
da "Novelle rusticane " (1883)
Cos'è il Re
Compare Cosimo il lettighiere aveva governato le sue mule, allungate un po'
le cavezze per la notte, steso un po' di strame sotto i piedi della baia, la quale era
sdrucciolata due volte sui ciottoli umidi delle viottole di Grammichele, dal gran piovere
che aveva fatto, e poi era andato a mettersi sulla porta dello stallatico, colle mani in
tasca, a sbadigliare in faccia alla gente che era venuta per vedere il Re, e c'era tal via
vai quella volta per le strade di Caltagirone che pareva la festa di San Giacomo; però
stava coll'orecchio teso, e non perdeva d'occhio le sue bestie, le quali si rosicavano
l'orzo adagio adagio, perché non glielo rubassero.
Giusto in quel momento vennero a dirgli che il Re voleva parlargli. Veramente
non era il Re che voleva parlargli, perché il Re non parla con nessuno, ma uno di coloro
per bocca dei quali parla il Re, quando ha da dire qualche cosa; e gli disse che Sua
Maestà desiderava la sua lettiga, l'indomani all'alba, per andare a Catania, e non voleva
restare obbligato né al vescovo, né al sottointendente, ma preferiva pagar di sua tasca,
come uno qualunque.
Compare Cosimo avrebbe dovuto esserne contento, perché il suo mestiere era di
fare il lettighiere, e proprio allora stava aspettando che venisse qualcuno a noleggiare
la sua lettiga, e il Re non è di quelli che stanno a lesinare per un tarì dippiù o di
meno, come tanti altri. Ma avrebbe preferito tornarsene a Grammichele colla lettiga vuota,
tanto gli faceva specie di dovervi portare il Re nella lettiga, che la festa gli si
cambiò tutta in veleno soltanto a pensarci, e non si godette più la luminaria, né la
banda che suonava in piazza, né il carro trionfale che girava per le vie, col ritratto
del Re e della Regina, né la chiesa di San Giacomo tutta illuminata, che sputava fiamme,
e ove c'era il Santissimo esposto, e si suonavano le campane pel Re.
Anzi più grande era la festa e più gli cresceva in corpo la paura di doverci
avere il Re proprio nella sua lettiga, e tutti quei razzi, quella folla, quella luminaria
e quello scampanìo se li sentiva sullo stomaco, e non gli fecero chiudere occhio tutta la
notte, che la passò a visitare i ferri della baia, a strigliar le mule e a rimpinzarle
d'orzo sino alla gola, per metterle in vigore, come se il Re pesasse il doppio di tutti
gli altri. Lo stallatico era pieno di soldati di cavalleria, con tanto di speroni ai
piedi, che non se li levavano neppure per buttarsi a dormire sulle panchette, e a tutti i
chiodi dei pilastri erano appese sciabole e pistole che il povero zio Cosimo pareva gli
dovessero tagliare la testa con quelle, se per disgrazia una mula avesse a scivolare sui
ciottoli umidi della viottola mentre portava il Re; e giusto era venuta tanta acqua dal
cielo in quei giorni che la gente doveva avere addosso la rabbia di vedere il Re per
mettersi in viaggio sino a Caltagirone con quel tempaccio. Per conto suo, com'è vero Dio,
in quel momento avrebbe preferito trovarsi nella sua casuccia, dove le mule ci stavano
strette nella stalla, ma si sentivano a rosicar l'orzo dal capezzale del letto, e avrebbe
pagato quelle due onze che doveva buscarsi dal Re per trovarsi nel suo letto, coll'uscio
chiuso, e stare a vedere col naso sotto le coperte, sua moglie affaccendarsi col lume in
mano, a rassettare ogni cosa per la notte.
All'alba lo fece saltar su da quel dormiveglia la tromba dei soldati che
suonava come un gallo che sappia le ore, e metteva in rivoluzione tutto lo stallatico. I
carrettieri rizzavano la testa dal basto messo per guanciale, i cani abbaiavano, e
l'ostessa si affacciava dal fienile tutta sonnacchiosa, grattandosi la testa. Ancora era
buio come a mezzanotte, ma la gente andava e veniva per le strade quasi fosse la notte di
Natale, e i trecconi accanto al fuoco, coi lampioncini di carta dinanzi, battevano
coltellacci sulle panchette per vendere il torrone. Ah, come doveva godersi la festa tutta
quella gente che comprava il torrone, e si strascinava stanca e sonnacchiosa per le vie ad
aspettare il Re, e come vedeva passare la lettiga colle sonagliere e le nappine di lana,
spalancava gli occhi, e invidiava compare Cosimo, il quale avrebbe visto il Re sul
mostaccio, mentre sino allora nessuno aveva potuto avere quella sorte, da quarantott`ore
che la folla stava nelle strade notte e giorno, coll'acqua che veniva giù come Dio la
mandava. La chiesa di San Giacomo sputava ancora fuoco e fiamme, in cima alla scalinata
che non finiva più, aspettando il Re, per dargli il buon viaggio, e suonava con tutte le
sue campane per dirgli che era ora di andarsene. Che non li spegnevano mai quei lumi? e
che aveva il braccio di ferro quel sagrestano per suonare a distesa notte e giorno?
