sull'ombra del bicchiere per le pillole antivecchiaia.
Affacciato sull'orlo di vetro, si proiettò prepotente il collo di una bottiglia che
versava una tristissima medicina contro la depressione. Vide se stessa dormire in un
cartone, come i barboni di Genova, figli della strada e della Provvidenza. Si ricordò di
Orazio, di quell'Orazio immortale che il professore le recitava:
Ma sii saggia: e filtra vino,
e recidi la speranza
lontana, perché breve è il nostro
cammino, e ora, mentre
si parla, il tempo
è già in fuga, come se ci odiasse!
La poesia è una medicina potente solo quando è grande l'attore che la somministra. E
l'attore, ahimè, se n'era andato. Provò nuovamente a chiamarlo:
"Abramo!".
Pronunciò piano il suo nome per non svegliarlo. Attraversò la soglia e nella penombra
vide il volto del professore, i suoi occhi vivaci chiusi per sempre. Sentì il mesto odore
di viole e di crisantemi che molte volte aveva conosciuto, e temeva l'avvicinarsi al corpo
che emanava quella triste verità. I veli sugli occhi si ruppero liberando le lacrime, e a
Novella Belandis sembrò di vedere il petto del professore sollevarsi in un respiro.
Sapeva però che quella è una falsa impressione, perché tutti i morti ai loro cari
sembrano respirare ancora. Attraversata da un'infinitamente lontana speranza si portò al
fianco del letto e ripeté:
"Abramo, Abramo mio!".
Nulla.
Si lasciò cadere in ginocchio sul tappeto e con l'anima escoriata disse:
"Perché Abramo mi hai fatto questo? Abramo, Abramo mio".
Gli posò una mano sulla fronte per toccare l'unico viso che aveva accarezzato con la
dolcezza dell'amore carnale. Era ancora calda, doveva essere morto da poco. 'No, non può
essere, non da poco', pensò, 'perché non ha mangiato l'arrosto'. Novella Belandis era
capace di queste semplici deduzioni, non ci voleva la laurea.
Col supporto di un ulteriore dubbio, più fiducioso di vita, volle dargli un bacio,
l'estremo saluto. Non le era mai piaciuto posare le labbra sui morti. Così freddi,
sembrano avidi del più remoto e pietoso calore di un vivo che li tocchi. Fu allora che si
accorse che il professore respirava davvero. Un rantolo lungo e sottile, da moribondo.
"Abramo, Abramo mio. Allora non sei morto!", gridò la governante rianimata.
Nessuna risposta mentre asciugandosi alla bell'e meglio le lacrime si precipitava alla
finestra, apriva i vetri e spalancava le imposte. Una grande luce e una corrente d'aria
fresca si fecero largo nella stanza. La donna si voltò e vide le palpebre del professore
contrarsi per difendersi dall'improvviso abbagliamento.
"Sei vivo, sei vivo! Dio sia lodato", e si segnò, mimando l'abbozzo di una
genuflessione.
...
"Sì", rispose rauco il professore con timbro d'oltretomba. "Ma sarebbe
meglio che non lo fossi". Non aprì gli occhi e rimase immobile.
"Mi hai fatto spaventare! Credevo che fossi morto", disse la Belandis.
"Cosa ci fai ancora a letto? Ti sei sentito male? Perché non hai mangiato l'arrosto?
Devo chiamare il dottore?".
Nessuna reazione e occhi chiusi.
"Ma cos'hai professore?".
Senza affatto muoversi né dissigillare le palpebre il professore parlò con voce fioca
e sospirata.
"Perché hai smesso di chiamarmi Abramo? Dovevo proprio morire per sentirti
pronunciare il mio nome fuori dal letto? "Abramo, Abramo mio": chiamami ancora
così, ti prego, sempre, d'ora in poi. "Abraham, mon petit Abraham!" mi
chiamava mia madre, e solo lei mi potrebbe aiutare in questo momento".
"Abramo, Abramo", ripeté la donna. "Va bene, d'ora in poi ti chiamerò
sempre Abramo, ma perdio muoviti, alzati. Cos'è che ti blocca se non è la morte?".
Il professore non rispose.
