da "Novelle rusticane" (1883)
Di là del mare
Ella ascoltava, avviluppata nella pelliccia, e colle spalle appoggiate alla
cabina, fissando i grandi occhi pensosi nelle ombre vaganti del mare. Le stelle
scintillavano sul loro capo, e attorno a loro non si udiva altro che il sordo rumore della
macchina, e il muggito delle onde che si perdevano verso orizzonti sconfinati. A poppa,
dietro le loro spalle, una voce che sembrava lontana, canticchiava sommessamente una
canzone popolare, accompagnandosi coll'organetto.
Ella pensava forse alle calde emozioni provate la sera innanzi alla
rappresentazione del San Carlo; o alla riviera di Chiaia, sfolgorante di luce, che si
erano lasciata dietro le loro spalle. Aveva preso il braccio di lui mollemente,
coll'abbandono dell'isolamento in cui erano, e s'era appoggiata al parapetto, guardando la
striscia fosforescente che segnava il battello, e in cui l'elica spalancava abissi
inesplorati, quasi cercasse di indovinare il mistero di altre esistenze ignorate. Dal lato
opposto, verso le terre su cui Orione inchinavasi, altre esistenze sconosciute e quasi
misteriose palpitavano e sentivano, chissà? povere gioie e poveri dolori, simili a quelli
da lui narrati. - La donna ci pensava vagamente colle labbra strette, gli occhi fissi nel
buio dell'orizzonte.
Prima di separarsi stettero un altro po' sull'uscio della cabina, al chiarore
vacillante della lampada che dondolava. Il cameriere, rifinito dalla fatica, dormiva
accoccolato sulla scala, sognando forse la sua casetta di Genova. A poppa il lume della
bussola rischiarava appena la figura membruta dell'uomo che era al timone, immobile, cogli
occhi fissi sul quadrante, e la mente chissà dove. A prua si udiva sempre la mesta
cantilena siciliana, che narrava a modo suo di gioie, di dolori, o di speranze umili, in
mezzo al muggito uniforme del mare, e al va e vieni regolare e impassibile dello
stantuffo.
Sembrava che la donna non sapesse risolversi a lasciare la mano di lui. Infine
alzò gli occhi e gli sorrise tristamente: - Domani! - sospirò.
Egli chinò il capo senza rispondere.
- Vi ricorderete sempre di questa ultima sera? -
Egli non rispose. - Io sì! - aggiunse la donna.
All'alba si rividero sul ponte. Il visetto delicato di lei sembrava abbattuto
dall'insonnia. La brezza le scomponeva i morbidi capelli neri. Diggià la Sicilia sorgeva
come una nuvola in fondo all'orizzonte. Poi l'Etna si accese tutt'a un tratto d'oro e di
rubini, e la costa bianchiccia si squarciò qua e là in seni e promontori oscuri. A bordo
cominciava l'affaccendarsi del primo servizio mattutino. I passeggieri salivano ad uno ad
uno sul ponte, pallidi, stralunati, imbacuccati diversamente, masticando un sigaro e
barcollando. La grù cominciava a stridere, e la canzone della notte taceva come
sbigottita e disorientata in tutto quel movimento. Sul mare turchino e lucente, delle
grandi vele spiegate passavano a poppa, dondolando i vasti scafi che sembravano vuoti, con
pochi uomini a bordo che si mettevano la mano sugli occhi per vedere passare il vapore
superbo. In fondo, delle altre barchette più piccole ancora, come punti neri, e le coste
che si coronavano di spuma; a sinistra la Calabria, a destra la Punta del Faro sabbiosa,
Cariddi che allungava le braccia bianche verso Scilla rocciosa e altera.
All'improvviso, nella lunga linea della costa che sembrava unita, si aperse lo
stretto come un fiume turchino, e al di là il mare che si allargava nuovamente,
sterminato. La donna fece un'esclamazione di meraviglia. Poi voleva che egli le indicasse
le montagne di Licodia e di Piana di Catania, o il Biviere di Lentini dalle sponde piatte.
