Stefano Marcelli: Il dio femmina stuprato nel bosco
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Giorni cicatrice dell'anima
cinque, sei, sette, otto, nove
La storia degli Ebrei sbarra la storia del ge-
nere umano come una diga sbarra un fiume:
per alzarne il livello.

Léon Bloy

5

"Finalmente!", espresse Nathan Pravdakim con un sospiro trattenuto da mesi e forse da anni. "Questa è fatta".

La barca sulla quale si trovava con la moglie Ruth, i figli Michael e David, e Judith, la giovane sposa di quest'ultimo, approdò al piccolo molo tra le canne e le tife sulla riva opposta della Beresina. Gli appartenenti ai gruppi di miserabili eletti, scampati al secondo massacro di Orša, in fuga chi verso Vilnius e il Mar Baltico, chi in direzione di Varsavia e l'Europa, si strinsero in accorati saluti.

Lacrime e abbracci sui tabarri spolverati di neve, labbra e guance che si toccano in baci di commiato e in improbabili arrivederci; volti provati dalla cronica persecuzione e da una violenza recente che non trova spiegazione se non nei libri segreti di Dio; mani agitate tra fagotti di merci indispensabili e di neonati. Rassegnata disperazione dell'ebreo errante.

Numerose le barche a quel molo e agli altri contigui. Punti neri che fluttuano avanti e indietro sull'azzurra e bianca striscia del fiume. Molte le Bibbie aperte e gli ebrei in ginocchio. Silenzio e preghiere. Dita tremanti che frugano in borse e scarselle per consegnare il denaro ai traghettatori. Dita di Jahvè che muovono i fili della peregrinazione dei salmi. Barbe, riccioli, zucchetti, candelabri, rotoli di Torà nell'ennesimo, e non ultimo, esodo.

Nathan aveva perduto la madre e un fratello, trucidati sotto i propri occhi; altri parenti dispersi, forse nascosti. Stringeva a sé gli ultimi affetti rimasti: la moglie Ruth e i due figli, e calava un braccio a proteggere le spalle della nuora Judith, diventata orfana di entrambi i genitori nella stessa sinagoga, assalita dai contadini di Orša, inferociti e affamati.

Guardando gli altri ebrei intenti a pregare, Nathan Pravdakim, l'usuraio, scorse vicinissima a sé la figura china del vecchio Rav Tänzer, il rabbino. Lo osservò allacciarsi al capo e alle braccia i filatteri. Lo udì recitare il Salmo 69, mentre le frange dello scialle e le pergamene della Torà, protette negli involucri di cuoio, ondeggiavano assecondando i suoi movimenti.

"C'è più gente a odiarmi ciecamente / Di quanti io abbia in capo capelli / Ho più nemici dissimulati che in corpo ossa".

Rav Tänzer voltò lentamente il viso verso Nathan e alzando appena la voce parve rivolgersi proprio a lui:

"Cosa ho da rendere se non ho tolto?".

Per la breve durata del versetto gli intensi occhi azzurri del rabbino di Orša penetrarono come spade la coscienza di Nathan. Poi si distolsero da lui e si socchiusero di nuovo nel vuoto davanti al volto contristato del vecchio, che seguitò a recitare il salmo a voce bassa.

Un fugace moto di pentimento attraversò l'anima di Nathan.

'Cosa ho da rendere se non ho tolto?', pensò ripetendo le parole del salmo. 'Rav Tänzer si riferisce a me. Mi accusa. Pensa che gli tocca restituire anche ciò che egli non ha rubato. Quello che avrei rubato io, cioè! Come se tutto questo fosse colpa mia!'

Si sentiva addosso, come il più indigesto dei pranzi nuziali, la condanna del rabbino e degli altri ebrei osservanti, onesti. In realtà, nessun altro lo stava guardando né giudicando. Tutti gli riconoscevano il merito di quella salvezza. Era stato lui ad avvertire la comunità ebraica di Orša della prima aggressione, alla quale era miracolosamente scampato. Gli prudevano le mani, le macchie gialle rilevate sui palmi gli davano fastidio, e la testa gli girava in modo insopportabile. Per molti era stato lui a organizzare la fuga e a pagare in anticipo i barcaioli e le carrozze che di lì a un momento sarebbero giunti a prelevarli. Era stato il suo denaro, il denaro di Pravdakim l'usuraio, a dare a molti dei presenti una possibilità di scampo; anche per i pochi cristiani che si erano uniti a loro, quasi tutti i borghesi di Orša: qualche ricco commerciante, il procuratore e la sua famiglia, alcuni irriducibili fedeli allo zar.

Guardò uno a uno i protagonisti di quel triste scenario. Era il solo disonesto di Orša? Solo lui l'usuraio? Solo lui non metteva lo scialle di preghiera e i filatteri? Ma chi versava alla sinagoga somme più cospicue di quelle che ogni mese donava lui? Con i soldi di chi si mantenevano i giovani rabbini? E gli studenti? Qualcuno deve pur pagare per coloro che studiano e partoriscono teorie. Perché poi magari diventino antisemiti? Gli si rivoltò lo stomaco pensando a Marx e quelle idee pseudocristiane che volevano gli uomini tutti uguali: invidia, solo invidia e implacabile delirio di passare alla storia. Meglio il Cristo, allora. Con quali soldi?

'Anche con i miei, caro il mio Rav Tänzer', rispose Nathan dentro di sé. 'E poi ci sono anche usurai cristiani. Credi che non ci perseguiterebbero comunque?'.

Le mani gli prudevano più forte, nel suo cuore dirompeva la collera contro i bolscevichi (quanti tra i bolscevichi erano figli di ebrei?), contro quello stupido zar che non era stato capace di prevedere. No, no, non era colpa dello zar, e nemmeno sua. Una storia vecchia: il popolo eletto, ma privo di patria e di esercito. Nathan si toccò quello schifo di bernoccolo che aveva sul collo sotto il bavero del mantello. Sentì con le dita l'umidità sporca e malata che ne usciva bagnandogli la camicia. "Gomma", l'aveva chiamata il dottor Goldman. Si passò la mano sulla fronte fredda e sudata.

'Accidenti a lui e al suo mercurio che mi fa star male! Goldman non è tra noi, magari si salverà lo stesso, la gente ha sempre bisogno dei dottori'.

Ebbe un giramento di testa più forte dei soliti e si sentì mancare. Strinse il braccio con cui cingeva le spalle alla nuora. Provava pena per la fanciulla e insieme una grande tenerezza. Ella lo guardò.

'Povera Judith, che ancora non hai saputo', pensò sorridendole.

Judith rispose brevemente al sorriso, poi riabbassò il capo. Nessuno degli altri parlava. Sembravano statue mute intorno al loro scultore. Né Ruth, né Michael, né David fiatavano. David però guardava affettuosamente il padre, lo sapeva malato. Per quanto tempo ancora lo avrebbero avuto con loro? Era un uomo buono suo padre. Quante volte aveva assistito al pianto dei debitori, che uscivano dalla loro casa rassicurati: avrebbero avuto ancora una proroga, infinite proroghe al pagamento. Alcuni non avrebbero mai pagato. Per altri avrebbero provveduto le mogli, o le figlie. Povero padre, che acconsentiva a quei baratti. Ma quelle puttane, ebree o gentili, ci stavano volentieri, per molte era un'abitudine, il corpo come denaro. Ma per Nathan era un vizio, un irresistibile vizio.

'Appena saremo fuori da questa storia, mi farò cristiano, e se non sopravviverò sarà la mia ultima volontà', meditò Nathan in silenzio, reagendo allo sguardo del figlio col turbamento di chi sa che gli altri sanno. 'E tu, David, mi dovrai obbedire!'.

Guardò ancora Judith. Gli piaceva. Se non fosse stata sua nuora... La neve, posata sui capelli raccolti della giovane, gettava intorno un albo lucore. Sembrava l'aureola di una Madonna. Tristemente gli ricordò l'icona di Rublëv, appartenuta a un alto funzionario di corte soffocato dai debiti, e poi rimasta di sua proprietà come pegno di un ingente prestito in denaro mai restituito. Che peccato aver dovuto lasciarla - un così antico e costoso gioiello - nelle mani di bifolchi ignoranti. Incalcolabile il suo valore in rubli d'argento, ma soprattutto era inestimabile l'affetto provato da Nathan per quell'immagine di Myriam: la più dolce e sensuale faccia d'ebrea mai vista. Appesa sulla parete di fronte allo scrittoio del suo ufficio, gli succedeva spesso, mentre le mani correvano indaffarate sui registri, di sorprendersi a contemplarne la grazia e l'intensità dei tratti. A volte le parlava e lei sembrava ascoltarlo. Gli sarebbe mancata più della sua casa, come i familiari perduti.

'Siete due buoni ragazzi, e anche se io non sono degno di nominarlo, Iddio vi benedica. E ve lo giuro, prima che io muoia diventerete cristiani! Se Dio è uno, cosa importa il tipo di preghiera? Non ammazzare. Sono i comandamenti che dobbiamo rispettare. Non desiderare la donna d'altri. È difficile, per me è difficile. Forse per i bolscevichi è difficile non odiare e non ammazzare. Anch'io li sto odiando in questo momento'.

Nathan pensò ancora al dottor Goldman, ricordò le ultime cose che gli aveva detto circa la sua malattia.

"Non soltanto nelle mani e sul collo sono le gomme, ma anche dentro, e continueranno ad aumentare di volume e di numero. Devi prendere le medicine".

Poi pensò alla morte, e con un brivido che gli percorse la schiena rivide i contadini di Orša nella sinagoga. Lui, che nella sinagoga non entrava da anni, quella volta era entrato per caso, spinto da un impulso inspiegabile, forse da Dio, perché vedesse il forcone che trapassava il ventre della propria madre, del proprio fratello e dei genitori di Judith. E, poi, quando le punte imbrattate di sangue stavano per ficcarsi nella sua di carne, già malata, la mano e la voce di una donna conosciuta avevano fermato il contadino che avanzava verso di lui come una bestia assassina.

"Niet, niet, On niet! No, no, lui no!", aveva gridato, lacerando il silenzio tra le pareti sacre. "Lui è un'anima buona, ci ha sempre aiutato. Lascialo andare", respingendo con il braccio teso il contadino. Gli aveva fatto risparmiare la vita. A lui, proprio a lui che era già condannato dal male. Così è la morte nei suoi raptus: una fiera sazia che fugge l'odore della decomposizione e spalanca le fauci sulle prede più sane.

Qualche anno prima quella donna aveva giaciuto con lui per estinguere il debito del marito. Nathan aveva sempre voluto bene alle donne con cui era stato. Forse le aveva prese da quella le gomme. E se non da lei, da chi? Troppe ne aveva possedute come merce di scambio per le sue usure. Nathan osservò Rav Tänzer, ancora intento a pregare. Tänzer era un uomo puro, aveva avuto altri genitori, un altro destino.

'Ha una grande fede', pensò, 'e la fede rende immuni dalle malattie. Dovrei pregare anch'io'. Gli vennero in mente i versetti dell'Ecclesiastico:

'Figlio, non irritarti nella malattia, ma prega il Signore e ti guarirà... Poi chiama il medico, poiché il Signore ha creato anche lui, non lo allontanare, poiché hai bisogno di lui... Chi pecca contro il suo Creatore, cadrà nelle mani del medico'.

Aveva peccato sì, lo riconosceva, e aveva già in corpo la ricompensa: le gomme e il mercurio di Goldman.

Poi, portò nuovamente lo sguardo sulla nuora che teneva il capo basso. Forse anch'ella stava pregando in silenzio.

'Povera Judith'.

Judith non sapeva ancora dell'orrenda fine dei suoi genitori. Chiamata da David che, avvertito dal padre della strage alla sinagoga, l'aveva trascinata quasi di forza fuori di casa e senza bagaglio sulla carrozza e poi sulla barca, Judith si era abbandonata alla sorte comune.

"Sono già in salvo", aveva mentito David a sua moglie, incinta di un mese. Temeva che la notizia dell'uccisione dei suoi, aggiunta allo spavento della fuga, avrebbe potuto farla abortire. Glielo avrebbe confessato dopo la nascita di Rachel, la bimba che Judith portava dentro.

Dopo il massacro alla sinagoga, il saccheggio dei negozi e delle abitazioni, e le fiamme, poi ancora massacri. Per i sopravvissuti non c'era tempo da perdere, o fuggire o morire.

Aprile 1919. Rivoluzione. Odio e terrore. Odore di sangue e di fumo.

La neve cessò di cadere. Il sole pallido del pomeriggio, indifferente alle cose del mondo, lanciò alcuni scialbi strali attraverso le nuvole e i banchi di nebbia che si levavano dagli argini del fiume, colorati dalle speranze di coloro che volgevano la faccia al futuro e la schiena al cadavere di Nicola II, l'ultimo zar. La campagna intorno era lugubre e bianca, e i barcaioli conducevano le prue dei traghetti attraverso la corrente gelata, affondando remate sicure nell'acqua e appoggiando colpi attenti alle lastre di ghiaccio che l'ingombravano ancora minacciando come lame gli scafi.

