da "Novelle rusticane " (1883)
Don Licciu Papa
Le comari filavano al sole, e le galline razzolavano nel pattume, davanti
agli usci, allorché successe un gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciuola, che
si vide comparire da lontano lo zio Masi, l'acchiappaporci, col laccio in mano; e il
pollame scappava schiamazzando, come se lo conoscesse.
Lo zio Masi si buscava dal municipio 50 centesimi per le galline, e 3 lire per
ogni maiale che sorprendeva in contravvenzione. Egli preferiva i maiali. E come vide la
porcellina di comare Santa, stesa tranquillamente col muso nel brago, di contro all'uscio,
gli gittò al collo il nodo scorsoio.
- Ah! Madonna santissima! Cosa fate, zio Masi! - gridava la zia Santa, pallida
come una morta. Per carità, zio Masi, non mi acchiappate la multa, che mi rovinate! -
Lo zio Masi, il traditore, per pigliarsi il tempo di caricarsi la maialina
sulle spalle, le sballava di belle parole: - Sorella mia, che posso farvi? Questo è
l'ordine del sindaco. Maiali per le strade non ne vuole più. Se vi lascio la porcellina
perdo il pane -.
La zia Santa gli correva dietro come una pazza, colle mani nei capelli,
strillando sempre: - Ah! zio Masi! non lo sapete che mi è costata 14 tarì a San
Giovanni, e la tengo come la pupilla degli occhi miei! Lasciatemi la maialina, zio Masi,
per l'anima dei vostri morti! Che all'anno nuovo, coll'aiuto di Dio, vale due onze! -
Lo zio Masi, zitto, a capo chino, col cuore più duro di un sasso, badava solo
dove metteva i piedi, per non isdrucciolare nella mota, colla maialina di traverso sulle
spalle, che grugniva rivolta al cielo. Allora la zia Santa, disperata, per salvare la
porcellina, gli assestò un solenne calcio nella schiena, e lo fece andare ruzzoloni.
Le comari, appena videro l'acchiappaporci in mezzo al fango, gli furono
addosso colle rocche e colle ciabatte, e volevano fargli la festa per tutti i porci e le
galline che aveva sulla coscienza. Ma in questa accorse don Licciu Papa, colla tracolla
dello sciabolotto attraverso la pancia, gridando da lontano come un ossesso, fuori tiro
delle rocche: - largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! -
La Giustizia condannò comare Santa alla multa ed alle spese, e per ischivare
la prigione dovettero anche ricorrere alla protezione del barone, il quale aveva la
finestra di cucina lì di faccia nella stradicciuola, e la salvò per miracolo, facendo
vedere alla Giustizia che non era il caso di ribellione, perché l'acchiappaporci quel
giorno non aveva il berretto col gallone del municipio.
Vedete! - esclamarono in coro le donne. - Ci vogliono i santi per entrare in
Paradiso! Questa del berretto nessuno la sapeva! -
Però il barone aggiunse il predicozzo: - Quei porci e quelle galline
bisognava spazzarli via dal vicinato; il sindaco aveva ragione, ché sembrava un porcile
-. D'allora in poi, ogni volta che il servo del barone buttava la spazzatura sul capo alle
vicine, nessuna mormorava. Soltanto si dolevano che le galline chiuse in casa, per
scansare la multa, non fossero più buone chiocce, e i maiali, legati per un piede accanto
al letto, parevano tante anime del purgatorio. - Almeno prima la spazzavano loro la
stradicciuola.
- Tutto quel concime sarebbe tant'oro per la chiusa dei Grilli! - sospirava
massaro Vito. - Se avessi ancora la mula baia, spazzerei la strada colle mie mani -.
Anche qui c'entrava don Licciu Papa. Egli era venuto a pignorare la mula
coll'usciere, che dall'usciere solo massaro Vito non se la sarebbe lasciata portar via
dalla stalla, nemmen se l'ammazzavano, e gli avrebbe piuttosto mangiato il naso come il
pane. Lì, davanti al giudice, seduto al tavolino, che pareva Ponzio Pilato, quando
massaro Venerando l'aveva citato per riscuotere il credito della mezzeria, non seppe che
rispondere. La chiusa dei Grilli era buona soltanto per far grilli; il minchione era lui,
se era tornato dalla mèsse a mani vuote, e massaro Venerando aveva ragione di voler esser
pagato, senza tante chiacchiere e tante dilazioni, perciò aveva portato l'avvocato, che
parlava per lui. Ma com'ebbe finito, e massaro Venerando se ne andava lieto, dondolandosi
dentro gli stivaloni come un'anitra ingrassata, non poté stare di domandare al
cancelliere se era vero che gli vendevano la mula.
