Gli Sbagli di Vostro Onore, di Luigi GrandeLiber Liber

Copertina | Indice | Introduzione | Parte 01 | Parte 02 | Parte 03 | Parte 04 | Note

Introduzione

E ORA? Ora che gli italiani hanno risposto con un bel "sì" al referendum sulla "giustizia più giusta" che c'è da fare? Quale via imboccare per risolvere legislativamente questo serio problema della "responsabilità civile" del giudice, il problema cioè se il giudice debba - e come e in quale momento - pagare di tasca propria gli eventuali suoi sbagli?

Ripercorriamo rapidamente la vicenda politica che ha portato gli elettori italiani alla consultazione referendaria.

L'idea che si potesse raggiungere il traguardo di una giustizia non tanto più efficiente quanto più responsabilizzata (la lagnanza nasceva soprattutto dalla frequenza di mandati di cattura e dalla lunghezza della carcerazione preventiva) nacque dapprima in seno al partito radicale e rapidamente... come una specie di psicosi, si estese al partito socialista. Che aveva, in quel momento - è bene ricordarselo - il suo massimo rappresentante al vertice del governo.

Si formò così un gruppo di deputati e rappresentanti dei partiti socialista, liberale, socialdemocratico e radicale che formularono i tre quesiti referendari tendenti a ottenere, mediante l'abrogazione di alcuni disposti di legge, una giustizia più giusta (come si disse con lo slogan adottato).

Il comitato promotore che il 13 marzo 1986 depositò presso la cancelleria della Corte di cassazione la proposizione dei referendum in questione era composto da (in ordine alfabetico): Aglietta, Andò, Baccianini, Biondi, Calderisi, Ciocia, Covatta, Fabbrica, Formica, Manzolini, Marconi Pio, Marianetti, Martelli, Morelli, Negri, Palumbo, Patuelli, Rutelli, Spadaccia, Stanzani, Teodori, Tiraboschi e Valitutti.

La giustizia, se veramente fosse attuata, non dovrebbe avere attributi. Ma come negare il "colpo" arrecato dalla proposizione dei tre referendum per una "giustizia più giusta"?

Ma chi non la vorrebbe? Si è detto ogni onesto cittadino (e anche qualche disonesto che sia incappato nei rigori della legge), ognuno insomma che vive in questo Paese in cui la fame e la sete di giustizia - ne parlò persino Cristo Gesù nel Discorso della Montagna - sono tutt'altro che soddisfatte.

Ecco le domande a cui l'elettore italiano (nella primitiva impostazione, che è stata poi modificata dall'intervento della Corte costituzionale, che ha soppresso una delle tre domande) avrebbe dovuto rispondere con un sì o con un no.

Volete voi l'abrogazione degli articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940 n. 1443?

Che dicono questi articoli? Il 55 dispone che il giudice risponde civilmente (cioè può essere chiamato a pagare con il proprio patrimonio il torto subito da qualcuno) soltanto nel caso di comportamenti dolosi oppure allorché, senza un giusto motivo e nonostante diffida, non compia un atto del proprio ministero. Il 56 prevede che la causa contro un giudice per essere risarciti del danno, nei casi suddetti, può essere fatta solo con autorizzazione del ministro di grazia e giustizia. Il 74 estende queste disposizioni ai magistrati del pubblico ministero.

In sostanza il referendum ha preso di mira il limitativo "soltanto" sì da esporre il giudice alla domanda di risarcimento del danno da parte di un privato anche in caso di colpa e cioè di imperizia, imprudenza e negligenza.

Ed ecco la seconda domanda: Volete voi l'abrogazione degli articoli 25, 26 e 27 della legge 24 marzo 1958 n. 195 recante "Norme sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura" come risultanti dalle successive modificazioni e integrazioni della legge stessa?

È questo il secondo quesito referendario, a cui la Corte costituzionale non diede "ingresso", ma di cui sembra opportuno fare ugualmente un cenno, per avere una più chiara idea dell'impostazione "globale" data dai promotori dei referendum.

Gli articoli relativi al Consiglio superiore della magistratura, che si tendeva a spazzare via con il referendum, riguardano il metodo per eleggere i componenti magistrati del predetto Consiglio.

