Lo strano caso del bambino degli alberi
uno, due, tre, quattro
Il dottore è stato uno sconosciuto, e uno sco-
nosciuto dovrà cercare di tornare ad essere
dopo la guarigione.Sigmund Freud |
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1
La prima pagina del giornale era quasi interamente occupata dall'immagine di Giacomo
Canto.
La grande fotografia a colori, sormontata dal titolo "L'Utopia è finalmente
realtà", si imponeva alle colonne degli articoli come il trono di un re tra immobili
sentinelle. Dentro un nugolo di bandierine e fazzoletti, agitati in una calorosa ovazione,
il premier sorrideva radioso, le sue mani strette e contese da quelle di alcuni cittadini
commossi.
Solo a fatica vi si potevano scorgere ritagli del lastricato della piazza non
ingombrati dai piedi della gente, perché uomini, donne e bambini, fitti come i petali di
una dalia, si protendevano per toccarlo. Come i nasi all'insù dei cadetti sbarbati, che
impettiti in file composte bordavano il viale, anche le guglie del duomo partecipavano
alla festa. E la sciabola dell'ufficiale fasciato d'azzurro che li teneva nei ranghi
sembrava indicare il punto lassù, dal quale, sopra tutto e tutti, la piccola statua della
Vergine con le braccia aperte e lo sguardo al cielo concedeva muta la sua benedizione.
Senza lo scudo di una scorta, senza la protezione di armi, né di cortine infrangibili,
Giacomo Canto era salutato come leader assoluto della nazione.
Perché premier? Perché leader assoluto della nazione, e non semplice assessore o
semplicemente stimato sindaco, magari di Guidizzolo o di Tavèrnola Bergamasca?
Perché è la gente che esagera, non chi scrive. La gente che si accumula nelle piazze,
ed esulta o procede in tumulto, esagera sempre, non ci sono eccezioni. Finché vi saranno
uomini con sopra un Cielo sconosciuto, sulla Terra si costruiranno scale e piramidi, e
qualcuno vorrà essere il primo a salirvi.
Quando un uomo si candida da sé e mette "io" a soggetto di un'azione
pubblica è già sospetto di una egoistica volontà di potenza. Ma Giacomo Canto non aveva
programmato la sua ascesa al potere. Non un regno a successione filiale, non una storica
dittatura; non legiferazioni bicamerali e nemmeno ordinarie burocrazie, ma una forma
decisamente nuova di autorità.
Ciò che più feriva il cuore di chi leggeva era quella giacca rossa, quasi
fosforescente e tutt'altro che elegante, al possessore della quale le lettere in corsivo
del sottotitolo si inchinavano, come umili suore nere genuflesse al passaggio di un
vescovo:
"Oggi l'ingresso ufficiale di Canto nel palazzo del governo".
Al di qua del giornale e della fotografia stava la faccia sbigottita del professore.
2
Da qualche tempo, il vecchissimo professore viveva recluso nella sua abitazione di
Mantova, in una stradina del centro nei pressi di Palazzo Ducale. Trascorreva i suoi
giorni tra la musica e i libri, senza televisione e senza giornali, in pacifico e
volontario esilio.
Una governante originaria della provincia di Genova, tale Belandis, genuina e non più
giovanissima ma ancora soda e tenace, provvedeva ai suoi bisogni primari. Per lui usciva a
fare la spesa, per lui cucinava salubri pietanze kasher, sempre per lui levava polvere e
ragnatele, e nella bella stagione lo accompagnava durante le passeggiate che, ritualmente,
lui pretendeva.
Nella casa del professore ella disponeva di una stanza tutta per sé, che lasciava
soltanto per qualche raro week-end, in cui tornava al paese per far visita ai pochi
conoscenti rimasti.
C'era ancora con la testa, il professore, altroché. C'era anche con quella minuta e
ciclope, che nonostante l'età si manteneva vigile ed erettile. Anche a questo la signora
Belandis provvedeva.
Nella vita, avverte il proverbio, succede di tutto e il contrario di tutto. E non c'è
evento che non sia preceduto da inequivocabili segni. La governante, quel mattino, era
rientrata con una sorpresa.
"Bisogna che riprendi a informarti di come vanno le cose là fuori", esordì
con tono di affettuoso rimprovero verso il professore che, affondato nella poltrona e
intento a leggere un libro, le offriva la schiena. "La mente bisogna tenerla attiva.
Non solo coi libri e la musica, ma anche con questi".
E posò sul tavolo, sbattendoli leggermente per avere attenzione, alcuni giornali e
riviste.
"Lo sai quali sono i nostri accordi...", rispose il professore senza
voltarsi, contrariato dall'iniziativa della donna. "Niente giornali e niente
televisione qui dentro! L'informazione non allunga di certo la vita, non è mica
cultura".
Ciò dicendo mosse appena il capo e sventolò in aria il libro.
"Ma le cose cambiano. E poi...", ribatté lei portando le mani ai fianchi e
inclinando il busto in avanti "...ci sono anche altre cose che io faccio fuori dagli
accordi, e non sono nemmeno pagata per farle. Non so se mi spiego...".
"Sì, ma piacciono anche a te!", si difese d'impulso il professore, torcendo
il busto e guardando male la donna. "E se vuoi ti pagherò anche per quelle".
Detto questo si chinò di nuovo sul libro.
*
Amava quell'uomo di un amore semplice. Era stato il suo primo uomo, quando ormai
pensava che si sarebbe mantenuta vergine fino alla morte. Quando di ciò s'era convinta,
lui, il vecchio dottore, con sottili ragionamenti sin dall'inizio visibilmente intessuti
intorno a un sol fine: zac!, aveva reciso il suo fiore maturo, in pochi mesi di
ripetuti e subdoli assedi.
Di argomenti ne aveva, era stato molto abile a farla piegare, quasi che a lei sembrasse
una libera scelta. Così, Novella Belandis, a più di quarant'anni aveva provato tutto del
sesso, senza neanche sposarsi, lei, una vita vissuta nella preghiera e nella paura del
peccato. Lui, invece, quasi sprovvisto di freni, capace di conciliare le messe con i vizi
dell'amore fisico.
La rendeva felice il vivere accanto a una persona famosa. Il professore era stato uno
psicanalista importante. Adesso, però, solo per lei teneva le sue conferenze, solo a lei
svelava i misteri della vita e della mente. Com'era bello ascoltare per lunghi minuti a
bocca aperta i suoi discorsi romantici su Dio, così diversi dal catechismo freddo e
assoluto dei preti. Come si emozionava quando le recitava a memoria La giornata
di Orazio. Era ipnotizzata dalle labbra carnose, poco insultate dal tempo, che
pronunciavano:
Non domandare tu mai
quando si chiuderà la tua
vita, la mia vita...
fino al magistrale Carpe diem, che declamava corrugando la fronte e tendendo
l'indice in alto.
Sì, lo amava.
Ogni tanto qualcuno chiedeva di lui, suonava al citofono o chiamava al telefono per
incontrarlo. Le dispiaceva rispondere:
"Il professore non lavora più. È vecchio. È stanco. È malato. Se volete,
sapete dove trovare quel che ha scritto".
Le dispiaceva rispondere con la formula che il professore le aveva imposto, ma nello
stesso tempo avvertiva una punta segreta di compiacimento, perché il negarlo la faceva
sentire importante, quasi fosse depositaria insieme a lui di quelle preziose notizie. Non
si arrendevano facilmente i giornalisti, soprattutto quelli che si occupavano di storia e
che periodicamente riesumavano le vecchie teorie del professore su Dio e sugli ebrei.
"Via, sia gentile, ci dica qualcosa!", la imploravano i pochi che riuscivano
a raggiungere la porta d'ingresso e a porre le loro domande, sempre le solite.
"È vero che durante la guerra il professore collaborò con i nazisti?".
"È vero che aveva ricevuto minacce dalla chiesa e dagli ebrei ortodossi per via
della sua teoria su Dio?".
"Le risulta che alla presentazione del libro sull'omosessualità un fascista ne
stracciò una copia davanti a lui dopo avergli fatto firmare la dedica?".
"È vero che gli anglicani riformati volevano nominarlo vescovo? Ci può mostrare
una foto del professore?".
Ai questuanti più giovani, soprattutto se di piacevole aspetto e che cercavano di
vincere il suo riserbo con le più ingenue adulazioni ("ma che bel pianerottolo
pulito", "sa che non li dimostra i suoi anni?", "che persona
carina"...), la Belandis non resisteva, e dopo aver tentennato o finto di tentennare,
finiva per spifferare qualcosa, comportandosi come se fosse lui a parlare. Come dopo
un'autentica buona azione, si sentiva fiera nel vedere quei graziosi giovanotti scendere
le scale con piglio soddisfatto.
E a qualcuno, ma solo a "qualcunissimo", che senza segni di impazienza era
rimasto in piedi ad ascoltare le sue frottole: sul paese, sulla canonica in cui aveva
vissuto la sua tragedia, sulla vegliarda comare che s'era rotta il femore, o sui disagi di
chi è rimasto in provincia, mostrava una foto del professore. La estraeva con rispetto da
una tasca del grembiule, vi alitava sopra per poi lustrarla col gomito, e con solennità
la porgeva in avanti su di un palmo aperto, badando a che nemmeno un dito dell'altro la
sfiorasse.
