Il Piacere, di Gabriele D'AnnunzioLiber Liber

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Libro IV

I

Il marchese di Mount Edgcumbe, aprendo il grande armario segreto, la biblioteca arcana, diceva allo Sperelli:

- Voi dovreste disegnarmi i fermagli. Il volume è in-4, datato da Lampsaco come Les Aphrodites del Nerciat: 1734. Gli intagli mi paiono finissimi. Giudicatene.

Egli porse allo Sperelli il libro raro. Era intitolato GERVETII - De Concubitu - libri tres, ornato di vignette voluttuose.

- Questa figura è molto importante - soggiunse, indicando col dito una delle vignette, che rappresentava un congiungimento di corpi indescrivibile. - E' una cosa nuova che io non conosceva ancóra. Nessuno dei miei scrittori erotici ne fa menzione...

Seguitava a parlare, discutendo alcune particolarità, seguendo le linee del disegno con quel dito bianchiccio sparso di peli su la prima falange e terminato da un'unghia acuta, lucida, un po' livida come l'unghia dei quadrumani. Le sue parole penetravano nell'orecchio dello Sperelli con uno stridore atroce.

- Questa edizione olandese di Petronio è magnifica. E questo è l'Erotopaegnion stampato a Parigi nel 1798. Conoscete il poema attribuito a John Wilkes, An essay on woman? Eccone una edizione del 1763.

La raccolta era ricchissima. Comprendeva tutta la letteratura pantagruelica e rococò di Francia: le priapèe, le fantasie scatologiche, le monacologie, gli elogi burleschi, i catechismi, gli idillii, i romanzi, i poemi dalla Pipe cassée del Vadé alle Liaisons dangereuses, dall'Arétin d'Augustin Carrache alle Tourterelles de Zelmis, dalla Descouverture du style impudique al Faublas. Comprendeva quanto di più raffinato e di più infame l'ingegno umano ha prodotto nei secoli per comento dell'antico inno sacro al dio di Lampsaco: Salve, sancte pater.

II collezionista prendeva i libri dalle file dell'armario, e li mostrava al giovine amico, parlando di continuo. Le sue mani oscene si facevano carezzevoli intorno i libri osceni rilegati in cuoi ed in tessuti di pregio. Ad ogni tratto sorrideva sottilmente. E gli passava negli occhi grigi il baleno della follia, sotto la enorme fronte convessa.

- Posseggo anche la edizione principe degli Epigrammi di Marziale, quella di Venezia, fatta da Vindelino di Spira, in-folio. Eccola. Ed ecco il Beau, il traduttore di Marziale, il comentatore delle famose trecento ottanta due oscenità. Come vi sembrano le rilegature? I fermagli sono d'un maestro. Questa composizione di priapi è di grande stile.

Lo Sperelli ascoltava e guardava, con una specie di stupore che a poco a poco andavasi mutando in orrore e in dolore. I suoi occhi ad ogni momento erano attirati da un ritratto d'Elena, che pendeva alla parere, sul damasco rosso.

- E' il ritratto di Elena, dipinto da Sir Frederick Leiyhton. Ma guardate qui, tutto il Sade! Le roman philosophique, La philosophie dans le boudoir, Les crimes de l'amour, Les malheurs de la vertu... Voi, certo, non conoscete questa edizione. E' fatta per conto mio da Hérissey, con caratteri elzeviriani del XVIII secolo, su carta delle Manifatture imperiali del Giappone, in soli cento venti cinque esemplari. Il divino marchese meritava questa gloria. I frontespizii, i titoli, le iniziali, tutti i fregi raccolgono quanto di più squisito noi conosciamo in materia d'iconografia erotica. Guardate i fermagli!

Le rilegature dei volumi erano mirabili. Una pelle di pescecane, rugosa ed aspra come quella che avvolge l'elsa delle sciabole giapponesi, copriva le due facce e il dorso; i fermagli e le borchie erano d'un bronzo assai ricco d'argento, opere di cesello elegantissime, che ricordavano i più bei lavori in ferro del secolo XVI.

- L'autore, Francis Redgrave, è morto in un manicomio. Era un giovine di genio. Io posseggo tutti i suoi studii. Ve li mostrerò.

Il collezionista s'accendeva. Egli uscì per andare a prendere l'albo dei disegni di Francis Redgrave, nella stanza contigua. Il suo passo era un po' saltellante e malsicuro, come d'un uomo che abbia in sé un principio di paralisi, una malattia spinale incipiente; il suo busto rimaneva rigido, non assecondando il moto delle gambe, simile al busto d'un automa.

Andrea Sperelli lo seguì con lo sguardo, fin su la soglia, inquieto. Rimasto solo, fu preso da una terribile angoscia. La stanza, tappezzata di damasco rosso cupo, come la stanza dove Elena due anni innanzi erasi data a lui, gli parve allora tragica e lugubre. Forse quelle erano le tappezzerie medesime che avevano udite le parole di Elena: - Mi piaci! - L'armario aperto lasciava vedere le file dei libri osceni, le rilegature bizzarre impresse di simboli fallici. Alla parete pendeva il ritratto di Lady Heathfield accanto a una copia della Nelly O'Brien di Joshua Reynolds. Ambedue le creature, dal fondo della tela, guardavano con la stessa intensità penetrante, con lo stesso ardor di passione, con la stessa fiamma di desiderio sensuale, con la stessa prodigiosa eloquenza; ambedue avevano la bocca ambigua, enigmatica, sibillina, la bocca delle infaticabili ed inesorabili bevitrici d'anime; e avevano ambedue la fronte marmorea, immacolata, lucente d'una perpetua purità.

- Povero Redgrave! - disse Lord Heathfield, rientrando con la custodia dei disegni tra le mani. - Senza dubbio, egli era un genio. Nessuna fantasia erotica supera la sua. Guardate!... Guardate!... Che stile! Nessuno artista, io penso, nello studio della fisionomia umana si avvicina alla profondità e all'acutezza a cui è giunto questo Redgrave nello studio del phallus. Guardate!

Egli si allontanò un istante per andare a richiudere l'uscio. Poi tornò verso il tavolo, presso la finestra; e si mise a sfogliare la raccolta, sotto gli occhi dello Sperelli, parlando di continuo, indicando con l'unghia scimiesca, affilata come un'arma, le particolarità di ciascuna figura.

Egli parlava nella sua lingua, dando ad ogni principio di frase una intonazione interrogativa e ad ogni fine una cadenza eguale, stucchevole. Certe parole laceravano l'orecchio di Andrea come un suono aspro di ferri raschiati, come lo stridore d'una lama d'acciaio a contrasto d'una lastra di cristallo.

E i disegni del defunto Francis Redgrave passavano.