- Silenzio! - interruppe il giudice che si soffiava il naso, prima di passare
a un altro affare.
Don Licciu Papa si svegliò di soprassalto sulla panchetta, e gridò: -
Silenzio!
- Se foste venuto coll'avvocato, vi lasciavano parlare ancora, - gli disse
compare Orazio per confortarlo.
Sulla piazza, dinanzi agli scalini del municipio, il banditore gli vendeva la
mula. - Quindici onze la mula di compare Vito Gnirri! Quindici onze una bella mula baia!
Quindici onze! -
Compare Vito, seduto sugli scalini, col mento fra le mani, non voleva dir
nulla che la mula era vecchia, ed era più di 16 anni che gli lavorava. Essa stava lì
contenta come una sposa, colla cavezza nuova. Ma appena gliela portaron via davvero, ei
perse la testa, pensando che quell'usuraio di massaro Venerando gli acchiappava 15 onze
per una sola annata di mezzeria, che tanto non ci valeva la chiusa dei Grilli, e senza la
mula ormai non poteva più lavorare la chiusa, e all'anno nuovo si sarebbe trovato di
nuovo col debito sulle spalle. Ei si mise a gridare come un disperato sul naso a massaro
Venerando. - Cosa mi farete pignorare, quando non avrò più nulla? anticristo che siete!
- E voleva levargli il battesimo dalla testa, se non fosse stato per don Licciu Papa lì
presente, collo sciabolotto e il berretto gallonato, il quale si mise a gridare tirandosi
indietro: - Fermo alla Giustizia! - Fermo alla Giustizia!
- Che Giustizia! - strillava compare Vito tornando a casa colla cavezza in
mano. - La Giustizia è fatta per quelli che hanno da spendere -.
Questo lo sapeva anche curatolo Arcangelo, che quando era stato in causa col
Reverendo per via della casuccia, perché il Reverendo voleva comprargliela per forza,
tutti gli dicevano: - Che siete matto a pigliarvela col Reverendo? È la storia della
brocca contro il sasso! Il Reverendo coi suoi denari si affitta la meglio lingua
d'avvocato, e vi riduce povero e pazzo -.
Il Reverendo, dacché s'era fatto ricco, aveva ingrandito la casuccia paterna,
di qua e di là, come fa il porcospino che si gonfia per scacciare i vicini dalla tana.
Ora aveva slargata la finestra che dava sul tetto di curatolo Arcangelo, e diceva che gli
bisognava la casa di lui per fabbricarvi sopra la cucina e mutare la finestra in uscio. -
Vedete, compare Arcangelo mio, senza cucina non ci posso stare! Bisogna che siate
ragionevole -.
Compare Arcangelo non lo era punto, e si ostinava a pretendere di voler morire
nella casa dove era nato. Tanto, non ci veniva che una volta al sabato; ma quei sassi lo
conoscevano, e se pensava al paese, nei pascoli del Carramone, non lo vedeva altrimenti
che sotto forma di quell'usciolo rattoppato, e di quella finestra senza vetri. - Va bene,
va bene, - rispondeva fra di sé il Reverendo. - Teste di villani! Bisogna farci entrare
la ragione per forza -.
E dalla finestra del Reverendo piovevano sul tetto di curatolo Arcangelo cocci
di stoviglie, sassi, acqua sporca; e riducevano il cantuccio dov'era il letto peggio di un
porcile. Se curatolo Arcangelo gridava, il Reverendo si metteva a gridare sul tetto, più
forte di lui. - Che non poteva più tenerci un vaso di basilico sul davanzale? Non era
padrone d'inaffiare i suoi fiori?
Curatolo Arcangelo aveva la testa dura peggio dei suoi montoni, e ricorse alla
Giustizia. Vennero il giudice, il cancelliere, e don Licciu Papa, a vedere se il Reverendo
era padrone d'inaffiare i suoi fiori, che quel giorno non ci erano più alla finestra, e
il Reverendo aveva il solo disturbo di levarli ogni volta che doveva venire la Giustizia,
e rimetterli al loro posto appena voltava le spalle. Il giudice stesso non poteva passare
il tempo a far la guardia al tetto di curatolo Arcangelo, o ad andare e venire dalla
straduccia; ogni sua visita costava cara.
Restava la quistione di sapere se la finestra del Reverendo doveva essere
coll'inferriata o senza inferriata, e il giudice, e il cancelliere, e tutti, guardavano
cogli occhiali sul naso, e pigliavano misure che pareva un tetto di barone, quel tettuccio
piatto e ammuffato.