"Ma ti senti male? Hai avuto un malore?", fece la Belandis, e prese a
scuoterlo per le spalle. Il suo corpo inerte obbedì ai movimenti impressigli dalle mani
della governante, la sua testa rimbalzò molle sul cuscino ma gli occhi restarono chiusi.
"Ma arrabbiati almeno! Se ti arrabbiassi ti passerebbe, me lo hai insegnato
tu", aggiunse con forza la governante.
A quell'invito il professore ricominciò a pensare:
'Lunedì.
La Belandis rientrata.
Sono a letto da sabato pomeriggio.
Pianto liberatore.
Se il pianto dà sollievo bisogna piangere.
Pianto imprigionatore.
Se il pianto non dà sollievo bisogna sopprimerlo.
Il pianto soppresso genera depressione.
Il buio. La notte. La fine.
Morire fuori... per non marcire dentro.
Dimenticare, arrendersi all'oblio.
*
Insopportabile gravità della memoria.
Irrecuperabile passato.
Inutile vecchiezza.
Non voglio esistere.
Ma neppure voglio morire.
Coraggio dei suicidi.
Lascia fare alla vita quest'ultima fatica.
Non si comanda al cuore.
Non si torna indietro.
Buio, figlio ribelle della luce.
Grata mi sei, Notte, quando mi nuoce il giorno!
Mi spengo'.
*
"Nell'entrare qui dentro, mi era sembrato di sentire l'odore della morte, della tua
morte", riferì la Belandis, abbracciando forte il professore e posandogli la
testa sul petto. "Abramo, Abramo mio".
Sentì battere il suo cuore e ne fu felice.
"Non era il mio ultimo tanfo, ma l'olezzo dei miei ricordi più densi!",
disse lui.
"È perché hai letto il giornale?", chiese la Belandis con senso di colpa e
con l'intento di farlo reagire.
Era accaduto altre volte che il professore cadesse depresso. Non una parola, non un
gesto, per ore. Non era mai durato tanto a lungo. Lui l'aveva chiamata "catatonia
senile", "esercitazione al cadavere".
"Se mi succede ancora", le aveva raccomandato, "devi cercare in tutti i
modi di farmi reagire, di farmi arrabbiare. È causata da un blocco di bile
permalosa".
La parola "giornale" entrò dall'orecchio del professore, raggiunse i
visceri, ma non riuscì a toccare la bile che stagnava nel ventre. Il professore sentì
provenire dal fegato questo discorso:
"Tutta colpa della Belandis. Non doveva portarmelo in casa, questo schifo di
giornale. Appena rientra ne sente quattro, davvero!". Le stesse ultime parole che
aveva detto prima di finire depresso nel letto. Ma adesso erano pronunciate senza
emozione. La Belandis era lì, ma lui non riusciva a sbloccarsi.
La Belandis, che aveva l'orecchio appoggiato sul petto del professore e, per questo,
prossimo al fegato, forse udì la considerazione dell'organo, perché ripeté quasi
uguale:
"È tutta colpa mia. Hai ragione, non dovevo portartelo in casa quello schifo di
giornale! Perdonami!".
Ciò dicendo, allungò una mano sotto le coperte e gli massaggiò con tenerezza il
canarino. Prese tra le dita il becco e senza parsimonia ne accarezzò le zampe ovali
perché cinguettasse.
Il canarino allora, da dentro, disse al professore:
"La vedi questa? Disobbedisce sempre e poi vuole il perdono. Diamole una bella
lezione".
Quasi in sincronia con la testa del canarino, la testa binocola del professore si
levò, mentre il lago di bile iniziava a svuotarsi.
"Sei sempre il migliore!", rispose il professore, da dentro, al canarino.
"Da te traggo spesso lezione. Tu, microcosmo del corpo, immagine e somiglianza del
maschio. Ho fatto bene a non circonciderti mai".
"Oh, benedetta belin Belandis!", sbottò infuriato. "Brutta becera d'una
genovese! Cosa devo fare perché tu una buona volta capisca che non voglio giornali qua
dentro? Vuoi vedermi morto davvero?".
E iniziò una serie di improperi che restituirono il colore al volto della Belandis, la
quale, consapevole che in quel frangente il masochismo era quanto mai necessario e
salvifico, rispose:
"Sì, Abramo mio, arrabbiati, arrabbiati!". E si tuffò a colmare di baci il
canarino che aveva gonfiato le penne.
