da "Novelle rusticane " (1883)
I galantuomini
Sanno scrivere - qui sta il guaio. La brinata dell'alba scura, e il
sollione della messe, se li pigliano come tutti gli altri poveri diavoli, giacché son
fatti di carne e d'ossa come il prossimo, per andare a sorvegliare che il prossimo non
rubi loro il tempo e il denaro della giornata. Ma se avete a far con essi, vi uncinano
nome e cognome, e chi vi ha fatto, col beccuccio di quella penna, e non ve ne districate
più dai loro libracci, inchiodati nel debito.
- Tu devi ancora due tumoli di grano dell'anno scorso.
- Signore, la raccolta fu scarsa!
- È colpa mia se non piovve? Dovevo forse abbeverare i seminati col
bicchiere?
- Signore, gli ho dato il sangue mio alla vostra terra!
- Per questo ti pago, birbante! Ti pago a sangue d'uomo! Io mi dissanguo in
spese di cultura, e poi se viene la malannata, mi piantate la mezzeria, e ve ne andate
colla falce sotto l'ascella! -
E dicono pure: - Val più un pezzente di un potente -; che non si può
cavargli la pelle pel suo debito. Per ciò chi non ha nulla deve pagar la terra più cara
degli altri, - il padrone ci arrischia di più - e se la raccolta viene magra, il mezzadro
è certo di non perder nulla, e andarsene via con la falce sotto l'ascella. Ma l'andarsene
in tal modo è anche una brutta cosa, dopo un anno di fatiche, e colla prospettiva
dell'inverno lungo senza pane.
È che la malannata caccia ad ognuno il diavolo in corpo. Una volta, alla
messe, che pareva scomunicata da Dio, il frate della cerca arrivò verso mezzogiorno nel
podere di don Piddu, spronando cogli zoccoli nella pancia della bella mula baia, e
gridando da lontano: - Viva Gesù e Maria! -
Don Piddu era seduto su di un cestone sfondato, guardando tristamente l'aia
magra, in mezzo alle stoppie riarse, sotto quel cielo di fuoco che non lo sentiva nemmeno
sul capo nudo, dalla disperazione.
- Oh! la bella mula che avete, fra Giuseppe! La val meglio di quelle quattro
rozze magre, che non hanno nulla da trebbiare né da mangiare!
- È la mula della questua - rispose fra Giuseppe. - Sia lodata la carità del
prossimo. Vengo per la cerca.
- Beato voi che senza seminare raccogliete, e al tocco di campana scendete in
refettorio, e vi mangiate la carità del prossimo! Io ho cinque figli, e devo pensare al
pane per tutti loro. Guardate che bella raccolta! L'anno scorso mi avete acchiappato mezza
salma di grano perché S. Francesco mi mandasse la buonannata, e in compenso da tre mesi
non piovve dal cielo altro che fuoco -.
Fra Giuseppe si asciugava il sudore anche lui col fazzoletto da naso. - Avete
caldo, fra Giuseppe? Ora vi faccio dare un rinfresco! -
E glielo fece dare per forza da quattro contadini arrabbiati come lui, che gli
arrovesciarono il saio sul capo, e gli buttavano addosso a secchi l'acqua verdastra del
guazzatoio.
- Santo diavolone! - gridava don Piddu. - Poiché non giova nemmeno far la
limosina a Cristo, voglio farla al diavolo un'altra volta! -
E d'allora non volle più cappuccini per l'aia, e si contentò che per la
questua venissero piuttosto quelli di San Francesco di Paola.
Fra Giuseppe se la legò al dito. - Ah! avete voluto veder le mie mutande, don
Piddu? Io vi ridurrò senza mutande e senza camicia! -
Era un pezzo di fratacchione con tanto di barba, e la collottola nera e larga
come un bue di Modica, perciò nei vicoli e in tutti i cortili era l'oracolo delle comari
e dei contadini.