La Beresina aveva già visto le truppe annientate di Carlo XII di Svezia, ed era stato il fiume più ostile a Napoleone, il limite nordorientale della sua gloria, l'inizio del suo tramonto. Le sue acque avevano lavato il sangue dell'esercito francese in ritirata e impedito alle riforme di aprire i ghetti al di là degli Urali. Ora la Beresina era sotto il tiro dei cannoni. Gli stivali dei bolscevichi, uomini senza dio né sovrano, calpestavano in lungo e in largo le Russie, da Pietroburgo a Odessa, da Mosca a Vladivostok. Ma a ovest dello storico fiume la loro ferocia per il momento non era ancora arrivata. A tredici anni dal primo massacro di Orša, non c'era ancora pace per gli ebrei di Russia. I fuggitivi avrebbero raggiunto Minsk durante la notte e si sarebbero diretti in treno a Varsavia e da lì l'ultima corsa verso Parigi.

*

"Chi di voi saprebbe recitare l'Ave Maria in latino?".

La Rochelle, cattolico di ferro, interpretava alla lettera il precetto più ambiguo e sedizioso di Paolo: "Odiate il male". Ma cos'era per lui il male?

Il maestro La Rochelle si muoveva tra i banchi come un uccello rapace, per educare gli allievi che avrebbero affrontato la scuola secondaria e la vita. Si sentiva responsabile del futuro di quei bambini, della loro cristianità. Tutto il suo zelo per Cristo e gli apostoli si esprimeva durante gli insegnamenti di religione. Tabula rasa l'anima dei bambini. Su quella invisibile lavagna si dovevano incidere con tutta la forza i comandamenti e il catechismo, affinché vi restassero per sempre. Ma l'amore, il vero amore e la tolleranza non avevano posto nel cuore di La Rochelle.

Natale 1926. Parigi. Ecole du Bon Chrétien.

"Chi di voi saprebbe recitare l'Ave Maria in latino?", ripeté il maestro, marciando avanti e indietro sul pavimento di assi consumate tra le file dei banchi. "Cosa fate durante la messa? Pensate ai vostri giochi? Oppure i vostri genitori non pregano mai?".

Era severo il maestro La Rochelle. Come poteva pretendere che bambini di sette, otto anni conoscessero il latino? Il suo zelo, il suo ardore per Cristo lo spingevano a tanto.

Una timida manina si levò da un banco in seconda fila e da una vestina ordinata. Era quella di Rachel Pravdakim, figlia di ebrei convertiti venuti dalla Russia. Il maestro, di spalle, non s'accorse che qualcuno voleva rispondere.

"Possibile che nessuno di voi conosca l'Ave in latino?".

Rachel conosceva quella preghiera. La ripassò a mente:

'Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui Iesus. Sancta Maria, mater dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae. Amen'.

David e Judith, i suoi genitori, la recitavano durante i rosari. Lei ascoltava e, commossa, ripeteva l'Ave anche alla messa, sotto le note romantiche di Schubert. Voleva bene alla Madonna che schiaccia la testa al serpente. Era contenta di poter dimostrare al maestro che conosceva l'Ave in latino.

"Io!", disse Rachel, orgogliosa.

Il maestro udì la vocina e si voltò, ma quando si accorse da chi proveniva, guardò torvo la bimba e disse:

"Tu-u? Proprio tu, Pravdakim?".

Seguì qualche secondo di silenzio terribile, durante il quale Rachel abbassò lentamente la mano che aveva alzato.

"No, tu no! I tuoi nonni non sarebbero d'accordo!", dissentì il maestro, quasi gridando le parole.

"Lo sai, Pravdakim, cosa significa in russo il tuo cognome?".

Rachel, intimorita, non rispose.

"Significa 'sincero'", disse il maestro. "Ma cosa c'è di sincero in un ebreo convertito?".

Tutti i bambini osservavano Rachel, che aveva iniziato a piangere per le dure parole del maestro e per il ricordo dei nonni materni che non aveva conosciuto, ma di cui aveva saputo la tragica fine.

"Avanti, recitala!", ordinò il maestro, levando con sprezzo il palmo della mano.

Rachel, che singhiozzava, congiunse le manine innocenti e iniziò, balbettando:

"A...ve Maria, gratia ple... na, bene...dicta tu...".

La Rochelle la interruppe, e continuò lui la preghiera, battendo in aria gli accenti con il pugno chiuso.

"Benedìcta tù in mulièribus, et benedìctus frùctus tùus Ièsus... Guardatela, guardatela, la vostra compagna. Conosce l'Ave in latino! I suoi genitori pregano e vanno a messa, ma i suoi nonni...", serrò le mandibole e parlò tra i denti, "...i suoi nonni hanno ucciso Gesù".

In quel momento per La Rochelle il male da odiare erano i giudei, assassini di Cristo, popolo di deicidi, bugiardi e avari consacrati a Mammona. Non bastavano le conversioni coatte, né quelle volontarie a estinguere il loro peccato. Traditori, giuda, perfidi ebrei.

La campana suonò e la lezione ebbe termine. I bambini uscirono. Su Rachel fischiarono palle di neve e quaderni. I bambini sanno essere crudeli, specie se educati a odiare il male, il male negli altri.

"Giuda, perfide juive!", la insultarono, mentre Rachel correva cercando di allontanarsi dalla loro cattiveria. Tornò a casa piangendo, dalla sua mamma e dal suo papà. Avrebbe coccolato Abraham, l'adorato fratellino di due anni, e si sarebbe sentita di nuovo felice.

*

"Dobbiamo andarcene", disse David a Judith, mentre sedevano l'uno accanto all'altra al tavolo della cucina sotto la luce sbiadita di una lampada. "Non possiamo più restare. Siamo cristiani, ma eravamo ebrei".

"Già!", esclamò Judith desolata. "Anche obbedire alla ultima volontà di tuo padre non è servito. A niente, proprio a niente".

La notte è calata su Parigi e i ragazzi sono a letto da un pezzo. Dormono di sonni poco tranquilli gli ebrei. Estate 1937. Il nazismo in ascesa. Anche nell'illuminata Francia si moltiplicano gli antisemiti, per i quali ogni pretesto è valido per agire le loro demoniache vessazioni. È sufficiente avere un cognome diverso, dal suono poco francese. Il cognome Pravdakim e i loro nomi la dicevano lunga sull'origine di David e Judith, di Rachel e Abraham. Perché, almeno i figli, non li avevano chiamati con nomi di guerrieri franchi o di santi cattolici?

A Parigi David era proprietario di un negozio di articoli in pelle e calzature di classe. Aiutato dalla moglie ne gestiva con molta abilità e profitto le rendite. Rachel e Abraham avevano ormai diciotto e tredici anni. Rachel si era da poco diplomata maestra, mentre Abraham in autunno avrebbe iniziato il ginnasio: due ragazzi maturi e intelligenti. Ma l'intelligenza, l'amore per la cultura e l'intuito per il commercio si possono nascondere meno facilmente di una fronte spaziosa, di occhi vivaci e di un naso saliente. E, poiché queste qualità negli ebrei hanno spesso generato invidia distruttiva nei non ebrei (specie nei falsi cristiani), e sono state la vera causa delle persecuzioni a loro dirette, David, dopo lungo ragionare, aveva deciso che si sarebbero trasferiti in Italia, paese in cui gli ebrei hanno vissuto più in pace che in altri.

"Il nostro nuovo cognome è pronto, con i documenti", riferì David entusiasta. "Manca solo la firma del direttore d'anagrafe. "Veritier". Ti piace? Significa 'sincero', pressappoco come Pravdakim. Laggiù, tu e io ci chiameremo Giuditta e Davide, e i ragazzi Rachele e Abramo".

"Chissà cosa direbbe tuo padre... Giudittà", ripeté Judith senza passione, calcando l'accento sull'ultima sillaba.

"No", la corresse David con fare gentile. "In Italia diremo Giudìtta".

Judith scuoteva la testa, e la teneva bassa. Il battesimo non bastava; e nemmeno la partecipazione attiva alla vita talora ossessiva della chiesa cristiana: le novene, i rosari, le processioni. Ancora una fuga, un'altra nazione, un'altra città. Ma fino a quando? È questo per noi, Signore, il tuo calice amaro?

"È stato gentile Monsieur Corbelli", continuò David. "Ci vuole aiutare davvero. Tu lo sai quanto ha già fatto per noi, e quanto bene vuole ai ragazzi. Per qualche tempo ci fermeremo a Torino da alcuni suoi parenti. Corbelli ha detto che è meglio conservare un cognome dal suono francese, potrà spiegare il nostro accento. In Piemonte sono molti coloro che provengono dalla Vallée d'Aoste e dalla Savoie. Corbelli ci ha fatto rinascere tutti in Savoie. Poi andremo a Padova. Corbelli ha scritto una lettera a monsignor Tonin. È un suo caro amico, un uomo buono, un vero cristiano. Gli ha risposto che ci aspetta e che possiamo contare sul suo aiuto".

"E il negozio?", lamentò Judith sollevando mestamente il capo. "E il lavoro di Rachel, la scuola di Abraham? Abraham, lo sai quanto è affezionato ai suoi amici... soprattutto a Gratien. Sono sempre insieme, sembrano due fidanzati. Sarà un duro colpo per lui. Sono preoccupata. E la lingua, la lingua? Come faremo?".

"Non ti crucciare per il negozio. Le scarpe le mettono anche gli italiani; di denaro ce n'è rimasto. Sarà sufficiente per avviare un'attività anche laggiù. Rachel all'inizio potrà dare lezioni di francese. La scuola di Abraham è il problema minore. I sacerdoti di Sant'Antonio sono preparati. Gli italiani sono gente cordiale e Abraham non avrà difficoltà a farsi dei nuovi amici, senza dover temere i loro genitori antisemiti. La lingua italiana, poi, è molto simile al francese. Qualche parola la conosciamo già, dall'Opéra, dal latino. Rachel e Abraham parlano un po' di russo e di ebraico. Credimi, andrà tutto bene!".

David cercava di rassicurare la moglie e se stesso, perché anche su di lui quella scelta pesava.

"Ti ricordi i rivoltosi di Orša e il passaggio della Beresina? E Varsavia? Allora pensavamo che non ce l'avremmo mai fatta, invece eccoci qui. Abbiamo degli amici e per fortuna anche dei soldi. In Germania le cose si van mettendo male, ma in Italia, dove nessuno conosce la nostra vera origine, non saremo più in pericolo. In Italia c'è il papa, e Mussolini non stringerà mai alleanza con Hitler".

*

Il muro della vecchia fabbrica, un opificio meccanico abbandonato da molti anni, perimetro custode delle riunioni segrete tra Abraham e Gratien, fungeva da riparo dimesso all'incontro fra i due ragazzi. Se il sole può lanciare i suoi strali pur restando indifferente alle cose del mondo, le cose del mondo non possono che appassionarsi alle vicende degli uomini. Così, quel muro, forse già triste di non godere più del passaggio rasente degli operai, delle tute affumicate e sudate, delle loro voci e dei pensieri di sopravvivenza, piangeva. Dalle larghe macchie di fuliggine e di edera rampicante, sparse qua e là sulla superficie tarlata di mattoni rossi, scendevano piano lunghe lacrime scure che assorbivano il suono delle parole sussurrate.

"Allora addio, Gratien!".

"No, Abraham, arrivederci!".

"No, addio, non potrò scriverti. Non sarò più Abraham Pravdakim, ma Abramo Veritier, un'altra persona. Dovrò dimenticare Parigi, la Francia e il francese. E anche te, Gratien. Mi mancherai".

Incurante dell'impermeabile nuovo che poteva lordarsi, Abraham si lasciò andare, appoggiando le spalle alla parete fedele. Vi posò una mano e senza guardare accarezzò i mattoni, come il saggio padre morente delle favole che prima di spegnersi tocca il capo dei figli e fa testamento. Ebbe pensieri solo suoi, che trattenne:

'Mio caro amico Gratien, bene dell'anima, togliendomi la Francia i nazisti mi tolgono soprattutto te. Che m'importa della scuola, dei jardins, dei soldi di mio padre, dell'oratorio, dei prêtres e delle soeurs. Non ci sarà più per me questo muro prezioso. Non ci sarà mai più un altro Gratien col quale parlare, al quale confidare le mie pene. Non ci sarà altro amico all'infuori di te che potrò stringere, baciare... come te...'.

Quasi l'avesse udito, Gratien si avvicinò e, mettendogli entrambe le mani sulle guance, gli sollevò il viso affettuosamente.

"No, Abraham, arrivederci! Su un libro di un certo Green, che mio padre mi teneva nascosto, ho letto che l'esistenza è una catena forgiata dagli uomini del mare, e che il destino di chi si è amato continua dopo la morte in altre vite, in vite che si ripetono quaggiù sulla Terra. Anche se non ci incontreremo più in questa, è troppo il bene che proviamo l'un l'altro perché debba finire in questo modo, per le stupide ambizioni degli adulti...".

"Sì", rispose Abraham, assente.

È chi parte che ha più speranze di tornare, più possibilità di incontrare di nuovo. Chi resta perde più di chi se ne va, perché non solo il cuore sentirà la mancanza di chi è partito, ma anche le cose e i luoghi, che sembreranno vuoti come le stanze dei ricordi dentro. Eppure Gratien era ottimista, mentre Abraham, che aveva davanti la novità del viaggio, del paese nuovo, di una nuova esistenza nella romantica Italia, era disperato. Della rassegnata disperazione di un cristiano.

"Sì, Abraham. Anche se tuo padre non vuole, mi scriverai. Lo farai di nascosto. E io, te lo prometto, brucerò le tue lettere. Non si saprà nulla di te. E quando questa stupidità sarà finita ci incontreremo. Vedrai, sarà bello stringerci le mani cresciute, verrò in Italia e tu tornerai a Parigi, ci rincontreremo qui alla fabbrica, andremo ai jardins, avremo la barba, saremo sposati...".

