Diritto all'ozio


ESIODO E LE MUSE

 

Di tanto in tanto sul Parnaso e sull'Elicona spira un vento allarmistico: «Siamo in crisi, siamo in crisi». Né mancano le recriminazioni fra le nove sorelle e Apollo stesso: - Ma chi te l'ha fatto fare di infondere il furor poetico nella zucca di quel tale? - E tu cosa speravi di trarne da quello sciocco? - Hai visto in che stato è la poesia lirica? - E quella epica? - E quella drammatica?

Scene di questo genere oggi sono all'ordine del giorno, ma anticamente succedevano di rado.

Un allarme grave si ebbe quando, alla morte di Omero, una frotta intera di... come dire? Di mandolinisti si misero a fare i poeti epici. Ne vennero fuori i cosiddetti poemi ciclici e non occorrono certo i sapientoni moderni per statuire circa la decadenza della poesia greca, perché se ne accorsero già gli antichi, che a quei barbosissimi poemi resero presto giustizia, facendosene lacci per i calzari, se scritti su pergamena, e strame per le mucche se scritti su papiri. Un bel giorno, dunque, le nove sorelle, dopo aver litigato ben bene, si proposero di cercarlo tutt'e nove insieme un nuovo poeta e, se anche quello faceva cilecca, allora bisognava portare la faccenda in Olimpo (in Parlamento per dirla in termini moderni) per una discussione generale sull'argomento, ponendo eventualmente anche la questione della fiducia al governo della repubblica delle lettere.

Le nove figlie di Giove si misero quindi in cammino e caso volle che si imbattessero in un pastorello, che aveva spinto il suo gregge sulle pendici dell'Elicona. Egli suonava la zampogna e le note dolcissime che sapeva far sprigionare da quell'umile strumento colpirono le Muse, che decisero di apparirgli in tutto il loro splendore divino e di parlargli.

Il fanciullo, che si chiamava Esiodo, scossosi dal primo sgomento e caduto in ginocchio chiese:

- Che vuole il Cielo da me, umile pastore di Beozia?

- Farti poeta - risposero le Muse - trarre la grandezza dall'umiltà.

- Poeta? E di che canterò io? - replicò Esiodo.

Le Muse pensarono un po', si guardarono fra loro, poi Polimnia, che aveva il cervello un po' meno circoscritto ad una sola cosa che non le sue sorelle, ebbe un'idea:

 - Canterai del lavoro - disse - L'ozio è degli immortali, il lavoro degli uomini. Parla dunque agli uomini di ciò che spetta loro. Del resto voi greci non avete in odio il lavoro manuale. Che sta a significare il mito di Dedalo? Che anche gli artigiani, i costruttori e gli inventori possono attingere la fama e la grandezza.

- Ma - obiettò il fanciullo - nel nostro primo e più grande poeta, Omero, i grandi e gli eroi aborriscono dal lavoro.

L'obiezione era tutt'altro che infondata. Ma qui prese la parola Erato, abituata a dire e ispirare menzogne nelle poesie amorose, facile ad improvvisare e sempre pronta a metter su un discorsetto zeppo di bugie:

- Ti sbagli. Se gli artigiani fossero schiavi o pressoché tali, se il lavoro manuale fosse vergogna, Omero non si sognerebbe di nominare i costruttori delle armi e dei palazzi dei suoi eroi. E vulcano che fa? Non lavora forse? E Ulisse non si era costruito il letto con le sue mani? La poesia ha bisogno di rinnovarsi per non morire. Basta con gli eroi e le battaglie. Altri argomenti devono essere chiamati a vivere nell'eternità del canto. Spetta a te far poesia della fatica, del sudore che gli uomini versano per strappare alla terra molto spesso improba, sterile, come la tua arida regione, il sostentamento della loro grama esistenza. Sì, fanciullo, il lavoro è il retaggio degli uomini, da quando essi perdettero, per volere degli dei, il segreto della vita facile, che conducevano all'età beata in cui la terra dava spontaneamente i suoi frutti. Piegarsi alla fatica per poter vivere è la condizione cui è sottoposta la quinta stirpe degli uomini, quella succeduta all'età dell'oro, dell'argento, del bronzo e degli eroi.

- Oh come - interrompe lamentandosi il fanciullo - avrei voluto non appartenere a questa età, o morendo prima o venendo più tardi alla luce (bell'affare avrebbe fatto, pensiamo noi moderni) poiché questa è la stirpe di ferro!

E di questa esclamazione Esiodo serbò precisa memoria, tanto che la inserì paro paro nel poema «Le opere e i giorni».

- Il lavoro - intervenne a questo punto Euterpe - è fatica, sofferenza, dura necessità e tale resterà in tutti i poeti che verranno dopo di te: Euripide e Virgilio, Orazio e Ovidio. Ma tu, fanciullo, che pure conoscerai la durezza della vita quotidiana: la fallita attività commerciale del padre, una controversia ereditaria con il fratello, che finirà per te sfavorevolmente per la corruzione dei giudici, gli stenti per procurarsi i mezzi di sussistenza, non dipingerai la vita a fosche tinte e dirai del lavoro, che è penoso ma dà soddisfazioni. La fede nella giustizia e soprattutto nella religiosità e santità del lavoro aleggerà sui tuoi versi. Lavora, dirai tu ai tuoi simili, perché dove sta il lavoro non sta la povertà con tutti i suoi mali. Nessun lavoro è vergogna, oziare invece è vergogna.

Così fu che Esiodo, ingannato da tutte queste menzogne, si mise a cantare la bellezza del lavoro e da allora si venne formando quel falso luogo comune che il lavoro nobilita l'uomo.