"Vede, questo è Freud!", esordiva sgranando gli occhi e scuotendo il capo
per destare curiosità, mentre percuoteva col polpastrello dell'indice la faccia barbuta
dell'illustre dottore.
Era la foto di un congresso internazionale di psicanalisi, quando il professore era
tanto giovane che non pareva nemmeno lui; un'immagine che l'interlocutore avrebbe potuto
procurarsi con molta facilità nell'archivio di qualunque giornale, ma che vista lì, tra
le mani di quella donna, diventava una reliquia.
Che il professore fosse vecchio era vero: quasi cent'anni. Da qualche anno non
camminava più in modo spedito e usciva di rado, sempre accompagnato, ma tutto sommato si
manteneva in buona forma.
Le cure antinvecchiamento che la medicina ciclicamente propone, ogni venti o
trent'anni, quando qualche scienziato si accorge che la propria esistenza è minacciata
dal morbo più antico e virulento, e per questo scatena il suo entusiasmo nel tentativo di
perpetuare innanzitutto se stesso, dovevano avere avuto su di lui qualche effetto. Le
gocce di procaina, le pillole di acido ascorbico e della più recente melatonina venivano
assunte quotidianamente dal professore, dando una mano a un genio della longevità già di
per sé restio a farsi logorare dal tempo. Alla discutibile azione delle sostanze si
sommava quello del più importante dei rimedi antivecchiaia: la Regolarità, quasi che
l'obbedienza dell'organismo a un ritmo chimico imposto dall'esterno sottometta giorno dopo
giorno anche quello sconosciuto riflesso che si consuma inesorabilmente. Se poi c'è
qualcuno che ti organizza il rito dell'assunzione, foss'anche dell'umilissima ostia,
questo effetto raddoppia. E la Belandis, terrorizzata dal pensiero della morte del
professore, era la più diligente delle infermiere.
Dunque il professore era vecchio, ma se fosse stato stanco e malato, come voleva che
lei rispondesse a chi lo cercava, avrebbe potuto leggere tutti i libri che la mandava a
comperare, e sopportare i piaceri del letto che almeno due volte a settimana si concedeva?
Circa dieci anni prima Novella Belandis era entrata nella casa del professore ed egli
aveva prescritto le sue regole: "Niente televisione e niente giornali qui
dentro!". Lei aveva obbedito finché l'inizio della relazione sessuale non gliene
aveva concesso licenza, perché quando si fa l'amore con qualcuno, e solo con quel
qualcuno, si acquisisce il diritto di modificarne il carattere. O, almeno, di provarci.
I loro giochi sessuali non erano negli accordi ma piacevano anche a lei, non poteva
negarlo. Non avrebbe dovuto rinfacciarglieli; ma lui era talmente cocciuto nel rifiutare i
giornali e la televisione. Solo libri, libri e musica. Si poteva vivere così estraniati
dal mondo?
Tornò quindi all'attacco:
"Non ti interessa nemmeno sapere che finalmente abbiamo un governo?".
Il professore si fece apposta più sordo e non rispose, ma lei persistette, perché una
mano nascosta la induceva a violare gli accordi per mutare i loro destini.
"Questo sì che è un uomo!", insisté. Ruotò verso l'alto gli occhi,
scoprendone il bianco e sospirò: "Oh, quanto mi piace", ma non ne fece il nome.
Sollevò il quotidiano che si trovava sopra il plico di giornali, picchiò due volte il
dorso delle dita sulla foto di prima pagina e attese invano una risposta. Poi aggiunse
stizzita:
"Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire". E con una smorfia di
indignazione alzò il mento in direzione del professore, il quale mantenne un silenzio
serrato e non si mosse.
La donna, allora, si avvicinò cauta alla poltrona finché non scorse il professore
che, indifferente a tutto quel discorso, si umettava il pollice per procedere oltre nella
lettura.
'Accidenti!', pensò. 'Ha sempre ragione lui'.
Non era però infastidita, anzi, le faceva piacere che fosse lui a guidare la loro
vita. Da sopra e da dietro gli calò un bacio sulla testa canuta ma ancora capelluta, e
teneramente concluse:
"Va bene, io vado al paese. Nel forno c'è l'arrosto di soia. Devi solo scaldarlo.
Ti basterà per oggi e domani. Le verdure sono nel frigo, il pane nel freezer. Non
dimenticare le medicine, mi raccomando! Ci rivediamo lunedì mattina".
A quelle parole, che indicavano la resa ultima dell'ostinata governante, il professore
levò il capo per salutarla.
"Ciao!", le disse calorosamente. "Fa' buon viaggio".
La donna armeggiò in cucina, con rumore apri-e-chiudi di cassetti. Poi fu
all'attaccapanni, con tintinnio di chiavi che combattono, infine uscì. Soltanto allora,
filtrando lo sguardo nello spazio tra la fronte e gli occhiali, lui lanciò un'accigliata
e lunga occhiata sul tavolo.
'Io li odio', pensò rivolto ai giornali. 'I quotidiani, poi! Dopo un giorno non
servono più a nulla, tutto è cambiato'.
*
Come tutte le persone di elevata cultura, il professore era stato un assiduo lettore di
quotidiani. Quando era ancora nel pieno dell'attività di medico e psicanalista
sessuologo, seguiva con attenzione le dispute tra i giornalisti di grido delle testate
nazionali più importanti. Aveva capito che sono quelle l'essenza dell'informazione, e vi
partecipava. Spesso inviava lettere, che sempre ottenevano risposte e non di rado
diventavano articoli delle pagine culturali. Il professore sapeva scrivere con eleganza e
centrava ogni volta il problema. Ma dopo il pensionamento, forse perché seriamente
impedito nello scrivere dall'insorgenza di un fine tremore alle dita, o perché giocoforza
escluso dall'attualità per il sopraggiungere delle nuove leve di professionisti con più
forte entusiasmo di emergere, aveva abbracciato quella nuova e inoffensiva opinione.
Effettivamente, la scelta gli aveva giovato, perché quando si è vecchi e non si hanno
più molte occasioni per vincere forse è un bene non partecipare neanche.
Mentre così rifletteva, la sua provata prostata si fece sentire.
'È già ora di cambiare l'acqua al canarino', pensò sorridendo.
Accettò di reagire allo stimolo e si alzò per andare in bagno. Passando accanto al
tavolo sul quale si trovava il quotidiano comperato dalla disobbediente Belandis, lesse di
sfuggita il titolo di prima pagina.
"Adesso, per quelli, anche l'utopia è realtà", sogghignò. "Ci manca
solo che le facciano una statua e la annoverino tra le madonne. Buona questa!".
Sempre di sfuggita scorse la grande fotografia di Giacomo Canto. Sulle prime gli
sembrò una delle tante facce, tra le tante ovazioni che in icone ossessive avevano
tormentato per decenni il paese.
Entrò in bagno. Trasse dai pantaloni il canarino avvizzito, ma che si lasciava
permeare volentieri dal sangue, e gli parlò come a un vecchio compagno di giochi:
"Certo che tu ne hai viste di facce da vicino!".
Mentre l'orina usciva a fatica, il canarino gli rispose:
"Ne ha viste di cose il mio occhio ciclope, che voi umani non potreste
immaginare...", e pareva si rivolgesse con tono saccente a un pubblico di
extraterrestri ignoranti.
"È solo merito mio se ti sei fatto avanti nella vita con onore", ribatté il
professore con aria di sfida. "E sai benissimo che se avessi voluto avrei potuto
farti circoncidere. Non ti sarai mica dimenticato della nostra origine ebrea? Sono ancora
in tempo, se non la pianti di fare il superbo...".
Il canarino non osò rispondere, intimidito dalle ultime parole.
Da tempo il professore sapeva che gli organi parlano, il più sovente tra loro e talora
anche con il proprietario, il quale può disporre del loro destino. Proprio come i
giornalisti, gli organi usano un loro linguaggio, si informano, fanno convegni, prendono
accordi e tramano, ma sanno che non possono mai andare contro le volontà del
proprietario.
C'è una malattia che tutti gli studenti di medicina conoscono e che si chiama
"sindrome del quart'anno", quando, superati gli esami di fisiologia e patologia
generale, ultime materie nelle quali il paziente è ancora un fantasma, si aprono i volumi
di clinica medica. Solo allora si comincia a parlare di "sintomo". Gli organi
fino a quel momento studiati freddamente, a lobi, a settori, a occhio nudo o a sottili
fettine sopra un vetrino, diventano improvvisamente vivi, vivi e malati, capaci di
sintomi, i quali passano dalla dottrina dei libri al lettore, trasferendosi dall'occhio
dello studente alla sua mente, facendo sì che si creda malato del morbo che studia.
Ciascuno, poi, secondo la propria storia personale o familiare, e le trascurabili
alterazioni anatomiche o di funzione del corpo che ha ereditato, assorbe questa o quella
malattia, se ne appropria come un vestito, scambiando gli occhi miopi un po' da triglia
con l'esoftalmo maligno, la costellazione innocente di nevi con il melanoma, il lieve
gonfiore del ventre con l'epatite fulminante, la stanchezza da masturbazione e da
isolamento in collegio con l'astenia depressiva o l'anemia perniciosa.