Gratien sorrise immaginandosi un futuro che non avrebbe avuto.

"Io non mi sposerò mai, lo sai", si ribellò Abraham. "E non mi piace che mi cresca la barba".

"Dici così adesso, poi cambierai idea. T'ho visto, sai, come guardi Antoinette e Sophie", lo stuzzicò Gratien, dandogli una gomitata. "Come le guardo io. Ci piacciono, eh?".

"È vero, mi piacciono, tantissimo. Ma non provo per loro l'affetto che provo per te".

Abraham era tristissimo. Era la vigilia di uno di quei domani che restano impressi per tutta la vita, indelebili come i letti dei grandi fiumi sulla Terra, anche quando le loro acque hanno cessato per sempre di scorrere. Come i segni di lame vibrate con una cattiveria che raggiunge l'osso. Giorni cicatrici dell'anima. Come il giorno della Beresina per David e Judith, e il giorno dell'Ave Maria per Rachel. Per Abraham era il giorno di Gratien, la sera in cui si salutarono per l'ultima volta.

"Abbracciami amico mio, ti prego, stringimi forte", disse Gratien a Abraham che non osava sollevare gli occhi, perché troppo colmi di lacrime e di pensieri funesti. «Abbracciami l'ultima volta e dimmi "arrivederci"».

"Arrivederci", sospirò Abraham singhiozzando e rispondendo con tutta la forza all'abbraccio di Gratien, mentre dentro pensava:

'Addio!'.

*

Dall'indice puntato in alto discendeva un polso, e dal polso un braccio, che si continuava in una spalla e in un collo. Il profilo di un colletto bianco lasciava che una testa calva e un naso adunco e pallido spiccassero su una campana di tessuto nero che si abbassava fino a coprire le caviglie. Come la tonaca di un prete cattolico.

"Loro!".

Una voce limpida e vigorosa, sicura della verità.

"Loro vi guardano".

L'indice, conformato a uncino, sembrò agganciare "loro" e scagliarli verso i "voi" che ascoltavano la predica della domenica sotto la cupola della Basilica del Santo. Il dito fulminò i presenti a raggio, quasi mirandoli uno a uno.

"Mamma?", bisbigliò il bambino, seduto sulla panca accanto alla madre.

"Dimmi Abramo!", rispose la donna piegando il capo e avvicinando l'orecchio a quelle labbra.

"Mamma, chi sono "loro"?".

"Sono gli angeli, i santi, i profeti, i morti, Gesù, Dio. Ma parla più piano...".

"E ci guardano?".

"Sì, ci guardano".

"Anche i diavoli ci guardano?".

"Sì! anche loro, per tentarci".

"E perché non li vediamo?".

"Perché sono invisibili".

"Mamma, loro guardano anche gli ebrei?".

"Di più! Li guardano male... Ma adesso stai zitto, ascolta la messa! Se no cosa dirà la gente che parliamo in chiesa?".

La donna raddrizzò il capo e tornò composta.

"Mamma, loro sono la gente?".

('Ma perché, Abramo, mi fai certe domande?').

"Zitto, adesso!".

*

'Come sono brutto', pensò l'adolescente Abramo scrutandosi la faccia davanti allo specchio del bagno. 'Chissà cosa diranno loro. È così che mi vedono, come mi vedo io: brutto!'.

Passò in rassegna i capelli impertinenti, poi le sopracciglia che si univano al centro, ispide come pellicce di porcospini, infine indugiò sugli occhi color nocciola, trovandoli insignificanti. Solo esplorandoli bene, ma proprio bene, guardandovi dentro col naso schiacciato contro la superficie dello specchio, si poteva notare una piccola luce scintillante provenire dal loro fondo; l'unico "qualcosa di bello" in mezzo a tutta quell'immondizia.

Alzò l'ascella che rifletteva i primi peli. Vi portò vicino il naso per sentire quel nuovo, acre odore. Voleva verificare anche i peli sotto, perciò dal bagno passò nella camera dei genitori, assenti. Anche Rachel uscita. Il sacro cuore di Gesù dentro la cornice sul piano del comò venne coperto con un fazzoletto.

'Lui non deve vedermi'.

L'anta dell'armadio dei vestiti aperta. Dentro, lo specchio lungo. Fuori, Abramo e la sua figura intera, nuda.

'Ce l'ho piccolo'.

'Starà crescendo?'.

'Diventerò grande come papà. Loro lo vedranno'.

Una mano scese e cominciò a toccare, a mescolare, perché tutto ciò che è vivo ha bisogno di essere toccato e mescolato per crescere. Gli occhi si chiusero un momento, poi si riaprirono.

'Così è più lungo'.

6

"L'omosessualità è la condizione di base della sessualità maschile. Dio è femmina, solo una donna possiede ventre atto a contenere tutte le cose del creato. Maschio il contenuto e femmina il contenitore.

Dio è femmina, e il primo uomo era una donna, creata a sua immagine e somiglianza. La Genesi è stata interpretata male, forse volutamente. Sono stati commessi due gravi errori di interpretazione, due nefande confusioni: Adamo con Eva, e l'albero della conoscenza con quello della vita".

Padova. Auditorium della cattedra di psichiatria. Conferenza del professore Abramo Veritier, dal titolo "L'omosessualità è una devianza?".

Il pubblico era eccitato, alcuni dei giornalisti presenti sconvolti. Uno di loro si alzò di scatto.

"Dio... femmina?", gridò con la faccia accartocciata dal disgusto e facendo roteare l'indice levato. "È un'eresia, la più grande eresia mai sentita. Mi perdoni, professore... ma lei è un eretico!".

Una donna, giovane e carina, si alzò proprio mentre il giornalista, sbuffando, tornava seduto. Si guardò intorno come per guadagnare l'attenzione di tutti i presenti, e non turbata affatto dalle affermazioni del professore, anzi affascinata, intervenne.

"Scusi, professore, l'idea che Dio è femmina l'ha derivata dalla psicanalisi?".

Quella signorina conosceva di persona il professore. Aveva seguito l'intero corso di lezioni e studiato la teoria nei dettagli. Veritier parlava a favore dell'omosessualità e il suo discorso emancipava le donne.

Prima di rispondere, il professore sorrise alla donna e le fece un cenno di approvazione col capo, forse per ringraziarla di aver distratto il pubblico dall'aggressione del precedente intervento.

"La psicanalisi ha svelato molte interessanti verità. Da Freud abbiamo appreso che la sessualità è un costume più che uno stato. Ma l'idea che Dio è femmina è insita nelle scritture. L'antropologia, la genetica e la linguistica lo confermano, e ci illuminano a questo proposito".

Nell'auditorium tacque ogni brusio. La teoria del professore scuoteva le coscienze ma le avvinceva.

"Anche se le mie ipotesi relative agli errori nel Vecchio Testamento sono opinabili, fuori dai testi sacri vi sono altre prove, concrete, che Dio è femmina e che ha creato Eva prima di Adamo".

Voci isolate di dissenso, ma dal volume non troppo elevato, si liberarono nella sala. Il professore le ignorò. Sfogliò le prime pagine del grosso volume dalla copertina verde rilegata, con titolo e fregi dorati, che aveva davanti, e lesse:

«"Iddio creò l'uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; lo creò maschio e femmina".

Se si vuol essere pignoli, il primo uomo, al limite, se non femmina, doveva essere androgino. Altrimenti la Genesi userebbe il plurale e scriverebbe: "Iddio creò gli uomini... li creò maschi e femmine".

In un passo successivo...», continuò il professore, «la Genesi spiega come Dio creò Adamo da Eva: "Poi con la costola tolta alla donna formò l'uomo"».

Si udirono altri segnali di dissenso, più sonori questa volta, come reazione alla volontaria inversione, da parte del professore, delle parole "uomo" e "donna" nel passo.

"Quella costola era il pene di Adamo o, perlomeno, il simbolo del pene".

Lo stesso giornalista che aveva accusato Veritier di eresia si rialzò e sbottò adirato:

"Non si possono fare simili affermazioni. Lei vuole interpretare la Bibbia a suo piacimento. Che tipo di prova è affermare che la costola adamitica è il simbolo dell'organo genitale maschile?".

"Se mi lasciasse concludere, prima di giudicare, senza interrompermi di continuo, forse potrebbe valutare in modo più sereno e obiettivo le mie affermazioni", reagì allora il professore.

Ma il giornalista, alfiere delle emozioni più che dei pensieri, non aveva alcun desiderio di obiettività.

"Non è possibile questa idea. È assurda", gli rispose.

"Sì, lei ha ragione, è assurda secondo il comune modo di pensare", ribatté il professore con l'intenzione di estinguere definitivamente la polemica. "Sa cosa disse Sant'Agostino? Credo quia absurdum. "Credo perché è assurdo!". Lo stesso concetto di Dio può essere assurdo".

Con quella citazione, autorevole e più che mai calzante, il professore vinceva la partita, riguadagnando la considerazione di quanti, tra il pubblico, si fossero lasciati convincere dall'accusa di eresia. Il giornalista non sentì più nella platea l'energia che fin lì aveva sostenuto il suo furore, lanciò l'ultima offesa e scelse la fuga permalosa.

"Oltre che un eretico... lei è un superbo. Non posso tollerare di ascoltarla ancora. Me ne vado".

Detto ciò, spense gli occhi, congelò la faccia, raccolse la borsa, infilò cappotto e cappello, e se ne andò. La sua uscita non turbò gli altri giornalisti, contenti anzi di poter colorare le loro relazioni con quell'episodio. Né il professore fu scosso, perché calmo seguitò l'esposizione.

"La prova che Dio è femmina è soprattutto di ordine antropologico.

I comportamenti e i rituali delle civiltà primitive si trattengono meglio nella memoria degli uomini di quanto non si conservino i libri, perché i comportamenti sono sotto gli occhi di tutti, mentre le scritture, almeno a quei tempi, erano conosciute solo dai sacerdoti.

Ora... quello che voglio dirvi (tenetevi forte cattolici e ebrei maschilisti)... è che la circoncisione è il più antico rito ebraico. Consiste nel taglio del prepuzio del neonato.

Il prepuzio, per coloro che non conoscono questa parola, è la pelle che ricopre il glande, la testa del pene. Ebbene, il taglio del prepuzio è considerato dagli ebrei come il patto tra Dio e Abramo. E cosa potrebbe significare se non la restituzione a Dio della costola di Eva con la promessa di un ritorno del maschio all'iniziale condizione di femmina?".

A quel punto alcuni dei presenti presero le loro cose e se ne andarono a capo basso senza fiatare. Il professore li osservò con indifferenza, continuando a parlare.

"La circoncisione viene praticata sui neonati ebrei maschi all'ottavo giorno: due giorni dopo il sesto, in cui Dio creò il primo uomo, cioè la prima donna. Più chiaro di così...".

Tutti ascoltavano in silenzio, attenti e disposti a ricevere quell'incredibile verità, che nel cuore di ciascuno sembrava più che mai autentica.

"Provate a chiedere della circoncisione a qualche rabbino. I più materialisti, per non essere tacciati di arretratezza, vi spiegheranno che è un atto igienico o addurranno altri motivi simili... scientifici. Ma i più religiosi, i più seri, vi diranno che la circoncisione è soltanto il patto di Abramo con Dio: il prepuzio in cambio della Terra Promessa, della Gerusalemme Celeste, del Paradiso in cui l'uomo potrà mangiare finalmente il frutto della conoscenza del bene e del male".

"Professore, mi scusi", chiese alzando la mano un giovanotto dal volto delicato e dai modi gentili. "Potrebbe parlarci, per cortesia, del secondo errore nella Genesi, della confusione, come lei ha detto, dell'albero della vita con quello della conoscenza?".

"Questa è una cosa più complicata e più oscura. Vedrò di riuscire nell'intento, anche se ciò esula dal tema della presente conferenza".

Con il dorso della mano Veritier si strofinò la punta del naso, poi tolse gli occhiali e con l'angolo di un fazzoletto tratto di tasca lucidò accuratamente le lenti, sorridendo al giovane che forse - pensò - era un omosessuale. Inforcò gli occhiali, si schiarì la gola e riprese:

"Mhm! Dio pose nell'Eden i due alberi: quello della vita e quello della conoscenza del bene e del male. Il suo desiderio era che gli uomini mangiassero prima dall'albero della conoscenza e poi da quello della vita. Ma io sospetto che nel testo i nomi dei due alberi, come quelli di Eva e di Adamo, siano stati scambiati".

Il volto del professore prese quindi un'espressione mesta, e dal modo in cui abbassò il capo e si pettinò con la mano le sopracciglia prima di continuare, si comprese che quel pensiero era stato meditato a lungo e sofferto.

"Per entrambi gli errori non si può non pensare all'intervento di una potenza malvagia. Chiamatelo Diavolo, Satana o come altro preferite.

...

Dio, dicevo, voleva evidentemente riprodursi nel mondo materiale. Il suo proposito è bene espresso nelle prime parole sulla creazione dell'uomo".

Prese di nuovo il volume che aveva davanti, s'accomodò ancora gli occhiali, e lesse:

"Poi Iddio disse: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza... prolificate e moltiplicatevi e riempite il mondo".