Le tre teste erano ridiventate calde, era rifiorita la vita nei vasi di quella casa. La
stessa licenza di disobbedire che l'intimità fisica dava alla governante, concesse al
professore di sfogare con l'orgasmo la rabbia per l'abbandono di Virginia, nascosta dietro
la violazione del divieto di portare in casa giornali.
Il primo orgasmo lo dedicò a Virginia, in una fantastica relazione sadomaso. Com'era
già avvenuto la prendeva da dietro, in un bagno, ma questa volta lui la picchiava, con
enorme soddisfazione di entrambi.
"Ho fame, adesso!", disse il professore, tornato tonico e allegro.
"Ci credo, son due giorni che non mangi. Ti preparo subito qualcosa. Tu vestiti
intanto".
"No, cos'hai capito?", le disse lui ridendo di un riso isterico. "È di
te che ho fame, mia bella Belandis!".
Si sbarazzò del pigiama e la volle nuda con sé nel letto. Si diedero un gran da fare,
di sopra, di sotto, davanti e di dietro, di testa e di petto. Lei sobbalzava sul materasso
e lui scricchiolava un tantino, ma furono efficienti davvero.
Il secondo orgasmo fu dedicato a Guardine, trasparente e nuda. "Com'era
bella!". Tra le radici e i rami degli alberi furono fantasie perverso-bucoliche,
senza conseguenze spiacevoli, senza mostri e senza quel guastafeste di Ur.
"Abramo mio, Abramo mio!", ripeté a salve Novella Belandis che si offriva a
prestare il corpo a quei fantasmi. "Non ti porterò più giornali, ma tu non farmi
più questi stupidi scherzi, ti prego. Non morire mai più prima di me".
Il terzo e ultimo orgasmo, di scarse e sforzate stille, fu per la Belandis reale, soda
e tenace.
Restarono a lungo abbracciati. Con lei che posava il capo sul petto di lui dai villi
radi e canuti, e con lui che le dava raffiche di bacini riconoscenti sulla fronte,
avrebbero fatto tenerezza anche al più incallito dei cinici. Poi lei si alzò e gli
preparò una bella pastasciutta, uno zabaglione con due tuorli e una spremuta d'arance e
pompelmi. Il professore mangiò e bevve di gusto quasi d'un fiato. Poi senza piangere
raccontò alla Belandis la storia del piccolo Giacomo Canto e di Ur, ma tacque di Guardine
e di Virginia.
"Se sapessero...", furono le prime parole della governante dopo il racconto.
"Se i giornalisti sapessero, ma ti rendi conto che notizia? Sarebbero qui a stormi
tutti i giorni, giorno e notte". Si pettinò i capelli con le mani, come se quella
folla di giornalisti stesse salendo or ora le scale.
"Scriviamo una bella lettera al direttore... Dai!".
"No, a che scopo?", dissentì il professore con rammarico e facendosi scuro
in volto. "Non si può tornare indietro. E poi quel Marindo Mornida è uno giovane,
chi lo conosce! Ma Giacomo Canto sarà un ottimo capo di stato".
"Sicuro! Adesso che conosco la sua storia, quest'uomo mi piace ancora di
più", affermò convinta la governante.
*
I giorni passarono e la Belandis non ebbe più voglia di disobbedire. Tuttavia, ogni
mattina, durante il giro della spesa si fermava ora in un bar ora in un altro, e con la
scusa di un cappuccio o di un'acqua minerale sfogliava il quotidiano di turno, per sapere
di Giacomo, del suo governo, delle sue leggi, finché un giorno...
...trovò nella cassetta della posta una strana lettera indirizzata al professore. Sul
retro recava un'elegante intestazione azzurra, un'altera dicitura in corsivo con iniziali
maiuscole che facevano un certo effetto:
Palazzo del Governo
Gabinetto del Primo Ministro
Avrebbe voluto aprirla, per leggerne il contenuto. Apriva sempre la posta del
professore, ne aveva licenza. Ma quella le sembrava scottare parecchio e non osò. Era
indecisa se consegnargliela o meno. Gli avrebbe nociuto? Ne sarebbe di nuovo morto?
