da "Primavera e altri racconti" (1877)
X
Quella fatale tendenza verso l'ignoto che c'è nel cuore umano, e si rivela
nelle grandi come nelle piccole cose, nella sete di scienza come nella curiosità del
bambino, è uno dei principali caratteri dell'amore, direi la principale attrattiva:
triste attrattiva, gravida di noie o di lagrime - e di cui la triste scienza inaridisce il
cuore anzi tempo. Cotesto amore dunque che ha ispirato tanti capolavori, e che riempie per
metà gli ergastoli e gli ospedali, non avrebbe in sé tutte le condizioni di essere, che
a patto di servire come mezzo transitorio di fini assai più elevati - o assai più
modesti, secondo il punto di vista - e non verrebbe che l'ultimo nella scala dei
sentimenti? La ragione della sua caducità starebbe nella sua essenza più intima? e il
terribile dissolvente che c'è nella sazietà, o nel matrimonio, dipenderebbe
dall'insensato soddisfacimento d'una pericolosa curiosità? La colpa più grave del
fanciullo-uomo sarebbe la pazza avidità del desiderio che gli fa frugare colle carezze e
coi baci il congegno nascosto del giocattolo-donna, il quale ieri ancora, gli faceva
tremare il cuore in petto come foglia?
All'ultimo veglione della Scala, in mezzo a quel turbine d'allegria frenetica,
avevo incontrato una donna mascherata, della quale non avevo visto il viso, di cui non
conoscevo il nome, che non avrei forse riveduta mai più, e che mi fece battere il cuore
quando i suoi sguardi s'incontrarono nei miei, e mi fece passare una notte insonne, col
suo sorriso sempre dinanzi agli occhi, e negli orecchi il fruscìo del raso del suo
dominò.
Ella appoggiavasi al braccio di un bel giovanotto, era circondata dagli
eleganti del Circolo, adulata, corteggiata, portata in trionfo; era svelta, elegante, un
po' magrolina, avea due graziose fossette agli òmeri, le braccia delicate, il mento
roseo, gli occhi neri e lucenti, il collo eburneo, un po' troppo lungo ed esile,
ombreggiato da vaghe sfumature, là dove folleggiavano certi ricciolini ribelli; il suo
sorriso era affascinante; vestiva tutta di bianco, con una gala di nastro color di rosa al
cappuccio, e faceva strisciare sul tappeto il lembo della veste, come una regina avrebbe
fatto col suo manto. Tutto ciò insieme a quel pezzettino di raso nero che le celava il
viso, ricamato da tutti i punti interrogativi della curiosità, dove brillavano i suoi
occhi, e dietro al quale l'immaginazione avrebbe potuto vedere tutte le bellezze della
donna, e porla su tutti i gradini della scala sociale. Ella imponeva l'ingenuità, la
grazia, il pudore di una fanciulla da collegio in mezzo ad un crocchio di uomini, fra i
quali una signora per bene non sarebbesi avventurata neppure in maschera.
Era seduta colle spalle rivolte alla sala accanto al suo giovanotto, e gli
parlava come parlano le donne innamorate, divorandolo cogli occhi, e facendogli indovinare
i vaghi rossori che scorrevano sotto la sua maschera, e i sorrisi affascinanti; gli posava
la mano sulla spalla, e l'accarezzava col ventaglio; sembrava che si facesse promettere
qualche cosa, con una insistenza affettuosa e carezzevole.
Io avrei dato qualunque cosa per essere al posto di quel giovanotto, il quale
sembrava mediocremente lusingato di quella preferenza; avrei voluto indovinare tutto ciò
che non potevo udire, tutto ciò che si agitava nel cuore di lei; avrei voluto penetrare
attraverso la seta di quella maschera; l'incognito di quel viso, di quella persona, e di
quel modesto romanzetto sbocciato al gas della Scala aveva mille attrattive per un
osservatore. La mia simpatia, o la mia curiosità, avrà dovuto penetrarla come corrente
elettrica; perché si volse a guardarmi due o tre volte, con quei suoi occhioni neri; poi
si alzò, prese il braccio del suo compagno e si allontanò.