Erano spaventevoli; parevano il sogno d'un becchino torturato dalla satiriasi; si svolgevano come una paurosa danza macabra e priapica; rappresentavano cento variazioni d'un sol motivo, cento episodii d'un solo dramma. E le dramatis personae erano due: un priapo e uno scheletro, un phallus e un rictus.

- Questa è la pagina «superiore» - esclamò il marchese di Mount Edgcumbe, indicando l'ultimo disegno, su cui in quel punto scendeva a traverso i vetri della finestra un sorriso tenue di sole.

Era, infatti, una composizione di straordinaria potenza fantastica: una danza di scheletri muliebri, in un ciel notturno, guidata da una Morte flagellatrice. Su la faccia impudica della luna correva una nuvola nera, mostruosa, disegnata con un vigore e un'abilità degni della matita d'O-kou-sai; l'attitudine della tetra corifea, l'espression del suo teschio dalle orbite vacue erano improntate d'una vitalità mirabile, d'una spirante realità non mai raggiunta da alcun altro artefice nella figurazione della Morte; e tutta quella sicinnide grottesca di scheletri slogati in gonne discinte, sotto le minacce della sferza, rivelava la tremenda febbre che aveva preso la mano del disegnatore, la tremenda follia che aveva preso il suo cervello.

- Ecco il libro che ha inspirato questo capolavoro a Francis Redgrave. Un gran libro!... Il più raro tra i rarissimi... Non conoscete voi Daniel Maclisius?

Lord Heathfield porse allo Sperelli il trattato De verberatione amatoria. Si accendeva sempre più, ragionando di piaceri crudeli. Le tempie calve gli s'invermigliavano e le vene della fronte gli si gonfiavano e la bocca gli s'increspava, un po' convulsa, ad ogni tratto. E le mani, le mani odiose, gestivano con gesti brevi ma concitati, mentre i gomiti rimanevano rigidi, d'una rigidezza paralitica. La bestia immonda, laida, feroce appariva in lui, senza più veli. Nell'imaginazione dello Sperelli sorgevano tutti gli orrori del libertinaggio inglese: le gesta dell'Armata Nera, della black army, su pe' marciapiedi di Londra; la caccia implacabile alle «vergini verdi»; i lupanari di West-End, della Halfousn Street; le case eleganti di Anna Rosemberg, della Jefferies; le camere segrete, ermetiche, imbottite dal pavimento al soffitto, ove si smorzano i gridi acuti che la tortura strappa alle vittime...

- Mumps! Mumps! Siete solo?

Era la voce di Elena. Ella batteva piano a un degli usci.

- Mumps !

Andrea trasalì: tutto il sangue gli fece velo agli occhi, gli accese la fronte, gli mise negli orecchi un rombo, come se una vertigine improvvisa stesse per coglierlo. Un'insurrezione di brutalità lo sconvolse; gli attraversò lo spirito, nella luce d'un lampo, una visione oscena; gli passò nel cervello oscuramente un pensier criminoso; l'agitò per un attimo non so che smania sanguinaria. In mezzo al turbamento portato in lui da quei libri, da quelle figure, dalle parole di quell'uomo, risaliva su dalle cieche profondità dell'essere lo stesso impeto istintivo che già egli aveva provato un giorno, sul campo delle corse, dopo la vittoria contro il Rùtolo, tra le esalazioni acri del cavallo fumante. Il fantasma d'un delitto d'amore lo tentò e si dileguò, rapidissimo, nella luce d'un lampo: uccidere quell'uomo, prendere quella donna per violenza, appagare così la terribile cupidigia carnale, poi uccidersi.

- Non sono solo - disse il marito, senza aprire l'uscio. - Fra qualche minuto potrò condurvi nel salone il conte Sperelli che è qui con me.

Egli ripose nell'armario il trattato di Daniel Maclisius; chiuse la custodia dei disegni di Francis Redgrave e la portò nella stanza contigua.

Andrea avrebbe dato qualunque prezzo per sottrarsi al supplizio che l'aspettava ed era attratto da quel supplizio, nel tempo medesimo. Il suo sguardo, anche una volta, si levò alla parete rossa, verso il cupo quadro ove brillava la faccia esangue di Elena dagli occhi seguaci, dalla bocca di sibilla. Un fascino acuto e continuo emanava da quella immobilità imperiosa. Quel pallore unico dominava tragicamente tutta la rossa ombra della stanza. Ed egli sentì, anche una volta, che la sua trista passione era immedicabile.

Un'angoscia disperata l'assalse. - Non avrebbe egli dunque mai più posseduta quella carne? Era ella dunque risoluta a non concedergli? Ed egli avrebbe per sempre nutrita in sé la fiamma del desiderio insoddisfatto? - L'eccitazion prodotta in lui dai libri di Lord Heathfield inaspriva la sofferenza, rinfocolava la febbre. Era nel suo spirito un confuso tumulto d'imagini erotiche; la nudità di Elena entrava nei gruppi infami delle vignette incise dal Coiny, prendeva attitudini di piacere già note al passato amore, si piegava ad attitudini nuove, si offeriva alla lascivia bestiale del marito. Orrore! Orrore!

- Volete che andiamo di là? - chiese il marito, ricomparendo su la soglia, ben ricomposto e tranquillo. - Mi disegnerete dunque i fermagli pel mio Gervetius?

Andrea rispose:

- Mi proverò.

Egli non poteva reprimere il tremito interno. Nel salone, Elena lo guardò curiosamente, con un sorriso irritante.

- Che facevate, di là? - ella gli chiese, pur sempre sorridendo al modo medesimo.

- Vostro marito mi mostrava cimelii.

- Ah!

Ella aveva la bocca sardonica, una cert'aria beffarda, un'irrision palese nella voce. Si adagiò, sopra un largo divano coperto d'un tappeto di Bouckara amaranto su cui languivano i cuscini pallidi e su' cuscini le palme d'oro smorto. Si adagiò in un'attitudine molle, guardando Andrea di tra i lusinghevoli cigli, con quegli occhi che parevano come suffusi d'un qualche olio purissimo e sottilissimo. E si mise a parlare di cose mondane, ma con una voce che penetrava fin nell'intime vene del giovine, come un fuoco invisibile.

Due o tre volte Andrea sorprese lo sguardo scintillante di Lord Heathfield fisso su la moglie: uno sguardo che gli parve carico di tutte le impurità e le infamie dianzi rimescolate. Quasi ad ogni frase, Elena rideva, d'un riso irridente, con una strana facilità, non turbata dalla brama di que' due uomini che s'erano accesi insieme su le figure dei libri osceni. Ancóra, il pensier criminoso attraversò lo spirito di Andrea, nella luce d'un lampo. Tutte le fibre gli tremarono.