Ma, ripeto, l'intenzione di Dio era che gli uomini acquisissero la conoscenza del bene e del male, prima di riprodursi in corpi di carne. Il seguito della Genesi: la disobbedienza, il primo omicidio, la moltiplicazione a catena, la torre di Babele, il diluvio e tutto il resto provano che l'uomo attinse prima dall'albero della vita. Se realmente avesse mangiato il frutto dell'albero della conoscenza non avrebbe, cioè noi non avremmo, commesso tutti quegli sbagli e quei crimini... e oggi non saremmo qui a chiederci se l'omosessualità sia o no una devianza".

Per dare peso alle sue parole lesse ancora:

"Il Signore Iddio fece germogliare dal suolo ogni specie di alberi piacevoli d'aspetto e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino, e l'albero della conoscenza del bene e del male... Tu puoi mangiare liberamente di ogni albero ma dell'albero della conoscenza non mangiare! poiché il giorno in cui ne mangiassi, di certo morresti".

E commentò:

"In questo passo sta il secondo fatidico scambio. Dio si riferiva all'albero della vita, perché è la vita che contiene in sé la morte, non la conoscenza. Ne consegue che il serpente, cioè il pene di Adamo, ambizioso di vita più che di conoscenza, costrinse Adamo e poi Eva a mangiare prima dall'albero della vita, cosa che impedì loro di mangiare dal secondo. Mangiare dall'albero della conoscenza è ciò che tutti noi tentiamo di fare ogni giorno, soffrendo e studiando. La nostra fame di sapere lo dimostra. Di vita cieca e disordinata siamo saturi, di conoscenza e di memoria quasi privi. Quanto è stupida l'umanità...", negò ripetutamente col capo, "che si ostina a perseguitare i diversi!".

Erano esterrefatti, gli ascoltatori, ma il professore intuì da alcuni sguardi diafani e da qualche sbadiglio qua e là che il passo degli alberi era noioso. Questo lo spinse a ritornare sulla questione più emozionante del sesso di Dio e del primo uomo o donna.

"Dobbiamo immaginarci i primi uomini apparsi sulla Terra come tutte femmine, consapevoli della propria immagine e somiglianza divina. Probabilmente, quelle femmine primitive erano capaci di riprodursi senza bisogno dei maschi, i quali compaiono solo in un secondo tempo e per motivi non chiari. Se da bravi cattolici vogliamo credere alla verginità della Madonna - e nei mammiferi inferiori esiste questa possibilità di riproduzione, che prende il nome di partenogenesi... - dobbiamo pensare a un Cristo venuto alla luce nello stesso modo del primissimo maschio: da una costola di Maria, dall'interno della donna e senza l'intervento di un padre.

Con il suo comportamento infinitamente buono, passivo e femminile - quale maschio di quei tempi si sarebbe lasciato trattare a quel modo? - Cristo aveva il compito di riparare al primo errore, mostrando, proprio come avviene nel rito della circoncisione, che la via di emancipazione dei maschi passa attraverso il recupero della condizione assoluta di femmine. È questa la mia opinione sull'omosessualità".

La spiegazione del professore era ridiventata chiara e quando egli la interruppe, per il tempo di bere un sorso d'acqua e inumidirsi la lingua, si accorse che tutti i presenti lo guardavano ammirati dietro un'espressione beata, come se stessero vedendo in lui un profeta.

Veritier era abilissimo nel parlare, ma decisamente brutto a vedersi. Capelli corvini, fitti e arruffati, e dritti sul capo, sopraccigli molto spessi, naso camuso e labbra carnose. Un misto di arabo, di italiano e russo. Un po' una faccia da matto, ma nel complesso simpatica e rassicurante: quella del brutto che ha superato la propria bruttezza e punta, con più speranze, sull'inequivocabile bellezza del dentro. Anche se intensi, solo eccezionalmente nei suoi tratti esplodevano dei moti d'ira, spesso vi si spiegavano il sorriso e la riflessione. Ma, se non fosse stato vestito con giacca e cravatta, se non avesse portato gli occhiali che gli davano un'aria intellettuale, a prima vista sarebbe stato preso facilmente per un mangiafuoco disoccupato. Inoltre era basso di statura, la sua muscolatura breve e tozza, e l'andatura goffa.

"Prima ha chiamato in causa la genetica e la filologia", esordì un altro giornalista, assetato di argomenti più dotti. "Vuole spiegarci, professore, come queste discipline si colleghino alla sua teoria?".

"Ho parlato di genetica e di linguistica, non di filologia, che è un'altra cosa!", fece con tono di rimprovero il professore verso quell'uomo che mostrava grinta ma anche scarsa attenzione. L'accontenterò subito, ero proprio arrivato a questo. Vediamo prima la genetica, poi la linguistica. Prego, le diapositive", domandò quindi al giovane assistente che sedeva vicino al proiettore nel corridoio centrale della sala, in attesa delle istruzioni del professore.

Furono proiettate tre diapositive che mostravano un unico soggetto: i cromosomi. Le luci furono spente e il professore, nel buio e a lato dello schermo, servendosi di una lunga bacchetta come indicatore, illustrò con parole semplici, affinché tutti potessero capirle, le più recenti scoperte della genetica umana. L'ultima diapositiva riproduceva le coppie dei cromosomi sessuali dell'uomo.

XX XY

"Ecco!".

Con l'estremità della bacchetta il professore toccò una figura e l'altra, in successione.

"A sinistra la coppia dei cromosomi sessuali della femmina: ics-ics... e a destra quelli del maschio: ics-ipsilon".

Si fermò sulla ipsilon.

"Come qui potete vedere, uno dei due cromosomi del maschio è privo di un pezzo. In gergo, questo pezzo si chiama "braccio mancante del cromosoma ipsilon". Questo pezzo, presente invece nei cromosomi della femmina...".

Toccò di nuovo la figura di sinistra.

"...impedisce che le ovaie si portino all'esterno del corpo e che diventino testicoli, che producano ormoni androgeni anziché estrogeni, che facciano crescere i peli e venire la voce grossa e diventare calvi. Come pure inibiscono l'aggressività, caratteristica dei maschi".

Infine, fece scivolare la bacchetta nella mano chiusa finché con un piccolo tonfo raggiunse il pavimento, si girò verso il pubblico, e la mantenne perpendicolare, stretta a sé come la lancia di un guerriero. Seguitò la sua esposizione nascosto nel buio illuminato appena dal rettangolo dello schermo, che sembrava l'uscita alla luce di una grotta. Le parole pronunciate nell'oscurità hanno un effetto diverso su chi ascolta. Come i pensieri fatti a letto prima del sonno, sembrano più vere, sono segreti confidati, verità svelate, preghiere.

"Ora, dalle antiche civiltà sappiamo quanto sia facile trasformare un maschio animale o umano in una femmina, è sufficiente castrarlo, cosa che rassomiglia moltissimo alla circoncisione, almeno nella forma. Produrre il contrario è altrettanto difficile. Questa è una prova indiscutibile che la femmina contiene il maschio e non viceversa. E mi dispiace che il vostro collega che prima mi ha dato dell'eretico se ne sia andato, perché l'eresia di cui mi accusa, analizzata in questi termini, non è poi così assurda come sembra. Non vi pare?".

Per gli uomini presenti in sala le frasi si susseguirono come rullate di tamburo nei pressi di un patibolo. Sentendo parlare di castrazione e di maschi che diventano femmine si rannicchiarono per sfuggire all'esecuzione.

"È... che... l'idea di un Dio femmina offende l'animo maschile, di quei maschi che nella religione e nell'arte hanno creato Dio a loro immagine e somiglianza. Quasi tutte le religioni sono state fondate da maschi e questo la dice lunga. Il Vecchio Testamento non è solo un libro di preghiere, di proverbi e profezie. È anche un attendibile manuale di storia. Sappiamo quanto ha guidato le ricerche archeologiche in Medio Oriente e...

Se colleghiamo il racconto della creazione a questi dati genetici, non è difficile comprendere la mia ipotesi che Dio abbia creato prima Eva. Da una sua costola, vale a dire il braccio mancante del cromosoma ipsilon, ha poi derivato il maschio. Il maschio è una specializzazione della femmina, nulla di più".

Il professore allargò le braccia e aggiunse: "Un po' come me che sono psichiatra ma che comunque, sotto, resto sempre un medico. Bene, spero di essere stato chiaro. Per piacere, riaccendete le luci".

Qualcuno si mosse e si udì il fermento di chi si sente liberato dal buio e dal forzato tacere. Alcuni presero a confabulare, mormorando frasi che iniziavano con "Pazzesco!" e "Però!", altri si sgranchirono educatamente le braccia. L'assistente andò a staccare la spina, abbisciò il cavo elettrico e richiuse il proiettore nella custodia di cellofan. Il professor Veritier bevve ancora un sorso d'acqua, poi riprese.

"Sarete stanchi... e anch'io lo sono. Ancora poche parole e avrò concluso, lasciando spazio alle vostre domande. Anche quello che ho da dire sulla linguistica prova in via indiretta l'originaria "femmineità" - se mi è lecito usare questa parola - dei maschi, e di conseguenza che Dio, se l'umanità è stata creata a sua immagine e somiglianza, è femmina.

Il mio è solo un piccolo reperto, ma gli studi continuano, e io vi ringrazio di essere venuti ad ascoltarmi. La ricerca della verità assoluta, che io sono lungi dal possedere", disse Veritier atteggiandosi a umile scienziato, "è ancora in corso, da parte del sottoscritto e di altri esimi colleghi".

Il professore diede alcuni colpi di tosse per schiarirsi la gola.

"Nella lingua cinese, la più antica che si conosca, il pronome "Noi" si pronuncia "Uomen", proprio come la parola inglese "Woman", cioè "Donna". Credete che ciò possa essere dovuto a semplice casualità? E la parola "Uomen" ha la stessa radice dell'italiano "Uomo" e del mantra indiano di meditazione "Om" che molti conoscono.

Ciò, anche se non significa chiaramente che all'inizio dell'evoluzione umana vi erano soltanto individui di sesso femminile, dimostra senza dubbio che i due sessi erano confusi, ermafroditi o androgini".

Seguirono alcuni secondi di silenzio, poi il professore terminò:

"Ho finito! Grazie dell'ascolto".

Dalla sala scaturì un lungo, caloroso applauso e, se non si fosse trattato di una conferenza, da quel clamore ci si sarebbe aspettata anche la richiesta del bis. Il giovanotto dal volto delicato e dai modi gentili si alzò sulla punta dei piedi e gridò: "Bravo!", poi tornò la quiete, e piovvero le domande. Dapprima come delicate stille di rugiada posate su foglie, poi come vere gocce di pioggia che si rompono sulla strada, infine come chicchi di grandine che percuotono i tetti, i giornalisti tempestarono il professore di domande relative alla teoria, alle ripercussioni di quelle idee sull'opinione pubblica intorno ai "diversi" e al femminismo. Giornalisti confidenziali chiesero ragguagli sulla sua formazione di clinico e sulla sua vita privata. Qualcuno osò addirittura informarsi sui gusti di Veritier in fatto di donne. Poi, pian piano, ciascuno fu rimesso all'uscita, al proprio quotidiano o rivista, e alla propria vita.

*

"Chiude lei, allora, professore?".

"Sì, chiudo io. Va' pure. Grazie, ci vediamo domani".

L'assistente uscì dall'istituto e il professore restò solo. Felice del buon esito della conferenza, prese a canticchiare qualcosa, mentre finiva di riordinare i fogli e di riporli nella borsa. Un uomo, che era rimasto seduto nascosto in un angolo in fondo alla sala, si alzò e si fece avanti piano, reggendo un libro tra le mani. Un tipo di altezza media e magrissimo, un po' gobbo e vestito di scuro: giacca blu, corta e stretta, sopra un maglione nero a dolcevita. Fronte stempiata, capelli unti malpettinati all'indietro, lunghi e profondi solchi tra il naso e le guance. Colorito terreo da accanito fumatore, occhi torvi e sporgenti.

"Professò!".

Il professore sobbalzò come pugnalato alle spalle.

"Chi è? Mi ha fatto spaventare", disse Veritier dopo aver sollevato la testa e aver visto l'uomo posargli davanti, sulla cattedra, il libro. Dal colore giallo e dall'illustrazione di copertina riconobbe subito il proprio saggio pubblicato da poco: Ano e Onan, protagonisti della sessualità umana.

"Salve!", aggiunse, aprendo un sorriso a colui che credeva essere un ammiratore.

L'uomo non rispose al saluto. Mise la testa di sbieco e l'inclinò in avanti, aggrottò le sopracciglia e strinse un occhio in modo tale che le sue affermazioni, sotto un simile ghigno, potessero avere più di un senso. Parlò in modo sgrammaticato, con voce rauca ed emozione ben trattenuta.

"Ho letto 'sto libro", biascicò, facendo ruotare polso e libro. "Mi piacerebbe che mi facete una dedica. Ho saputo di 'sta conferenza e so' venuto in proposito... Mhm!".

"Pronti!", lo accontentò il professore. Mentre sfilava dalla tasca interna della giacca una penna stilografica, si stupì che un individuo con quei connotati potesse leggere i suoi libri.

"A chi devo dedicarlo?".

"A 'mme!".

"Per piacere, qual è il suo nome?".

...

"Scrivete: ...Nerone".

Il professore non immaginava, e quando uno non immagina non può prevedere. Domandò:

"È uno pseudonimo?".

"Sì!", rispose l'uomo, fingendo di capire la parola e con un'intonazione sarcastica. "Più o meno...".