I bravi docenti avvertono del pericolo insito nella materia da loro insegnata:
"Attenzione all'ipocondria!", ma sanno che la sindrome del quart'anno è un
passaggio obbligato per chi diventerà un buon dottore, e darà il via alla pratica
dell'antico motto "Medice cura te ipsum".
Fu durante la sindrome del quart'anno che il professore iniziò a parlare con i propri
organi. Li sentiva caricarsi dei sintomi studiati, e imparò presto a tranquillizzarli
spiegando loro che era un fatto normale, opera di suggestione.
Seppure anziano, ogni tanto ascoltava ancora i colloqui tra i reni e il duodeno, tra la
prostata e il cuore, tra la rotula e gli epicondili, tra il cervello e il polmone. Ora,
però, quando vi prestava orecchio, non poteva non rendersi conto che erano concili tra
vecchi, pieni di nostalgie, senza progetti. Per questo interveniva di rado. Ma con
l'organo sessuale parlava spesso, forse perché poteva vederlo e anche perché, rispetto
agli altri, si era mantenuto più giovane, benché anche la sua voce col passare degli
anni fosse diventata flebile e roca.
Il flusso di orina si smorzò e piano si estinse, e il professore scrollò con cura il
canarino dalle ultime gocce, per evitare le macchioline gialle sul bordo del water e i
rimproveri della Belandis. Quindi, ritornò in salotto.
*
Le voleva bene. Talvolta, però, secondo un'inspiegabile bizza, la governante
trasgrediva le regole. Forse la sua storia poteva spiegare. Abbandonata ancora in fasce
dalla madre davanti al portone del convento di Valle Reggia, minuscola frazione
nell'entroterra di Genova, Novella era stata cresciuta dalle monache. Dopo una breve, e
quanto mai deludente esperienza di servizio presso una nobile (e decadutissima) famiglia
della grande città, aveva fatto ritorno al paese, senza perdere del tutto la speranza nel
principe azzurro. Poi, per più di vent'anni era stata la perpetua del parroco: don Luigi,
un uomo buono e poco terreno, il quale, forse per questo mietuto anzitempo dalla falce del
Fattore, l'aveva lasciata in balia di se stessa. Delusa dagli uomini e da Dio, Novella
stava per indossare la veste, quando Bruno, un nipote del professore residente a Genova e
vicino all'ambiente della curia, mosso a compassione dalla triste vicenda l'aveva quasi
obbligato ad assumerla.
"Fai un'opera buona e in ogni caso aiuti te stesso", gli aveva consigliato.
"Ormai sei anziano, e hai bisogno di una persona che si occupi a tempo pieno di
te".
Il professore, che a quel tempo era vicino ai novanta, in principio aveva rifiutato.
Poiché, però, era d'animo buono e non celatamente allettato dall'idea dei servigi di una
quarantenne, aveva accettato che facesse un periodo di prova. Quando poi l'aveva avuta in
casa, la sua vecchia propensione per le "amicizie" femminili l'aveva per così
dire costretto ad approfondire la relazione.
Culto dell'ordine e della pulizia, poche ed elementari reazioni psicologiche. Cattiva
notizia: pianto; buona notizia: sorriso. Parlare: sì, sì, no, no; e quanto vi è di più
appartiene al maligno. Non bellissima, ma bella, non magra e non alta. Capelli curati,
denti tutti e sani. Curiosa, prodiga e devota. Insomma: una di quelle ruspanti remissive
che intrigano.
Novella Belandis trasgrediva le regole in buona fede, e sempre all'indomani di un
soddisfacente rapporto. Sembrava che il piacere provato nel ventre le infondesse coraggio.
Novella era cambiata da quando lui l'aveva iniziata alla vita. Anche l'aria di Mantova,
sebbene carica di quell'umidità così nociva alle ossa, che esala dai laghi e dai canali
che la circondano, era stata molto benefica e aveva contribuito alla sua rinascita. Ma, se
posso dire la mia, sin dal suo arrivo nella città dei Gonzaga, il sentirsi dire:
"Buon giorno, signora Belandis!", senza veder comparire il sorriso beffardo
sulle facce dei fattorini degli autobus, degli impiegati alle poste, della fornaia e delle
altre persone che l'incrociavano, l'aveva immediatamente riabilitata a se stessa. Sì,
perché i nomi contano. Il cognome Belandis, appioppato all'orfanella da un'anagrafe
malvagia, aggiungeva alla sfortuna della mancanza dei genitori anche quella di un volgare
e ridicolo significato.
Infatti, per esclamare l'organo genitale maschile, i portuali e i maleducati di Genova
dicono: "Belin!", e ai bambini, alle signorine abbienti, agli avvocati e ai
dottori per bene, obbligati per condizione a mitigare la volgarità di quel vocabolo, è
concesso di ripiegare sull'eufemistico "Belandi!". Dunque, per Novella, portare
in Liguria quel cognome, era come chiamarsi Bigolis a Venezia o Minchionis a Palermo. Ma
in Lombardia il cognome Belandis, come altri che terminano in "is", induceva
coloro che l'udivano a pensare a una nobile origine, al pari di Grandis, De Sanctis e
Benedictis.
Il professore, come assai di rado accadeva, quando si adirava con la governante a causa
di insistenti e mal accettate premure, usava esclamare, per umiliarla, la parola belin
insieme a belandis, in litanie ingiuriose, la meno offensiva delle quali era:
"Oh, benedetta belin belandis!", sapendo che con quella formula l'avrebbe
ricacciata con la memoria al suo infelice passato.
Novella trasgrediva, ma gli voleva bene. Anche lui le voleva bene, e non poteva più
fare a meno di lei. L'aveva designata quale sua unica erede e, prima o poi, l'avrebbe
anche sposata. E le cose fuori dagli accordi le faceva proprio bene, e di gusto.
*
"Va bene!", consentì il professore pensando alla sua governante concubina.
"Oggi ti accontenterò. Vediamole queste ultime fandonie!".
Avrebbe sbirciato sommariamente gli articoli, commentato con ironia: "Certo,
certo, voi avete sempre ragione"; annuito con sufficienza ai giornalisti dicendo:
"Sì, sì, ma cosa aggiungete di veramente nuovo a quello che già sappiamo?", e
concluso considerando: "Domani, dopo la strigliata del direttore o la promessa di un
giretto sull'elicottero del proprietario, avrete già cambiato parere, falsi e impostori
che non siete altro!".
Di rientro dal bagno si fermò presso il tavolo, prelevò il giornale, raggiunse la
poltrona e vi si riaccomodò, emettendo una lunga vocale di soddisfazione, mentre
l'imbottitura si sgonfiava sotto il suo peso. Assestò gli occhiali alla radice del naso e
adagiò il giornale sulle ginocchia, pronto al rituale del disprezzo. Ma, appena guardò
nei particolari la giacca rossa e lesse il nome del nuovo protagonista della politica,
sentì nel petto una martellata, il tuono di apertura di una gonfia nuvola di ricordi. Il
suo cuore avvertì l'imminente tempesta e palpitò forte.
"Giacomo... Giacomo Canto?!", balbettò confuso ad alta voce.
A causa dell'emozione le sue mani presero a tremare più del solito. Si voltò
ripetutamente a destra e a sinistra per cercare il sostegno di qualcuno, ma la Belandis
era uscita da un pezzo. Stirò il giornale con le mani per calmare l'agitazione che gliele
scuoteva. Impossibile.
"Giacomo Canto... premier?", farfugliò tra la meraviglia e l'imbarazzo.
"Lui!?".
Lesse e rilesse quel nome che ben conosceva ripetersi come cannonate di vascelli da
guerra negli articoli di fondo e di spalla del quotidiano. Non v'era dubbio: si trattava
proprio di Giacomo, del suo piccolo Giacomo diventato adulto.
"Adesso anche lui indossa la giacca che portava suo padre".
Ghermito dall'emozione per quegli inattesi ricordi, il professore avvertì un malessere
che ora gli dava la nausea, ora gli si intrecciava sul capo a mo' di corona di spine. Per
lenire il dolore si appoggiò piano sullo schienale, e chiuse gli occhi. Cominciò a
respirare lentamente, cercò di fare il vuoto mentale; ma il passato ritorna quando meno
lo si aspetta, per corrispondere un credito o reclamare il saldo di un debito. Il caso del
piccolo Giacomo si era chiuso all'improvviso, ed eccolo qui pronto a riaprirsi. Il
professore non poté impedire che le immagini delle persone vive o defunte, e dei luoghi
particolari, che per tre anni avevano occupato pregnamente la sua vita e il suo lavoro di
medico, lo visitassero come vecchi amici.
Frammenti colorati delle scene vissute quarant'anni prima gli si affacciarono agli
occhi, ed egli riprovò il primo entusiasmo di quella ricerca, la sorpresa infinita delle
scoperte, l'amarezza per i risultati disastrosi dei suoi esperimenti.
'Giacomo!'.
'Giacomo: il bambino degli alberi...'.
'E suo padre?'.
'Sì, il signor Canto Silvano, Ur. Il Bosco della Fontana, l'arcidiavolo, le creature
del bosco, Guardine e i mostri'.
'E la madre di Giacomo?'.
'Sì, la signora Canto. Ma come si chiamava?'.
'Virgi...?'.