Quando Lord Heathfield si levò ed uscì, egli proruppe, con la voce roca, afferrandole un polso, avvicinandosi a lei così da sfiorarla con l'alito veemente:

- Io perdo la ragione... Io divento folle... Ho bisogno di te, Elena... Ti voglio...

Ella liberò il polso, con un gesto superbo. Poi disse, con una terribile freddezza:

- Vi farò dare da mio marito venti franchi. Uscendo di qui, potrete sodisfarvi.

Lo Sperelli balzò in piedi, livido.

Lord Heathfield rientrando chiese:

- Ve ne andate già? Che avete mai?

E sorrise del giovine amico, poiché egli conosceva gli effetti de' suoi libri.

Lo Sperelli s'inchinò. Elena gli offerse la mano, senza scomporsi. Il marchese lo accompagno fin su la soglia, dicendogli piano:

- Vi raccomando il mio Gervetius.

Come fu sotto il portico, Andrea vide avanzarsi pel viale una carrozza. Un signore dalla gran barba bionda s'affacciò allo sportello, salutando. Era Galeazzo Secìnaro.

Subitamente, gli sorse nello spirito il ricordo della Fiera di maggio con l'episodio della somma offerta da Galeazzo per ottenere che Elena Muti asciugasse alla barba le belle dita bagnate di Sciampagna. Affrettò il passo, uscì nella strada: aveva la sensazione ottusa e confusa come d'un romore assordante che sfuggisse dall'intimo del suo cervello.

Era un pomeriggio della fine d'aprile, caldo e umido. Il sole appariva e spariva tra i nuvoli fioccosi e pigri. L'accidia dello scirocco teneva Roma.

Sul marciapiede della via Sistina, egli scorse d'innanzi a sé una signora che camminava lentamente verso la Trinità. Riconobbe Donna Maria Ferres. Guardò l'orologio: erano, infatti, circa le cinque; mancavano pochi minuti all'ora abituale del ritrovo. Maria, certo, andava al palazzo Zuccari.

Egli affrettò il passo per raggiungerla. Quando fu da presso la chiamò per nome:

- Maria!

Ella ebbe un sussulto:

- Come qui? Io salivo da te. Sono le cinque.

- Manca qualche minuto. Io correvo ad aspettarti. Perdonami.

- Che hai? Sei molto pallido, tutto alterato... Di dove vieni? Ella corrugò i sopraccigli, fissandolo, a traverso il velo.

- Dalla scuderia - rispose Andrea, sostenendo lo sguardo, senza arrossire, come s'egli non avesse più sangue. - Un cavallo, che m'era assai caro, s'è rovinato un ginocchio per colpa del jockey. Domenica non potrà quindi prender parte al Derby. La cosa mi fa pena ed ira. Perdonami. Ho indugiato senza accorgermene. Ma alle cinque manca qualche minuto...

- Bene. Addio. Me ne vado.

Erano su la piazza della Trinità. Ella si soffermò per congedarsi, tendendogli la mano. Le durava ancóra tra i sopraccigli una piega. In mezzo alla sua gran dolcezza, talvolta ella aveva insofferenze quasi aspre e movimenti altieri che la trasfiguravano.

- No, Maria. Vieni. Sii dolce. Io vado su, ad aspettarti. Tu arriva fino ai cancelli del Pincio e torna indietro. Vuoi?

L'orologio della Trinità de' Monti suonò le cinque.

- Senti? - soggiunse Andrea.

Ella disse, dopo una leggera esitazione:

- Verrò.

- Grazie. Ti amo.

- Ti amo.

Si separarono.

Donna Maria seguitò il suo cammino; traversò la piazza, entrò nel viale arborato. Sul suo capo, a intervalli, lungo la muraglia, il soffio languido dello scirocco suscitava negli alberi verdi un murmure. Nel tepore umido dell'aria fluivano rare onde di profumo e svanivano. Le nuvole parevano più basse; certi stormi di rondini quasi radevano il suolo. Eppure, in quella snervante gravezza era qualche cosa di molle che ammolliva il cuor passionato della senese.

Da che ella aveva ceduto al desiderio di Andrea, il suo cuore si agitava in una felicità solcata d'inquietudini profonde; tutto il suo sangue cristiano s'accendeva alle voluttà della passione non mai provate e s'agghiacciava agli sbigottimenti della colpa. La sua passione era altissima, soverchiante, immensa; così fiera che spesso per lunghe ore le toglieva la memoria della figlia. Ella giungeva ad obliare Delfina, talvolta; a trascurarla! Ed aveva poi subitanei ritorni di rimorso, di pentimento, di tenerezza, in cui ella copriva di baci e di lacrime la testa della figlia attonita, singhiozzando con un dolor disperato, come sopra la testa d'una morta.

Tutto il suo essere s'affinava alla fiamma, si assottigliava, si acuiva, acquistava una sensibilità prodigiosa, una specie di lucidità oltraveggente, una facoltà divinatoria che le dava strane torture. Quasi ad ogni inganno di Andrea, ella si sentiva passare un'ombra su l'anima, provava una inquietudine indefinita che talvolta addensandosi prendeva forma d'un sospetto. E il sospetto la mordeva, le rendeva amari i baci, acre ogni carezza, finché non si dileguava sotto gli impeti e gli ardori dell' incomprensibile amante.

Ella era gelosa. La gelosia era il suo spasimo implacabile, la gelosia, non pur del presente, ma del passato. Per quella crudeltà che le persone gelose hanno contro sé stesse, ella avrebbe voluto leggere nella memoria di Andrea, scoprirne tutti i ricordi, vedere tutte le tracce segnate dalle antiche amanti, sapere, sapere. La domanda che più spesso le correva alle labbra, quando Andrea taceva, era questa: - A che pensi? - E mentre ella profferiva le tre parole, inevitabilmente l'ombra le passava negli occhi e su l'anima, inevitabilmente un flutto di tristezza le si levava dal cuore.

Anche quel giorno, all'improvviso sopraggiungere di Andrea, non aveva ella avuto in fondo a sé un istintivo moto di sospetto? Anzi un pensier lucido erale balenato nello spirito: il pensiero che Andrea venisse dalla casa di Lady Heathfield, dal palazzo Barberini.

Ella sapeva che Andrea era stato l'amante di quella donna, sapeva che quella donna si chiamava Elena, sapeva infine che quella era la Elena dell'inscrizione. «Ich lebe!...» Il distico del Goethe le squillava forte sul cuore. Quel grido lirico le dava la misura dell'amor d'Andrea per la bellissima donna. Egli doveva averla immensamente amata!