Il professore sollevò la copertina del libro, e sulla pagina bianca che precede il frontespizio tracciò la dedica in elegante grafia corsiva, pronunciandola in sillabe:

"A Nerone, con simpatia. Abramo Veritier. Padova, 8 marzo 1972".

Soffiò sull'inchiostro per asciugarlo, richiuse il libro, e tendendo il braccio in avanti lo porse per il diritto all'uomo. Rialzando il capo gli sorrise ancora.

L'uomo lo lasciò con il braccio teso e il libro sospeso nel vuoto. Incurante della posizione scomoda del professore, con movimenti lenti e dando alla bocca un taglio asimmetrico che lasciò intravedere le radici di alcuni denti ingialliti dalla nicotina, estrasse da una tasca dei pantaloni un flaconcino di plastica trasparente, pieno di un liquido rosa. Fece scattare il coperchietto e soddisfatto disse:

"Ecco!".

Senza mollare il flaconcino, prese il libro a due mani e lussò con deliberata violenza le pagine aperte a gruppi, portando fronte e retro della copertina quasi a toccarsi. Poi lasciò il libro solo nella mano sinistra e, mentre faceva scorrere il pollice sul margine libero delle pagine, aprendole con l'abilità di un giocatore di poker, con la mano destra premeva sul corpo del flaconcino che pisciò dentro il libro abbondante alcol denaturato.

Sul volto del professore si spense il sorriso e comparve lo sgomento.

"Ma...!? che sta facendo?".

Nessuna risposta.

Quando il flaconcino fu svuotato e le pagine del libro inzuppate, con alcuni scatti della mano Nerone cosparse le ultime gocce sulla copertina, e ripeté:

"Ecco!".

Poi, infilò la mano nella stessa tasca, vi lasciò il flaconcino e tirò fuori un accendino. Appiccò il fuoco al libro e con un rapido gesto sprezzante lo sbatté ai piedi del professore, nello spazio sgombro tra la cattedra e la prima fila di sedie.

Le fiamme divamparono, senza pericolo di trasmettersi ad altro. Il libro del professore, con le pagine aperte a ventaglio, bruciava sul pavimento. Le iniziali e tenui lingue rosa-azzurrino diventarono rosse e cominciarono a emettere fumo, mentre la copertina si anneriva accartocciandosi. Poi Nerone sollevò gli occhi verso il professore, guardandolo molto male.

"Lei è un eretico... e un superbo", esclamò, imitando compiaciuto il giornalista del primo intervento. "Lei... voi... siete un mostro!".

I due rimasero a guardare le fiamme. Inesorabili divoravano il libro, che sembrava contorcersi come una creatura al supplizio. Il professore scuoteva il capo e diceva piano: "Non è possibile, non è possibile", mentre le pupille di Nerone riflettevano sul volto dell'eretico un sorriso sadico e l'immagine del fuoco purificatore.

7

Sarebbe bello poter percorrere insieme le strade di tutti i personaggi fin qui incontrati, e condividerne le sorti ultime. Siccome però il filo della nostra storia vuole che seguiamo il giovane Abramo, perché più tardi diventerà il medico di Giacomo Canto, allora ne vedremo alcuni sparire senza dire neanche una parola e altri sfumare ai margini dopo una breve comparsa, per abbellire, come i confetti assortiti di un dolce, le avventure di coloro che la fortuna ha chiamato protagonisti.

Nathan, usuraio buono e donnaiolo di Orša, padre di David e nonno di Abramo, morì a Parigi devastato dalle gomme eruttanti della sifilide. C'era la tabe nel suo sangue, e nel suo cervello la follia. Sul letto di morte, durante l'agonia che durò una settimana, non volle dottori al capezzale, ma pretese la consolazione di un sacerdote cattolico, al quale confessò tutti i suoi peccati. Prima che gli venisse amministrata l'estrema unzione, domandò di essere battezzato. Ricevette il primo e l'ultimo dei sacramenti nello stesso giorno, l'alfa e l'omega della nuova fede. E strappò ai figli il giuramento solenne che avrebbero abbracciato anch'essi la religione cattolica. Mentre il corpo espelleva il ripugnante liquame delle sue colpe, il cuore di Nathan si fermò con dentro il ricordo di Myriam l'ebrea dell'icona di Rublëv. Così fu.

Conversioni, esodi e cambi di cognomi. Persecuzione e genialità. Dita di Jahvè che suonano i tasti della peregrinazione dei salmi. Pentacoli di Salomone e stelle di David, alleanze e tradimenti. Sono imperscrutabili le intenzioni che srotolano i papiri degli ebrei.

Giunta che fu a Padova la famiglia Veritier, già Pravdakim, le cose andarono per il meglio. Nel petto di monsignor Tonin pulsava realmente un cuore magnanimo. Egli protesse ciascuno, prodigandosi affinché i nostri superassero senza guai il fascismo, come pure aiutò numerosi non convertiti che transitavano per l'Italia in fuga da ogni parte d'Europa.

David era un abile commerciante, sua moglie Judith molto precisa a far di conto, e gli italiani comperavano più scarpe dei francesi. In pochi anni ricostituirono il patrimonio dilapidato per organizzare il trasferimento in Italia. Furono genitori esemplari. Perirono entrambi a causa di un'infezione sconosciuta in un ospedale di Israele, dove si erano recati ormai anziani per visitare le tombe dei patriarchi e la grotta di Bethlehem.

Rachel fu una brava insegnante senza mai pretendere che i suoi alunni recitassero l'Ave o altre preghiere in latino. Finì i suoi giorni a Genova, dove aveva messo su famiglia con un collega maestro conosciuto durante un ritiro spirituale. Uno dei loro figli è quel Bruno, vicino all'ambiente della curia, che convincerà il professore ad accogliere in casa la Belandis come governante.

Abramo fu educato nel ginnasio dei sacerdoti di Sant'Antonio. Aveva un temperamento romantico e gli piacevano molto le ragazze, però era bruttino: basso e alquanto cicciottello, con fianchi pronunciati e perfino un abbozzo di seno, capelli crespi impettinabili, e spessi occhiali da miope. A causa dell'aspetto veniva preso in giro pesantemente dai compagni, e dunque soffrì molto prima di realizzare che l'animo femminile è più sensibile al corteggiamento degli intelligenti e dei ricchi che a quello dei belli.

La fuga dalla Francia con la separazione dall'amico più amato, la guerra e lo sviluppo sessuale vennero all'incirca assieme. A questi si aggiunsero le credenze ebraiche nei golem e nei dybbuk, tramandatesi dal cabbalista Luria fino ai suoi genitori. La tradizione cattolica, con angeli, diavoli e minacce di dannazione eterna per ogni forma di sessualità non asservita alla riproduzione, fece il resto. Tutto questo materiale psichico e i conflitti della sessualità nascente si concretizzarono in una bella nevrosi. Perciò, non molto tempo dopo il suo arrivo in Italia, Abramo non voleva più saperne di mettere il naso fuori di casa, aveva paura del buio e dei fantasmi, non riusciva a guardare in faccia le ragazze e non poteva avere un'innocente erezione senza provare dei tremendi sensi di colpa. Fortuna che il mondo laico aveva iniziato a difendersi con la psicanalisi. Abramo poté quindi essere aiutato da un bravo dottore a superare quei momenti difficili che a ogni adolescente tocca passare, e che in lui avevano assunto dimensioni spropositate. Bastarono un paio d'anni di cura, e una volta guarito fu di nuovo capace di masturbarsi e di conciliare le messe con la compagnia di gustose coetanee. Terminato il liceo, dopo essere sfuggito alla chiamata alle armi grazie alla raccomandazione di monsignor Tonin, si iscrisse a medicina. Poiché la psicanalisi ricevuta aveva segnato il suo futuro, dopo la laurea scelse di diventare anch'egli psicanalista. Fu uno dei più stimati allievi di Edoardo Weiss, mettendo a pieno frutto le proprie doti intellettuali. Poiché la psicanalisi, a differenza di altre filosofie, non carcera i suoi adepti nella prigione di uno scetticismo materialista, Abramo Veritier fu libero di continuare a credere nell'esistenza dell'anima e alle verità del Vangelo. Durante l'università il suo spirito eclettico lo versò allo studio di molte discipline: di teologia comparata, di archeologia, antropologia, genetica ed esoterismo. Vive e morte, arrivò a conoscere gli alfabeti di dieci lingue, parlandone cinque correntemente.

Quando fu in grado di poter curare altre persone, scelse di trasferire la sua residenza a Mantova per esercitarvi la professione, in quanto la psicanalisi non era ancora arrivata in quella città. Acquisì la specializzazione in psichiatria e la libera docenza in psicologia. Da quel momento in poi si fregiò del meritato titolo di professore. Conservò ottimi rapporti con l'università di Padova, presso la quale era sovente chiamato a tenere corsi e conferenze.

Come si era riproposto da bambino, non si fece mai crescere la barba, né si sposò. Viveva da solo e frequentava amiche non mercenarie, con le quali si manteneva in esercizio. Avrebbe tanto voluto un figlio, ma non trovò mai qualcuna disposta a darglielo al di fuori del matrimonio.

Amava la poesia di ogni cultura, in particolare quella latina. Sopratutto lo appassionavano Orazio e Virgilio, delle cui opere conosceva a memoria molti passi. Il professor Veritier scriveva articoli e libri, ma solo in due occasioni della sua vita compose dei versi. Una di queste fu la morte della madre, della quale era stato - sempre - innamorato. Seduto sulla stessa scogliera del Tirreno che aveva ispirato Orazio le dedicò queste rime:

Mi chiama dal mare / spietato un canto
Racconta di te che finendo / hai dato
una ragione al mio pianto
Ma tu / madre / m'insegnasti a nuotare
Verrà da sé / il mio turno / posso aspettare.

Su ogni argomento aveva idee originali, e prima di esporle si documentava meticolosamente. I mobili della sua biblioteca, i cui libri spaziavano dalla culinaria all'astronomia, con scaffali alti fino al soffitto percorrevano a perimetro le pareti della sua abitazione, bagno compreso. Quando aveva un problema di difficile soluzione, era proprio nel bagno che si rifugiava; e vi studiava dizionari e consultava monografie delle più disparate materie fino all'anestesia delle gambe che, una volta rialzatosi, lo costringeva a zoppicare per cinque minuti prima di riacquistare la sensibilità.

Sappiamo che Veritier parlava con gli organi. Ma con l'ano parlava soltanto quando era nel bagno, complici l'intimità e il silenzio. Aveva per lui la massima simpatia e una sorta di riverenza. Lo chiamava "Venerabile degli orifizi", perché se lo immaginava come l'occulto maestro di una loggia massonica, capace di grandi slanci umanitari come di nefandi pensieri. Sentiva che da quell'oscuro muscolo prende origine ogni pulsione sessuale, come dal cerchio neutro dei simboli astrologici di Marte Marte e di Venere Venere si distaccano per plenum et vacuum la freccia e la croce, il pene e la vagina.

*

Tra gli ebrei di Trieste, Milano e New York aveva molti amici e spesso, per via della psicanalisi, li incontrava. Ammirava il loro fervore per lo studio e la capacità di perseverare nelle ideologie abbracciate, pur riconoscendo come loro difetti un'eccessiva tendenza alla competizione e una irriducibile permalosità.

Pur essendo a suo modo un buon cattolico, Veritier provava nostalgia per la fede degli avi. Si consolava pensando al fatto che Cristo era ebreo, che la Bibbia è un libro fondamentale per ogni buon cristiano, e che alcuni tra gli ebrei allontanatisi dallo studio della Torà sono poi diventati fari potenti nella storia dei gentili. Era convinto che i più conosciuti geni ebrei, da Spinoza a Freud, fino a Wiener e Einstein, non fossero altro che grandi talmudisti eretici, che sulle personali eresie avevano fondato le proprie chiese laiche. Solo per Marx nutriva qualche antipatia. La dottrina di quel filosofo, che propugnava l'abbattimento violento delle classi aristocratiche e borghesi, e che la sua famiglia d'origine aveva sperimentato sulla propria pelle, generava nel mondo troppo odio e pestilenza per potersi considerare opera di un genio.

Il professor Veritier formulò concetti che produssero ammirazione o sdegno, e comunque sempre subbuglio, nei circoli culturali di mezzo mondo. Però, intellettualmente, fu sempre onestissimo. Solo tra i pensatori più rigidi si procurò degli avversari, e nessuno, fatto salvo Nerone (sapremo oltre il perché), giunse mai a odiarlo.

Oltre ad avere teorizzato che Dio è femmina, e che la prima umanità era composta da sole femmine (bellissime), il professor Veritier mise in relazione la genialità degli ebrei con la circoncisione. Pur ritenendola un rito macabro e inutile, era altresì convinto che l'intenso dolore provato dal neonato al momento del taglio in una zona così sensibile, lo predisponga a un maggiore sviluppo dell'intelligenza. "Il pene", sosteneva, "è una riproduzione in piccolo della testa dell'uomo, quindi del suo cervello. Liberandolo dal prepuzio si scopre in via riflessa anche la mente".

Ancora, collegò la loro facilità ad apprendere al fatto che fin da bambini imparano sia una lingua che si scrive e si legge da sinistra verso destra, come l'inglese, sia una che invece si svolge da destra a sinistra, come l'ebraico.