Per una settimana conservò la lettera nella sua stanza, in un cassetto sotto la
biancheria intima, ma i suoi pensieri erano talmente colorati che il professore li vide e
più volte le chiese:
"Ma cos'hai Belandis? Da qualche giorno ti sento strana. Sei agitata, nervosa.
C'è qualcosa che non va al paese? O dell'altro?".
Ella gli rispondeva: "No, no", e cercava di cambiare discorso, o di distrarre
il professore in altri modi (anche in quelli fuori dagli accordi), ma lui aveva capito, e
un giorno domandò:
"Si tratta di Giacomo Canto?".
La Belandis impallidì e poi arrossì, ma non rispose.
"Si tratta di Giacomo Canto, non è vero? Non è vero? Rispondi!", le intimò
il professore urlando.
"Sì... una lettera...", tentennò la Belandis, ormai scoperta.
Il professore non diede di matto. Era sereno, rassegnatamente sereno. Aveva continuato
a pensarci su ed era molto curioso di sapere come stava andando il governo. Lo scheletro
era uscito dall'armadio smettendo di graffiare alle ante. I ricordi dello strano caso del
bambino degli alberi, che fino a quel momento si erano comportati come personaggi di
fiaba, incantati da un mago cattivo e fermati nel tempo e nell'età di quel tempo,
riprendevano a muoversi perché trovavano nuovamente corrispondenza nella realtà del
presente. La muffa marcescente della sua memoria subiva lo stesso trattamento terapeutico
della vecchia fabbrica di Parigi dai muri piangenti ruggine, visitata, dopo mezzo secolo
di abbandono, dal cantiere ruggente di un nuovo piano regolatore. Dove i picconi e i denti
delle ruspe demoliscono l'albergo degli spettri e della natura rampicante; dove geometri
dai caschi colorati, con mappa e metro alla mano bestemmiano istruzioni a manovali
indaffarati tra le macerie che crollano per lasciare spazio a nuove esistenze.
Giacomo era diventato adulto, e cosa doveva essere di Virginia, di Ur, di Guardine?
Dopo tanti anni gli tornava imperiosa la voglia di leggere i quotidiani. Ma aveva il
terrore di cadere in depressione. Leggere e non partecipare: sarebbe stato molto difficile
con quei ricordi... La governante non poté più negare.
"Sì, Giacomo! Credo ti abbia scritto".
Il professore, che sedeva in poltrona, nell'udire la notizia si alzò di scatto, fece
un passo risoluto verso la donna e allungando una mano ordinò:
"Dammi. Vediamo. Ora!".
"E se ti facesse male?".
"Oramai, più che morire che può toccarmi?".
"Sei proprio sicuro?".
"Sicuro!".
Allora la Belandis corse in camera. Trafelata, disperdendo ai piedi del comò mutandine
e canottiere, tolse dal cassetto la busta con l'intestazione azzurra, mentre esclamava un
preoccupato "Oh, Madonna santa!" con la bocca tappata dalla mano libera.
Ritornò in studio e la consegnò al professore, il quale senza servirsi del tagliacarte
l'aprì e vi lesse:
Caro professore,
quanti anni sono passati. Vi sono cose che però non passano, tra queste l'amicizia.
Come credo avrà immaginato sono cresciuto. Era uno strano caso il mio, e un insolito
destino oggi mi tocca. Nulla ho desiderato di quanto mi accade: premier, leader assoluto
della nazione, senza mai essere stato assessore né sindaco. Perché è la gente che
esagera, non chi scrive, anche se questa volta può sembrare che esageri con moderazione.
Sento il peso di tale responsabilità, ma dalle chiome degli alberi tutto è più
semplice. Oggi il mondo è cambiato, così pare, e ciò che non si vedeva comincia a
intravedersi.
Di Lei ho parlato spesso con mia madre. Dovevamo andarcene, ma non per ciò che avvenne
tra voi. Fu Ur a volere che partissimo, per la mia trasformazione esteriore. Abbiamo
seguito la stessa strada del ritorno degli Ebrei: dapprima dispersi, poi in Germania e in
America, infine nella Terra Promessa, dove sono le querce più giovani e promettenti.