Camminando sotto gli alberi, ella ricordava l'apparizione di Elena nella sala del concerto, al Palazzo de' Sabini, e il turbamento mal dissimulato dell'antico amante. Ricordava la terribile commozione che l'aveva presa una sera, a una festa dell'Ambasciata d'Austria, quando la contessa Starnina le aveva detto, al passaggio di Elena: - Ti piace la Heathfield? E' stata una gran fiamma del nostro amico Sperelli, e credo che sia ancóra.

«Credo che sia ancóra.» Quante torture per quella frase! Ella aveva seguita con gli occhi la gran rivale, di continuo, in mezzo alla folla elegante; e più d'una volta il suo sguardo erasi incontrato con quel di lei, ed ella ne aveva avuto un brivido indefinibile. Poi, nella sera medesima, presentate l'una all'altra dalla baronessa di Boeckhorst, in mezzo alla folla, avevano scambiato un semplice inchino della testa. E il tacito inchino erasi ripetuto in seguito nelle assai rare volte che Donna Maria Ferres y Capdevila aveva attraversato un salone mondano.

Perché i dubbii, sopiti o spenti sotto l'onda delle ebrezze, risorgevano con tanta veemenza? Perché ella non riusciva a reprimerli, ad allontanarli? Perché in fondo a lei si agitavano, ad ogni piccolo urto dell'imaginazione, tutte quelle sconosciute inquietudini?

Camminando sotto gli alberi, ella sentiva crescere l'affanno. Il suo cuore non era pago; il sogno levatosi dal suo cuore - nella mattina mistica, sotto gli alberi floridi, in conspetto del mare - non s'era avverato. La parte più pura e più bella di quell'amore era rimasta là, nel bosco solitario, nella selva simbolica che fiorisce e fruttifica perpetuamente contemplando l'Infinito.

Ella si soffermò, d'innanzi al parapetto che guarda San Sebastianello. I vecchissimi elci, d'una verdura così cupa che quasi pareva nera, protendevano su la fontana un tetto arteficiato, senza vita. I tronchi portavano ampie ferite, ricolmate con la calce e col mattone, come le aperture d'una muraglia. - Oh giovini àlbatri raggianti e spiranti nella luce! - L'acqua grondando dalla superior tazza di granito nel bacino sottoposto metteva uno scoppio di gemiti, a intervalli, come un cuore che si riempia d'angoscia e poi trabocchi in pianto. - Oh melodia delle Cento Fontane, pel viale de' lauri! - La città giaceva estinta, come sepolta dalla cenere d'un vulcano invisibile, silenziosa e funerea come una città disfatta da una pestilenza, enorme, informe, dominata dalla Cupola che le sorgeva dal grembo come una nube.

- Oh mare! Oh mare sereno!

Ella sentiva crescere l'affanno. Un'oscura minaccia veniva a lei dalle cose. La occupò quel medesimo senso di timore che già ella aveva provato più d'una volta. Sul suo spirito cristiano balenò il pensiero del castigo.

E tuttavia ella rabbrividì nel più profondo del suo essere al pensiero che l'amante l'aspettava; al pensiero dei baci, delle carezze, delle folli parole, ella sentì il suo sangue infiammarsi, la sua anima languire. Il brivido della passione vinse il brivido del timor divino. Ed ella si mosse verso la casa dell'amante, trepida, sconvolta, come se andasse a un primo ritrovo.

- Oh, finalmente! - esclamò Andrea, accogliendola fra le sue braccia, bevendole l'alito dalla bocca affannata.

Poi, prendendole una mano e premendosela al petto:

- Sentimi il cuore. Se tu indugiavi ancor un minuto, mi si rompeva.

Ella mise la guancia nel luogo della mano. Egli le baciò la nuca.

- Senti?

- Sì; mi parla.

- Che ti dice?

- Che non mi ami.

- Che ti dice? - ripeté il giovine, mordendola alla nuca, impedendole di sollevarsi.

Ella rise.

- Che mi ami.

Ella si tolse il mantello, il cappello, i guanti. Andò a odorare i fiori di lilla bianchi che empivano le alte coppe fiorentine, quelle del tondo borghesiano. Aveva su i tappeti un passo di straordinaria leggerezza; e nulla era più soave dell'atto con cui ella affondava il viso tra le ciocche delicate.

- Prendi - ella disse, recidendo coi denti una cima e tenendola in bocca, fuor delle labbra.

- No; io prenderò dalla tua bocca un altro fiore, men bianco ma più saporoso...

Si baciarono, a lungo, a lungo, in mezzo al profumo.

Egli disse, con la voce un po' mutata, traendola:

- Vieni, di là.

- No, Andrea; è tardi. Oggi, no. Restiamo qui. Io ti farò il tè; tu mi farai tante carezze buone.

Ella gli prese le mani, intrecciò le sue dita a quelle di lui.

- Non so che ho. Mi sento il cuore così gonfio di tenerezza che quasi piangerei.

Le sue parole tremavano; i suoi occhi s'inumidivano.

- Se potessi non lasciarti, restare qui tutta la sera!

Un'accorazione profonda le suggeriva accenti d'indefinibile malinconia.

- Pensare che tu non saprai mai tutto tutto il mio amore! Pensare che io non saprò mai il tuo! Mi ami tu? Dimmelo, dimmelo sempre, cento volte, mille volte, senza stancarti. Mi ami?

- Non lo sai forse?

- Non lo so.

Ella profferì queste parole con una voce tanto sommessa che Andrea le udì appena.

- Maria!

Ella piegò il capo sul petto di lui, in silenzio; appoggiò la fronte, quasi aspettando ch'egli parlasse, per ascoltarlo.

Egli guardò quel povero capo reclinato sotto il peso del presentimento; sentì il premer leggero di quella fronte nobile e triste sul suo petto indurito dalla menzogna, fasciato di falsità. Una commozione angosciosa lo strinse; una misericordia umana di quella sofferenza umana gli chiuse la gola. E quel buon moto dell'anima si risolse in parole che mentivano, diede il tremito della sincerità a parole che mentivano.

- Tu non lo sai!... Hai parlato piano; il soffio ti si è spento su le labbra; qualche cosa in fondo a te s'è levata contro quel che dicevi; tutti tutti i ricordi del nostro amore si son levati contro quel che dicevi. Tu non sai che io ti amo!...

Ella rimaneva china, ascoltando, palpitando forte, riconoscendo, credendo riconoscere nella voce commossa del giovine il suono vero della passione, l'inebriante suono ch'ella credeva inimitabile. Ed egli le parlava quasi all'orecchio, nel silenzio della stanza, mettendole sul collo un soffio caldo, con pause più dolci delle parole.