Egli le accennava da lontano, dietro le montagne azzurre, le linee larghe e melanconiche
della pianura biancastra, le chine molli e grigie d'ulivi, le rupi aspre di fichidindia,
le alpestri viottole erbose e profumate. Pareva che quei luoghi si animassero dei
personaggi della leggenda, mentre egli li accennava ad uno ad uno. Colà la Malaria; su
quel versante dell'Etna il paesetto dove la libertà irruppe come una vendetta; laggiù
gli umili drammi del Mistero, e la giustizia ironica di don Licciu Papa. Ella ascoltando
dimenticava persino il dramma palpitante in cui loro due si agitavano, mentre Messina si
avanzava verso di loro col vasto semicerchio della sua Palazzata. Tutt'a un tratto
si riscosse e mormorò:
- Eccolo! -
Dalla riva si staccava una barchetta, in cui un fazzoletto bianco si agitava
per salutare come un alcione nella tempesta.
- Addio! - mormorò il giovane.
La donna non rispose e chinò il capo. Poi gli strinse forte la mano sotto la
pelliccia e si scostò di un passo.
- Non addio. Arrivederci!
- Quando?
- Non lo so. Ma non addio -.
Ed egli la vide porgere le labbra all'uomo che era venuto ad incontrarla nella
barchetta. E nella mente gli passavano delle larve sinistre, i fantasmi dei personaggi
delle sue leggende, col cipiglio bieco e il coltellaccio in mano.
Il velo azzurro di lei scompariva verso la riva, in mezzo alla folla delle
barche e alle catene delle àncore.
Passarono i mesi. Finalmente ella gli scrisse che poteva andarla a trovare.
«In una casetta isolata, in mezzo alle vigne - ci sarà una croce segnata col
gesso sull'uscio. Io verrò dal sentiero fra i campi. Aspettatemi. Non vi fate scorgere, o
sono perduta».
Era d'autunno ancora, ma pioveva e tirava vento come d'inverno. Egli nascosto
dietro l'uscio, ansioso, col cuore che gli martellava, spiava avidamente se le righe di
pioggia che solcavano lo spiraglio cominciassero a diradarsi. Le foglie secche turbinavano
dietro la soglia come il fruscìo di una veste. Che faceva essa? Sarebbe venuta?
L'orologio rispondeva sempre di no, di no, ad ogni quarto d'ora, dal paesetto vicino.
Finalmente un raggio di sole penetrò da una tegola smossa. La campagna tutta s'irradiava.
I carrubbi stormivano sul tetto, e in fondo, dietro i viali sgocciolanti, si apriva il
sentieruolo fiorito di margherite gialle e bianche. Di là sarebbe comparso il suo
ombrellino bianco, di là, o al disopra del muricciuolo a destra. Una vespa ronzava nel
raggio dorato che penetrava dalle commessure, e urtava contro le imposte, dicendo: -
Viene! viene! - Tutt'a un tratto qualcuno spinse bruscamente la porticina a sinistra. -
Come un tuffo nel sangue! - Era lei! bianca, tutta bianca, dalla veste al viso pallido. Al
primo vederlo gli cadde fra le braccia, colla bocca contro la bocca di lui.
Quante ore passarono in quella povera stanzuccia affumicata? Quante cose si
dissero? Il tarlo impassibile e monotono continuava a rodere i vecchi travicelli del
tetto. L'orologio del paesetto vicino lasciava cadere le ore ad una ad una. Da un buco del
muro potevano scorgersi i riflessi delle foglie che si agitavano, e alternavano ombre e
luce verde come in fondo a un lago.
Così la vita. - Ad un tratto ella siccome stralunata, passandosi le mani
sugli occhi, aprì l'uscio per vedere il sole che tramontava. Poscia, risolutamente, gli
buttò le braccia al collo, dicendogli: - Non ti lascio più -.