E il Reverendo tirò pure fuori certi diritti vecchi per la finestra senza
inferriata, e per alcune tegole che sporgevano sul tetto, che non ci si capiva più nulla,
e il povero curatolo Arcangelo guardava in aria anche lui, per capacitarsi che colpa
avesse il suo tetto. Ei ci perse il sonno della notte e il riso della bocca; si
dissanguava a spese, e doveva lasciare la mandra in custodia del ragazzo per correre
dietro al giudice e all'usciere. Per giunta le pecore gli morivano come le mosche, ai
primi freddi dell'inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava colla
Chiesa, dicevano.
- E voi pigliatevi la casa, - disse infine al Reverendo, che dopo tante liti e
tante spese non gliene avanzava il danaro da comprarsi la corda per impiccarsi a un
travicello. Voleva mettersi in collo la sua bisaccia e andarsene colla figliola a stare
colle pecore, ché quella maledetta casa non voleva vederla più, finché era al mondo.
Ma allora uscì in campo il barone, l'altro vicino, il quale ci aveva anche
lui delle finestre e delle tegole sul tetto di curatolo Arcangelo, e giacché il Reverendo
voleva fabbricarsi la cucina, egli aveva pure bisogno di allargare la dispensa, sicché il
povero capraio non sapeva più di chi fosse la sua casa. Ma il Reverendo trovò il modo di
aggiustare la lite col barone, dividendosi da buoni amici fra di loro la casa di curatolo
Arcangelo, e poiché costui ci aveva anche quest'altra servitù, gli ridusse il prezzo di
un buon quarto.
Nina, la figlia di curatolo Arcangelo, come dovevano lasciare la casa e
andarsene via dal paese, non finiva di piangere, quasi ci avesse avuto il cuore attaccato
a quei muri e a quei chiodi delle pareti. Suo padre, poveraccio, tentava di consolarla
come meglio poteva, dicendole che laggiù, nelle grotte del Carramone, ci si stava da
principi, senza vicini e senza acchiappaporci. Ma le comari, che sapevano tutta la storia,
si strizzavano l'occhio fra di loro borbottando:
- Al Carramone il signorino non potrà più andarla a trovare, di sera,
quando compare Arcangelo è colle sue pecore. Per questo la Nina piange come una fontana
-.
Come lo seppe compare Arcangelo cominciò a bestemmiare e a gridare: -
Scellerata! adesso con chi vuoi che ti mariti? -
Ma la Nina non pensava a maritarsi. Voleva soltanto continuare a stare dov'era
il signorino, che lo vedeva tutti i giorni alla finestra, appena si alzava, e gli
faceva segno se poteva andare a trovarla la sera. In tal modo la Nina c'era cascata, col
veder tutti i giorni alla finestra il signorino, che dapprincipio le rideva, e le
mandava i baci e il fumo della pipa, e le vicine schiattavano d'invidia. Poscia a poco a
poco era venuto l'amore, talché adesso la ragazza non ci vedeva più dagli occhi, e aveva
detto chiaro e tondo a suo padre:
- Voi andatevene dove volete, che io me ne sto qui dove sono -. E il signorino
le aveva promesso che la campava lui.
Curatolo Arcangelo di quel pane non ne mangiava, e voleva chiamare don Licciu
Papa per condur via a forza la figliuola. - Almeno quando saremo via di qui, nessuno
saprà le nostre disgrazie, - diceva. Ma il giudice gli rispose che la Nina aveva già gli
anni del giudizio, ed era padrona di fare quel che gli pareva e piaceva.
- Ah! È padrona? - borbottava curatolo Arcangelo. - Anch'io son padrone! - E
appena incontrò il signorino, che gli fumava sul naso, gli spaccò la testa come
una noce con una legnata.
Dopo che l'ebbero legato ben bene, accorse don Licciu Papa, gridando: - Largo
alla Giustizia! largo alla Giustizia! -
Davanti alla Giustizia gli diedero anche un avvocato, per difendersi. - Almeno
stavolta la Giustizia non mi costa nulla; - diceva compare Arcangelo. E fu meglio per lui.
L'avvocato riuscì a provare come quattro e quattro fanno otto, che curatolo Arcangelo non
l'aveva fatto apposta, di cercare d'ammazzare il signorino, con un randello di pero
selvatico, ch'era del suo mestiere, e se ne serviva per darlo sulle corna ai montoni
quando non volevano intender ragione.
Così fu condannato soltanto a 5 anni, la Nina rimase col signorino, il
barone allargò la sua dispensa, e il Reverendo fabbricò una bella casa nuova su quella
vecchia di curatolo Arcangelo, con un balcone e due finestre verdi.
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