Intanto nel piano di San Giacomo spuntava appena l`alba cenerognola, e la valle era tutta
un mare di nebbia; eppure la folla era fitta come le mosche, col naso nel cappotto, e
appena vide arrivare la lettiga voleva soffocare compare Cosimo e le sue mule, che credeva
ci fosse dentro il Re.
Ma il Re si fece aspettare un bel pezzo; a quell'ora forse si infilava i
calzoni, o beveva il suo bicchierino d'acquavite, per risciacquarsi la gola, che compare
Cosimo non ci aveva pensato nemmeno quella mattina, tanto si sentiva la gola stretta.
Un'ora dopo arrivò la cavalleria, colle sciabole sfoderate, e fece far largo. Dietro la
cavalleria si rovesciò un'altra ondata di gente, e poi la banda, e poi ancora dei
galantuomini, e delle signore col cappellino, e il naso rosso dal freddo; e accorrevano
persino i trecconi, colle panchette in testa, a piantar bottega per cercar di vendere un
altro po' di torrone; tanto che nella gran piazza non ci sarebbe entrato più uno spillo,
e le mule non avrebbero nemmeno potuto scacciarsi le mosche, se non fosse stata la
cavalleria a far fare largo, e per giunta la cavalleria portava un nugolo di mosche
cavalline, di quelle che fanno imbizzarrire le mule di una lettiga, talché compare Cosimo
si raccomandava a Dio e alle anime del Purgatorio ad ognuna che ne acchiappava sotto la
pancia delle sue bestie.
Finalmente si udì raddoppiare lo scampanìo, quasi le campane fossero
impazzate, e i mortaletti che sparavano al Re, e arrivò correndo un'altra fiumana di
gente, e si vide spuntare la carrozza del Re, la quale in mezzo la folla pareva
galleggiasse sulle teste. Allora suonarono le trombe e i tamburi, e ricominciarono a
sparare i mortaletti, che le mule, Dio liberi, volevano romper i finimenti e ogni cosa
sparando calci; i soldati tirarono fuori le sciabole, giacché le avevano messe nel fodero
un'altra volta, e la folla gridava: - La regina, la regina! È quella piccolina lì,
accanto a suo marito che non par vero! -
Il Re invece era un bel pezzo d'uomo, grande e grosso, coi calzoni rossi e la
sciabola appesa alla pancia; e si tirava dietro il vescovo, il sindaco, il
sottointendente, e un altro sciame di galantuomini coi guanti e il fazzoletto da collo
bianco, e vestiti di nero che dovevano averci la tarantola nelle ossa con quel po' di
tramontana che spazzava la nebbia dal piano di San Giacomo. Il Re stavolta, prima di
montare a cavallo, mentre sua moglie entrava nella lettiga, parlava con questo e con
quello come se non fosse stato fatto suo, e accostandosi a compare Cosimo gli batté anche
colla mano sulla spalla, e gli disse tale e quale, col suo parlare napoletano: - Bada che
porti la tua regina! - che compare Cosimo si sentì rientrare le gambe nel ventre, tanto
più che in quel momento si udì un grido da disperati, la folla ondeggiò come un mare di
spighe, e si vide una giovinetta, vestita ancora da monaca, e pallida pallida, buttarsi ai
piedi del Re, e gridare: - Grazia! - Chiedeva la grazia per suo padre, il quale si era
dato le mani attorno per buttare il Re giù di sella, ed era stato condannato ad aver
tagliata la testa. Il Re disse una parola ad uno che gli era vicino, e bastò perché non
tagliassero la testa al padre della ragazza. Così ella se ne andò tutta contenta, che
dovettero portarla via svenuta dalla consolazione.
Vuol dire che il Re con una sua parola poteva far tagliare la testa a chi gli
fosse piaciuto, anche a compare Cosimo se una mula della lettiga metteva un piede in
fallo, e gli buttava giù la moglie, così piccina com'era.
Il povero compare Cosimo aveva tutto ciò davanti agli occhi, mentre andava
accanto alla baia colla mano sulla stanga, e l'abito della Madonna fra le labbra, che si
raccomandava a Dio, come fosse in punto di morte, mentre tutta la carovana, col Re, la
Regina e i soldati, si era messa in viaggio in mezzo alle grida e allo scampanìo, e allo
sparare dei mortaletti che si udivano ancora dalla pianura; talché quando furono arrivati
giù nella valle, in cima al monte si vedeva ancora la folla nera brulicare al sole come
se ci fosse stata la fiera del bestiame nel piano di San Giacomo.