Sembrommi che all'allegria di quella festa fosse succeduta una inesplicabile
musoneria, che mi mancasse qualche cosa; la cercavo con un'avida speranza di rivederla,
quasi cotesta sconosciuta fosse diggià qualche cosa per me.
Sul tardi ci trovammo di nuovo faccia a faccia accanto alla porta, mentre ella
usciva dalla sala ed io vi rientravo. Rimanemmo immobili, guardandoci fissamente a lungo,
come due che si conoscono, quasi anch'io, dopo averla guardata tre o quattro volte durante
la sera, fossi diventato qualche cosa per lei, il cuore mi batteva e sentivo che doveva
battere anche a lei; sembravami che entrambi bevessimo qualche cosa l'uno negli occhi
dell'altra; assaporavo il suo sorriso assai prima che le sue labbra si schiudessero: ella
mi sorrise infatti - un getto di buonumore e di simpatia che diceva: «So che ti piaccio,
e anche tu mi piaci!». La parola più affettuosa, la lingua più dolce del mondo, non
avrebbero potuto riprodurre l'eloquenza di quel sorriso; il pensatore più eminente, o
l'uomo di mondo più spensierato, non avrebbe potuto analizzare quel sentimento che
irrompeva improvviso in un'occhiata, fra due persone che s'incontravano in mezzo alla
folla, come due viaggiatori che partono per opposte direzioni s'incontrano in una
stazione, l'una accanto ad uomo che amava forse ancora, l'altro che avea visto il braccio
di lei sull'òmero di quell'uomo. Due o tre volte ella si rivolse a guardarmi collo stesso
sorriso, ed io la seguii, senza sapere io stesso dietro a quale lusinga corressi. La folla
me la fece perdere di vista; la cercai inutilmente nel ridotto, pei corridoi, nel caffè,
in platea, da Canetta, in quei palchi che potei passare in rassegna, dappertutto.
Avevo la febbre di uno strano desiderio; divoravo cogli occhi tutti i dominò
bianchi, tutte le vesti che avessero ondulazioni graziose. A un tratto me la vidi
improvvisamente dinanzi, o piuttosto incontrai il suo sguardo che mi cercava. Io dava il
braccio ad una donna che rivedevo quella sera dopo lungo tempo. Nello sguardo
dell'incognita c'era una muta interrogazione; ella mi sorrise di nuovo; non potei far
altro che mandarle un saluto mentre mi passava accanto; ella si voltò vivamente, mi
lanciò a bruciapelo uno sguardo ed un sorriso e ripeté: - Addio! - Non dimenticherò mai
più quella voce e quell'accento!
Non la vidi più. Rimasi a digerire il mio dispetto e il cicaleccio della mia
compagna. Sognai tutta la notte, senza chiudere gli occhi, quel viso che non conoscevo;
sentivami in cuore un solco luminoso lasciatovi da quello sguardo; l'impossibilità di
rintracciarla dava all'apparizione di quella sconosciuta un prestigio di cosa
straordinaria; nel sorriso di lei io poteva immaginare un poema d'amore, che riceveva
tutto l'interesse dall'essere troncato sul fiore e per sempre. Per sempre! non è
parola che scuote maggiormente l'animo umano? Io prolungai quel sogno per tutto il giorno.
Sembravami che ci fosse qualche cosa di nuovo in me, e che avessi ricevuto il sacramento
di una perdita immensa. Quando la mia immaginazione si stancò di vagare nelle azzurre
immensità dell'ignoto, per una reazione naturale del pensiero, io guardai con sorpresa
nel mio cuore, e domandai a me stesso, se mi fossi innamorato di quel pezzettino di raso
nero che nascondeva un viso sconosciuto.
Lo sguardo di quell'incognita mi aveva messo il cuore in sussulto mentre davo
il braccio ad un'altra donna che un tempo avevo amato come un pazzo, e che in quel momento
istesso si esponeva al più grave pericolo per me. Io maledivo l'ostinazione di cotesto
affetto che mi impediva di correre dietro alla sconosciuta con tutto l'egoismo che c'è in
un altro amore.
Per due o tre giorni cercai ansiosamente quell'amante che non conoscevo, e
sentivo che il rivederla mi avrebbe tolto qualche cosa di Lei. La rividi in Galleria, la
riconobbi a quello sguardo e a quel sorriso che mi dicevano: «Son io, mi ravvisi?». Mi
sentivo spinto fatalmente verso di lei, e venti volte fui sul punto di prenderle la mano
al cospetto delle persone che l'accompagnavano.