Il ricordo della madre di Giacomo, e l'abbozzo del suo nome sulla soglia della
coscienza, chiamarono a raccolta i pensieri che hanno il compito di nascondere altri
pensieri. Fulminei, affinché l'ultima verità restasse sepolta, i guardiani dei ricordi
dolenti coprirono con un'ombra densa un brano importante dei fatti accaduti. Rimozione
riuscita. Alla memoria del professore si impose un nome con le stesse lettere
iniziali di quello che il suo inconscio non voleva ricordare. Nella penombra interiore,
dietro le palpebre chiuse, sussurrò:
"Virgilio! Virgilio il poeta".
Piano, e commosso, pronunciò i suoi versi:
"Da chi fuggi, o demente? Anche gli dèi abitarono i boschi".
Già, lui li aveva conosciuti gli dèi dei boschi. Lui l'aveva cercata quella verità
che non si trova né in cielo né in terra, ma tra la terra e il cielo, sulle fronde e
sotto le radici degli alberi. "Loro" gli si erano rivelati. Ma a che prezzo?
Sollevò il capo, si toccò i capelli e aprì gli occhi.
Attraverso le lenti bifocali la fotografia di Giacomo sul giornale appariva sdoppiata.
Prese con le due mani le stanghette degli occhiali, e spostandole in su e in giù ci
giocò un momento. L'immagine si animò come un film che va all'indietro. Le stagioni si
susseguirono a ritroso: inverni, autunni, estati, e primavere, fino a quei giorni
dimenticati. Rivide Giacomo, lo rivide bambino e si sentì giovane come allora, pieno di
vitalità e di idee feconde. Giacomo era lì adesso, davanti a lui.
Incuriosito e sconvolto sfogliò il quotidiano. Lesse e rilesse, cercò, esplorò.
Giacomo Canto non aveva un solo avversario. Neanche a pagarlo col sangue avrebbe trovato
un cecchino della carta stampata o del video, per rendere di dominio pubblico ciò che
nessun altro sapeva.
Quanto lo irritavano quei fogli scuciti, che sfuggivano come cose vive e ribelli alle
sue mani tremanti. Gli veniva voglia, urlando a squarciagola, di strapparli in mille
pezzi, di ridurli in briciole, di bruciarli. Fu trattenuto dalla curiosità, più forte
del rancore.
In vari stralci lesse che Giacomo Canto otteneva il generale consenso perché i suoi
propositi erano riconosciuti come espressioni della voce divina, della comunione profonda
dell'uomo con le forze superiori che lo dirigono. E apprese che i saggi giuridici che
divulgavano il suo originale pensiero si erano diffusi rapidamente sul globo. Oggi, dopo
tanti anni oscuri, l'intero Paese lo acclamava, orgoglioso di essere nuovamente patria di
un genio.
"Come possono mutare le cose in pochi anni", osservò. "Dio e
l'invisibile sono ritornati in prima pagina, in seconda e in terza. E pensare che fino a
non molto tempo fa, se qualche intellettuale avesse manifestato l'adesione a una fede non
laica, avrebbe subìto il dileggio dei giornalisti. James il pragmatico aveva ragione:
"È destino di ogni conoscenza iniziare come eresia e finire come
superstizione". Quello che oggi è considerato peccato e devianza, domani
diventerà rito e norma. L'omosessualità, che ieri era reato, oggi è moda. Forse domani
si praticheranno il cannibalismo e l'incesto senza sensi di colpa? Chissà, se avessi
trent'anni, se le mie teorie sugli ebrei risulterebbero ancora eretiche? Ma, se avessi
trent'anni, certo avrei idee differenti".
Perlustrò il rotocalco per trovare notizie sulla vita del premier.
"Cinquantuno anni, celibe, originario di Mantova [...] orfano di padre prima
ancora di nascere [...] la madre architetto. Laurea in botanica e in giurisprudenza nel
Weltwurzel Institut di Berlino [...], direttore della Trees and WoMen Foundation di Palo
Alto e poi di Gerusalemme".
Ne aveva fatta di strada.
Nessun cenno, però, al "vizio". Nessuno infatti, all'infuori di lui, poteva
sapere di quello. Il professore ritornò alla prima pagina e rilesse rigo per rigo
l'articolo del direttore:
"[...] Quando un uomo non ha mai fatto politica, non si è candidato neppure per
la circoscrizione del proprio quartiere, e si è negato all'offerta di incarichi
prestigiosi e puliti, ma ciò nonostante la gente va a prenderlo con forza per metterlo
alla guida dello stato, allora, è come nelle elezioni dell'Ape Regina nella famiglia
delle api: dietro un simile evento c'è la volontà univoca dell'inconscio collettivo, il dio
della specie che si manifesta, concentrando la sua essenza in un solo individuo
[...]".
'Quanto sono vere queste parole', rifletté. Cercò in fondo all'articolo il nome del
direttore: Marindo Mornida. Mai sentito. 'Sarà un veneto', pensò. Studiò ancora la
fotografia, e delicatamente sfiorò la figura di Giacomo, come per accarezzargli il viso.
Sullo sfondo si intravedevano lontani degli alberi.
'Chissà se sono maschi o femmine?'.
Sorrise. Si sovvenne del castagno di Giacomo e dell'arcidiavolo nel Bosco della
Fontana.
'Chissà se Giacomo si ricorda ancora di me?', si chiese poi il professore, mentre
contemporaneamente osservava l'accentuata vecchiezza della mano che reggeva il quotidiano.
E, senza aver trovato la risposta, fece scorrere uno sguardo fintamente sbadato sulle vene
fattesi rigide, sulle macchie che ricoprivano la cute, ormai sottile fino a mostrare le
ossa, sulle unghie, rigate e dure.
'È passato tanto tempo. Allora Giacomo era solo un bambino'.
*
La luce chiara e pulita del primo mattino filtrava dalla finestra socchiusa, e colpiva
il giornale sulle ginocchia del professore. Una debole e intermittente corrente d'aria
sollevava e abbassava gli angoli dei fogli, producendo un fruscio leggero e familiare,
quasi le pagine a modo loro bisbigliassero quella storia.
Da bambino, Giacomo Canto era stato paziente del professore per un problema sessuale
non proprio comune. Il clinico attento aveva riconosciuto in lui il germoglio di un
qualcosa di grande, e i fatti occorsi glielo avevano chiaramente dimostrato. Tuttavia, mai
avrebbe immaginato che quel ragazzino sarebbe diventato un indiscusso primo ministro. Gli
avrebbe attribuito piuttosto un futuro di musicista, di pittore, o al massimo di
scienziato.
Il professore portò gli occhiali sopra i capelli e si piegò in avanti. Avvicinò gli
occhietti ancora vispi alla fotografia di Giacomo tra la folla esultante, e non poté
trattenere un secondo sorriso, ripensando al tema di quella lontana consultazione.
3
Che potesse trattarsi di una malattia era stato il primo pensiero della madre di
Giacomo, che innanzitutto aveva portato il bambino da un neurologo: il dottor Cassan,
nella vicina Verona. Così fan tutti.
"Venessiani gran signori, Padovani tuti dotori, Vicentini magnagatti, Veronesi
tuti matti".
È chiaro che in una città i cui abitanti sono così categoricamente dipinti dalla
filastrocca popolare debbono necessariamente lavorare dei buoni strizzacervelli. Nella
città in cui non a caso ha avuto teatro la più bella, sofferta e tragica storia d'amore,
erano molti coloro che si rivolgevano a Cassan. Senza dubbio quando i matti sono tanti, o
tutti, come vuole la caricatura, il tempo non basta per soffermarsi a capire, ad
analizzare le cause. Quando la follia è diffusa, epidemica, bisogna subito metter mano
agli strumenti più efficaci per combatterne gli effetti.
Ma Cassan non aveva convinto la signora Canto, perché pur avendo dichiarato:
"Nessuna lesione del sistema nervoso!", e mantenute sul vago le spiegazioni,
aveva prescritto a Giacomo degli psicofarmaci, chiedendo di portarlo al controllo dopo un
mese di cura.
"Sono sempre di una qualche utilità", erano state le parole ultime del
Cassan. "Simili aberrazioni è bene soffocarle sul nascere!".
Irritata da quel comportamento contraddittorio, che da un lato negava la presenza di
sintomi, e dall'altro consigliava di sopprimerli con delle medicine, l'intelligente e
piacevole signora non era più ritornata dal luminare della chimica mentale e, dietro
suggerimento del consigliere spirituale, aveva deciso un po' riluttante di ricorrere
all'aiuto di Abramo Veritier, psicanalista di fama mondiale.
Nessuno dei due medici era però riuscito a collocare le "abitudini" di
Giacomo nel novero di quelle descritte dalle loro nosologie; indubbiamente un
comportamento atipico, non da manuale, un quadro da approfondire, da sottoporre magari
alle indagini di altri atenei.
Inizialmente, anche il professor Veritier non aveva chiarito granché, ma dal pulpito
della sua cultura classica si era almeno sforzato di dare un nome al problema. La cosa, in
parte, aveva diminuito l'ansia di quella madre che, dal momento in cui aveva colto il
figlio sul fatto, si era subito messa alla ricerca frenetica di chiarimenti sull'anomalia
dalla quale era affetto, e che ne riguardava la sessualità.
