Liber Liber
Enrico Maria Ferrari
Quando vendettero il Natale

Le aspirazioni fallite dell'autore di questo libro

In vita mia ho avuto ben pochi rimorsi e tantomeno rimpianti, ma una, una sola è la sconfitta che più mi pesa e con la quale dovrò sempre fare i conti: sono totalmente negato nel disegno.

Questa è la triste storia della mia guerra perduta nei confronti del disegno, è per me una sorta di psicoanalisi raccontarla a voi.

Io ho sempre invidiato chi sa disegnare, fare le caricature agli amici, schizzare al volo un paesaggio: io non riesco neanche a fare una riga dritta.

Prendo la matita in mano e quella, SGUIZZ, scappa via come un fagiano.

La riprendo, la lego alla mano, mi metto sul foglio e appena lo tocco questo si buca.

Ci riprovo e si spunta la matita, o si spezza, o non scrive, oppure scrive con quel segno a lama spezzata che sembra Shining.

Talvolta mi capita che la mina all'interno della matita di legno scivoli via, nessuno scienziato è ancora riuscito a spiegarmi tale fenomeno.

Ricordo ancora vivissimo un sogno che feci da bambino: Rembrandt che brandendo un'enorme pennello mi intima di non avvicinarmi a qualsivoglia superfice disegnabile.

Io coi pastelli a cera ci ho colorato una bottiglia, nel senso che li ho squagliati e coperto una bottiglia, questo per rendere l'idea del mio rapporto con gli strumenti da disegno.

I pennelli non mi possono vedere, anche se si tratta di verniciare un lampione appena appoggio il pennello sulla superfice questo si allarga a raggiera, a cerchio, a rombo o a poligono irregolare.

Poi lo metto nella vernice e o misteriosamente rimane asciutto oppure si impregna come una spugna, diventa pesantissimo e ingovernabile e comincio a pitturarmi le scarpe anziché il lampione.

Infine non sono mai riuscito a pulire un pennello in vita mia: dopo l'uso ho provato di tutto, acqua ragia, acetone, acquazza, alcool, acqua santa e preghiere.

Niente, dopo sette minuti il pennello si secca, non perderà mai il colore giallo oro usato prima e diventerà buono solo per farci una freccia di precisione.

Meno che mai righe e compassi.

Il mio compasso di scuola aveva la pecularietà di disegnare cerchi non chiusi, mistero tuttora irrisolto. E poi aveva il fermo che non fermava; o rimaneva stretto due millimetri e venivano fuori dei cerchi microscopici tanto che il professore chiedeva: "Ferrari che è quella macchiolina sul foglio?" Oppure si slargava a dismisura disegnando cerchioni di camion.

Le righe avevano tutte invariabilmente il "filo" spezzato o comunque rovinato, anche se erano nuove.

Io disegnavo una linea precisa impiegando 20 minuti per 6 centimetri e all'ultimo, TAC, un bozzo sul filo del righello mi costringeva a rifare tutto.

Poi arrivarono le mine: dapprima venni in possesso di un portamine antico, di quelli che si aprono a guisa di ruspa e bloccano la mina con la presa.

Ai primi tentativi mi chiudevo sempre dentro l'indice. Poi riuscivo a bloccare la mina ma questa veniva inevitabilmente trinciata dal portamine. Allora facevo un accroccone col nastro adesivo e sembrava avessi in mano un palo della luce coi cerotti.

Infine vennero i portamine seri, quelli con mine infinitesime e scatto millimetrico che le fa avanzare.

Subito perdevo tutte le mine levando il tappo di dietro.

Poi ne recuperavo una e cominciavo a fare gli scattini, TIC TIC TIC TIC e la carogna non avanzava, bloccata, uffa. Aprivo di dietro per sbloccare e immediatamente perdevo l'ultima mina. Nel rimettere il tappo mi giocavo anche la gommina annessa e generalmente a questo punto sbottavo a piangere.

Ci furono anche le varie tecniche da imparare a scuola.

Con la tempera andavo quasi bene, il problema erano le dosi: o il foglio diventava un muro di cemento armato oppure la tempera era talmente sbiadita che il solito professore diceva: "Ferrari ma cos'è quella macchia sul foglio?". Poi ci insegnarono ad usare le chine: fu un brutto periodo per i miei grembiuli, una volta tornando a casa la mamma vedendomi esclamò "Santa Madonna ma dove sei stato!" e io capii che avrei dovuto firmare la resa senza condizioni con le boccette infernali.

A proposito delle boccette: il loro inventore era sicuramente un ex-nazista sadico, mai che funzionassero a dovere.

Innanzitutto non capivo mai quale colore ci fosse dentro la boccetta, una enorme etichetta con su scritto solo "MADE IN CHINA" copriva regolarmente tutto il vetro: allora provavo ad aprirla e solitamente scoprivo che il tappo era saldato a fuoco, inamovibile.

Quando riuscivo ad aprirla il contenuto esplodeva nell'atmosfera, dal colore assunto dalla mia faccia scoprivo il contenuto della boccetta ma questa era oramai, ovviamente, vuota.

Scoprii col tempo che tali boccette sono una truffa colossale, infatti contengono un milionesimo della loro capacità dichiarata, come i vasetti delle creme estetiche che all'interno hanno incredibili doppifondi: così andava a finire che appena intingevo il pennellino questo prosciugava tutto il liquido della fialetta.

Poi venne la volta del linoleum, quello che lo devi scolpire e passarci l'inchiostro sopra. Subito mi scolpivo una mano perché sbagliavo la presa. Il resto dello scempio lo facevano il rullo e l'inchiostro.

L'ultimo anno di liceo fu tragico, dovetti imparare a disegnare "ORNATO", cioè disegnare BENE, facendo i capitelli e altre menate del genere.

Disegnai una testa di cavallo che sembrava un incubo di Picasso. Poi toccò ad un disgraziato discobolo che ancora piange e grida vendetta.

Alla fine il professore esasperato, sperando di procurarmi un lavoro facile, mi diede il compito di disegnare una lastra di marmo liscia e sbagliai anche quella dandole uno sgradevole effetto di paesaggio lunare molto gobbuto.

Uscii dagli anni del liceo con la promessa formale verso la Musa della pittura di non provarci mai più.

Due giorni fa mi sono messo naso e barba finti e ho provato ad acchiappare un pennarello ma quello impaurito si è squagliato dalle mani rifugiandosi sotto il letto; l'anatema di Rembrandt ancora incombe su di me.

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