La Costituzione, all'art. 104, prevede che due terzi dei componenti di tale organo di autogoverno dei giudici, siano eletti "da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie" e che il restante terzo venga eletto dal Parlamento in seduta comune. Non spiaccia questo richiamo, tenuto conto che queste pagine sono dirette principalmente ai non "addetti ai lavori", all'uomo comune che è stato chiamato a decidere su questioni un po' "specialistiche".

Come si facevano e si fanno queste elezioni di due terzi dei componenti del Consiglio da parte dei magistrati in base alla legge del 1958, ritoccata, come si dovrebbe precisare, nel 1965? Con il metodo proporzionale. Cioè alla stessa maniera come eleggiamo i deputati e i consiglieri regionali, provinciali e comunali. E precisamente: Tot votanti sta a Tot seggi come il numero di voti riportati da una lista sta a X seggi che spettano a quella lista. A differenza, poi, delle elezioni politiche che prevedono divisioni territoriali, per esempio collegio Milano-Pavia, collegio Cremona-Mantova ecc., i componenti del Consiglio vanno eletti, dice la legge in questione, in collegio unico nazionale e sulla base di liste concorrenti.

Gli articoli 26 e 27 dispongono sui dettagli: convocazione delle elezioni, uffici elettorali, spoglio delle schede e, infine, assegnazione dei seggi. Importante la disposizione secondo cui le liste che abbiano riportato un numero di voti validi inferiori al 6% dei votanti vengono escluse.

E veniamo alla terza e ultima domanda: Volete voi l'abrogazione degli articoli l, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8 della legge 10 maggio 1978 n. 170 recante "Nuove norme sui procedimenti di accusa di cui alla legge 25 gennaio 1962 n. 20"?

Si potrebbe pensare - e il non specialista di leggi certamente lo ha pensato - che con questo referendum ci si poteva sbarazzare della commissione inquirente e di quella specie di giustizia "politica", in base alla quale un ministro poteva essere innocente o colpevole secondo che appartenesse a uno schieramento di maggioranza o di minoranza e non secondo che esistessero o meno elementi di colpevolezza a suo carico. Niente di tutto questo.

La commissione inquirente trova fondamento in una legge costituzionale[1] e svolge le funzioni che svolge il pubblico ministero (o pubblica accusa che dir si volesse) nei processi contro i comuni mortali, allorché c'è da mettere sotto accusa un ministro per un reato commesso nell'esercizio delle sue funzioni o, addirittura, il presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione.

Con il referendum si mirava a mutare i suoi poteri derivanti dalla legge ordinaria: quello di archiviare le accuse, di ordinare l'arresto degli accusati, di decidere se le sedute debbano essere segrete o pubbliche, di dichiarare la propria incompetenza. Non quelli derivanti dalla legge costituzionale, la n. 1 del 1953. Cioè, in pratica, la "sostanza" della commissione non è stata toccata dal referendum.

E allora? Molto rumore per nulla, dobbiamo dire con Shakespeare? E una materia così specialistica, come quella della messa in stato d'accusa dei ministri, così come, d'altronde, quella sul come eleggere il Consiglio superiore della magistratura e quella sull'ampiezza della responsabilità del giudice si prestavano a essere risolte con un sì o con un no? Non è questo luogo adatto per riesumare polemiche. Ma non sembrava che si volesse dire agli elettori, «Volete una giustizia più giusta?», «Allora votate tre "sì" su questa scheda dove ci sono scritte cose complicate che a voi non interessano e non c'è bisogno di lambiccarvi troppo il cervello ma lasciate fare a noi». E l'essenza della democrazia?

Il referendum è un efficacissimo strumento di democrazia "diretta", cioè un caso in cui il cittadino-elettore interviene direttamente con la sua volontà. In certi paesi, per esempio in Svizzera, il referendum è anche introduttivo. Il potere politico interpella gli elettori «La facciamo o non la facciamo una legge cosi e cosà?». Da noi invece è soltanto abrogativo: il Parlamento vara una legge e l'elettorato è chiamato a dire se gli sta bene o non gli sta bene. Sì, se la legge deve essere tolta di mezzo; no, se deve restare. Che complicazione, a suo tempo (chi non se lo ricorda?), per spiegare alla gente semplice, che è il grosso, non dimentichiamolo, dell'elettorato, che bisognava votare "sì" se "non" si voleva il divorzio e "no" se invece lo si voleva!