Il disturbo di Giacomo era sensibilmente diverso dalle fisiologiche
"automanipolazioni" degli adolescenti di tutti i tempi, i quali, osservati da un
occhio nascosto mentre sono distesi nel letto, mostrano sotto le coperte all'altezza dei
genitali una montagnetta dinamica, effetto del romantico rimescolio tra la mano dominante
e l'organo prestato a Onan per l'occasione. La scoperta della madre di Giacomo era stata
molto differente da quella del genitore che indovina le pulsioni esordienti del proprio
bambino, perché lo sorprende a curiosare sotto la gonna di un'amichetta o, per le
naturali varianti, a frugare nelle brache di un compagno.
Veritier ricordava perfettamente la prima conversazione con la signora Canto.
"Il disturbo di suo figlio non è classificato", le aveva detto, dopo aver
invitato il bambino ad accomodarsi nella sala d'attesa, perché potesse parlare
liberamente con la madre.
"È possibile che casi simili siano già caduti sotto l'osservazione dei medici.
Nessuno però, se ciò è avvenuto, deve aver pensato di studiarli scientificamente né,
io credo, provveduto a trascriverli. Pertanto, nella letteratura specialistica, anche
straniera, non si trova nulla al riguardo".
Dopo aver sollevato il mento, ed esserselo lisciato avanti e indietro più volte, il
professore aveva continuato:
"A onor del vero, qualcosa vagamente sul genere si può leggere negli autori greci
e latini, ma si tratta di mitologia e non di scienza. In Omero e Luciano, per esempio, in
più di un passo gli uomini e gli alberi...".
Dall'espressione della donna si era accorto che non le interessavano i classici, ma
risposte concrete e attinenti al problema. Allora, censurò le divagazioni e si diede
contegno:
"Questa malattia...".
Il professore si sovveniva perfino di come la parola "malattia", da lui
usata, avesse suscitato nella donna una smorfia di dispiacere perché, anche se
manifestamente alla ricerca di una diagnosi, non voleva che il suo piccolo venisse
etichettato da chicchessia come malato, e cercava perciò rassicurazioni in proposito.
Quindi si era corretto:
"Questo... ehm... strano comportamento, dicevo, non è mai stato descritto dai
medici del passato, né da quelli moderni dei quali io ho letto le opere. Vista però la
mia esperienza nel campo delle devianze sessuali, mi sento autorizzato a dargli un
nome".
E scandì in sillabe: "Fi-to-fi-lia".
"Dunque, il mio bambino è malato di fitofilia?", aveva chiesto la
donna, visibilmente intimorita da quella parola per lei incomprensibile.
E, dopo aver aggiunto allo smarrimento dello sguardo alcune rughe di preghiera
affinché l'interlocutore continuasse, si costrinse ad ascoltare il resto con molto
coraggio.
"Sì, signora, suo figlio è un fitòfilo!", aveva sentenziato il
professore, senza dare alla frase il minimo accento di biasimo. E a conferma delle buone
intenzioni aveva deciso di accompagnare le parole successive con una mimica
tranquillizzante.
«Una "filia"», aveva ripreso «è il desiderio intenso per un
certo oggetto. È l'esatto contrario di "fobia"».
"Qual è il suo titolo di studio, signora?", aveva poi domandato gentilmente,
per sapere come condurre il seguito del discorso.
Arrossendo, per il timore che le domande del medico potessero portare alla luce il suo
passato di desiderosa di prenderlo, di cui si vergognava e che, con immenso e
segretissimo senso di colpa, riteneva responsabile dell'anomalia del figlio, la donna
aveva risposto:
"Sono architetto!".
Dopo aver considerato che quel livello di cultura dovesse essere sufficiente per
comprendere la spiegazione che intendeva dare, il professor Veritier continuò:
"I suffissi -filo e -filia significano 'amico' e 'amicizia per',
e indicano una propensione del desiderio sessuale, ma non solo di quello sessuale, le
assicuro, per l'oggetto al cui nome sono uniti. Vengono così designati alcuni
comportamenti...", il professore tossicchiò due volte, "non proprio
comuni". E concluse la frase con un sospiro, per essere riuscito a non pronunciare
più le parole "malato" e "malattia".
Proseguì quindi più rilassato, vestendo le frasi con la forma che era solito dare
alle sue conferenze, apprezzatissime dagli studenti e dallo stesso preside di facoltà, il
quale le onorava spesso con la sua presenza.
"Ad esempio, la pedofilia è il desiderio che taluni individui provano di
unirsi sessualmente con bambini e ragazzi... Poi, mhm! vediamo... Posso citarle anche la necrofilia,
disturbo in cui il piacere è diretto verso il corpo umano ormai privo dell'anima... il
cadavere, tanto per capirci. E, ancora, c'è la zoofilia erotica, in cui la
passione sceglie come oggetto un animale: il cane, la pecora, il cavallo eccetera".
E fece seguire gesti ed esclamazioni che lasciavano intendere: "Come vede, ci sono
cose decisamente più gravi!".
*
Il sole si era levato, più in alto, seguendo la naturale inclinazione verso occidente.
Il profilo di materia densissima della torre del Palazzo Ducale impediva ai suoi raggi di
esprimersi pienamente sulla dimora del professore, come sulle altre case del centro di
Mantova. Più tardi, raggiunto lo zenit, avrebbe fatto piazza pulita degli ultimi avanzi
della notte. Ora, però, dalla finestra che volgeva verso il Palazzo e la torre, la luce
penetrava solo in una metà della stanza, lasciando l'altra nell'ombra. Seduto sulla sua
poltrona, il professore si trovava proprio sulla linea di quella ripartizione, come il
crinale di un monte tra ponente e levante. E così il filo dei suoi pensieri, pronto a
passare per capriccio o necessità dal ricordo all'immaginazione, dalla realtà alla
fantasia.
Un'improvvisa folata di vento spalancò la finestra e investì il giornale piegandone
gli angoli in grandi orecchie, che si curvarono a coprire la mano che lo fermava sulle
ginocchia. Mentre i fogli si agitavano fastidiosamente, quasi per liberare la fotografia
dalla mano che l'oscurava - il nuovo, oppresso dal vecchio - si sentì sbattere forte la
porta di un'altra stanza. La corrente d'aria, causa dell'urto, si arrestò, e il moto
delle onde di carta si placò. L'aria prese allora a soffiare dolcemente sul viso del
professore, che emise un sospiro e chiuse gli occhi.
Dalla posizione seduta, col busto chino sul giornale, si lasciò andare bruscamente
verso lo schienale della poltrona. A causa dello spostamento gli occhiali, appoggiati
provvisoriamente sul capo, scivolarono. Per impedire che cadessero li inseguì con la
mano, che riuscì però ad afferrare solo i capelli. Questi recavano ancora piccole tracce
di una pazzesca avventura. Un giorno lontano erano diventati improvvisamente bianchi, ma -
qui sta l'assurdo - soltanto sul lato destro. Con orgoglio aveva portato il segno
dell'esperienza sublime e al tempo stesso terribile vissuta durante lo studio di quel
caso. E mai aveva cercato di nascondere con una tintura o sotto un cappello quel bizzarro
fenomeno che faceva somigliare la sua capigliatura a un copricapo medievale. La vecchiaia
aveva reso canuto anche il lato sinistro della sua testa, e nessuno più lo fissava in
modo strano e sorpreso, né i più curiosi osavano ancora chiedergli le ragioni di quel
fatto tanto insolito.
Non raccolse gli occhiali. Preferì lasciare sul pavimento gli strumenti che gli erano
indispensabili per vedere e, impedendo in tal modo alle percezioni corrette della realtà
di disturbare il suo viaggio nel tempo, volle godere meglio di quei ricordi nella nebbia
di miope.
Slittato in una posizione più comoda, accarezzato dal venticello tiepido, il
professore si dondolava lievemente e si fregava ora la punta del naso, ora il lobo di un
orecchio. Ripassò un po' se stesso, gli ritornarono al naso i profumi caratteristici del
passato, e fu avvolto dal vago senso di gloria e di vittoria che il ricordare ispira a chi
ha superato con successo il proprio destino. Vide scorrere veloci alcune pagine della sua
vita pubblica e i volti di qualche caro amico scomparso. E, dopo qualcosa di simile alla
dissolvenza della televisione, l'archivio relativo al piccolo Giacomo si schiuse del
tutto.
Nel vecchio la memoria è un groviglio di strade all'interno del cervello, le più
percorse giornalmente allo scopo di dare un senso a quel che rimane dell'esistenza. Allora
il processo del ricordare diventa l'essenza, quasi, della vita interiore e ogni nuovo
evento, più che determinare una nuova risposta, dà origine a un'altra evocazione.
Al contrario, per il professor Veritier, leggere la notizia che un paziente, che era
stato per lui così importante, diventava oggi per volontà del popolo la più alta
autorità dello stato, fu come assaporare un gusto nuovo o vedere un colore mai visto. La
perspicacia che lo aveva caratterizzato in gioventù dava i suoi frutti anche adesso, e la
particolare attenzione con la quale aveva sempre osservato le persone che erano entrate
nella sua vita, o che vi si erano soltanto affacciate, gli offriva la possibilità di una
reminiscenza vivida e fedele.
Si era proprio immedesimato in quella disperata signora. Ricordò di averne quasi viste
le emozioni che l'agitavano, il viso delicato che si scaldava per la vergogna, e che a
tratti impallidiva per il pensiero di essere sepolta, per riaccendersi sotto l'impulso di
aggredire o di ferirsi, forse di uccidersi, per essere stata toccata da una sorte tanto
crudele.