Della vostra relazione ho finto di non sapere, ma sapevo anche che soffrivate l'uno per la
mancanza dell'altro. "Loro" mi hanno sempre tenuto informato. La mamma non si è
mai risposata, anche se ne avrebbe avuto bisogno. È un po' invecchiata, ma è sempre
bella. Mi ha pregato di salutarLa. Anche Guardine e Ur La salutano. Per Guardine il tempo
non sembra affatto passato. Ur non vigila più il mondo dagli alberi. Adesso è nel
secondo Cielo, più vicino a Gesù. Dirige il Coro degli Arcangeli, ma si annoia mi ha
detto. E Lei, professore, (anche questo l'ho saputo da "loro") ha perso il pelo
ma non il vizio. Ed è in buone mani, perché Novella è un'ottima persona.
Adesso anch'io posso dire: "Quando eravamo giovani". Vi sono cose che però
non passano: l'amicizia e il mio amore per gli alberi. Per tale ragione ho voluto una
nuova istituzione: il Ministero del Tempo Arboreo. So che Lei è vecchio, ma non ancora
abbastanza per questo. La voglio come ministro; chi altri meglio potrebbe? Aspetto di
rivederLa e di stringerLe dopo tanti anni la mano. Un bacio e un abbraccio affettuoso dal
Suo
Giacomo
P.S.: Ah, quasi dimenticavo di dirLe una cosa importantissima. È accaduto anche a me
come a mio padre: non ho più pene, però... mi è spuntata la giacca.
*
Come il contenuto della lettera dimostrava, a torto il professore aveva creduto che
Giacomo non si sarebbe ricordato di lui.
"Prendi", disse fiero alla governante, trattenendo a stento le lacrime.
"Leggi!".
La Belandis prese timorosamente la lettera e lesse quello che vi aveva letto il
professore, lasciandosi sfuggire dei piccoli "oh!". Il più sonoro, scortato da
una vampata di calore geloso al volto, si udì quando Novella apprese della relazione tra
Virginia e il suo professore. E quando arrivò al punto in cui Giacomo Canto
faceva il suo nome restò di sasso.
"Ma, come... come? parla di me senza conoscermi!", balbettò esterrefatta.
"Giacomo ti conosce. "Loro" sanno tutto", le spiegò il professore.
E annuì col capo mentre puntava l'indice al soffitto.
Delle altre parole la Belandis non capì quasi nulla, ma le parvero cose bellissime: la
Terra Promessa, il Coro degli Arcangeli, il Ministero. Voleva dire ma non disse, voleva
proporre ma non propose. Aspettò che il professore dicesse qualcosa, ma lui taceva. Le
stava davanti in piedi, impettito, con la faccia serena e trionfante, soddisfatta. Ai suoi
semplici occhi di governante concubina, il professore sembrava un militare che ha appena
ricevuto un ordine piacevole da eseguire, una missione che non si può rifiutare. Quasi
quasi lo vedeva in divisa, e le parve che da un momento all'altro avrebbe portato la mano
tesa alla fronte dicendo: "Comandi!", sotto le note dell'inno nazionale. Il suo
Abramo ministro. I giornalisti. I complimenti dei giornalisti. La casa del ministro nella
capitale, magari sotto il duomo o il castello. Quotidiani in casa tutte le mattine, tutti
i quotidiani. E televisione, finalmente. Lui l'avrebbe sposata. La moglie del
ministro del Tempo Arboreo. Che vorrà dire "arboreo"? Che importa, un ministro
è un ministro. Abramo Veritier ministro. 'Abramo, Abramo mio'.
Si sa che pensiero ne tira sempre un altro, e che a forza di tirarsi i pensieri cadono
in bocca. Senza che ne seguisse pena, la Belandis parlò:
"Hai visto che le cose cambiano? Allora, anche i giornali a qualcosa servono.
Avevo ragione, o no?".
"Tu hai sempre ragione, bella Belandis!", rispose il professore allegro, anzi
allegrissimo.
La tirò a sé e le diede, abbracciandola, un appassionato bacio sulla bocca, mentre i
suoi pensieri eccitati volavano alla trasparente Guardine e alla rediviva Virginia.
Poi, come all'inizio dei ricordi, gli ritornò in mente Virgilio. Piano, e commosso,
pronunciò i suoi versi. Questa volta in latino, come il concludit di un grande romanzo:
Quem fugis, a demens? habitarunt di quoque silvas.
Virgilio, Bucoliche II, 60
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