In piazza della Scala si rivolse due o tre volte per vedere se la seguissi. Le
vaghe incertezze, le gioie tumultuose, i febbrili desideri dell'amore a vent'anni mi
inondarono il cuore in una volta: l'ondeggiare della sua veste sembravami avesse qualche
cosa di carezzevole; il suo paltoncino bianco, e il fazzoletto che pel freddo si teneva
sul viso, avevano irradiazioni luminose. Io non saprei ridire l'emozione che provai al
pensiero di poterle dare il braccio, o di poter toccare un lembo di quel fazzoletto. Ad un
tratto ella attraversò la via, insieme alla sua compagna, e seguìta dalla sua scorta di
parenti, camminando sulla punta dei piedi e rialzando il lembo del suo vestito, venne a
mettersi al mio fianco. Mi guardò in viso, come se aspettasse qualche cosa da me. Io
sentii un dolore acuto, e volsi le spalle.
La rividi ancora parecchie volte, e gli occhi di lei mi domandavano: -
Cos'hai? - io non osavo dirle: - Non mi piaci più -. Ella si stancò di sollecitare i
miei sguardi, e quando mi incontrò volse altrove il capo. Una sera, sotto il portico
della Scala, sentii afferrarmi la mano da una mano tremante che vi lasciò un bigliettino
microscopico. Mi rivolsi vivamente: non vidi che visi sconosciuti, e un po' più lungi la
mia incognita che si allontanava senza guardarmi; sebbene fosse passata così lontano,
sebbene da qualche tempo distogliesse da me lo sguardo con indifferenza, tutte le volte
che mi incontrava, il mio pensiero corse a lei senza esitare un momento, nello stesso
tempo che per una strana contraddizione tacciavo di follia il mio presentimento.
Una sola parola riempiva tutto il biglietto: «Seguitemi». Chi? dove?
perché? Coteste interrogazioni diedero colori di fuoco a quella semplice parola; il
mistero che vi era racchiuso si rannodava, con logica irresistibile, a quell'incognita, e
le ridava tutta quella vaga e indefinibile attrattiva che il vedermela al fianco, sotto il
fanale a gas, avea fatto svanire in un lampo; il dubbio d'ingannarmi mi mise addosso mille
impazienze. Ella non sembrava nemmeno accorgersi di me - io la seguii. Quando la porta
della sua casa mi si chiuse in faccia rimasi in mezzo alla strada, senza avere la forza di
andarmene, coi piedi nella neve, tutte le finestre della via che mi guardavano, e i
questurini che venivano a passarmi vicino. Dalle undici alle due del mattino io non ebbi
un momento di esitazione o di stanchezza; non dubitai un istante. Udii aprire pian piano
la porta, e vidi nell'ombra dell'arcata una forma bianca. Ella tremava come una foglia
quando le toccai la mano; sembrava che avesse la febbre; mi disse con voce strozzata dalla
commozione: - Che avete? che vi ho fatto? ditemelo - come se ci conoscessimo da dieci
anni.
Certe situazioni, certe parole, certe inflessioni di voce hanno significazioni
evidenti, irresistibili; la giovinetta che avevo incontrata al veglione, in mezzo ad
uomini che portavano in trionfo Cora Pearl, e la quale mi gettava le braccia al collo nel
buio di una scala, dava la più luminosa prova di candore coll'espansione della sua
simpatia: sentimento strano che non sapevo spiegare, e di cui non osavo chiederle ragione.
Nella sua fiducia c'era tanta innocenza che avrei voluto rubarle gli orecchini per
insegnarle a diffidare degli uomini. Sentivo fra le mie le sue povere mani tremanti, e le
sue parole sommesse sembrava che mi sfiorassero il viso come un bacio. Certi sentimenti
inesplicabili hanno un fondamento essenzialmente materiale; tutto l'incanto di quell'ora
di paradiso stava nel buio di quella scala. Sembravami che le larve dell'ideale avessero
preso corpo e mi stringessero le mani: - Io ti son piaciuta senza che tu mi avessi vista
in viso, - ella mi disse. - Ecco perché ti amo - e non mi domandò nemmeno come mi
chiamassi.