A che gli giovava il sole e la bella giornata a compare Cosimo? se ci aveva il
cuore più nero del nuvolo, e non si arrischiava di levare gli occhi dai ciottoli su cui
le mule posavano le zampe come se camminassero sulle uova; né stava a guardare come
venissero i seminati, né a rallegrarsi nel veder pendere i grappoli delle ulive, lungo le
siepi, né pensava al gran bene che avea fatto tutta quella pioggia della settimana, ché
gli batteva il cuore come un martello soltanto al pensare che il torrente poteva essere
ingrossato, e dovevano passarlo a guado! Non si arrischiava a mettersi a cavalcioni sulle
stanghe, come soleva fare quando non portava la sua regina, e lasciarsi cadere la testa
sul petto a schiacciare un sonnellino, sotto quel bel sole e colla strada piana che le
mule l'avrebbero fatta ad occhi chiusi; mentre le mule che non avevano giudizio, e non
sapevano quel che portassero, si godevano la strada piana ed asciutta, il sole tiepido e
la campagna verde, scondizolavano e scuotevano allegramente le sonagliere, che per poco
non si mettevano a trottare, e compare Cosimo si sentiva saltare lo stomaco alla gola
dalla paura soltanto al vedere mettere in brio le sue bestie, senza un pensiero al mondo
né della Regina, né di nulla.
La Regina, lei, badava a chiacchierare con un'altra signora che le avevano
messo in lettiga per ingannare il tempo, in un linguaggio che nessuno ci capiva una
maledetta; guardava la campagna cogli occhi azzurri come il fiore del lino e appoggiava
allo sportello una mano così piccina che pareva fatta apposta per non aver nulla da fare;
che non valeva la pena di riempire d'orzo le mule per portare quella miseria, regina tal
quale era! Ma ella poteva far tagliare il collo alla gente con una sola parola, così
piccola com'era, e le mule che non avevano giudizio con quel carico leggiero, e tutto
quell'orzo che avevano nella pancia, provavano una gran tentazione di mettersi a saltare e
ballare per la strada, e di far tagliare la testa a compare Cosimo.
Sicché il poveraccio per tutta la strada non fece che recitare fra i denti
paternostri e avemarie, e raccomandarsi ai suoi morti, quelli che conosceva e quelli che
non conosceva, fin quando arrivarono alla Zia Lisa, che era accorsa una gran folla a
vedere il Re, e davanti ad ogni bettola c'era il suo pezzo di maiale appeso e scuoiato per
la festa. Come arrivò a casa sua, dopo aver consegnata la regina sana e salva, non gli
pareva vero, e baciò la sponda della mangiatoia legandovi le mule; poi si mise in letto
senza mangiare e senza bere, ché non voleva vedere nemmeno i danari della regina, e li
avrebbe lasciati nella tasca del giubbone chissà quanto tempo, se non fosse stato per sua
moglie che andò a metterli in fondo alla calza sotto il pagliericcio.
Gli amici e i conoscenti, che erano curiosi di sapere come erano fatti il Re e
la Regina, venivano a domandargli del viaggio, col pretesto d'informarsi se aveva
acchiappato la malaria. Egli non voleva dir nulla, che gli tornava la febbre soltanto a
parlarne, e il medico veniva mattina e sera, e si prese circa la metà di quei danari
della regina.
Solamente molti anni dopo, quando vennero a pignorargli le mule in nome del
Re, perché non aveva potuto pagare il debito, compare Cosimo non si dava pace pensando
che pure quelle erano le mule che gli avevano portato la moglie sana e salva, al Re,
povere bestie; e allora non c'erano le strade carrozzabili, ché la Regina si sarebbe
rotto il collo, se non fosse stato per la sua lettiga, e la gente diceva che il Re e la
Regina erano venuti apposta in Sicilia per fare le strade, che non ce n'erano ancora, ed
era una porcheria. Ma allora campavano i lettighieri, e compare Cosimo avrebbe potuto
pagare il debito, e non gli avrebbero pignorato le mule, se non veniva il Re e la Regina a
far le strade carrozzabili.
E più tardi, quando gli presero il suo Orazio, che lo chiamavano Turco, tanto
era nero e forte, per farlo artigliere, e quella povera vecchia di sua moglie piangeva
come una fontana, gli tornò in mente quella ragazza ch'era venuta a buttarsi a' piedi del
Re gridando - grazia! - e il Re con una parola l'aveva mandata via contenta. Né voleva
capire che il Re d'adesso era un altro, e quello vecchio l'avevano buttato giù di sella.
Diceva che se fosse stato lì il Re, li avrebbe mandati via contenti, lui e sua moglie,
proprio sul mostaccio, coi calzoni rossi, e la sciabola appesa alla pancia, e con una
parola poteva far tagliare il collo alla gente, e mandare puranco a pignorare le mule, se
uno non pagava il debito, e pigliarsi i figliuoli per soldati, come gli piaceva.

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