A quel tempo Giacomo aveva dieci anni, ed era nell'età propria in cui i ragazzi
precoci manifestano i primi comportamenti sessuali. Ma, come deve sentirsi una madre nello
scoprire il proprio figliolo che si accoppia con un albero, nessuno può saperlo. Certo,
ora che il lettore l'ha sentito qui, se dovesse ancora averne notizia, o qualora un fatto
del genere si verificasse nella sua famiglia, gli sembrerebbe più normale. E non si
sentirebbe mai vittima di una faccenda unica, come invece toccò pensare alla madre di
Giacomo.
Il ricordo del professore continuava lucido. Era tutto assorto, aveva messo le labbra a
beccuccio, e con la pinza del pollice e dell'indice della mano destra si torturava il
mento, come per spremerne i dubbi. Tra le sopracciglia arruffate e canute, di cui a turno
molestava le code, si era formato il solco di chi scruta per discernere, la stessa di
allora...
*
Giacomo e sua madre abitavano in periferia, in un'epoca in cui i bambini non ricevevano
un'istruzione sessuale scolastica, costretti a imparare quell'abbiccì dagli accoppiamenti
impudici dei cani randagi, e ad avere esperienze di tipo tribale, come le misurazioni
falliche di gruppo. Là, il limite urbano era segnato da un castagneto collinare, meta in
autunno dei raccoglitori di castagne e senza vincoli stagionali di tutti i ragazzi del
quartiere. Superando l'ultimo isolato, e percorrendo un breve tratto di strada bianca in
leggera salita, in cinque minuti si potevano raggiungere i primi alberi.
Avvinghiato a un giovane castagno fu sorpreso Giacomo. Afferrato e annullato dall'eros
innocente dell'infanzia si strofinava contro il tronco ancora liscio dell'albero. Con i
pantaloni abbassati, le cosce bianche scoperte, gli occhi socchiusi e la mimica del viso
fresco un po' in tensione, era concentrato in quell'atto singolare senza accorgersi che la
madre gli stava davanti. E - ancor più sbalorditivo - dopo aver udito la sillaba iniziale
del suo nome:
"Gia...!!!",
gridata con l'affanno di chi ha fatto una corsa e insieme un'amara scoperta, si distaccò
con aria estatica dall'albero, ricomponendosi come se nulla fosse. E neppure si fermò a
confrontarsi con lo sguardo di rimprovero della madre che lo fissava truce. Le sorrise
senza rimorso e, dicendo: "Scusa, lo so, è tardi", si avviò con lei sulla
strada del ritorno.
Chi sa di essere il portatore di un vizio (specie di quelli criminali), quando si
sente sospettato appena o, peggio, quando è colto in flagrante, dissimula. Se ciò non è
possibile tenta di discolparsi e, avvedendosi che le cose si stan mettendo male, chiede
subito perdono, fa promessa solenne di non farlo più. O, almeno, così fanno i bambini.
Giacomo, invece, sorpreso ancora ad amoreggiare con lo stesso albero e con altri, si
mostrò sempre della più immacolata normalità, e mai diede modo ad alcuno di pensare che
la sua passione fosse tenuta segreta, neutralizzando ogni abbozzo della possibile ipotesi
che in lui si celasse il germe di un pericoloso deviato.
Qualche tempo più tardi, durante una gita in montagna, mentre la signora Canto si
apprestava, insieme a una coppia di amici e ai loro due figlioli pressappoco coetanei del
suo, a fare merenda nella radura di un bosco, si accorse dell'assenza di Giacomo.
Preoccupati che si fosse smarrito, tutti si misero a cercarlo chiamandolo a gran voce,
ritrovandolo dopo poco nel folto degli alberi in atteggiamento più che
"confidenziale" con una vecchia quercia.
Ma, anche in quel caso, nonostante la presenza di altre persone, Giacomo non cercò di
nascondere la sua abitudine, e tutti, tranne sua madre che sapeva, credettero che si fosse
appartato per un bisogno corporale. Molte volte la signora Canto domandò al figlio il
perché di quegli strani comportamenti, ma non ne ottenne mai risposte esaurienti. Tutto
quello che Giacomo concedeva alle richieste di chiarimento di sua madre era:
"Mi piace! Quando faccio così mi sento bene!".
E se lei tentava di approfondire il discorso domandando: "Ma perché ti piace,
perché ti senti bene?", Giacomo ne stroncava la curiosità con un dogmatico:
"Perché così!".
Era evidente che il bambino taceva dell'altro, sicuramente piacevole come dichiarava,
perché dopo quelle risposte evasive manteneva un'aria al tempo stesso trasognata e
furbetta, che di certo qualcosa voleva sottintendere. Tuttavia, la signora Canto non aveva
voluto insistere per il timore di aggravare la situazione. Dopo una comprensibile fase di
rabbia, durante la quale avrebbe volentieri "sistemato il problema" con la
repressione (benché con metodi più artigianali di quelli del dottor Cassan), nel suo
animo era gradualmente subentrata la consapevolezza di non possedere gli strumenti
adeguati per quel grattacapo. I disturbi psicologici - si sa - sono affari delicati.
Perciò, s'era accontentata di proibire a Giacomo di entrare nei boschi, proponendosi come
poi fece di ricorrere al consiglio di esperti.
*
Per prima cosa, il professor Veritier volle visitare il luogo del misfatto per
conoscere gli oggetti delle attenzioni sessuali di Giacomo. Si fece accompagnare dalla
madre del bambino nel bosco vicino alla loro abitazione, pregandola di indicargli gli
alberi con cui si era unito. Ella apparve confusa.
"Mi sembrano tutti uguali, come le scimmie. Forse questo, o forse quello... o
quell'altro!?", rispose additando dubbiosa vari punti del bosco. Sapeva esattamente,
però, qual era l'albero della prima volta.
"Come potrei dimenticare?", mormorò con pena tra i denti. "È
questo!", disse sfiorando con ribrezzo la scorza di un castagno dal fusto alto e
diritto.
"Sarà maschio o femmina?", si domandò Veritier quando fu ai piedi
dell'albero, facendo arrampicare l'occhio fin sulla chioma. Gli sembrava di ricordare che
anche nel regno vegetale vi fossero individui maschi e femmine, come nella famiglia degli
uomini. I suoi studi di botanica erano stati superficiali e ora oltremodo lontani, e non
fu in grado di rispondersi. Comunque, era un bell'albero di pochi anni, forse dieci o
quindici, e come tutto ciò che da poco ha cominciato a vivere, le sue fattezze gli
sembrarono più quelle di una fanciulla che di un giovanotto. Così, dopo il sopralluogo,
pur non avendo la certezza di quanto andava affermando, forse per l'orrore che
istintivamente provava all'idea che l'innocente bambino fosse stato sedotto da un bruto
vegetale, il professore tentò di rassicurare la donna.
"Vede, signora, nell'anomalia c'è una certa normalità", le disse.
"Giacomo non è omosessuale: l'albero che preferisce è femmina!".
E, contento di aggiungere nuovi dati alla sua scoperta, stabilì: "Si tratta,
senza ombra di dubbio, di un fitofilo eterosessuale".
Come passo successivo il professore volle avere un secondo colloquio con la signora
Canto, da sola.
4
Quella povera donna, cattolica ai limiti della bigotteria, vestiva di scuro dalla morte
del marito e si manteneva casta dal giorno dell'infelice evento. Con un passato abiurato
di desiderosa di prenderlo, al quale ho fatto cenno, in cuor suo vedeva il
comportamento del figlio come una punizione di Dio per le grandi passioni, per tutte
quelle felicità "speciali" che aveva reso agli uomini, mai in cambio di denaro
o per ottenerne favori, ma soltanto per genuino appetito.
Grazie all'aiuto dell'uomo straordinario e santo che fu suo marito, era profondamente
cambiata e così... aveva capito che il suo costume sessuale, come spesso vale per ogni
comportamento esagerato, era il sintomo di una mancata realizzazione nella vita. Lui,
permettendole senza gelosia ogni divagazione extraconiugale sin dall'inizio del
matrimonio, le aveva di volta in volta interpretato il perché di quelle azioni, che
immancabilmente risultarono essere frutto della mancanza di fiducia in sé e
dell'incapacità di sublimare l'energia sessuale. E le aveva anche insegnato come farlo.
Dall'interrogatorio di Veritier emerse che Silvano Canto, il padre di Giacomo, era un
uomo buonissimo ed eccezionale.
Figlio di una casalinga molto religiosa e di un operaio comunista che a tutti i costi
desiderava per i figli un futuro da borghesi, nella vita non aveva combinato nulla di
buono secondo le aspettative del padre. Ultimo di tre fratelli, e nato a distanza di quasi
dieci anni dal secondo, era stato uno studente modello durante tutto il liceo, ma dopo la
maturità si era iscritto a tre diverse facoltà senza mai riuscire a laurearsi. Forse
perché esaurita la spinta verso la promozione di classe auspicata dal padre, ormai
anziano e appagato dall'aver visto già due figli diventare "dottori", o forse
perché di natura molto sensibile, si era lasciato influenzare dalla madre, angosciata dal
pensiero che anche l'ultimo figlio lasciasse Mantova per studiare in un'altra città. Dopo
il tentativo di sociologia a Trento, poi di lettere antiche e infine di filosofia a
Padova, Silvano abbandonò il proposito della laurea. Però seguitò a studiare la
filosofia con molto impegno e, forse per compensare gli insuccessi collezionati, era
diventato una sorta di utopista, che di sé diceva soltanto:
"Sono uno che si sforza sul serio di cercare la verità".