- Con don Piddu non dovete averci che fare. Guardate che è scomunicato da
Dio, e la sua terra ha la maledizione addosso! -
Quando venivano i missionari, negli ultimi giorni di carnevale, per gli
esercizi spirituali della quaresima, e se c'era un peccatore o una mala femmina, od anche
gente allegra, andavano a predicargli dietro l'uscio, in processione e colla disciplina al
collo pei peccati altrui, fra Giuseppe additava la casa di don Piddu, che non gliene
andava bene più una: le malannate, la mortalità nel bestiame, la moglie inferma, le
figliuole da maritare, tutte già belle e pronte. Donna Saridda, la maggiore, aveva quasi
trent'anni, e si chiamava ancora donna Saridda perché non crescesse tanto presto. Al
festino del sindaco, il martedì grasso, aveva acchiappato finalmente uno sposo, ché
Pietro Macca dal tinello li aveva visti stringersi la mano con don Giovannino, mentre
andavano annaspando nella contraddanza. Don Piddu s'era levato il pan di bocca per
condurre la figliuola al festino colla veste di seta aperta a cuore sul petto. Chissà
mai! In quella i missionari predicavano contro le tentazioni davanti il portone del
sindaco, per tutti quei peccati che si facevano là dentro, e dal sindaco dovettero
chiudere le finestre, se no la gente dalla strada rompeva a sassate tutti i vetri.
Donna Saridda se ne tornò a casa tutta contenta, come se ci avesse in tasca
il terno al lotto; e non dormì quella notte, pensando a don Giovannino, senza sapere che
fra Giuseppe avesse a dirgli:
- Siete pazzo, vossignoria, ad entrare nella casata di don Piddu, che fra poco
ci fanno il pignoramento? -
Don Giovannino non badava alla dote. Ma il disonore del pignoramento poi era
un altro par di maniche! La gente si affollava dinanzi al portone di don Piddu, a vedergli
portar via gli armadi e i cassettoni, che lasciavano il segno bianco nel muro dove erano
stati tanto tempo, e le figliuole, pallide come cera, avevano un gran da fare per
nascondere alla mamma, in fondo a un letto, quel che succedeva. Lei, poveretta, fingeva di
non accorgersene. Prima era andata col marito a pregare, a scongiurare, dal notaio, dal
giudice: - Pagheremo domani - pagheremo doman l'altro -. E tornavano a casa rasente al
muro, lei colla faccia nascosta dentro il manto - ed era sangue di baroni! Il dì del
pignoramento donna Saridda, colle lagrime agli occhi, era andata a chiudere tutte le
finestre, perché quelli che son nati col don vanno soggetti anche alla vergogna.
Don Piddu, quando per carità l'avevano preso sorvegliante alle chiuse del Fiumegrande,
nel tempo delle messe, che la malaria si mangiava i cristiani, non gli rincresceva della
malaria; gli doleva solo che i contadini, allorché questionavano con lui, mettevano da
parte il don, e lo trattavano a tu per tu.
Almeno un povero diavolo, sinché ha le braccia e la salute, trova da buscarsi
il pane. - Quello che diceva don Marcantonio Malerba, quando cadde in povertà, carico di
figliuoli, la moglie sempre gravida, che doveva fare il pane, preparare la minestra, la
biancheria e scopar le stanze. I galantuomini hanno bisogno di tante altre cose, e sono
avvezzi in altro modo. I ragazzi di don Marcantonio, quando stavano a ventre vuoto tutto
un giorno, non dicevano nulla, ed il più grandicello, se il babbo lo mandava a comprare
un pane a credenza, o un fascio di lattughe, ci andava di sera, a viso basso,
nascondendolo sotto il mantello rattoppato.
Il papà si dava le mani attorno per buscare qualche cosa, pigliando un pezzo
di terra in affitto, o a mezzeria. Tornava a piedi dalla campagna, più tardi di ogni
altro, con quello straccio di scialle di sua moglie che chiamava pled, e la sua
brava giornata di zappare se la faceva anche lui, quando nella viottola non passava
nessuno.