- Avere un pensiero unico, assiduo, di tutte l'ore, di tutti gli attimi;... non concepire altra felicità che quella, sovrumana, irraggiata dalla sola tua presenza su l'esser mio;... vivere tutto il giorno nell'aspettazione inquieta, furiosa, terribile, del momento in cui ti rivedrò;... nutrire l'imagine delle tue carezze, quando sei partita, e di nuovo possederti in un'ombra quasi creata;... sentirti, quando io dormo, sentirti, sul mio cuore, viva, reale, palpabile, mescolata al mio sangue, mescolata alla mia vita;... e credere in te soltanto, giurare in te soltanto, riporre in te soltanto la mia fede, la mia forza, il mio orgoglio, tutto il mio mondo, tutto quel che sogno, e tutto quel che spero...

Ella alzò la faccia rigata di lacrime. Egli tacque, arrestandole con le labbra le stille tiepide su le gote. Ella lacrimava e sorrideva, mettendogli le dita tremule ne' capelli, smarritamente, singhiozzando:

- Anima, anima mia!

Egli la fece sedere; le si inginocchiò ai piedi, non lasciando di baciarla su le palpebre. A un tratto, ebbe un sussulto. Aveva sentito su le labbra palpitare rapidamente i lunghi cigli di lei, a similitudine di un'ala irrequieta. Era una carezza strana che dava un piacere insostenibile; era una carezza che Elena un tempo soleva fare ridendo, più volte di seguito, costringendo l'amante al piccolo spasimo nervoso della vellicazione; e Maria l'aveva appresa da lui, e spesso egli sotto una tal carezza aveva potuto evocare l'imagine dell'altra.

Al sussulto, Maria sorrise. E, come le indugiava ancóra una lacrima lucida tra i cigli, ella disse:

- Bevi anche questa!

E, come egli bevve, ella rise, inconsapevole.

Ella esciva dal pianto quasi lieta, rassicurata, piena di grazie!

- Ti farò il tè - disse.

- No; rimani qui, seduta.

Egli s'accendeva, vedendola sul divano, tra i cuscini. Avvenne, nel suo spirito, una subita sovrapposizione dell'imagine d'Elena.

- Lasciami alzare! - pregò Maria, liberando il busto da un stretta. - Voglio che tu beva il mio tè. Sentirai. Il profumo t'arriverà all'anima.

Parlava d'un tè prezioso, giuntole da Calcutta, ch'ella aveva donato ad Andrea il giorno innanzi.

Si alzò e andò a sedersi su la seggiola di cuoio dalle Chimere, dove ancóra moriva squisitamente il color «rosa di gruogo» dell'antica dalmatica. Su la piccola tavola ancóra brillavano le maioliche fini di Castel Durante.

Nel compier l'opera, ella diceva tante cose gentili; espandeva la sua bontà e la sua tenerezza con un pieno abbandono; godeva ingenuamente di quella cara intimità segreta, in quella stanza tranquilla, in mezzo a quel lusso raffinato. Dietro di lei, come dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli, sorgevano le coppe di cristallo coronate dalle ciocche di lilla bianche; e le sue mani d'arcangelo si movevano tra le istoriette mitologiche di Luzio Dolci e gli esametri d'Ovidio.

- A che pensi? - chiese ella ad Andrea che le stava vicino, seduto sul tappeto, con la testa appoggiata contro un bracciuolo della seggiola.

- Ti ascolto. Parla ancóra!

- Non più.

- Parla! Dimmi tante cose, tante cose...

- Quali cose?

- Quelle che sai tu sola.

Egli faceva cullare dalla voce di lei l'angoscia che gli veniva dall'altra; faceva animare dalla voce di lei la figura dell'altra.

- Senti? - esclamò Maria, versando su le foglie aromatiche l'acqua bollente.

Un profumo acuto si spandeva nell'aria, col vapore. Andrea l'aspirò. Poi disse, chiudendo gli occhi, rovesciando indietro il capo:

- Baciami.

E, appena ebbe il contatto delle labbra, trasalì tanto forte che Maria ne fu sorpresa.

Ella versò, in una tazza la bevanda e glie la offerse, con un sorriso misterioso.

- Bada. C'è un filtro.

Egli rifiutò l'offerta.

- Non voglio bere a quella tazza.

- Perché?

- Dammi tu... da bere.

- Ma come?

- Così. Prendi un sorso e non inghiottire.

- Scotta troppo ancóra.

Ella rideva, a quel capriccio dell'amante. Egli era un po' convulso, pallidissimo, con lo sguardo alterato. Aspettarono che il tè si freddasse. Ad ogni momento, Maria accostava le labbra all'orlo della tazza per provare; poi rideva, d'un piccolo riso fresco che non pareva suo.

- Ora, si può bere - annunziò.

- Ora, prendi un bel sorso. Così.

Ella teneva le labbra serrate, per contenere il sorso; ma le ridevano i grandi occhi a cui le lacrime recenti avevan dato maggior fulgore.

- Ora, versa, a poco a poco.

Egli trasse nel bacio, suggendo, tutto il sorso. Come sentiva mancarsi il respiro, ella sollecitava il lento bevitore stringendogli le tempie.

- Dio mio! Tu mi volevi soffocare.

S'abbandonò sul cuscino, quasi per riposarsi, languida, felice.

- Che sapore aveva? Tu m'hai bevuta anche l'anima. Sono tutta vuota.

Egli era rimasto pensoso, con lo sguardo fisso.

- A che pensi? - gli chiese Maria, di nuovo, sollevandosi a un tratto, posandogli un dito nel mezzo della fronte, quasi per fermare il pensiero invisibile.

- A nulla - rispose. - Non pensavo. Seguivo dentro di me gli effetti del filtro...

Allora ella anche volle provare. Bevve da lui con delizia. Poi esclamò, premendosi una mano sul cuore e mettendo un lungo respiro:

- Quanto mi piace!

Andrea tremò. Non era quello lo stesso accento di Elena nella sera della dedizione? Non erano le stesse parole? Egli le guardava la bocca.

- Ripeti.

- Che cosa?

- Quello che hai detto.

- Perché?

- E una parola tanto dolce, quando tu la pronunzii... Tu non puoi intendere... Ripeti.

Ella sorrideva, inconsapevole, un po' turbata dallo sguardo singolare dell'amante, quasi timida.

- Ebbene... mi piace!

- Ed io?

- Come?

- Ed io... a te...?

Ella, perplessa, guardava l'amante che le si torceva ai piedi, convulso, nell'aspettazione della parola ch'egli voleva strapparle.

- Ed io?

- Ah! Tu... mi piaci.

- Così, così... Ripeti. Ancóra!

Ella consentiva, inconsapevole. Egli provava uno spasimo ed una voluttà indefinibili.

- Perché chiudi gli occhi? - chiese ella, non in sospetto, ma affinché egli le esprimesse la sua sensazione.

- Per morire.