E sul serio la cercava. Nella lotta contro l'esistenza mescolava la pratica del
cristianesimo, le preghiere e il catechismo con il rispetto assoluto dei peccati degli
altri, di tutti gli altri, con i quali avrebbe diviso anche la moglie, cosa che in effetti
accadeva. Aveva finito per occuparsi esclusivamente delle correnti filosofiche spirituali
provenienti dall'India, ed era diventato un maestro di yoga. Conduceva vita semplice e
onesta, facendosi bastare il modesto stipendio che gli derivava dall'insegnamento di
quella disciplina in alcune palestre. Presso molti godeva della reputazione di
"guru", e in svariate occasioni aveva dato prova del possesso di telepatia e di
altri più inquietanti poteri paranormali, fino a prevedere, con una frase sibillina
pronunciata più volte, la propria morte:
"Non un feretro ospiterà il mio corpo, non un'urna conserverà le mie ceneri, me
ne andrò con la resina degli alberi".
Riguardo alla vita sessuale, sulla quale, visto il disturbo di Giacomo, Veritier
dovette necessariamente informarsi, il signor Canto era quasi del tutto astinente.
"Facevamo l'amore solo una o due volte l'anno, sempre in primavera",
confessò la donna. "Io, sono sempre stata innamorata di lui e, può ben capire,
attendevo con ansia, ma quelle rare occasioni non mi bastavano. Per questo all'inizio ero
insoddisfatta e lo tradivo. Poi capii che per lui fare l'amore era un rito, una grande
festa, forse l'unico momento in cui Silvano metteva i piedi per terra.
Quando sui rami spuntavano le prime gemme, lui abbandonava i libri e le posizioni.
Uscivamo per passeggiare, io lo vedevo eccitato come un animale annusare i cespugli e i
fiori. Si chinava a baciare la terra, come un navigatore approdato alle Indie; ma me,
me...", la donna sospirò con rabbia e portò la mano al petto per commiserarsi,
"...me non mi sfiorava neppure. Queste erano le nostre uscite di primavera! Poi,
d'improvviso, alla prima giornata calda e serena di fine maggio o di giugno, mi portava
all'aperto in un posto isolato, sulla riva di un fiume o nel folto di un bosco, e lì ci
amavamo per ore, con lo stesso impeto di due che lo fanno per la prima volta. E quando
Silvano raggiungeva l'orgasmo sembrava che tutta la natura partecipasse. Sarà stata anche
suggestione ma, davvero professore mi creda, in quei momenti il vento prendeva a fischiare
forte, fortissimo, in pochi secondi mutava più volte direzione. Tutto d'un tratto intorno
a noi si creavano vortici di polvere con la forma delle campanule, e i fruscii delle
foglie diventavano voci...".
La signora Canto smise di parlare per qualche secondo, la mano sospesa che mimava
ancora, ruotando nel vuoto, i movimenti del vento. Con lo sguardo fisso e lontano annuì
ripetutamente, l'espressione attonita, fisicamente partecipe della rievocazione.
"In più di un'occasione si avvicinarono animali per natura timidi: un riccio, uno
scoiattolo e un giorno, sì un giorno ricordo, perfino un cervo posò le zampe a un metro
e forse anche meno da noi... e ci guardava con i suoi occhi grandi, lucidi".
"Mah!", fece il professore, buttandosi indietro e sbattendo le mani sui
braccioli della poltrona.
Era molto scettico, e non se la sentiva di dare un cieco credito al resoconto della
madre di Giacomo. Si poteva pensare che avesse costruito quella storia per nascondere
altro o per giustificare il disturbo di Giacomo col comportamento del padre, ma nella
trama non v'erano contraddizioni grossolane, né potevano dedursi da ombre ipocrite dello
sguardo o del volto.
Veritier non aveva mai avuto esperienze extrasensoriali dirette, fatta salva la chiara
sensazione delle mani della propria madre che gli accarezzavano il capo nel momento esatto
in cui ella moriva in un ospedale distante molti chilometri. Era certo però del fatto che
l'uomo non conosce tutto e che molte cose sono possibili; e, se c'è un filo sottile che
lega l'immaginario all'invisibile, la psicanalisi, tra le scienze, è capace di tesserlo.
"Dopo l'orgasmo, Silvano diventava triste, qualche volta piangeva, e usava sempre
le stesse frasi, come se fosse pentito della relazione fisica di cui aveva goduto.
"Guarda la natura adesso, guarda gli alberi", mi diceva. "Quando ci amiamo
fisicamente siamo fiori, poi diventeremo rami o radici. Questa è la sessualità. Ci
illudiamo che sia soltanto un piacere, ma porta con sé sempre un dolore che ci distoglie
dai nostri compiti superiori". Nel parlarmi, Silvano mi afferrava per le
spalle...", la donna riprodusse il gesto allungando le braccia davanti a sé e
stringendo i pugni, "...e mi scuoteva forte per avere tutta la mia attenzione, come
se volesse condividere qualcosa di irripetibile. Ma io non lo capivo, in principio. Forse
non l'ho mai capito. Ero diversa. Avevo bisogno di carne, tutti i giorni. Di carne umana,
e ogni pretesto era buono per ottenerla".
...
Veritier rimase molto stupito che la donna avesse usato le espressioni "bisogno di
carne" e "carne umana" per indicare i tradimenti coniugali. Stonavano,
avevano un che di celatamente volgare, sapevano di cannibale, ma quel parlare poteva
essere un modo simpatico e ironico per evitare vocaboli più diretti e imbarazzanti.
Tuttavia, durante la raccolta dell'anamnesi, la madre di Giacomo fu generosa di
particolari soltanto dei fatti che riguardavano il marito, e si guardò bene da una
confessione aperta e dettagliata dei propri, lasciando credere al professore che i suoi
fossero tradimenti di ordinaria amministrazione.
"Senta, signora Canto", le chiese. "Ho bisogno di sapere, per medica
necessità, qualcosa della sua vita sessuale prima di conoscere Silvano. Seppure la
fitofilia di Giacomo è probabilmente da mettere in relazione con la morte prematura di
suo marito, debbo verificare che questo disturbo non abbia dei precedenti nella sua, di
storia". Pose un'enfasi particolare su "sua" e con l'indice bussò due
volte in direzione della donna.
"Vede, signora...", continuò Veritier con mimica bonaria e comprensiva,
"la madre è il primo contenitore, e proietta sul figlio paure e bisogni
insoddisfatti. I bambini sono come spugne nuove. Assorbono con forza i sentimenti dei
genitori, specie se questi vivono una condizione di infelicità... e poi li esprimono con
i sintomi. Ciò che mi ha raccontato di Silvano è già sufficiente per abbozzare
un'ipotesi e anche una strategia di cura". Elargì quindi un sorriso rassicurante,
come per dire: "Stia tranquilla che noi ce ne intendiamo". Poi, con delicatezza,
chiese:
"Anche lei... è originaria di Mantova?".
"No... veramente...".
La signora Canto, spaventata dall'idea di rispondere alle domande sulla propria
sessualità prima di Silvano, era fermamente decisa a omettere, e anche a mentire, se il
professore si fosse spinto fino al nucleo dei suoi segreti.
Il volto palesava grande preoccupazione. I lineamenti tirati la facevano sembrare più
vecchia, perché alla solitudine si aggiungeva l'ansia per il recente problema di Giacomo.
Era una donna molto bella, ma la sua bellezza non era valorizzata o, almeno, non lo era
più da tempo. Vestiva abiti eleganti e ordinati, ma dai colori spenti: giacche, gonne e
pantaloni di almeno una taglia più abbondanti, tali che non si capisse quali forme
coprivano. Indossava completi grigio scuro, antracite o marrone, camicie sobrie senza
ricami né bottoni vistosi, e nascondeva il collo con piccoli foulard a fiori, cangianti
ma comunque opachi, fermati sul davanti sempre dalla stessa fosca spilla d'argento. I
capelli lisci e neri, tagliati a caschetto dalle forbici di un parrucchiere senza estro,
celavano con una frangetta anonima la fronte e, si può supporre, una buona parte di
pensieri. Non portava trucco e ai trentadue anni effettivi se ne sommavano almeno altri
dieci (l'età di Giacomo) dovuti alla privazione dell'amore di un uomo. Come i vestiti,
anche gli occhi erano spenti al punto da non notarsi nemmeno. Viso pallido da pianura
padana e mani curate da architetto, diafane, con unghie corte non coperte da smalto,
nemmeno trasparente, le dita ornate soltanto dagli anelli nuziali: due, perché
all'anulare sinistro era infilata anche la fede del marito, più larga e trattenuta dalla
propria.
La signora Canto era stata molto diversa. Come voleva che la gente la vedesse, così
anche Veritier la vedeva.
"Veramente, io sono nata in Istria, ma i miei genitori sono venuti a Mantova
quando ero molto piccina. Erano...", rispose la donna abbassando gli occhi e la voce,
"zingari".
