da "Novelle rusticane " (1883)
Libertà
Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane
a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: - Viva la libertà! -
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino
dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di
berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! -
Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto
delle unghie. - A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco
epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te,
sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi!
che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! -
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi,
tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza!
Addosso ai cappelli! -
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece
cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate?
- Anche tu! al diavolo! - Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò
dentro. - Abbasso i cappelli! Viva la libertà! - Te'! tu pure! - Al reverendo che
predicava l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia
consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La gnà
Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni,
l'inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne
di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la
sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche
il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza
dalla rabbia. - Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo
speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava dalla
vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un
berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non
aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre
aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. -
Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu
addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al
martello.
Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici
anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato
due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu!
Neddu! - Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter
gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il
torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l'aveva
sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. - Non voleva morire,
no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il cuore! - Il taglialegna, dalla
pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un
rovere di cinquant'anni - e tremava come una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli
sarebbe stato notaio, anche lui! -
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava
versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! - Non era più la fame, le
bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le
donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l'ira in falsetto, colle
carni tenere sotto i brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla
veste di seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! - Te'!
Te'! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine.
Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d'oro nelle mani che
cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti
piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La
folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c'era
la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la libertà! - E sfondarono il portone.
Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. - I
campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima volevano le carni della baronessa, le carni
fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno,
scarmigliata - e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni,
avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle
carni bianche anch'esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti, gridando: - Mamà!
mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che
lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s'era rifugiata nel balcone, tenendo
avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza.
L'altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento
mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò
lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra
della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro
fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli
macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo
stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e
luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi
della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza
mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi
della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli
usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si
udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel
chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle
case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il
sagrestano s'era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a
far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel
che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a
mormorare. - Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il
casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli
ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto
tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l'ombra s'impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava
tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva
a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi
dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava
colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino.
- Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! - Quel Nino Bestia, e quel
Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! - Se non
c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno
avrebbe fatto a riffa e a raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna
tornare a spartire da capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva
mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! - Il
taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che
faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente
per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per
schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli.
Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a
vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel
generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi
ragazzi come un padre. La mattina, prima dell'alba, se non si levavano al suono della
tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era
l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello,
i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro
del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e
pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano,
nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in
fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali,
arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo
mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla
scranna, e dicendo - ahi! - ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva
più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di
soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di
campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle
biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada
faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel
gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle
inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza
dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in
quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni,
rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la
piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che
fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello
stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo
stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le
arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di
giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese
erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano
lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini.
Fecero la pace. L'orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una
bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva
di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all'uscire
dal carcere, egli ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce più -. Ormai nessuno ci
pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso
la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano
tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di
conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all'aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il
sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li
conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal
villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo
tanto tempo, stipati nella capponaia - ché capponi davvero si diventava là dentro! e
Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era imparentato a
tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi chiamate? - E
ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati
armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano,
facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su
una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che
agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini,
stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro.
Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel
paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere
nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano
pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello
che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: -
Sul mio onore e sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: - Dove mi
conducete? - In galera? - O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se
avevano detto che c'era la libertà!... -
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