Egli posò la testa su le ginocchia di lei, rimanendo qualche minuto in quell'attitudine, silenzioso, oscuro. Ella gli accarezzava piano i capelli, le tempie, la fronte ove, sotto la carezza, si moveva un pensiero infame. D'intorno a loro, la stanza immergevasi nell'ombra, a poco a poco; fluttuava il profumo commisto dei fiori e della bevanda; le forme si confondevano in una sola apparenza armonica e ricca, senza realità.

Dopo un intervallo, Maria disse:

- Lèvati, amore. Bisogna che io ti lasci. E' tardi.

Egli si levò, pregando:

- Resta con me un altro momento, fino all'Ave Maria.

E la trasse di nuovo a sedere sul divano, dove i cuscini luccicavano nell'ombra. Nell'ombra egli la distese con un moto repentino, le strinse il capo, coprendole di baci la faccia. II suo ardore era quasi iroso. Egli imaginava di stringere il capo dell'altra, e imaginava quel capo macchiato dalle labbra del marito; e non ne aveva ribrezzo ma ne aveva anzi un desiderio più selvaggio. Dai fondi più bassi dell'istinto gli risalivano nella conscienza tutte le torbide sensazioni avute in cospetto di quell'uomo; gli risalivano al cuore tutte le oscenità e le brutture, come un'onda di fango rimescolata; e tutte quelle vili cose passavano nei baci su le guance, su la fronte, su i capelli, sul collo, su la bocca di Maria.

- No; lasciami! - ella gridò liberandosi dalla stretta con uno sforzo.

E corse, verso la tavola del tè, ad accendere le candele.

- Siate savio - ella soggiunse, un poco affannata, ravviandosi, con una gentile aria di cruccio.

Egli era rimasto sul divano e la guardava, muto.

Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva il piccolo specchio di Mona Amorrosisca. Si mise il cappello e il velo, innanzi a quella lastra offuscata che aveva apparenza d'un'acqua torba, un poco verdastra.

- Come mi dispiace di lasciarti, stasera!... Stasera più delle altre volte... - mormorò, oppressa dalla malinconia dell'ora.

Nella stanza il lume violaceo del crepuscolo pugnava col lume delle candele. La tazza di tè era su l'orlo della tavola, fredda, diminuita dei due sorsi. In sommo delle alte coppe di cristallo i fiori di lilla parevano più bianchi. Il cuscino della poltrona conservava ancóra l'impronta del corpo ch'eravisi affondato.

La campana della Trinità de' Monti cominciò a sonare.

- Dio mio, com'è tardi! Aiutami a mettermi il mantello - fece la povera creatura, tornando verso Andrea.

Egli la strinse di nuovo fra le braccia, la stese, la coprì di baci furiosi, ciecamente, perdutamente, con un divorante ardore, senza parlare, soffocandole il gemito su la bocca, soffocando su la bocca di lei un impeto che gli veniva, quasi invincibile, di gridare il nome di Elena. E sul corpo della inconsapevole consumò l'orribile sacrilegio.

Rimasero qualche minuto avvinti. Ella disse, con la voce spenta ed ebra:

- Tu ti prendi la mia vita!

Ella era felice di quell'appassionata veemenza.

Ella disse:

- Anima, anima mia, tutta tutta mia!

Disse, felice:

- Ti sento battere il cuore... tanto forte, tanto forte!

Poi disse, con un sospiro:

- Lasciami alzare. Bisogna ch'io vada.

Andrea era bianco e stravolto come un omicida.

- Che hai? - gli chiese ella teneramente.

Egli volle sorriderle. Rispose:

- Non avevo mai provata una commozione così profonda. Credevo di morire.

Si volse a una delle coppe, tolse il fascio dei fiori, e l'offerse a Maria, accompagnandola verso la porta, quasi sollecitandola a partirsi, poiché ogni gesto, ogni sguardo, ogni parola di lei gli dava uno strazio insostenibile.

- Addio, amore. Sognami! - disse la povera creatura, dalla soglia, con la sua tenerezza suprema.

II

La mattina del 20 maggio, Andrea Sperelli risaliva il Corso inondato dal sole, quando si sentì chiamare, innanzi al portone del Circolo.

Stava sul marciapiede un crocchio di gentiluomini amici, godendo il passaggio delle signore e malignando. C'era Giulio Musèllaro, con Ludovico Barbarisi, con il duca di Grimiti, con Galeazzo Secìnaro; c'era Gino Bommìnaco; c'era qualche altro.

- Non sai il fatto di stanotte? - gli domandò il Barbarisi.

- No. Quale fatto?

- Don Manuel Ferres, il ministro del Guatemala...

- Ebbene?

- E' stato sorpreso, in pieno giuoco, mentre barava.

Lo Sperelli si dominò, quantunque alcuno de' gentiluomini lo guardasse con una certa curiosità maliziosa.

- E come?

- Galeazzo era presente, anzi giocava allo stesso tavolo.

Il principe Secìnaro si mise a raccontare le particolarità.

Andrea Sperelli non affettò l'indifferenza. Ascoltava anzi con un'aria attenta e grave. Disse, infine:

- Mi dispiace molto.

Rimase pochi altri minuti nel crocchio; salutò quindi gli amici, per andarsene.

- Che via fai? - gli domandò il Secìnaro.

- Torno a casa.

- Ti accompagno per un tratto.

S'incamminarono in giù, verso la via de' Condotti. Il Corso era un lietissimo fiume di sole, dalla piazza di Venezia alla piazza del Popolo. Le signore, in chiari abbigliamenti primaverili, passavano lungo le vetrine scintillanti. Passò la principessa di Ferentino con Barbarella Viti, sotto una cupola di merletto. Passò Bianca Dolcebuono. Passò la giovine sposa di Leonetto Lanza.

- Lo conoscevi tu, quel Ferres? - domandò Galeazzo allo Sperelli ch'era taciturno.

- Sì; lo conobbi l'anno scorso, di settembre, a Schifanoja, da mia cugina Ateleta. La moglie è una grande amica di Francesca. Perciò il fatto mi dispiace molto. Bisognerebbe cercare di dargli la minor possibile publicità. Tu mi renderesti un servigio, aiutandomi...

Galeazzo si profferse con premura cordiale.

- Credo - egli disse - che lo scandalo in parte sarebbe evitato se il ministro presentasse le dimissioni al suo Governo, ma senza indugio, come gli è stato ingiunto dal presidente del Circolo. Il ministro invece si rifiuta. Stanotte aveva un'attitudine di persona offesa; alzava la voce. E le prove erano là! Bisognerebbe persuaderlo...

Seguitarono a parlare del fatto, camminando. Lo Sperelli era grato al Secìnaro, della premura cordiale. Il Secìnaro era predisposto, da quella intimità, alle confidenze amichevoli.