A ben guardare, il referendum è un mezzo di controllo su chi esercita il potere da parte di chi vi è sottoposto. Di solito sono minoranze che lo promuovono, quando la maggioranza ha preso una certa decisione e si vuole accertare se la maggioranza dell'elettorato sia o meno sulla stessa linea: l'introduzione del divorzio, la legalizzazione dell'aborto, il finanziamento pubblico dei partiti. Questo, quando la legge è di recente...conio. Se invece si tratta di una legge vecchia o vecchissima e il Parlamento non si dà pena di modificarla o aggiornarla, ecco allora il referendum cosiddetto di stimolo. Per evitare che si giunga al referendum (che è sempre una bella spesa per le finanze pubbliche) il Parlamento è come sollecitato ad approvare una nuova legge. Così avvenne per la vecchia legge sui manicomi (era del 1905) e ne venne fuori la frettolosa legge sulle malattie mentali, la cui positività di sostanza nessuno si sente di discutere, ma che ha i suoi bravi lati negativi.

I tre referendum sulla "giustizia più giusta" avevano tutta l'aria di iniziative di stimolo, cioè sembravano tendere, più che altro, a sollecitare il Parlamento ad affrontare e risolvere questi problemi. Avevano poi la caratteristica di non provenire dall'opposizione, perché, se si eccettua il partito radicale, gli altri tre partiti cui appartengono i promotori (i cui nomi, per non offendere nessuno, ho elencato in ordine alfabetico come per gli artisti di uno spettacolo) facevano parte della maggioranza pentapartitica. E che? Non se lo potevano preparare un progettino di legge questi uomini che siedono in Parlamento e di cui alcuni hanno un "peso" politico non indifferente (guardare nell'elenco sopra riportato particolarmente alle lettere F e M)?

La questione destò stupore e sollevò critiche. Per difendere da queste i promotori del referendum si levò una voce autorevole, quella dell'allora sottosegretario alla presidenza del consiglio e oggi vicepresidente, Giuliano Amato che, in un articolo sull'Avanti! del 23 marzo 1986, scrisse pressappoco: ma scusate, perché non dovrebbero dei parlamentari che fanno parte della maggioranza poter proporre un referendum abrogativo? Hanno giocato la carta del contropotere, ma il contropotere è l'elettorato che lo esercita in ultima analisi.

Sugli scogli di questi referendum sulla giustizia e di quelli sull'energia nucleare - scogli resi minacciosi dai marosi suscitati dal problema della cosiddetta "staffetta" - il pentapartito non poteva che naufragare. Donde le elezioni anticipate e i recenti referendum, che hanno portato all'abrogazione dei sopra citati articoli del codice di procedura civile e degli articoli relativi alla legge sulla commissione inquirente. Si è creato così un "vuoto" legislativo che occorre al più presto riempire. Centoventi giorni è il lasso di tempo concesso.

Pur avendo avanzato e avanzando ancora riserve "giuridiche" (non politiche) sui referendum relativi alla giustizia, non mi sento di negarne l'effetto tutto sommato benefico. Questa iniziativa referendaria ha dato e darà ancora agio di parlare dei mali della giustizia, che son tanti, antichi e complessi. E non soltanto fra specialisti, ma a livello del comunissimo "uomo della strada" che non sa nulla o ben poco di leggi. È a lui che io dirigo queste mie pagine per dirgli: «Mentre cerchiamo di vedere quale sia la migliore soluzione per il problema della responsabilità del giudice, vogliamo vederci chiaro su che cosa è che non va nel settore della giustizia italiana?».

E mi prefiggo di affrontare i vari problemi "insieme" al lettore, ragionando, in un certo senso, con lui, quasi in un affabile colloquio, quanto più possibile privo di termini tecnico-giuridici e di parole del gergo politichese-forense.

 
<<< indietro avanti >>>