"Erano... zingari", la emulò Veritier, senza dare alle parole l'intonazione
della domanda, perché il ripetere l'ultima frase del paziente favorisce la confessione,
sulla falsariga dell'eco. Stratagemma infallibile che sfrutta il più profondo istinto
alla comunicazione che v'è negli umani. Chi, infatti, udendo l'eco della propria voce, o
un pappagallo che replica parole appena pronunciate, non è tentato di continuare a
parlare?
Veritier era piacevolmente sorpreso, perché amava gli zingari e aveva una sua precisa
idea in proposito. Il volto della madre di Giacomo, talmente camuffato dalla maschera di
un volontario annullamento, non mostrava i connotati tipici degli zingari. Soltanto
sporcandole la pelle a dovere, con rugiada e diluito fango, mettendole indosso una lunga e
fiorita veste opportuna, acconciandole il capo con vento e pioggia, e togliendole dalle
labbra l'abitudine a pronunciare parole che si trovano anche sui libri oltre che nel
cuore, le si sarebbe restituita la miscellanea genuina di segni che solo i popoli nomadi
hanno racimolato durante il loro errabondare. Invece, sotto quel magro pallore
intellettuale sbirciava appena una debole sfumatura olivastra, nulla di più.
"I miei appartenevano alla stirpe dei Rom, ma non erano più girovaghi da due
generazioni, sapevano leggere e scrivere. Vennero sfollati a Mantova durante la guerra,
poi vi rimasero per fare i contadini. Abbiamo abitato sempre in campagna. Io sono
cresciuta qui e mi sento mantovana".
Era evidente che parlava delle proprie origini zingare con vergogna.
"E, mi dica, come ha conosciuto Silvano?".
"Sul treno. Ci incontravamo spesso, la domenica sera. Lui andava a Padova e io a
Venezia, per l'università. Ci conoscevamo già di vista e ci salutavamo. Frequentavamo la
stessa parrocchia e dopo la messa delle undici poteva accadere che ci fermassimo a
chiacchierare del più e del meno. Entrambi avevamo delle difficoltà con lo studio, ci
facevamo coraggio a vicenda. Silvano aveva cominciato a interessarsi di filosofia
orientale e mi affascinava con le sue scoperte: la reincarnazione, la vita delle anime
dopo la morte... Un giorno sul treno mi chiese di fermarmi da lui a Padova.
Nell'appartamento che condivideva con altri studenti non c'era nessuno. Così, quella sera
ci siamo messi insieme".
La donna iniziò a piangere, un pianto contenuto che non impressionò Veritier, il
quale neppure tergiversò. Stette in silenzio, aspettò che le lacrime smettessero e che
fosse pronta ad altre domande. Visto che il vaso si era aperto, arrivò al dunque:
"Mi perdoni, ma... ha avuto relazioni con altri uomini prima di conoscere
Silvano?".
La signora Canto s'irrigidì.
"A esser sincera... sì, qualche piccola cotta".
Mentiva spudoratamente. Corrugò la fronte e d'un fiato, mettendocela tutta per fingere
orgoglio, disse:
"Silvano è stato il mio primo ragazzo, cosa crede?".
Guardò bene il professore per capire se si fosse accorto che gli aveva mentito, e le
sembrò di averla fatta franca. Lui taceva e la sua faccia non mostrava sorpresa, né
dubbio; ma sicuramente aspettava che continuasse, per cui, visto che la prima menzogna,
che è sempre la più difficile, le era riuscita senza troppa fatica, ne aggiunse una
conseguentemente logica:
"Tutt'e due avevamo ricevuto una rigida educazione cattolica, io più di lui... Ma
non sono arrivata vergine al matrimonio, se è questo che vuol sapere".
Veritier la scrutava. Qualcosa non lo convinceva, anche se non era in grado di dire
cosa. Era un buon osservatore, attento ai minimi particolari. Ogni singolo segno era
coerente in sé: l'abbigliamento decoroso, la mancanza di ornamenti e di trucco, il volto
mesto e la postura abbattuta. Quegli anelli nuziali, poi, uno dietro l'altro sullo stesso
dito, a lui, che aborriva il matrimonio, dicevano: "Uniti anche
nell'oltretomba". Tutto concordava nel fargli pensare che la madre di Giacomo fosse
una tipica vedova contrita; ciononostante lo assillava un sospetto indefinibile. Forse era
l'insieme che mancava di armonia. Ecco, gli sembrava che dentro la madre di Giacomo fosse
compressa, e poi quelle locuzioni: "bisogno di carne" e "carne umana",
male si accordavano con la sobrietà dei vestiti e l'idea di "primo ragazzo".
"Primo ragazzo" è un mito, pietra miliare di un percorso sentimentale che può
ammettere l'Altro, non "i" tradimenti.
"Non ha avuto altri uomini, prima. Però, ehm... poi lo ha tradito. E, mi scusi se
insisto, purtroppo devo, i suoi tradimenti erano normali? Intendo: niente alberi
o cose del genere?".
A quel punto la donna ricominciò a piangere, con uno scoppiettio di singhiozzi. Veri e
falsi. Veri quelli che riguardavano la malattia di Giacomo e la perdita del marito, che
quel colloquio le richiamava con prepotenza alla mente, un po' meno quelli per i
tradimenti.
Tra lacrime, balbettamenti e sospiri, la signora Canto rispose:
"No... no... niente... alberi... solo rapporti normali... sempre normali...".
*
La medicina, a suo modo è un metodo indiziario. Poiché le sue indagini, fatto salvo
il principio di aiutare il prossimo - spesso e volentieri trasgredito in nome di più
razionali principi -, non sono molto dissimili dalle investigazioni poliziesche, al
professore sarebbe bastato fare qualche domanda mirata e tirare semplici somme per
computare che Giacomo, concepito a seguito di un rapporto invernale, era nato prima che la
madre iniziasse gli studi universitari. Ciononostante, egli, non affatto matematico, ma
letterato nella sua condotta di medico, fu impietosito dalle lacrime della donna, non
volle turbare le lettere con i numeri e la interrogò ancora su Silvano.
Secondo quanto raccontò di seguito, il padre di Giacomo era un uomo bellissimo, ma
privo di vanità. Alto, slanciato, gli occhi azzurri e i capelli castano chiaro. Un fisico
asciutto e muscoloso: muscoli lunghi - lei tenne a sottolineare - e un portamento nobile.
Contrariamente a ciò che solitamente accade alle persone dotate di inusuale bellezza
fisica, Silvano si applicava continuamente per rendere il dentro come il fuori. Forse per
questo morì giovane. Studiava e meditava, pregava e rifletteva, soltanto in primavera
fioriva. Riusciva a fondere le sue speculazioni sulla perfezione morale con una tenace
disciplina del corpo, e maturò la comprensione che i primi ostacoli della mente sono le
errate concezioni. Era al corrente dei tradimenti della moglie, ma con l'esempio le
trasmise il principio buddista che da una retta posizione non può che derivare una retta
azione. La incoraggiò nello studio e nella comprensione dei fenomeni della vita, e
favorì la sua emancipazione, aiutandola a diventare un raffinato architetto.
'Una tale immagine', pensava però Veritier, messo ad arte di fronte a quel bel
quadretto 'è solo l'esagerata idealizzazione del marito, un lutto non superato, il
defunto è tenuto vivo con la forza. Il tempo sanerà la ferita e la signora Canto
tornerà come prima'.
Grazie al comprensivo consorte, dopo una manciata di anni la nostra desiderosa si era
ritrovata madre e professionista affermata, finalmente affrancata da quei brutti vizi.
Purtroppo anche vedova, perché il marito era morto poco tempo dopo la sua redenzione, in
circostanze alquanto misteriose. Esattamente come era stato capace di prevedere, non
un feretro ospitò il suo corpo, non un'urna conservò le sue ceneri, ma se ne andò con
la resina degli alberi. E su quella fine nacque una leggenda.
Nell'anno in cui lei restò incinta di Giacomo, durante le vacanze estive Silvano era
bruciato vivo per salvare dei bambini da un grande incendio in una pineta. Del suo corpo
non era stato rinvenuto neanche il più piccolo frammento d'osso. A causa del mancato
ritrovamento della salma, e poiché nell'estate successiva quella pineta era raddoppiata
in rigoglio e ampiezza, la gente del posto, molto affezionata al ricordo del defunto e del
suo eroico sacrificio, più di una volta aveva creduto di vederne l'immagine volteggiare
sulle cime degli alberi e apparire nei pressi delle sorgenti. Qualcuno aveva gridato al
miracolo, la magistratura e la curia avevano aperto un'inchiesta congiunta, e il sindaco
aveva fatto intervenire un gruppo di parapsicologi inglesi. Poi, come ogni fuoco attizzato
dalle chiacchiere, anche quello si spense, lasciando che sotto covassero solo le braci
autentiche.
Dunque, senza nemmeno riuscire a veder nascere Giacomo, lo sventurato Silvano se ne era
andato completamente in cenere. E la cosa che più faceva soffrire la moglie era la
constatazione che, dopo essersi convertita a una giusta etica, invece di ricevere una
ricompensa ai suoi sforzi, le toccava subire una punizione.
Così quella donna, ormai diventata monogama convinta, per volere divino, dopo la
libertà perse anche l'amore.
continua... |