Poi la domenica andava a fare il galantuomo insieme agli altri nel casino di
conversazione, ciaramellando in crocchio fra di loro, colle mani in tasca e il naso dentro
il bavero del cappotto; o giuocavano a tressette colla mazza fra le gambe e il cappello in
testa. Al tocco di mezzogiorno sgattaiolavano in furia chi di qua chi di là, ed egli se
ne andava a casa, come se ci avesse sempre pronto il desinare anche lui. - Che posso
farci? - diceva. - A giornata non posso andarci coi miei figli! - Anche i ragazzi,
allorché il padre li mandava a chiedere in prestito mezza salma di farro per la semina, o
qualche tumulo di fave per la minestra, dallo zio Masi, o da massaro Pinu, si facevano
rossi, e balbettavano come fossero già grandi.
Quando venne il fuoco da Mongibello, e distrusse vigne e oliveti, chi aveva
braccia da lavorare almeno non moriva di fame. Ma i galantuomini che possedevano le loro
terre da quelle parti, sarebbe stato meglio che la lava li avesse seppelliti coi poderi,
loro, i figliuoli e ogni cosa. La gente che non ci aveva interesse andava a vedere il
fuoco fuori del paese, colle mani in tasca. - Oggi aveva preso la vigna del tale, domani
sarebbe entrato nel campo del tal altro; ora minacciava il ponte della strada, più tardi
circondava la casetta a mano destra. Chi non stava a guardare si affaccendava a levar
tegole, imposte, mobili, a sgombrar le camere, e salvar quello che si poteva, perdendo la
testa nella fretta e nella disperazione, come un formicaio in scompiglio.
A don Marco gli portarono la notizia mentre era a tavola colla famiglia,
dinanzi al piatto dei maccheroni. - Signor don Marco, la lava ha deviato dalla vostra
parte, e più tardi avrete il fuoco nella vostra vigna -. Allo sventurato gli cadde di
mano la forchetta. Il custode della vigna stava portando via gli attrezzi del palmento, le
doghe delle botti, tutto quello che si poteva salvare, e sua moglie andava a piantare al
limite della vigna le cannucce colle immagini dei santi che dovevano proteggerla,
biascicando avemarie.
Don Marco arrivò trafelato, cacciandosi innanzi l'asinello, in mezzo al
nuvolone scuro che pioveva cenere. Dal cortiletto davanti al palmento si vedeva la
montagna nera che si accatastava attorno alla vigna, fumando, franando qua e là, con un
acciottolìo come se si fracassasse un monte di stoviglie, spaccandosi per lasciar vedere
il fuoco rosso che bolliva dentro. Da lontano, prima ancora che fossero raggiunti, gli
alberi più alti s'agitavano e stormivano nell'aria queta; poi fumavano e scricchiolavano;
ad un tratto avvampavano e facevano una fiammata sola. Sembravano delle torce che
s'accendessero ad una ad una nel tenebrore della campagna silenziosa, lungo il corso della
lava. La moglie del custode della vigna andava sostituendo più in qua le cannucce colle
immagini benedette, man mano che s'accendevano come fiammiferi; e piangeva, spaventata,
davanti a quella rovina, pensando che il padrone non aveva più bisogno di custode, e li
avrebbe licenziati. E il cane di guardia uggiolava anch'esso dinanzi alla vigna che
bruciava. Il palmento, spalancato, senza tetto, con tutta quella roba buttata nel cortile,
in mezzo alla campagna spaventata, sembrava tremasse di paura, mentre lo spogliavano prima
di abbandonarlo.
- Che cosa state facendo? - chiese don Marco al custode che voleva salvare le
botti e gli attrezzi del palmento. - Lasciate stare. Ormai non ho più nulla, e non ho che
metterci nelle botti -.
Baciò il rastrello della vigna un'ultima volta prima di abbandonarla e se ne
tornò indietro, tirandosi per la cavezza l'asinello.