A piedi, tenendosi a braccetto, andarono a raggiungere la piccola stazione
vicina, perduta nella pianura deserta. Non lasciarsi più! Che gioia sterminata e trepida!
Andavano stretti l'un contro l'altro, taciti, come sbigottiti, per la campagna silenziosa,
nell'ora mesta della sera.
Degli insetti ronzavano sul ciglione del sentiero. Dalla terra screpolata si
levava una nebbia grave e mesta. Non una voce umana, non un abbaiare di cani. Lontano
ammiccava nelle tenebre un lume solitario. Finalmente arrivò il treno sbuffante e
impennacchiato. Partirono insieme; andarono lontano, lontano, in mezzo a quelle montagne
misteriose di cui egli le aveva parlato, che a lei sembrava di conoscere.
Per sempre!
Per sempre. Essi si levavano col giorno, scorazzavano pei campi, nelle prime
rugiade, sedevano al meriggio nel folto delle piante, all'ombra degli abeti, di cui le
foglie bianche fremevano senza vento, felici di sentirsi soli, nel gran silenzio.
Indugiavano a tarda sera, per veder morire il giorno sulle vette dei monti, quando i vetri
si accendevano a un tratto e scoprivano casupole lontane. L'ombra saliva lungo le viottole
della valle che assumevano un aspetto malinconico; poi il raggio color d'oro si fermava un
istante su di un cespuglio in cima al muricciuolo. Anche quel cespuglio aveva la sua ora,
e il suo raggio di sole. Degli insetti minuscoli vi ronzavano intorno, nella luce tiepida.
Al tornare dell'inverno il cespuglio sarebbe scomparso e il sole e la notte si sarebbero
alternati ancora sui sassi nudi e tristi, umidi di pioggia. Così erano scomparsi il
casolare del gesso, e l'osteria di «Ammazzamogli» in cima al monticello deserto.
Soltanto le rovine sbocconcellate si disegnavano nere nella porpora del tramonto. Il
Biviere si stendeva sempre in fondo alla pianura come uno specchio appannato. Più in qua
i vasti campi di Mazzarò, i folti oliveti grigi su cui il tramonto scendeva più fosco,
le vigne verdi, i pascoli sconfinati che svanivano nella gloria dell'occidente, sul
cocuzzolo dei monti; e dell'altra gente si affacciava ancora agli usci delle fattorie
grandi come villaggi, per veder passare degli altri viandanti. Nessuno sapeva più di
Cirino, di compare Carmine, o di altri. Le larve erano passate. Solo rimaneva solenne e
immutabile il paesaggio, colle larghe linee orientali, dai toni caldi e robusti. Sfinge
misteriosa, che rappresentava i fantasmi passeggieri, con un carattere di necessità
fatale. Nel paesello i figli delle vittime avevano fatto pace cogli strumenti ciechi e
sanguinari della libertà; curatolo Arcangelo strascinava la tarda vecchiaia a spese del
signorino; una figlia di compare Santo era andata sposa nella casa di mastro Cola.
All'osteria del Biviere un cane spelato e mezzo cieco, che i diversi padroni nel
succedersi l'uno all'altro avevano dimenticato sulla porta, abbaiava tristamente ai rari
viandanti che passavano.
Poi il cespuglio si faceva smorto anch'esso a poco a poco, e l'assiolo si
metteva a cantare nel bosco lontano.
Addio, tramonti del paese lontano! Addio abeti solitari alla cui ombra ella
aveva tante volte ascoltato le storie che egli le narrava, che stormivate al loro
passaggio, e avete visto passare tanta gente, e sorgere e tramontare il sole tante volte
laggiù! Addio! Anch'essa è lontana.
Un giorno venne dalla città una cattiva notizia. Era bastata una parola, di
un uomo lontano, di cui ella non poteva parlare senza impallidire e piegare il capo.
Innamorati, giovani, ricchi tutti e due, tutti e due che s'erano detti di voler restare
uniti per sempre, era bastata una parola di quell'uomo per separarli. Non era il bisogno
del pane, com'era accaduto a Pino il Tomo, né il coltellaccio del geloso che li divideva.
Era qualcosa di più sottile e di più forte che li separava. Era la vita in cui vivevano
e di cui erano fatti. Gli amanti ammutolivano e chinavano il capo dinanzi alla volontà
del marito. Ora ella sembrava che temesse e sfuggisse l'altro. Al momento di lasciarlo
pianse tutte le sue lagrime che egli bevve avidamente; ma partì. Chissà quante volte si
rammentavano ancora di quel tempo, in mezzo alle ebbrezze diverse, alle feste febbrili, al
turbinoso avvicendarsi degli eventi, alle aspre bisogne della vita? Quante volte ella si
sarà ricordata del paesetto lontano, del deserto in cui erano stati soli col loro amore,
della ceppaia al cui rezzo ella aveva reclinato il capo sulla spalla di lui, e gli aveva
detto sorridendo: - L'uggia per le camelie! -.
Delle camelie ce n'erano tante e superbe, nella splendida serra in cui
giungevano soffocati gli allegri rumori della festa, molto tempo dopo, quando un altro ne
aveva spiccata per lei una purpurea come di sangue, e glie la aveva messa nei capelli.
Addio, tramonti lontani del paese lontano! Anche lui, allorché levava il capo stanco a
fissare nell'aureola della lampada solitaria le larve del passato, quante immagini e
quanti ricordi! di qua e di là pel mondo, nella solitudine dei campi, e nel turbinìo
delle grandi città! Quante cose erano trascorse! e quanto avevano vissuto quei due cuori
lontano l'uno dall'altro!
Infine si rivedevano nella vertigine del carnevale. Egli era andato alla festa
per veder lei, coll'anima stanca e il cuore serrato d'angoscia. Ella era lì difatti,
splendente, circondata e lusingata in cento modi. Pure aveva il viso stanco anch'essa, e
il sorriso triste e distratto. I loro occhi s'incontrarono e scintillarono. Nulla più.
Sul tardi si trovarono accanto come per caso, nell'ombra dei grandi palmizi immobili. -
Domani! - gli disse. - Domani, alla tal'ora e nel tal luogo. Avvenga che può! voglio
vedervi! - Il seno bianco e delicato le tempestava dentro il merletto trasparente, e il
ventaglio le tremava fra le mani. Poi chinò il capo, cogli occhi fissi ed astratti; lievi
e fugaci rossori le passavano sulla nuca del color della magnolia. Come batteva forte il
cuore a lui! come era squisita e trepidante la gioia di quel momento! Ma allorché si
rividero l'indomani non era più la stessa cosa. Chissà perché?... Essi avevano
assaporato il frutto velenoso della scienza mondana; il piacere raffinato dello sguardo e
della parola scambiati di nascosto in mezzo a duecento persone, di una promessa che val
più della realtà, perché è mormorata dietro il ventaglio e in mezzo al profumo dei
fiori, allo scintillìo delle gemme e all'eccitamento della musica. Allorché si buttarono
nelle braccia l'uno dell'altro, quando si dissero che si amavano nella bocca, entrambi
pensavano con desiderio molle ed acuto al rapido momento della sera innanzi, in cui
sottovoce, senza guardarsi, quasi senza parole, si erano detto che il cuore turbinava loro
in petto ad entrambi nel trovarsi accanto. Quando si lasciarono, e si strinsero la mano,
sulla soglia, erano tristi tutti e due, e non tristi soltanto perché dovevano dirsi addio
- quasi mancasse loro qualche cosa. Pure si tenevano sempre per mano, ad entrambi veniva
per istinto la domanda. - Ti rammenti? - E non osavano. Ella aveva detto che partiva
l'indomani col primo treno, ed egli la lasciava partire.
L'aveva vista allontanarsi pel viale deserto, e rimaneva là, colla fronte
contro le stecche di quella persiana. La sera calava. Un organino suonava in lontananza
alla porta di un'osteria.