Ella si fece promettere che sarei tornato a vederla la notte seguente. Ahimè!
insensata promessa che rimpiccioliva il desiderio nelle meschine proporzioni di un volgare
appuntamento. Noi avremmo dovuto inventare tutti gli ostacoli che mancavano alla nostra
felicità, o non rivederci mai più. La notte seguente tornai da lei con un sentimento
penoso, come se avessi perduto qualche cosa.
La rividi nel suo salottino, raggiante di bellezza, ed il cuore mi si dilatò
di gioia, quasi le prime sensazioni della sciagura fossero piacevoli; contemplavo
avidamente quelle leggiadre sembianze che s'imporporavano per me, e in mezzo alla festa
del mio cuore sentivo insinuarsi un vago turbamento - il mio ideale svaniva; tutto quello
che c'era in quella bellezza veramente incantevole era tolto ai miei sogni; sembravami che
il mio pensiero si fosse impoverito trovandosi costretto nei limiti della realtà. - Che
hai? - mi disse. - Nulla, - risposi, - c'è troppa luce qui -. Ella, povera ragazza,
moderò la fiamma della lucerna. Non si avvedeva del turbamento che c'era in me, e non
avea paura della funesta avidità con la quale i miei occhi la divoravano. Parlava
sorridente, giuliva, come un uccelletto innamorato canta su di un ramoscello; mi raccontò
la sua storia, una di quelle storie che l'angelo custode ascolta sorridendo. Aveva amato
il cugino con cui l'avevo vista al veglione, era venuta colla zia da Lecco per lui, e il
cugino, in capo a due o tre giorni di esitazione, le avea fatto capire bellamente che non
l'amava più. Allora, dopo le prime lagrime, ella avea pensato a quello sconosciuto che al
veglione della Scala l'avea guardata in quel modo. - Io ti ho letto negli occhi che ti
piacevo, - mi disse, - e ti sorrisi perché ciò mi rendeva tutta lieta; in quel momento
avevo un gran dolore in cuore. Se mio cugino avesse seguitato ad amarmi, io non te lo
avrei mai detto, ma ti avrei sempre voluto bene come ad un fratello. Ora che mio cugino
non vuol saperne più di me... ebbene, anch'io voglio amare chi più mi piace! - Tossiva
di quanto in quanto, le guance le si imporporavano, e gli occhi le si facevano umidi. -
Non mi dire che mi sposerai, se vuoi lasciarmi come quell'altro... Sono stata tanto
malata! - Addio! - le dissi. - Tornerai domani? La zia va dalle mie cugine, non aver
paura; tornerai? - Addio -.
Non la vidi più. Sentii che mi sarei trovato umile e basso dinanzi alla
fiducia e all'entusiasmo di quell'amore che non dividevo più. E sentivo del pari di aver
perduto irremissibilmente un tesoro.
In novembre ricevetti una lettera listata di nero; era lo stesso carattere che
aveva scritto seguitemi; le mani mi tremavano prima d'aprirla: Se volete
ripetere l'addio che deste ad una mascherina all'ultimo veglione della Scala,
scrivevami, recatevi al Cimitero fra una settimana, e cercate della croce sulla quale
sarà scritto X.
Quella lettera, per un caso che farebbe credere alla fatalità, s'era smarrita
alla posta, e mi pervenne con qualche giorno di ritardo. Io volai a quella casa che non
avevo più riveduta; scorgendo le persiane chiuse, il cuore mi si strinse dolorosamente.
Corsi al Cimitero, senza osare di credere al presagio funesto di quella lettera; al primo
viale che infilai, quasi il destino si fosse incaricato di guidare i miei passi, alla
prima terra smossa di fresco, su di una croce di ferro, lessi quel segno che ella avea
desiderato sulla tomba, triste geroglifico del suo amore; e lì, coi ginocchi nella
polvere, mi parve di guardare in un immenso buio, tutto riempito dalla figura della mia
incognita, dal suo sorriso, dal suono della sua voce, delle parole che mi ha dette, dai
luoghi dove l'avevo vista. Sentii un gran freddo.
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