Su l'angolo della via de' Condotti, scorsero la signora di Mount Edgcumbe che seguiva il marciapiede sinistro, lungo le vetrine giapponesi, con quella sua andatura molle e ritmica e affascinante.

- Donna Elena - disse Galeazzo.

Ambedue la guardarono; ambedue sentirono il fascino di quell'incesso. Ma lo sguardo di Andrea penetrò le vesti, vide le forme note, il dorso divino.

Quando la raggiunsero, la salutarono insieme; e passarono oltre. Ora essi non potevano guardarla ed erano guardati. E fu per Andrea un supplizio nuovissimo quel camminare a fianco d'un rivale, sotto gli occhi della donna agognata, pensando che i terribili occhi si dilettavano forse d'un confronto. Egli medesimo si paragonò, mentalmente, al Secìnaro.

Costui aveva il tipo bovino d'un Lucio Vero biondo e cerulo; e gli rosseggiava tra la copia magnifica dell'oro una bocca di nessuna significazione spirituale, ma bella. Era alto, quadrato, vigoroso, d'una eleganza non fine ma disinvolta.

- Ebbene? - gli domandò Andrea, spinto all'audacia da una invincibile smania. - E' a buon punto l'avventura?

Egli sapeva di poter parlare in quel modo a quell'uomo.

Galeazzo gli si volse con un'aria tra attonita e indagatrice; poiché non s'aspettava da lui una simile domanda e tanto meno in un tono così frivolo, così perfettamente calmo. Andrea sorrideva.

- Ah, da quanto tempo dura il mio assedio! - rispose il principe barbato. - Da tempo immemorabile, a varie riprese, e sempre senza fortuna. Arrivavo sempre troppo tardi: qualcuno m'aveva già preceduto nell'espugnazione. Ma non mi son mai perduto d'animo. Ero convinto che, o prima o poi, sarebbe venuto il mio turno. Attendre pour atteindre. Infatti...

- Dunque?

- Lady Heathfield m'è più benigna della duchessa di Scerni. Avrò, io spero, l'ambitissimo onore d'essere inscritto dopo te, nella lista...

Egli ruppe in un riso un po' grosso, mostrando la dentatura candida.

- Credo che le mie gesta indiane, divulgate da Giulio Musèllaro, abbiano aggiunto alla mia barba qualche filo eroico d'irresistibile virtù.

- Oh, ma la tua barba in questi giorni deve fremere di ricordi...

- Di quali ricordi?

- Di ricordi bacchici.

- Non capisco.

- Come! Tu dimentichi la famosa Fiera di maggio dell'ottantaquattro?

- Oh, guarda! Mi ci fai pensare. Cadrebbe in questi giorni il terzo anniversario... Tu però non c'eri. E chi t'ha raccontato?...

- Vuoi saper troppo, mio caro.

- Dimmelo; ti prego.

- Pensa piuttosto a valerti dell'anniversario con abilità; e dammi presto notizie.

- Quando ci vedremo?

- Quando ti piace.

- Pranza con me stasera, al Circolo, verso le otto. Così potremo poi occuparci insieme dell'altra faccenda.

- Va bene. Addio, Barbadoro. Corri!

Si separarono nella piazza di Spagna, a piè della scala; e, come Elena attraversava la piazza dirigendosi verso la via de' Due Macelli per salire alle Quattro Fontane, il Secìnaro la raggiunse e l'accompagnò.

Andrea, dopo lo sforzo della dissimulazione, si sentiva pesare il cuore su per la scala, orribilmente. Credeva di non poterlo trascinare alla sommità. Ma egli era sicuro omai che, in seguito, il Secìnaro gli avrebbe tutto confidato; e quasi gli pareva d'aver ottenuto un vantaggio! Per una specie di ubriachezza, per una specie di follia datagli dall'eccesso della sofferenza, egli andava ciecamente incontro a torture nuove e sempre più crudeli e sempre più insensate, aggravando e complicando in mille modi le condizioni del suo spirito, passando di pervertimento in pervertimento, di aberrazione in aberrazione, di atrocità in atrocità, senza potersi più arrestare, senza avere un attimo di sosta nella caduta vertiginosa. Egli era divorato come da una febbre inestinguibile che facesse schiudere col suo calore negli oscuri abissi dell'essere tutti i germi delle abiezioni umane. Ogni pensiero, ogni sentimento portava la macchia. Egli era tutto una piaga.

Eppure, l'inganno medesimo lo legava forte alla donna ingannata. Il suo spirito erasi così stranamente adattato alla mostruosa comedia, che quasi non concepiva più altro modo di piacere, altro modo di dolore. Quella incarnazione di una donna in un'altra non era più un atto di passione esasperata ma era un'abitudine di vizio e quindi un bisogno imperioso, una necessità. E l'istrumento inconsapevole di quel vizio era divenuto quindi per lui necessario come il vizio medesimo. Per un fenomeno di depravazion sensuale, egli era quasi giunto a credere che il real possesso di Elena non gli avrebbe dato il godimento acuto e raro datogli da quel possesso imaginario. Egli era quasi giunto a non poter più separare, nell'idea di voluttà, le due donne. E come pensava diminuita la voluttà nel possesso reale dell'una, così anche sentiva tutti i suoi nervi ottusi quando, per una stanchezza dell'imaginazione, egli trovavasi innanzi alla forma reale immediata dell'altra.

Perciò egli non resse al pensiero che Maria dalla ruina di Don Manuel Ferres gli fosse tolta.

Quando verso sera Maria venne, egli sùbito s'accorse che la povera creatura ignorava ancóra la sua disgrazia. Ma, il giorno dopo, ella venne ansante, sconvolta, pallida come una morta; e gli singhiozzò tra le braccia, nascondendo il viso:

- Tu sai?

La notizia s'era sparsa. Lo scandalo era inevitabile; la ruina era irrimediabile. Seguirono giorni di supplizio disperati; in cui Maria, rimasta sola dopo la partenza precipitosa del baro, abbandonata dalle poche amiche, assaltata dai creditori innumerevoli di suo marito, perduta in mezzo alle formalità legali dei sequestri, in mezzo agli uscieri e agli usurai e ad altra gente vile, diede prova di una eroica fierezza, ma senza riuscire a salvarsi dal crollo finale che schiacciò ogni speranza.

Ed ella non volle dall'amante alcun aiuto, ella non parlò mai del suo martirio all'amante che le rimproverava la brevità delle visite d'amore; non si lamentò mai; seppe ancóra trovare per lui un sorriso men triste; seppe ancóra obedire ai capricci, concedere appassionatamente il suo corpo alle contaminazioni, effondere sul capo del carnefice le più calde tenerezze dell'anima sua.