Ella partiva l'indomani col primo treno. Gli aveva detto: - Bisogna che vada
con lui! - Anch'egli aveva ricevuto un telegramma che lo chiamava lontano. Su quel
foglio ella aveva scritto Per sempre, e una data. La vita li ripigliava entrambi,
l'una di qua e l'altro di là, inesorabilmente. La sera dopo anch'esso era alla stazione,
triste e solo. Della gente si abbracciava e diceva addio; degli sposi partivano
sorridenti; una mamma, povera vecchierella del contado, si strascinava lagrimosa dietro il
suo ragazzo, robusto giovanotto in uniforme da bersagliere, col sacco in spalla, che
cercava l'uscita di porta in porta.
Il treno si mosse. Prima scomparve la città, le vie formicolanti di lumi, il
sobborgo festante di brigatelle allegre. Poi cominciò a passare come un lampo la campagna
solitaria, i prati aperti, i fiumicelli che luccicavano nell'ombra. Di tanto in tanto un
casolare che fumava, della gente raccolta dinanzi a un uscio. Sul muricciuolo di una
piccola stazione, dove il convoglio si era arrestato un momento sbuffante, due innamorati
avevano lasciato scritto a gran lettere di carbone i loro nomi oscuri. Egli pensava che
anch'essa era passata di là il mattino, e aveva visto quei nomi.
Lontano lontano, molto tempo dopo, nella immensa città nebbiosa e triste,
egli si ricordava ancora qualche volta di quei due nomi umili e sconosciuti, in mezzo al
via vai affollato e frettoloso, al frastuono incessante, alla febbre dell'immensa
attività generale, affannosa e inesorabile, ai cocchi sfarzosi, agli uomini che passavano
nel fango, fra due assi coperte d'affissi, dinanzi alle splendide vetrine scintillanti di
gemme, accanto alle stamberghe che schieravano in fila teschi umani e scarpe vecchie. Di
tratto in tratto si udiva il sibilo di un treno che passava sotterra o per aria, e si
perdeva in lontananza, verso gli orizzonti pallidi, quasi con un desiderio dei paesi del
sole. Allora gli tornava in mente il nome di quei due sconosciuti che avevano scritto la
storia delle loro umili gioie sul muro di una casa davanti alla quale tanta gente passava.
Due giovanetti biondi e calmi passeggiavano lentamente pei larghi viali del giardino
tenendosi per mano; il giovane aveva regalato alla ragazza un mazzolino di rose purpuree
che aveva mercanteggiato ansiosamente un quarto d'ora da una vecchierella cenciosa e
triste; la giovinetta, colle sue rose in seno, come una regina, dileguavasi seco lui
lontano dalla folla delle amazzoni e dei cocchi superbi. Quando furono soli sotto i grandi
alberi della riviera, sedettero accanto, parlandosi sottovoce colla calma espansione del
loro affetto.
Il sole tramontava nell'occidente smorto; e anche là, nei viali solitari,
giungeva il suono di un organino, con cui un mendicante dei paesi lontani andava cercando
il pane in una lingua sconosciuta.
Addio, dolce melanconia del tramonto, ombre discrete e larghi orizzonti
solitari del noto paese. Addio, viottole profumate dove era così bello passeggiare
tenendosi abbracciati. Addio, povera gente ignota che sgranavate gli occhi al veder
passare i due felici.
Alle volte, quando lo assaliva la dolce mestizia di quelle memorie, egli
ripensava agli umili attori degli umili drammi con un'aspirazione vaga e incosciente di
pace e d'obblio, a quella data e a quelle due parole - per sempre - che ella gli
aveva lasciato in un momento d'angoscia, rimasto vivo più d'ogni gioia febbrile nella sua
memoria e nel suo cuore. - E allora avrebbe voluto mettere il nome di lei su di una pagina
o su di un sasso, al pari di quei due sconosciuti che avevano scritto il ricordo del loro
amore sul muro di una stazione lontana.
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