Al nome di Dio! Anche i galantuomini hanno i loro guai, e son fatti di carne e
di ossa come il prossimo. Prova donna Marina, l'altra figlia di don Piddu che s'era
buttata al ragazzo della stalla, dacché aveva persa la speranza di maritarsi, e stavano
in campagna pel bisogno, fra i guai; i genitori la tenevano priva di uno straccio di veste
nuova, senza un cane che gli abbaiasse dietro. Nel meriggio di una calda giornata di
luglio, mentre i mosconi ronzavano nell'aia deserta, e i genitori cercavano di dormire col
naso contro il muro, andò a trovare dietro il pagliaio il ragazzo, il quale si faceva
rosso e balbettava ogni volta che ella gli ficcava gli occhi addosso, e l'afferrò pei
capelli onde farsi dare un bacio.
Don Piddu sarebbe morto di vergogna. Dopo il pignoramento, dopo la miseria,
non avrebbe creduto di poter cascare più giù. La povera madre lo seppe nel comunicarsi a
Pasqua. Una santa, colei! Don Piddu era chiuso, insieme a tutti gli altri galantuomini,
nel convento dei cappuccini per fare gli esercizi spirituali. I galantuomini si riunivano
coi loro contadini a confessarsi e sentir le prediche; anzi, faceva loro le spese del
mantenimento, nella speranza che i garzoni si convertissero, se avevano rubato, e
restituissero il mal tolto. Quegli otto giorni degli esercizi spirituali, galantuomini e
villani tornavano fratelli come al tempo di Adamo ed Eva; e i padroni per umiltà
servivano a tavola i garzoni colle loro mani, ché a costoro quella grazia di Dio andava
giù di traverso per la soggezione; e nel refettorio, al rumore di tutte quelle mascelle
in moto, sembrava che ci fosse una stalla di bestiame, mentre i missionari predicavano
l'inferno e il purgatorio. Quell'anno don Piddu non avrebbe voluto andarci, perché non
aveva di che pagare la sua parte, e poi non potevano rubargli più nulla i suoi garzoni.
Ma lo fece chiamare il giudice, e lo mandò a farsi santo per forza, onde non desse il
cattivo esempio. Quegli otto giorni erano una manna per chi ci avesse da fare nella casa
di un povero diavolo, senza timore che il marito arrivasse improvviso di campagna a
guastar la festa. La porta del convento era chiusa per tutti, ma i giovanotti che avevano
da spendere, appena era notte, sgusciavano fuori e non tornavano prima dell'alba.
Ora don Piddu, dopo che gli giunsero all'orecchio certe chiacchiere che s'era
lasciato scappare fra Giuseppe, una notte sgattaiolò fuori di nascosto, come se avesse
avuto vent'anni, o l'innamorata che l'aspettasse, e non si sa quel che andò a sorprendere
a casa sua. Certo quando rincasò prima dell'alba era pallido come un morto, e sembrava
invecchiato di cent'anni. Questa volta il contrabbando era stato sorpreso, e come i
donnaiuoli tornavano in convento, trovavano il padre missionario inginocchiato dietro
l'uscio, a pregare pei peccati che gli altri erano andati a fare. Don Piddu si buttò
ginocchioni anche lui, per confessarsi all'orecchio del missionario, piangendo tutte le
lagrime che ci aveva negli occhi.
Ah! quel che aveva trovato! lì, a casa sua! in quel camerino di sua figlia
che nemmeno c'entrava il sole!... Il ragazzo di stalla, che scappava dalla finestra; e
Marina pallida come una morta che pure osava guardarlo in faccia, e si afferrava colle
braccia disperate allo stipite dell'uscio per difendere l'amante. Allora gli passarono
dinanzi agli occhi le altre figliuole, e la moglie inferma, e i giudici e i gendarmi, in
un mare di sangue. - Tu! tu! - balbettava. Ella tremava tutta, la scellerata, ma non
rispondeva. Poi cadde sui ginocchi, colle mani giunte come se gli leggesse in faccia il
parricidio. Allora egli fuggì via colle mani nei capelli.
Ma il confessore che gli consigliava di offrire a Dio quell'angustia, avrebbe
dovuto dirgli:
- Vedete, vossignoria, anche gli altri poveretti, quando gli succede la stessa
disgrazia... stanno zitti perché son poveri, e non sanno di lettera, e non sanno sfogarsi
altrimenti che coll'andare in galera! -
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