Tutto, intorno a lei, cadeva. Il castigo era piombato improvviso. I presentimenti dicevano il vero!

Ed ella non si rammaricò di aver ceduto all'amante, non si pentì d'essersi data a lui con tanto abbandono, non rimpianse la sua purità perduta. Ella ebbe un solo dolore, più forte d'ogni rimorso e d'ogni paura, più forte d'ogni altro dolore; e fu al pensiero di doversi allontanare, di dover partire, di doversi dividere dall'uomo ch'era per lei la vita della vita.

- Io morirò, amico mio. Vado a morire lontana da te, sola sola. Tu non mi chiuderai gli occhi...

Ella gli parlava della sua fine con un sorriso profondo, pieno di certezza rassegnata. Andrea le faceva balenare ancóra un'illusion di speranza, le gettava nel cuore il seme d'un sogno, il seme d'una sofferenza futura!

- Io non ti lascerò morire. Tu sarai ancóra mia, per lungo tempo. Il nostro amore avrà ancóra giorni felici...

Egli le parlava d'un prossimo avvenire. - Si sarebbe stabilito a Firenze; di là sarebbe andato spesso a Siena, sotto pretesto di studii; si sarebbe trattenuto a Siena mesi intieri, copiando qualche antica pittura, ricercando qualche antica cronaca. Il loro amore misterioso avrebbe avuto un nido nascosto, in una via deserta, o fuori delle mura, nella campagna, in una villa ornata di maioliche robbiesche, circondata d'un verziere. Ella avrebbe saputo trovare un'ora per lui. Qualche volta anche sarebbe venuta a Firenze per una settimana, per una gran settimana di felicità. Avrebbero portato il loro idillio su la collina di Fiesole, in un settembre mite come un aprile; e i cipressi di Montughi sarebbero stati clementi come i cipressi di Schifanoja.

- Fosse vero! Fosse vero! - sospirava Maria.

- Non mi credi?

- Sì, ti credo; ma il cuore mi dice che tutte queste cose, troppo dolci, non esciranno dal sogno.

Ella voleva che Andrea la reggesse a lungo su le braccia; e rimaneva appoggiata contro il petto di lui, senza parlare, raccogliendosi tutta, come per nascondersi, col movimento e col brivido d'una persona malata o d'una persona minacciata che abbia bisogno di protezione. Chiedeva ad Andrea carezze spirituali, quelle che nel suo linguaggio intimo ella chiamava «carezze buone», quelle che la intenerivano e le davano lacrime di struggimento più soavi di qualunque piacere. Non sapeva comprendere come in quei momenti di suprema spiritualità, in quelle ultime ore dolorose della passione, in quelle ore di addio, l'amante non fosse pago di baciarle le mani.

Ella pregava, quasi ferita dal crudo desiderio di Andrea:

- No, amore! Mi sembra che tu sia più vicino a me, più stretto a me, più confuso con il mio essere, quando mi ti siedi accanto, quando mi prendi le mani, quando mi guardi in fondo agli occhi, quando mi dici le cose che tu solo sai dire. Mi sembra che le altre carezze ci allontanino, che mettano tra me e te non so quale ombra... Non so veramente rendere il mio pensiero... Le altre carezze mi lasciano poi tanto triste, tanto tanto triste... non so... e stanca, d'una stanchezza tanto cattiva!

Ella pregava, umile, sommessa, temendo di dispiacergli. Ella non faceva che evocare memorie, memorie, memorie, passate, recenti, con le particolarità più minute, ricordandosi dei gesti più lievi, delle parole più fuggevoli, di tutti i piccoli fatti più insignificanti, che per lei avevano avuto un significato. Il suo cuore tornava con maggior frequenza ai primissimi giorni di Schifanoja.

- Ti ricordi? Ti ricordi?

E le lacrime d'improvviso le empivano gli occhi abbattuti.

Una sera, Andrea le domandò, pensando al marito:

- Da che io ti conosco, tu sei stata sempre tutta mia?

- Sempre.

- Non ti chiedo dell'anima...

- Taci! Sempre tutta tua.

Ed egli, che in questo non aveva creduto a nessuna delle sue amanti adultere, le credette; non ebbe neppur l'ombra d'un dubbio su la verità ch'ella affermava.

Le credette; perché, pur contaminandola e ingannandola senza ritegno, egli sapeva d'essere amato da un alto e nobile spirito, egli sapeva omai di trovarsi innanzi a una grande e terribile passione, egli aveva omai conscienza di quella grandezza come della propria viltà. Egli sapeva, egli sapeva d'essere immensamente amato; e talvolta, nelle furie delle sue imaginazioni, giungeva perfino a mordere la bocca della dolce creatura per non gridare un nome che gli risaliva con invincibile impeto alla gola; e la buona e dolente bocca sanguinava in un sorriso inconscio, dicendo:

- Anche così, tu non mi fai male.

Mancavano all'addio pochissimi giorni. Miss Dorothy aveva condotto Delfina a Siena ed era tornata per aiutare la signora negli ultimi più gravi fastidii e per accompagnarla nel viaggio. A Siena, in casa della madre, la verità non era nota. Anche Delfina non conosceva nulla. Maria s'era limitata a mandar la notizia d'un richiamo improvviso che Manuel aveva avuto dal suo Governo. E s'apparecchiava a partire; s'apparecchiava a lasciare le stanze, piene di cose dilette, in mano dei periti publici che già avevano scritto l'inventario e avevano stabilita la data dell'incanto: - 20 giugno, lunedì, alle dieci del mattino.

La sera del 9 giugno, sul punto di separarsi da Andrea, ella cercava un suo guanto smarrito. Nel cercare, ella vide sopra un tavolo il libro di Percy Bysshe Shelley, il medesimo volume che Andrea le aveva prestato al tempo di Schifanoja, il volume in cui ella aveva letto la Recollection prima della gita a Vicomìle, il caro e triste volume in cui ella aveva segnato con l'unghia i due versi:

«And forget me, for I can never
Be thine!»

Ella lo prese, con una commozione visibile; lo sfogliò; trovò la pagina, i segni dell'unghia, i due versi.

- Never! - mormorò, scotendo il capo. - Ti ricordi? E son passati otto mesi appena!

Restò un poco pensosa; sfogliò ancóra il libro; lesse qualche altro verso.

- E' il nostro poeta - soggiunse. - Quante volte m'hai promesso di condurmi al cimitero inglese! Ti ricordi? Dovevamo portare i fiori al sepolcro... Vuoi che andiamo? Conducimi prima ch'io parta. Sarà l'ultima passeggiata.

Egli disse:

- Andiamo domani.

Andarono, quando il sole era già sul declinare. