da "Primavera e altri racconti" (1877)
La coda del diavolo
Questo racconto è fatto per le persone che vanno colle mani dietro la schiena
contando i sassi, per coloro che cercano il pelo nell'uovo e il motivo per cui tutte le
cose umane danno una mano alla ragione e l'altra all'assurdo; per quegli altri cui si
rizzerebbe il fiocco di cotone sul berretto da notte quando avessero fatto un brutto
sogno, e che lascerebbero trascorrere impunemente gli Idi di Marzo; per gli spiritisti, i
giuocatori di lotto, gli innamorati, e i novellieri; per tutti coloro che considerano col
microscopio gli uncini coi quali un fatto ne tira un altro, quando mettete la mano nel
cestone della vita; per i chimici e gli alchimisti che da 5000 anni passano il loro tempo
a cercare il punto preciso dove il sogno finisce e comincia la realtà, e a decomporvi le
unità più semplici della verità nelle vostre idee, nei vostri principi, e nei vostri
sentimenti, investigando quanta parte del voi nella notte ci sia nel voi desto, e la
reciproca azione e reazione, gente sofistica la quale sarebbe capace di dirvi
tranquillamente che dormite ancora quando il sole vi sembra allegro, o la pioggia vi
sembra uggiosa - o quando credete d'andare a spasso tenendo sotto il braccio la moglie
vostra, il che sarebbe peggio. Infine, per le persone che non vi permetterebbero di aprir
bocca, fosse per dire una sciocchezza, senza provare qualche cosa, questo racconto
potrebbe provare e spiegare molte cose, le quali si lasciano in bianco apposta, perché
ciascuno vi trovi quello che vi cerca.
Narro la storia ora che i personaggi di essa sono tutti in salvo dalle
indiscrete ricerche dei curiosi; poiché dei tre personaggi - è una storia a tre
personaggi, come le storie perfette, e di tutti e tre avete già indovinato l'azione, per
poco pratica che abbiate di queste cose - lui è al Cairo, o lì presso, a dirigere
non so che lavori ferroviari; lei è morta, poveretta! e l'altro in certo
modo è morto anche lui, si è trasformato, ha preso moglie, non si rammenta più di
nulla, e non si riconoscerebbe più nemmeno dinanzi ad uno specchio di dieci anni
addietro, se non fossero certi calabroni petulanti e ronzanti attorno a sua moglie, che
gli mettono lo specchio sotto il naso, e somigliano così a lui quand'era petulante e
ronzante anch'esso, da fargli montare la mosca al naso. Insomma, tre personaggi
comodissimi che non contano più, che non esistono quasi - potete anche immaginare che non
siano mai esistiti.
Lui e l'altro erano due buoni e bravi ragazzi, due anime
gemelle, amici fin dall'infanzia, Oreste e Pilade dell'Amministrazione ferroviaria. Lui
era ingegnere, l'altro disegnatore; abitavano nella medesima casa, e andavano
sempre insieme, ciò che li avea fatti soprannominare i Fratelli Siamesi; si vedevano
tutti i giorni all'ufficio dalle nove del mattino alle cinque della sera. Non si seppe
spiegare come lui avesse potuto conoscere la Lina, farle la corte, e sposarla; -
era l'unico torto in trent'anni che Damone avesse fatto al suo Pitia.
Ma alla fin fine non era stato un torto nemmen quello. Pitia-Donati sulle
prime avea tenuto il broncio al suo Damone-Corsi, è vero, ma il broncio non era durato
una settimana. Lina era tale ragazza che si sarebbe fatta voler bene da un orso, e Donati
poi non era un orso; ella sapeva quali gelosie dovesse disarmare, e col suo dolce sorriso
e le sue maniere gentili e carezzevoli s'era messa tranquillamente nell'intimità dei due
amici come un ramoscello d'ellera, invece di ficcarcisi come un cuneo.
In capo ad alcuni mesi erano tre amici invece di due, ecco tutto il
cambiamento. Donati sapeva d'avere anche una sorella oltre il fratello, e Corsi lo sapeva
meglio di lui. Di tutto quello che immaginate, e che avvenne difatti, non c'era neppur
l'ombra del sospetto nella mente di alcuno dei tre - altrimenti la storia che vi racconto
non avrebbe avuto nulla di singolare.