Ciò che però sconvolse maggiormente l'opinione pubblica, fu la proposta provocatoria di una conversione di massa degli ebrei al cristianesimo, in cambio dell'affidamento ufficiale della guida culturale ed economica dell'Occidente. L'onu - secondo Veritier - avrebbe dovuto mettere a capo di ogni nazione aderente un consiglio di ebrei, soprattutto nei magisteri dell'economia e dell'istruzione.

"Fatta eccezione per il Giappone", scrisse in un articolo molto discusso, che a qualcuno ricordò le menzogne del protocollo degli anziani di Sion, "gli ebrei si trovano in ogni paese del mondo. Sono loro che hanno dato il via alle rivoluzioni più importanti: si pensi al cristianesimo e alla psicanalisi. Gli ebrei parlano tutti almeno due lingue e sono strettamente legati tra loro. Studiano la Bibbia, che è il migliore manuale di istruzioni dell'esistenza oltre che il libro più diffuso al mondo. Chi meglio di loro potrebbe guidare l'umanità?".

Veritier non credeva fosse un caso che le prime grandi diaspore degli ebrei avessero coinciso con l'esportazione dalla Palestina del credo cristiano. Né riteneva un evento fortuito il fatto che l'espulsione dalla Spagna si fosse verificata nello stesso anno della scoperta dell'America, diventata poi culla moderna dell'ebraismo. Era convinto che la fondazione del nuovo stato di Israele non potesse aver avuto luogo che a evangelizzazione ultimata dell'umanità, e che Dio avesse reso errabondi gli ebrei per tanti secoli, perché voleva la divulgazione della nuova legge insieme a quella antica, e impedire ai seguaci fanatici del Messia di dimenticarsi delle Tavole di Mosè.

In un certo modo li accusava anche, gli ebrei. Sosteneva che se il loro compito era quello di diffondere le leggi del Vecchio Testamento, essi si erano serviti poco dell'esempio. Non avendo un esercito uccidevano più di rado dei cristiani, ma non era sufficiente pregare in direzione di Gerusalemme per dimostrare di essere il popolo eletto. Avrebbero dovuto comportarsi tutti da rabbini osservanti e da medici, come Maimonide, e non da usurai né da consiglieri dei re e dei potenti, come spesso era accaduto. Ma, secondo lui, le nazioni, tutte le nazioni, elette o volgari, avrebbero fatto meglio ad affidarsi alla guida delle donne, fatte a immagine e somiglianza di Dio. Il primo credo nel maschio era l'errore, e da quello il disastro.

Come a suo nonno Nathan, a Veritier piacevano le femmine, e più di tutte le zingare, libere benché sottomesse, con i loro musetti selvaggi e curiosi. Come i bambini sporche fuori, ma non dentro e, dunque, facilmente lavabili. E a proposito di zingari, visto che mescolava con disinvolta maestria tutto lo scibile, egli li considerava il lato oscuro, l'altra faccia degli ebrei, e come questi erranti nei secoli. "Gli zingari sono ebrei analfabeti convertiti", soleva rimbrottare chi li tacciava di ignoranza e usava razzismo nei loro confronti. "Fanno parte anch'essi del popolo eletto. Quando le società erano più semplici gli zingari avevano una loro esatta collocazione. Hanno inventato i circhi, le esibizioni degli animali addestrati e le acrobazie. Erano valenti artigiani e musici. Viaggiavano su carrozzoni e allietavano la vita degli stanziali che a causa del lavoro non potevano viaggiare. Quando le società sono diventate ricche e tutti hanno avuto di troppo, gli zingari hanno cominciato a chiedere l'elemosina, a leggere la mano e, purtroppo... a rubare. Ma sono la parte più vitale dell'umanità; quelli che hanno meno bisogno di medicine e di libri, e sopravvivono dignitosamente nelle condizioni più difficili, senza giornali né televisione. Sono gli unici a cui non fa alcun timore l'olocausto nucleare".

I giornalisti, sempre avidi di notizie sulle quali divagare e divertirsi, costruire polemiche e aumentare le vendite per la felicità dei proprietari, avevano contribuito a diffondere le teorie del professore e ad accrescerne la fama. Quelle idee, ritenute rivoluzionarie da alcuni e antisemite da altri, fecero un breve giro del mondo ma non diventarono mai un movimento, e continuarono a bollire, fino a spegnersi, solo in piccole pentole.

Della psicanalisi e della sessuologia, ultima branca della quale s'era infatuato, Veritier criticava il fatto che non si facessero abbastanza esperimenti. Egli, invece, ne faceva molti, poiché pensava che il segreto di una terapia efficace è quello di vivere le stesse esperienze di chi si ha di fronte.

Vittima di un'unica superstizione, era sicuro che il numero tredici portava sfortuna. 'Quando appare il tredici', asseriva, 'c'è sempre qualcuno che viene tradito, come Gesù nell'ultima cena'. Perciò, evitava sempre di scriverne le cifre e di entrare, quando possibile, in autobus o in abitazioni sotto l'insegna di quel numero. Sull'agenda degli appuntamenti cerchiava con un pennarello rosso il tredici del mese, per ricordarsi, quel giorno, di prendere ogni decisione e di compiere ogni azione con la più grande cautela. Un comportamento insulso - è vero - ma decisamente premonitore, perché sarà proprio a partire da un giorno tredici che la prua del suo destino si inabisserà in una vorticosa tribolazione.

8

Gli occhi azzurri come il ghiaccio perenne dei ghiacciai, che la madre giurava identici a quelli del padre, l'assoluta assenza di rughe, i capelli corti color castagno, le lunghe ciglia più chiare, un elegante nasino all'insù e le labbra disegnate a pennello; il candore diafano della pelle e, benché fosse di condizioni medio borghesi, anche l'incedere flemmatico da rampollo aristocratico, diedero subito a Veritier l'impressione di trovarsi al cospetto di una divinità minore.

Giacomo era un bambino bellissimo, dai lineamenti che, con un differente taglio di capelli e sopra abiti d'altra foggia, sarebbero stati facilmente scambiati da chiunque per quelle di una femminuccia. Anche la sua voce gli sembrò splendida, con vibrazioni armoniche e soavi. E, poiché il professore non credeva affatto al caso, congetturò che Giacomo, dato che portava il cognome Canto, fosse il discendente di un attore greco o di un cantore romano.

Sapeva fantasticare, Veritier, come pochi. Gli piacque crederlo la creatura sopravvissuta di una razza estinta, l'equivalente umano di un dinosauro, il germoglio di un dio incarnato per errore, forse precipitato dallo stesso ritaglio di Pleroma dei geni e delle muse, della cui esistenza non aveva mai dubitato. Gli vennero in mente alcune scene della Divina Commedia, e convenne con il poeta che è impossibile trattare dell'uomo senza occuparsi degli alberi.

Dopo essersi recato in autobus, da solo e all'insaputa di tutti, nel quartiere in cui abitavano Giacomo e sua madre, raggiunse a piedi la collina della flagranza. Quando provò anche solo a raffigurarsi l'unione con lo stesso castagno con cui il ragazzino aveva contratto i primi "rapporti sessuali", Veritier avvertì una sorta di ripulsa, si sentì imbarazzato come chi si trova d'emblée con la bella e seducente moglie di un amico. Così, dopo essere ritornato a casa, salì in macchina e si diresse per fare l'esperimento nel suo luogo vegetale preferito: il Bosco della Fontana, una foresta, e un parco, che si trova alle porte di Mantova sulla statale per Brescia. Al suo interno avrebbe potuto fare liberamente ogni cosa, basti pensare che lì vige il divieto di circolazione per qualsiasi mezzo di locomozione - compresi bicicletta e cavallo - diverso dai piedi dei visitatori.

Bello o brutto che fosse il tempo, Veritier si recava spesso a meditare in quel bosco. Lo emozionava pensare che il suo diletto Virgilio fosse stato ispirato dagli stessi luoghi, sotto il verde di una parente vegetazione. Quante volte aveva percorso viali e vialetti con un libro del poeta in una mano declamandone ad alta voce i versi, mentre lo scricchiolio del ghiaietto scandiva il tempo sotto le suole. E, incredibile visu, quando così recitava, assorto nel suono della sua propria voce e dei sentimenti che le antiche rime sciolgono dai legami col mondo per condurle Altrove, gli insetti del bosco si avvicinavano numerosi, quasi capissero e volessero ascoltare. Api, calabroni, farfalle, coccinelle e cetonie dorate ronzanti seguivano i suoi passi come il velo nuziale della più arcana regina: la poesia.

Di quel bosco egli aveva esplorato ogni metro quadrato, e conosceva gli orari in cui non vi avrebbe incontrato nessuno. Tra l'altro, i pochi frequentatori dei giorni feriali non uscivano mai dalle strade principali, eccetto un paio di anziane erboriste o qualche rarissimo appassionato di botanica, alla ricerca di soggetti da collezionare. Inoltre quell'anno, pur essendo gli ultimi di marzo, le giornate erano ancora fredde e coperte come la maggior parte delle persone che le subivano, le quali per questo preferivano prolungare l'ibernazione nelle loro confortevoli caverne.

Appartenuto e voluto nella forma che attualmente conserva dai Gonzaga, signori della città di Mantova, macchiato di piazze regolari a otto lati da cui si dipartono altrettante strade in terra battuta, e incorniciato da canali d'acqua pura e corrente, il Bosco della Fontana è ciò che rimane dell'antica foresta pluviale che ricopriva senza interruzioni la Padana preistorica. Una leggenda degli antichi Celti, i primi forse che vi abitarono stabilmente, racconta che gli scoiattoli potevano passare dal mare Adriatico al mar Ligure senza mai poggiare le zampette al suolo, tanto erano fitti gli alberi in quel lontanissimo tempo. Ovviamente la vegetazione si è ricambiata, di secolo in secolo e di millennio in millennio, ma la sensazione che si prova nell'entrarvi rimanda al Giurassico, e non sarebbe difficile, reagendo a un improvviso fruscio, voltarsi e credere di aver visto la coda sfuggente di un arcaico sauro.

È una foresta - il Bosco della Fontana - in cui non si può passeggiare meditabondi come nei comuni parchi, con la faccia rivolta un po' a terra e un po' al cielo, lasciando che la visione serena del pavimento di foglie secche e delle pacifiche querce ci liberi, come dentro un mandala gigante, dall'assillo delle preoccupazioni quotidiane. Quello è un bosco "vivo". Specie sul far della sera anche il più scettico sentirebbe che è frequentato da buone e cattive compagnie. Lì dentro non si medita. Qualcosa spinge di continuo a guardare gli alberi negli occhi, a levare la testa come fa il bambino verso il genitore o le grandi sculture classiche, e a interpretare i rumori del legno e i mormorii del vento come il linguaggio segreto di quei viventi.

Dagli specchi fermi delle pozzanghere, e dalla superficie rotta dei rigagnoli sparsi ovunque, nasceva senza posa una leggera nebbia terrestre, che avviluppava il sottobosco e con lingue miasmatiche più dense lambiva la corteccia degli alberi. Spesse nubi torbide incombevano sulle cime vuote senza minacciare fulmini: la tetra, fluviale fine d'inverno mantovana. In quell'atmosfera uggiosa, congeniale solo ai batraci e alle serpi anfibie, si trovò il professore nel giorno dell'esperimento. Si disse:

"Devo cercare di sentire esattamente quello che prova il bambino".

Poiché ritenne che un piccolo pudore fosse meglio conservarlo, si svestì di tutti gli abiti eccetto le mutande, chiuse gli occhi, pronunciò mentalmente: 'Amore', e imitando Giacomo abbracciò il tronco dell'arcidiavolo femmina (un'arcidiavolessa) che aveva scelto.

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Arcidiavolo è il secondo nome volgare del bagolaro (Celtis australis). È chiamato anche "spaccapietre", per la singolare forza e profondità delle radici. Un albero dal legno duro ed elastico, con la scorza liscia di un bel colore grigio topo. Il suo tronco conserva una regolarità quasi perfetta dalla base fino alle ramificazioni più sottili, e negli esemplari più maestosi sembra formarsi dalla fusione di più cilindri di differenti diametri, che si continuano nelle due o tre diramazioni principali come le colonne di certe chiese gotiche. Svasato verso il basso, lascia ipotizzare la direzione centrifuga delle radici, le quali sollevano un poco il terreno vicino ma non emergono, o lo fanno con discrezione, se costrette dalla prepotenza di un grande masso nascosto. Le foglie sono ovali, strette e dentate, con stravaganti punte ricurve, e a fine estate sono munite di false bacche dette "bagole", che gli danno appunto il nome.

Tra le migliaia di individui vegetali presenti nella foresta, quella creatura, sotto la quale il professore aveva iniziato e finito la lettura di diversi libri, era da sempre la preferita per vari motivi, primo fra tutti la sua bellezza.

Vecchio di almeno trecento anni, e largo quanto una torre, s'innalzava con il solo fusto fino a dieci metri di altezza, per proseguire con la chioma dentro al cielo più lontano, che oscurava con mille rami nudi anche d'inverno. Per un raggio di venti passi niente poteva interrompere prima del suolo la pioggia autunnale di foglie colorate. Ai confini di quell'area, il rudere dell'abitazione di chi forse lo aveva piantato, sopravviveva senza vita come un antico tempio indiano nella giungla. Nel tentativo di resistere agli assalti del tempo, quella dimora senza più custodi aveva conservato ben poco della forma originale, e tutto ciò che poteva offrire al professore nelle sue riflessioni era un povero e umido sedile ricoperto di edera.

Anche il nome popolare di arcidiavolo aveva avuto la sua importanza nel dirimere la scelta.

"Gli uomini", spiegava Veritier con molta insistenza ai suoi studenti, "hanno sempre chiamato diavolo e inferno quelle forze della natura che non sono riusciti a sottomettere, e che per ciò temono".

L'arcidiavolo, albero dall'apparenza innocua, deve questo suo nome alternativo che l'apparenta al Maligno a una lontana saggezza. In tempi assai antichi i popoli, prima che si appropriassero della scrittura e della facoltà di dedurre, sono stati delle forze brute in lotta e comunione intuitiva con la natura. Essi "conoscevano" per mezzo di sensi ultrafini, e chiamavano le cose con il loro nome. Sull'arcidiavolo si tramandano storie che hanno sentore di zolfo, e una di esse racconta che lo stesso Lucifero abbia portato sulla Terra quest'albero, trascinandolo con sé durante la sua caduta. Segno di quel precipitoso viaggio sono le punte ritorte delle foglie che, strette negli artigli carichi d'odio e di disobbedienza, ne avrebbero assorbito la forma. In contrade sperdute si dà notizia superstiziosa che i rametti di bagolaro, inavvedutamente utilizzati come fondo o guarnizione in cestini di frutta o funghi, possono suscitare nei portatori cattive visioni accompagnate da alterazioni maniacali del comportamento sessuale.

Erbari manoscritti riportano che durante il Medioevo si servivano dell'arcidiavolo nientemeno che le streghe, quando, per disturbare la serenità di una famiglia invidiata, provvedevano a far confezionare da stregoni falegnami armadi per la biancheria, giungendo a commissionare per le fanciulle morte a causa dei loro sortilegi delle bare con assi di quel legno, per prolungarne le sofferenze nell'aldilà e nutrirne di incubi il soggiorno nel purgatorio.

A proposito del sesso degli alberi, Veritier si era documentato, venendo a scoprire che soltanto alcune tra le specie più antiche hanno maschi e femmine distinti, mentre le evolute latifoglie, tra cui figurano il castagno, la quercia e l'arcidiavolo, portano organi maschili, femminili e perfino ermafroditi sui rami di ogni individuo. Ma Veritier, che aveva grande dimestichezza con le strade più lontane percorse dall'anima, ricordava che per i latini gli alberi erano tutti, indistintamente, di genere femminile. E, se anche i loro nomi portano spesso desinenze maschili, gli aggettivi che li accompagnano parlano chiaro: Fagus silvatica, Populus alba, Ficus carica, Alnus glutinosa, Pinus montana... Poiché la credenza nei miti e nelle leggende lo rendeva più felice che l'obbedienza alle scienze esatte, preferì continuare a immaginare che il castagno di Giacomo fosse una dolce Castagna, e il suo arcidiavolo una favolosa Arcidiavolessa. Con un albero con quel nome, e per giunta di sesso femminile, l'accertamento che Veritier covava di eseguire aveva più probabilità di riuscita.

Vi è da aggiungere che in più di un'occasione, durante le sue speculazioni solitarie sotto quella maestà, aveva avuto l'impressione che "qualcuno" lo spiasse, ma ogni ricerca minuziosa dell'entourage non gli aveva mai fatto sorprendere dei curiosi. E aveva finito ogni volta per attribuire i suoi sospetti al vento o ai tarli dei vecchi legni, pur continuando nell'intimo a giudicare quel luogo abitato da fantasmi. L'esperimento che si accingeva a fare era dunque una buona occasione perché finalmente gli si manifestassero.

9

Non sentì nulla, nessuna passione sconvolgergli l'animo, nessuna eccitazione gonfiargli l'organo a canna della voluttà. Solo un viscido frescolino emanava dal tronco di quell'essere e gli raffreddava la pelle nei punti di contatto. In difesa gli venne in mente il calore delle sue compagne umane ma, a causa del perdurare della spiacevole sensazione di umidità, si distaccò dall'arcidiavolessa per interrompere l'esperimento.

Mentre però si rimetteva i pantaloni, che aveva deposto sul terreno a pochi passi dall'albero, avvertì un buffo solletico lambirgli la radice delle cosce. Un tocco erotico originale, mai provato prima. Si curvò in avanti e in basso per sapere cosa, e con grande sorpresa vide una mano azzurrina e quasi diafana, che non gli apparteneva, accarezzargli i genitali da dietro e da sotto come una conchiglia.

'Ma chi? che cosa?', pensò.

Nel guardare meglio la mano scomparve, ma non il solletico che gli procurava piacere. Pure si voltò, ma non vide nessuno. Allora, si stropicciò gli occhi e: "Devo essere diventato matto!", esclamò.

Turbato da quelle carezze riprese a vestirsi con fretta. Nell'infilare la camicia dentro le mutande, sentì il membro eccitato. Disinibito, l'afferrò.

'Ma sì, andiamo, non c'è nulla di male!'.

Erano anni che non si masturbava, non ne aveva più avuto bisogno. Non capì più nulla e si tuffò in un godimento selvatico, il medesimo dell'adolescenza, che esplodeva al riparo del muro della vecchia fabbrica, quando vi arrivava in largo anticipo agli appuntamenti con Gratien, oppure nelle esplorazioni solitarie di se stesso davanti al lungo specchio dell'armadio nella camera dei genitori.

Veritier teneva il corpo flesso all'indietro, con tale elegante tensione che a un osservatore dotato di sensibilità artistica la sua figura intera sarebbe sembrata un arco, e il pene disteso in avanti una freccia sul punto di essere scoccata. Mentre a occhi chiusi si manipolava, sentì intensificarsi il solletico che non si era mai distratto dai suoi genitali. Avvertì sulla propria mano il tocco di dita leggere ed esperte che accompagnavano il movimento. Era quasi al culmine dell'eccitazione quando, prima che il flusso di linfa volante lo lasciasse con il destino di decomporsi nell'humus del bosco, aprì gli occhi. Vide, allora, prolungarsi da quella mano una meravigliosa fanciulla tutta nuda, il cui corpo si faceva ora più denso ora tornava trasparente, e a tratti scompariva. Non un filo di grasso, seni turgidi e impennati, gambe lunghe e sedere alto e compatto, una fronte serafica che l'attaccatura di lunghi e lisci capelli neri sormontava a tutto sesto, naso perfetto e occhi grigi, provocanti e luciferini.

Quella, appena si accorse che Veritier la guardava con curiosità soprassatura di desiderio, si distaccò da lui e prese a correre verso l'arcidiavolo. E, prima di scomparire del tutto per chissà quale incantesimo nel tronco dell'albero, con il capo voltato dalla sua parte lo ammonì con parole che gli sembrarono maliziose:

"Non oltre, non oltre! Tu non sei come Giacomo".

Egli la rincorse e cercò di abbracciarla, invece abbracciò di nuovo l'albero.

Troppo tardi, ormai. Sincrona con l'orgasmo, sentì qualcosa di simile a una sferzata incidergli profondamente la fronte. Nella foga doveva aver messo in tensione un ramo - credette - e poi averlo lasciato di colpo, senza accorgersene. Ma intorno non c'erano rami sufficientemente bassi, e così gli risultò impossibile trovare il responsabile del suo ferimento.

*

Si sentì piuttosto strano, il professor Veritier, l'indomani e molti giorni dopo quell'avventura. Il giorno dopo, i margini della ferita sulla fronte si sollevarono a causa dell'infiammazione, e l'intero corpo fu preso dai brividi, poi da una febbre elevata e da una mancanza di forze senza precedenti che lo costrinsero a letto e a rimandare l'analisi del piccolo Giacomo. Dalla ragione giunse pronta la diagnosi di "influenza", ma qualcosa dentro suggerì l'aggettivo "(arci)diabolica". Non si sbagliava infatti, perché quel malessere non era la conseguenza di un raffreddamento, bensì gli proveniva dall'albero e, refrattaria alle cure, si estinse solo un mese più tardi.

Durante la febbre, che toccò punte di quarantun gradi, Veritier fu tormentato da incubi e da deliri. Rivide il giovane fantasma con forme di donna, e provò molta eccitazione. Più volte gli echeggiarono nella mente le sue parole:

"Non oltre, non oltre! Tu non sei come Giacomo".

Sognò anche la madre di Giacomo vestita come una zingara, mentre il padre, in uno scenario da fiaba, gli apparve coperto da uno strano e corto mantello rosso, da sotto il quale estraeva una verga nodosa e con quella gli frustava la faccia. Da puntiglioso psicanalista interpretò il sogno, identificando quei personaggi con i propri genitori. La verga era il pene di suo padre che calava su di lui a punirlo per aver provato il desiderio incestuoso verso la madre; ma per il mantello e il colore rosso non riuscì a trovare collegamenti plausibili.

Tra i sogni e i deliri, quando la febbre calava e il sudore gli raffreddava il corpo e i pensieri, diventava molto razionale e si domandava se l'esperienza del bosco non fosse stata un'allucinazione, una specie di sogno da sveglio, ma non seppe rispondersi con esattezza. Era tentato di negare la realtà dell'incontro, ma restava pur sempre inspiegata la ferita alla fronte. Alla fine fu propenso a credersi vittima di un'allucinazione. "Può capitare anche ai dottori", si disse.

Durante la convalescenza di quella malattia provò a formulare delle ipotesi sulla fitofilia di Giacomo, basandosi sui dati fin lì raccolti. La madre di Giacomo doveva aver raccontato al bambino dell'amore del padre per la natura e della sua tragica fine nell'incendio del bosco, nutrendone l'immaginazione e fornendo un sostrato adatto all'insorgenza del sintomo. Gli alberi con i quali il bambino si accoppiava potevano essere in qualche modo legati a quei fatti, la reazione originale di un soggetto predisposto e sensibile a una profonda carenza affettiva. Per il bambino, dunque, il tronco dell'albero diventava un surrogato del padre, l'espressione fisica di un ricongiungimento fantastico. Che gli alberi siano maschi o femmine poco importa, per la psicanalisi il loro tronco è un simbolo fallico, dunque del padre.

Guarito, ma con ancora nella mente e sulla fronte il ricordo lasciatogli dalla bellezza botticelliana che gli era sfuggita, ancora scosso dalle brevissime frasi che gli aveva indirizzato, il professor Veritier meditò che, vera o immaginaria che fosse quell'esperienza, sarebbe stato opportuno raccogliere altri elementi dal bambino, prima di procedere a un secondo esperimento, anche se l'idea di ripeterlo al più presto per approfondire la conoscenza appena fatta era difficile da allontanare.

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Come a Marco Polo fu impossibile far accettare ai suoi contemporanei le meraviglie delle terre da lui visitate, perché lontane mezzo equatore e più di vent'anni dalla Venezia dei dogi, così Giacomo poté chiarire ben poco al professore della sua relazione con il regno vegetale. Anche perché era molto giovane, e non aveva ancora studiato abbastanza per riuscire a descrivere il mondo complesso e straordinario al quale, come un eletto, aveva libero accesso.

Durante il primo incontro che si svolse tra loro due soli, tutto ciò che Giacomo rispose alla domanda "Cosa provi, cosa senti?", rivoltagli dall'insigne studioso, fu: "Mi piace! Quando faccio così mi sento bene". Le medesime parole dette a sua madre.

E, quando il professore gli chiese: "Ma perché ti piace? perché ti senti bene?", il bambino dichiarò soltanto: "Perché così!".

Non ci fu verso di cavargli altro di bocca. Il suo atteggiamento non era però di difesa, né di chiusura patologica, perché Giacomo manteneva col professore la stessa aria trasognata e furbetta che assumeva con la madre e che qualcosa voleva sottintendere. Giacomo parlava volentieri di tutto eccetto del suo "vizio" con gli alberi. Del padre aveva un buon ricordo (dai fatti raccontatigli dalla madre) e la relazione con la figura materna era ottimale, così come la sua vita sociale. Frequentava l'ultima classe delle scuole elementari, con buon profitto in tutte le materie.

Il professore lo sottopose ai più attendibili test psicodiagnostici: TAT, Rorscharch, Minnesota, Lüscher. Qua e là emersero complessini, minute tribolazioni interiori (la mancanza del padre non è cosa da poco), trattini esibizionistici della personalità, ma tutto sommato Veritier aveva di fronte un bambino sano di mente. Nell'analisi delle macchie di Rorscharch vi furono momenti gradevoli, specie alla prima tavola, la cui figura a molti sembra un gigante con un lungo pene che tocca terra.

Appena Giacomo la vide rise forte e disse:

"Cos'è questo coso, la proboscide di una zanzara?".

Anche il professore rise, per l'originalità della risposta. La simbologia tra proboscide e pene era calzante, e la risata di Giacomo indicava la capacità di esorcizzare il senso di inferiorità che ogni bambino prova quando è messo di fronte a qualcosa che gli ricordi, in termini di articoli sessuali, di essere poco dotato.

Si può ben comprendere che dopo alcune sedute gli argomenti su cui discutere vennero a esaurirsi. Né poteva essere il professore a parlare. È il paziente che deve parlare, ma se questi non parla il dottore ha il dovere di restare in silenzio, tutt'al più può forzarlo dolcemente ad aprirsi. Non ci fu incontro in cui Veritier non cercò di ritornare sulla questione degli alberi, ma Giacomo perseverò nelle risposte elusive.