Più singolare ancora è che questo stato di cose sia durato otto anni, e
avrebbe potuto durare anche indefinitamente. Da principio nelle manifestazioni
dell'amicizia, della gran simpatia che sentivano l'un per l'altro Donati e Lina, c'era
stato un leggiero imbarazzo, forse causato dal timore che potessero essere male
interpretate; poi l'abitudine, la lealtà dei loro cuori, la purezza istessa di quei
sentimenti, li avevano resi più espansivi, più schietti, e più fiduciosi. Donati avea
assistito la Lina in una lunga e pericolosa malattia come un vero fratello avrebbe potuto
fare, ed ella avea per il quasi fratello di suo marito tutte le cure, tutte le delicate
premure di una sorella.
La intimità delle due piccole famiglie era divenuta così cordiale, così
sincera, così aperta a due battenti, che gli amici, i conoscenti, il mondo, non la
stimavano né troppa, né sospetta. Così rara, ne convengo, com'era rara l'onestà di
quelle anime; ma se in una sola di esse ci fosse stato del poco di buono, non avrei
bisogno di tirare in campo il Fato degli antichi, o la coda del diavolo dei moderni.
La sera, dopo il desinare, andavano a spasso tutti e tre. Donati dava il
braccio alla Lina, e si impettiva allorché leggeva negli occhi dei viandanti «che bella
donnina!». La domenica pranzavano insieme, e prendevano un palchetto al Comunale o
all'Alfieri. Donati avea la smania delle sorprese; sorprese che si poteano indovinare col
calendario alla mano, a Natale, a Pasqua, e il dì dell'onomastico di Lina. Arrivava con
un'aria disinvolta che lo tradiva peggio delle sue tasche rigonfie come bisacce, e si
fregava le mani vedendo sorridere la Lina. La sera, d'inverno, si raccoglievano nel
salotto, presso il tavolino; facevano quattro chiacchiere; sfogliavano delle riviste, dei
romanzi nuovi, indovinavano delle sciarade, o Lina suonava il piano. Donati aveva una
pazienza ammirabile per sorbirsi il racconto dettagliato di tutti i romanzi che leggeva
Lina - era il solo vizio che ella avesse - sapeva indovinare delicatamente l'arte di
ascoltare, di farsi punto ammirativo, o punto interrogativo, di agitarsi sulla seggiola,
di convertire lo sbadiglio in esclamazione, mentre, povero diavolo, cascava dal sonno, o
capiva poco, o, semplice e tranquillo com'era, non s'interessava affatto a tutti i punti
ammirativi cui si credeva obbligato dalla situazione.
Spesso, risalendo nelle sue stanze, trovava dei fiori freschi sullo scrittoio,
un tappetino nuovo dinanzi al canapè, qualche cosuccia elegante messa in bella mostra sui
mobili modesti. Un risolino giocondo che veniva dal fondo dell'anima faceva capolino
discretamente su quel viso sereno da galantuomo, e si rifletteva su tutte quelle cosucce
silenziose; allora a mo' di ringraziamento, egli picchiava due o tre colpi sul pavimento.
Lina si era data un gran da fare per cercargli moglie; ei rispondeva invariabilmente: -
Oibò! stiamo benone così. Non mettiamo il diavolo in casa -. Il poveretto era così
persuaso d'appartenere a quella famigliuola, era così contento di quella tranquilla
esistenza, che avrebbe creduto di metter il fuoco all'appartamento, se avesse fatto un sol
passo al di fuori della falsariga sulla quale era uso a camminare, e sulla quale erano
regolate tutte le sue azioni, da perfetto impiegato. Ai suoi amici che gli consigliavano
di farsi una famiglia, rispondeva: - Ne ho una e mi basta -. E gli amici non ridevano.
Lina invece diceva che non bastava; pensava agli anni più maturi, alle infermità, alla
vecchiaia del suo amico, come avrebbe potuto farlo una madre.
Qualche volta prima di chiudere la finestra, sentendolo passeggiare tutto solo
nella camera soprastante, alzava gli occhi al soffitto e mormorava: - Povero giovane! -
L'isolamento di quella vita melanconica, scolorita, monotona, nell'età delle passioni e
dei piaceri, dava un certo risalto a quel carattere calmo e modesto, ingigantiva la figura
austera di quel solitario, esagerava l'idea del sacrificio, rendeva l'uomo simpatico, si
insinuava come una puntura in mezzo alla felicità di lei, così piena, così completa; le
faceva pensare, con un sentimento di dolcezza, alla parte di protezione, di affetto
fraterno e di conforto che ella poteva esercitarvi.
A voi, cercatori d'uncini!
A Catania la quaresima vien senza carnevale; ma in compenso c'è la festa di
Sant'Agata, - gran veglione di cui tutta la città è il teatro - nel quale le signore, ed
anche le pedine, hanno il diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d'intrigare amici e
conoscenti, e d'andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che
il marito abbia diritto di metterci la punta del naso. Questo si chiama il diritto di
'ntuppatedda, diritto il quale, checché ne dicano i cronisti, dovette esserci
lasciato dai Saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna dell'harem. Il
costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per
intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un
occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo. La sola
civetteria che il costume permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una
punta di sottana o di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere
insomma, tanto da lasciare indovinare il rimanente. Dalle quattro alle otto o alle nove di
sera la 'ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle
strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra
borsa e della vostra testa, se ne avete; è padrona di staccarvi dal braccio di un amico,
di farvi piantare in asso la moglie o l'amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi
interrompere gli affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di
menarvi pel naso da un capo all'altro della città, fra il mogio e il fatuo, ma in fondo
con cera parlante d'uomo che ha una paura maledetta di sembrar ridicolo; di farvi pestare
i piedi dalla folla, di farvi comperare, per amore di quel solo occhio che potete
scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò che lascereste volentieri dal
mercante, di rompervi la testa e le gambe - le 'ntuppatedde più delicate, più
fragili, sono instancabili, - di rendervi geloso, di rendervi innamorato, di rendervi
imbecille, e allorché siete rifinito, intontito, balordo, di piantarvi lì, sul
marciapiede della via, o alla porta del caffè, con un sorriso stentato di cuor contento
che fa pietà, e con un punto interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il
curioso e l'indispettito. Per dir tutta la verità, c'è sempre qualcuno che non è
lasciato così, né con quel viso; ma sono pochi gli eletti, mentre voi ve ne restate
colla vostra curiosità in corpo, nove volte su dieci, foste anche il marito della donna
che vi ha rimorchiato al suo braccio per quattro o cinque ore - il segreto della 'ntuppatedda
è sacro. Singolare usanza in un paese che ha la riputazione di possedere i mariti più
suscettibili di cristianità! È vero che è un'usanza che se ne va.
Ora accade che una volta, tre o quattro giorni prima della festa, Lina,
burlona com'era, parlando di 'ntuppatedde, dicesse a Donati:
- Stavolta, sapete, non vi consiglio di farvi vedere per le strade -.
Donati sapeva che Lina non s'era travestita mai da 'ntuppatedda, e
siccome era la sola sua amica da cui potesse aspettarsi una sorpresa, rispose facendo una
spallata:
- Poiché me la son passata liscia per otto anni!...
- Liscia o non liscia, a voi! Uomo avvisato uomo salvato -.
Ma Donati non cercava di salvarsi, anzi quel tal pericolo lo attraeva, senza
fargli sospettare il detto del Vangelo. Sarebbe stata una festa, una superba occasione di
fare alla Lina un bel regaluccio fingendo di non riconoscerla, di prendere il di sopra e
intrigarla invece di lasciarsi intrigare, di godersi l'imbarazzo di lei, far lo gnorri, e
riderne poi di gusto insieme a lei. Stette tutto il giorno almanaccandoci sopra, mentre
all'ufficio tirava linee rette e curve, passandosi la lezione a memoria, studiando le
botte e le risposte, facendo provvista di spirito a mente riposata. L'idea di condursi
sotto il braccio quella bella donnina, potendo fingere di non conoscerla, di trovarsi solo
con lei, in mezzo alla folla, di essere per un'ora il suo solo protettore, uno
sconosciuto, un uomo nuovo, avea qualcosa di clandestino che lo faceva ringalluzzire come
di una buona fortuna.
Ora ecco la coda del diavolo, quella benedetta coda che si diverte a mettere
sossopra tutte le buone intenzioni di cui è lastricato l'inferno, insinuandosi fra le
commessure di esse, scoprendo il rovescio dei migliori sentimenti, mettendo in luce
l'altro lato delle azioni più oneste, dei fatti che sembrano avere il motivo meno
indeterminato.
La notte che precedette il giorno della festa Donati fece un brutto sogno; ma
così vivo, così strano, così sorprendente, accompagnato da tale verità di circostanze,
che allorché fu sveglio rimase un bel pezzo incerto se fosse stato o no un brutto sogno,
e non poté chiudere occhio pel resto della notte. Sognò di trovarsi insieme a Lina, una
Lina che parevagli di non aver conosciuto mai, vestita da 'ntuppatedda, coll'occhio
nero e luccicante, la voce e le mani tremanti d'emozione, erano seduti ad un tavolino del
Caffè di Sicilia, dov'egli non soleva andar mai, stavano immobili, zitti, guardandosi. Ad
un tratto ella s'era lasciata scivolare il manto sulle spalle, fissandolo sempre con
quegli occhi indiavolati, rossa come non l'aveva mai vista, e afferrandogli il capo per le
tempie gli avea avventato in faccia un bacio caldo e febbrile.
Il povero Donati saltò alto un palmo sul letto, si svegliò con un gran
batticuore, e stette cinque minuti fregandosi gli occhi, ancora balordo. A poco a poco si
calmò, finì col ridere di se stesso, e non ci pensò più.
Il giorno dopo fece l'indiano; finse di non accorgersi di certi sorrisi
maliziosi della Lina, dell'aria affaccendata di lei, dell'insolito va e vieni che c'era
per casa. Disse che avrebbe passata la sera all'ufficio, per un lavoro straordinario, e
andò a piantarsi in sentinella sul marciapiede del Gabinetto di lettura.
Aspetta e aspetta, finalmente, verso le cinque, Lina comparve lesta lesta dai
Quattro Cantoni, un po' impacciata nel manto, ma impacciata con grazia; andò difilato
dov'egli trovavasi, come se l'avesse saputo, si cacciò in mezzo alla folla, e infilò
senz'altro il suo braccino sotto quello di lui. Donati l'avrebbe riconosciuta a questo
soltanto. Ella, spiritosa e chiacchierina, badava a stordirlo con un cicaleccio tutto
scoppiettio, ad inventargli mille frottole per intrigarlo, ad imbarazzarlo con quel po'
d'inglese e di francese che l'era rimasto del collegio, facendosi credere ora una signora
forestiera, ora una ragazza che avesse il diritto di cavargli gli occhi, ora una amica che
si fosse travestita per salvarlo da un gran pericolo, ora una lontana parente che si fosse
rammentata di lui per venirgli a chiedere la strenna di una catenella d'oro. Donati
fingeva di cascarci, se la rideva sotto i baffi, se la godeva mezzo mondo, si divertiva ad
intrigarla lui, alla sua volta, lasciandole supporre che avesse indovinato dei gran
segreti, permettendole di edificare cento storie che non esistevano, sul fantastico
addentellato che ella stessa gli avea offerto. Infine, quando la vide più curiosa, quando
le sorprese negli occhi il primo baleno di un sentimento nuovo, qualcosa fra la sorpresa e
la timidità di trovarsi con tutt'altro uomo, scoppiò a ridere, e con quella sua faceta
bonomia le disse: - Cara Lina, quando volete sorprendere il mio segreto, e farvi passare
per l'incognita che ha il diritto di cavarmi gli occhi, non dovete mettere quel
braccialetto lì, che me li cava davvero, tanto lo conosco! - Lina si mise a ridere anche
lei, sollevò un po' il manto, e disse: - Bravo! Ora che avete vinto, giacché siamo
davanti al Caffè di Sicilia, offritemi un sorbetto -. Ed entrarono.
Bizzarria del caso! andarono a mettersi proprio a quel medesimo tavolino che
Donati avea visto in sogno, l'uno di faccia all'altra, come nel sogno. Lina avea caldo e
si faceva vento col fazzoletto; lasciò scivolare il manto sulle spalle, e appoggiò il
gomito sul tavolino. Donati la vedeva fare senza aprir bocca.
Da alcuni minuti Donati mostravasi singolarmente imbarazzato; rispondeva
sconnesso, a sproposito, e finalmente le parole gli erano morte in bocca. Lina
chiacchierava per due, un po' rossa dal caldo, coll'occhio acceso dalla maschera, come nel
sogno. Finalmente si avvide del turbamento che Donati non sapeva padroneggiare, e ad una
risposta di lui più sbalestrata delle altre, dissegli: - O... cos'avete? -
Ei si fece rosso. Infine, davvero... che aveva? Era una cosa ridicola!
Possibile che quel sogno della notte lo avesse imbecillito per tutta la giornata! e si
stringeva nelle spalle ridendo ingenuamente di se stesso. - To'! - rispose, - ho che sono
un asino. Una sciocchezza! e se ve la nascondessi sarei sciocco due volte: ecco! - e le
raccontò il sogno quale s'era riprodotto punto per punto nella realtà, meno una
circostanza che tacque, ben inteso, o piuttosto tradusse ad usum delphini,
dicendole che ella nel sogno gli avesse confessato di amarlo - nientedimeno!
Donati rideva ancora, rideva di tutto cuore riandando per filo e per segno le
stramberie della notte, che raccontate diventavano più assurde; rideva dell'impressione
singolare che il ripetersi di talune circostanze del sogno avea fatto su di lui. Ella da
principio s'era fatta rossa; l'ascoltava in silenzio, col mento sulla mano, senza
guardarlo più, senza ridere più. Quando egli ebbe finito, abbozzò un pallido sorriso
per non lasciarlo senza risposta - non ne trovò una migliore - e s'alzò. Se ne andarono
in fretta, discorrendo a sbalzi, qualche volta cercando le parole.
Donati non era precisamente certo di non aver detto qualche corbelleria; ma
sentiva in nube che avrebbe dato una mesata del suo stipendio perché non avesse parlato,
ed anzi perché non avesse avuto di che parlare. La festa finì zitta zitta, e senza
allegria.
Tutti gli anni, il domani della festa, i tre amici solevano andare a desinare
in campagna. Stavolta Lina fu indisposta e non se ne fece nulla. Donati avrebbe voluto a
qualunque costo che quel giorno si fosse passato come tutti gli altri anni, perché avea
sempre sullo stomaco il sogno e il gran ciarlare che ne avea fatto, e avrebbe voluto
metterci sopra una buona pietra, col seguitare a far quello che avevano sempre fatto, e
non pensarci più. La sera però la passarono come di consueto, in famiglia. Lina comparve
un po' tardi, con un viso di donna che ha l'emicrania, ma calma e serena. Donati le
domandò come si sentisse. Ella gli piantò gli occhi in faccia, due occhi che gli fecero
l'effetto di due chiodi, e rispose secco secco: - Bene -.
Fu la prima sera passata freddamente. D'allora in poi ce ne furono parecchie
di simili. Lina agucchiava, Donati suonava o leggeva, e Corsi s'ingegnava di attaccare uno
scampolo di conversazione, alla quale la moglie rispondeva con monosillabi tenendo gli
occhi fitti sul lavoro, e Donati con una specie di grugnito senza lasciare il libro, né
il sigaro; persino Corsi, allegro per natura ed espansivo, diveniva anch'esso taciturno ed
uggito; spirava un'aria di musoneria in casa sua che agghiacciava tutto. Si lasciavano di
buon'ora, Lina porgeva appena la mano: qualche volta non compariva che un momento per dare
la buona notte.
Il povero Donati non sapeva darsi pace. Si sentiva colpevole, ma la colpa
maggiore era stata quella di esagerare il male che aveva fatto, colla sua aria di reo; e
chiamava in aiuto tutti i santi, perché gli dessero il coraggio di prendere una buona
volta la Lina a quattro occhi e dirle: - Orsù, infine, cos'avete? cosa è stato? cosa ho
fatto? - Ma quella domanda semplicissima diveniva la cosa più difficile di questo mondo.
Il nuovo contegno di lei, la sua riservatezza, la sua freddezza insolita, la rendevano
tutt'altra donna, una donna che gli chiudeva in bocca le perorazioni più eloquenti, e gli
legava la lingua e i movimenti.
Una di quelle sere, voltandosi all'improvviso, sorprese gli occhi di Lina,
fissi su di lui con tale espressione che gli fece rimescolare il sangue dai piedi alla
testa; era uno sguardo che non le avea mai visto, profondo, in cui brillava dell'amarezza,
una curiosità insolita, acre e pungente. Lina avvampò in viso e chinò il capo; ei non
osò più voltarsi per timore d'incontrare un'altra volta quegli occhi indiavolati.
Finalmente, una volta che Corsi non c'era, gli parve ad un tratto sentirsi
invadere dal coraggio che avea tanto invocato. Lina era immersa a capo fitto in quel che
stava leggendo, e non fiatava da un gran pezzo; ei si alzò, fece un passo verso di lei, e
balbettò:
- Lina! -
Ella si rizzò, spaventata da quella sola parola, pallida come un cencio e
tutta tremante. Donati rimase a bocca aperta e non seppe andare innanzi. Rimasero alcuni
istanti così. Ella si rimise per la prima; prese il ricamo che aveva accanto, ma le mani
le tremavano ancora talmente che l'ago punzecchiava stoffa. Egli si arrovellava dentro di
sé d'essere così grullo. - Cosa avete? - disse infine. - Siete in collera con me? Non mi
perdonerete mai? -
La donna alzò il capo, sgomenta, e lo guardò come esterrefatta. Chinò la
fronte di nuovo e balbettò con voce spenta e mal ferma alcune parole inintelligibili.
A poco a poco Donati diradò le sue visite. Corsi gli si mostrava sempre più
freddo. Quando i due antichi amici si trovavano insieme, provavano, senza saper perché,
un imbarazzo inesplicabile. La freddezza di entrambi si comunicava e si moltiplicava
dall'uno all'altro. Corsi avea tutto indovinato dal nuovo contegno della moglie e
dell'amico, oppure Lina gli avea tutto raccontato? L'ultima volta che Donati andò da lei,
pel suo onomastico, la trovò che era sola in casa. Lina si fece di bracia e represse a
stento un movimento di sorpresa. Donati non sapeva trovare il verso del pelo del suo
cappello, né le prime frasi di un discorso che andasse.
Ella stava sul canapè, in gran cerimonia, sì da far venire la voglia al
disgraziato visitatore d'andarsene dalla finestra. La visita durò dieci minuti. Mentre
scendeva le scale l'ex-Polluce mormorava con voce soffocata nella gola: - È finita! è
finita! -
D'allora in poi non ebbe più il coraggio di picchiare a quell'uscio. Veniva a
casa mogio mogio, il più tardi che poteva, guardando furtivamente quella finestra
rischiarata che gli rammentava le sere gioconde passate accanto al fuoco, col cuore e i
piedi caldi, e affrettava il passo sul ripiano della scala. Giammai le sue modeste
stanzucce non gli erano sembrate più silenziose, più fredde, e più melanconiche; adesso
il povero romito ci stava il meno che potesse. Stando fuori, fece come aveva fatto Corsi,
conobbe un'altra Lina.
Venuto il settembre, Corsi avea sloggiato senza nemmen dirgli addio, e non
s'erano più visti. Lina era stata inferma, e gravemente: Donati l'aveva saputo molto
tempo dopo. Gli avevano detto che la malattia l'avea cambiata di molto; ei ci aveva
pensato spesso, avea avuto spesso dinanzi agli occhi quel profilo delicato e pallido, e
quegli occhi febbrili, come una trafitta, come un rimorso; ma non avrebbe immaginato mai
l'impressione che dovevano fare su di lui quel viso e quell'occhiata furtiva la prima
volta che, andando colla sua fidanzata, incontrò Lina. - Ella s'era voltata a guardarlo
di nascosto, come si guarda un mostro o un malfattore.
Intanto era trascorso l'anno, ed era sopravvenuta la festa di Sant'Agata.
Donati doveva sposare da lì a poco. Egli aspettava in mezzo alla folla una 'ntuppatedda
che quasi gli aveva promesso di farsi vedere un momento quando si sentì afferrare
all'improvviso pel braccio. Gettò una rapida occhiata sulla donna mascherata, ma la sua
fidanzata era più piccola di statura e non aveva quell'occhio nero così sfavillante. Ei
sentì che il cuore dava un tuffo; non seppe cosa dire, e si lasciò rimorchiare dentro il
caffè.
La sua compagna cercò un tavolino appartato e sedette di faccia a lui;
sembrava stanca e commossa fuor di modo. Ei la considerava ansiosamente. - Lina! -
esclamò infine.
- Ah! - diss'ella con un riso che voleva dir tante cose; e appoggiò la fronte
incappucciata sulla mano.
Donati balbettava parole senza senso.
- Vi sorprende vedermi qui? - domandò Lina dopo un lungo silenzio.
- Voi?
- Vi sorprende? -
Donati chinò il capo. Ella lasciò scivolare il manto sulle spalle, e
mormorò: - Vedete!
- Mio Dio! - esclamò Donati.
- Vi faccio pietà? Oh, almeno! Ma non è colpa vostra, no!... Ho avuto sempre
una salute cagionevole. State tranquillo dunque... Non vorrei avvelenare la vostra luna di
miele.
- Oh, cosa dite mai!... Se sapeste... se sapeste quanto ho sofferto!...
- Voi?
- Sì!... e quanto mi sono pentito!...
- Ah! vi siete pentito!
- Non so darmi pace!... Non so comprendere io stesso perché... cosa sia
avvenuto per...
- Non lo sapete?
- No, per l'anima mia!
- È accaduto... che vi ho amato.
- Voi! voi! -
Ella si fece ancora più pallida; si rizzò in piedi quasi fosse spinta da una
molla, e gli disse con voce sorda:
- Perché mi avete raccontato quel sogno dunque? -
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