Il professore tentò la via del disegno. Giacomo disegnava benissimo, specie gli alberi, ma dai suoi schizzi, anche da quelli colorati, e dalle statuine di creta che pure gli fece plasmare, non emerse nulla di strano, né di patologico. Però, nel disegno della famiglia, che gli richiese più volte, Giacomo non trascurò mai di inserire il padre, che raffigurava sempre coperto da un mantello e con un bastone in mano. E, quando il bambino usava le matite colorate, riempiva di rosso l'area del mantello. Alla richiesta del "perché il mantello rosso e il bastone?", Giacomo rispose:

"Perché è così che io lo vedo!".

Ed era così che anche Veritier lo aveva visto nel sogno dopo la ferita nel Bosco della Fontana: con mantello rosso e bastone in mano. Questi particolari lo inquietavano, perché erano coincidenze troppo esatte per pensare all'azione di un cieco caso.

Smessi i disegni, il professore impiegò l'ipnosi, ma questa tecnica può liberare soltanto le verità che non si ricordano, non quelle che si tacciono volontariamente. Perciò durante il sonno ipnotico Giacomo, sdraiato sul lettino a occhi chiusi, esprimeva frammenti di discorsi rimossi con la madre o i compagni di scuola. E, quando il professore lo guidava davanti a scene di boschi e di alberi bisbigliandogli all'orecchio: "Ecco... ora sei nudo, abbracciato al castagno...", il bambino arricciava il naso, ruotava il capo a destra e a sinistra, e con le labbra serrate mugolava solo impenetrabili "Nhnn... Nhnn".

Allora il clima divenne pesante, soprattutto per il professore, in quanto Giacomo era capace di starsene composto a fissarlo, tacendo per minuti che sembravano interminabili. Per alcune settimane tale fu l'andamento delle sedute, e il silenzio l'attore primo di quelle scene. Lo stesso silenzio, impacciato e civile, tra due persone che non si sono mai viste e che si incontrano per pochi secondi e quasi a contatto in un ascensore, gradualmente lasciò posto alla comprensione tacita, disinvolta e primitiva degli amanti che non hanno più bisogno di parole.

Giacomo era ostinato, ma il professore sapeva resistere al suo silenzio, perché il silenzio mette a dura prova soltanto coloro che non sanno nulla di sé, e che spaventati parlano di continuo senza riflettere, per colmare il vuoto dell'autocoscienza. E Veritier sapeva già tanto di sé, anche se non proprio tutto, come vedremo.

'È solo una questione di tempo', si augurava, 'e il reticente confesserà'.

I giorni passavano e gli appuntamenti tra Giacomo e il professore si ripetevano uguali, fatti di monotoni "Perché?" e "Perché così!", e di silenzi indecifrabili come iscrizioni geroglifiche, come i ritrovi che talora abbiamo con noi stessi, durante i quali ci interroghiamo sul destino, e sentiamo che le risposte non sono altro che mute eco alle nostre domande.

Finalmente un giorno, all'ennesimo tentativo: "Cosa provi, cosa senti?", Giacomo, che nel silenzio aveva studiato a sufficienza il professore, e poteva ormai sentirsi al sicuro, rispose:

"Mi piace! Quando faccio così mi sento bene, perché loro escono e mi parlano. Mi raccontano delle storie... Sanno tante cose di noi. Mi fanno vedere dei film antichi, tutti a colori, e mi chiedono cosa voglio sapere, se ho delle curiosità...".

Ci fu una pausa, durante la quale Veritier si grattò scettico il capo, perché di tutto si aspettava tranne quello. Poiché Giacomo aveva avuto per padre un soggetto originale come Silvano, il professore credeva che dopo il silenzio sarebbe emerso un conflitto profondo, un non superato complesso: Edipo, Egisto, Ippolito, Giacinto, Narciso o Crisippo (robe da psicanalisi ortodossa, insomma).

Poi il bambino continuò:

"Ma spesso io non so cosa dire. Non so nemmeno cosa mi interessa sapere. Ci sono luci e figure bellissime, e le cose che vedo posso toccarle. Sono vere, come nei sogni. Una volta loro mi hanno fatto vedere gli antichi Romani, un'altra i Cinesi, e poi un mare grandissimo e capovolto, gli abitanti delle stelle... Qualche volta mi portano via, mi versano addosso come una colla e io mi sento staccare da terra, le gambe restano appiccicate al tronco dell'albero ma la testa va con loro".

"Ma chi sono? Chi sono quelli che chiami "loro"?", domandò il professore senza mascherare la grande curiosità e aumentando, senza accorgersene, il volume della voce.

"Ce ne sono di tanti tipi", rispose Giacomo, serio. "Molti sono fatti come noi, femmine e maschi, altri sono molto diversi, né femmine né maschi. Non riesco a descriverli tutti. Ce ne sono alcuni che somigliano ad alberi, ma che si muovono come animali o uomini. Altri sono cerchi e rettangoli trasparenti, o densi. Poi ci sono dei mostri molto brutti che mi fanno una grande paura... Però Ur mi spiega le cose e mi protegge".

Giacomo iniziò quindi a parlare del particolare più importante della relazione sessuale tra uomo e albero; particolare che preso nella dovuta considerazione avrebbe evitato a Veritier molti dispiaceri. Il bimbo fece appena in tempo a dire: "Tutto dipende da quale albero...", che il professore, interessato soltanto a ciò che poteva confermare l'ipotesi abbozzata, lo interruppe. Così, quel particolare essenziale si perse nello sfondo di una falsa strada.

"Chi è questo... Ur?", gli chiese.

"Urflanz!", esclamò Giacomo con la sufficienza tipica del bambino che si gongola per ciò che altri non sanno.

"Urflanz?", scandì uguale e perplesso Veritier, mentre sul suo volto si intensificava la meraviglia.

"Sì, Urflanz!", confermò il bambino. "Ma si fa chiamare Ur".

"Scrivilo qui, per favore!", lo pregò Veritier, ebbro di interesse scientifico.

Giacomo ubbidì. Prese la penna e il foglio che il professore gli offriva, e scrisse la parola "Urflanz" proprio come l'aveva pronunciata. Poi riprese:

"Ur dice di essere mio padre...".

Il professore subito pensò:

'Dunque la fantasia del bambino fa sopravvivere l'utopista Silvano e lo nasconde nei boschi!? La mia supposizione è esatta: l'albero con cui Giacomo si accoppia è un sostituto del padre. Ecco spiegata la sua presenza nel disegno'.

Ma dalle parole seguenti di Giacomo, dovette ricredersi. Infatti...

"Ur mi ha spiegato che io sono figlio di un albero e di una donna, e che dopo la morte gli uomini buoni, che si sono sforzati di cercare la verità, prima di andare da Gesù passano un periodo sulle chiome degli alberi. Lui è lì adesso. Io gli voglio molto bene, sono sicuro che ciò che mi dice è tutto vero. Ur mi ha raccomandato di non raccontare niente di questa storia alla mamma, perché non capirebbe e ne potrebbe soffrire. Invece, con te mi ha detto che posso parlare, perché tu sei diverso dagli altri dottori!".

La sua faccina s'incupì.

"La mamma mi ha proibito di andare alla collina, dai castagni", si crucciò sotto un lieve broncio. "Così io non posso più toccarli e nemmeno giocare con loro, come stavo facendo quando mi ha scoperto, ma...".

Giacomo allora sorrise malizioso al professore, il quale lo guardava attonito, perché iniziava a rendersi conto che l'ipotesi da lui formulata per quel caso era difettosa. Per il momento era meglio non azzardare congetture: c'era dell'altro.

"Ma la mamma non lo sa però che, anche se sono chiuso in casa, loro mi possono parlare, come al telefono. Ur mi ha detto che con te non corro rischi. Non dirai nulla. Ti ha conosciuto nel Bosco della Fontana, e ti ha toccato", concluse.

E sorrise di nuovo, indicando la fronte del professore ancora visibilmente segnata.

Veritier nascose il rossore della vergogna con entrambe le mani, fingendo con se stesso di strofinarsi la faccia per la stanchezza.

"Ah, devo dirti una cosa importante!", aggiunse Giacomo, rifattosi serio. "Ur mi ha raccomandato di dirti che devi stare attento, che tu non puoi unirti agli alberi, perché tu non sei come me. Ur ci tiene molto che tu lo ascolti, professore!".

E per rafforzare l'effetto delle parole strinse un braccio del clinico e glielo scosse.

"Tu non sei come Giacomo", gli aveva detto la donna nel Bosco della Fontana. E ora: "Tu non sei come me", gli diceva Giacomo. Lo strano caso del bambino degli alberi si presentava più intricato di quanto avesse supposto all'inizio, e gli elementi che quest'ultimo colloquio aggiungeva lo costringevano a porsi degli interrogativi allarmanti.

Gli esseri di cui il bambino parlava erano immagini inconsce, appartenenti al mondo della fantasia, oppure creature reali di un'altra dimensione, come a quel punto era logico sospettare?

Da psicanalista avrebbe dovuto negare l'esistenza delle creature descritte da Giacomo, e continuare a pensarle solo in termini di simboli. Ma, come spiegare altrimenti che Ur, il padre di Giacomo, sapeva che lui aveva provato ad accoppiarsi con gli alberi, se in qualche modo non lo avesse "realmente" veduto nel bosco? E come aveva potuto "realmente" vederlo se era morto da ormai dieci anni? E la fanciulla, poteva continuare a considerarla effetto di un'allucinazione oppure (com'era bella!) ci sarebbe stato modo di incontrarla ancora?

Il professore era vittima e carnefice della sua grande passione per le femmine. Da un lato seriamente preoccupato di credere a un invisibile che poteva rivelarsi di natura esclusivamente fantastica, dall'altro fortemente allettato dall'idea di finire in pasto a un fantasma di donna. Dire che era sconvolto è un'espressione che si avvicina alla verità senza punto toccarla. Sotto gli occhi di chi si era masturbato nel Bosco della Fontana? E, quanti di "loro" avevano assistito allo spettacolo?

La cosa più sbalorditiva, fuori da ogni possibile comprensione, era però che quello che si era presentato come il padre di Giacomo si chiamasse Urflanz! Una coincidenza da apocalisse che portasse proprio il nome con cui Goethe designava l'idea archetipica del regno vegetale: Ur-pflanze: una parola tedesca, alla lettera 'pianta (pflanze) primitiva (ur)', l'Adamo delle piante. E che dire del fatto che, sempre quello, chiedesse al bambino di chiamarlo confidenzialmente con lo stesso brevissimo nome dell'antica "Ur dei Caldei" e dei re che la governarono?

Veritier sapeva che la città menzionata nella Bibbia come "Ur dei Caldei", in verità fondata e abitata dai Sumeri, riportata alla luce negli anni Venti dagli scavi di Sir Wooley, era stata capitale di un regno anteriore di almeno quattro millenni dall'avvento del Cristo, rinomato per un culto degli alberi senza precedenti e che nessuna civiltà posteriore è riuscita a eguagliare. Constatazioni che lo agghiacciavano. Per giunta, il bambino aveva pronunciato quella parola quasi esattamente, soltanto senza la "p" iniziale di "pflanz" e priva della "e" finale: particolari decisamente trascurabili, perché il giovanissimo Giacomo Canto non poteva conoscere la lingua tedesca, e delle opere del gigante della letteratura teutonica nemmeno i titoli.

Goethe, che il professore aveva studiato anche nei recessi esoterici della sua produzione, riteneva che dietro ogni essere, in un mondo altrettanto reale di questo visibile, esista la forma originale vivente, quella che dà il via a ogni prima riproduzione fisica sulla Terra, e che si evolve continuamente fino all'estinzione della specie. Così, Veritier pensò che anche Giacomo dovesse essere a suo modo un genio, dotato, al pari dell'illustre poeta, della capacità di penetrare in quel mondo di forme generatrici e, per effetto di una meditazione speciale - forse il rapporto sessuale -, di ricevere le comunicazioni degli esseri che vi appartengono. Questo poteva spiegare quelli che Giacomo chiamava film, e le creature di cui raccontava, compresa la giovane donna a lui apparsa nel Bosco della Fontana.

D'altra parte, Veritier era a conoscenza che le saggezze millenarie, in particolare la più antica filosofia dei Veda, insegnano che la meditazione fa fondere la mente del meditante con l'oggetto meditato. Egli aveva avuto modo di verificarlo di persona, visto che per qualche tempo si era dedicato a tali pratiche. Tuttavia... non ricordava di avere mai incontrato degli gnomi o delle fate durante i suoi esercizi, e neppure che gli avessero rivelato il nome. Forse, però, non aveva recitato la formula esatta, non eseguito il rituale appropriato, prima di allora. Prima di allora, lui, fautore di originali concetti, maestro di tante teorie, non aveva neppure pensato che ci si potesse accoppiare con gli alberi.

Non parliamo poi dell'effetto che aveva sortito il sapere che Ur era il complice della donna giovane e attraente che aveva visto rientrare nell'arcidiavolo, nonché erogatore della frustata. Doveva inquietarsi per il fatto che già con le parole della fanciulla, e ora per il tramite del bambino, Ur lo metteva ripetutamente in guardia da un pericolo? Da quale? Dal fare altri esperimenti, forse? Cosa voleva dire che lui non poteva unirsi con gli alberi? Che non era come Giacomo gli era abbastanza chiaro in generale: lui un bambino ed egli un adulto, ma assai poco riguardo a quella specifica faccenda.

"Il tempo", si disse, com'era solito fare nei momenti critici "ci ammaestrerà". E così fu, purtroppo.

continua...

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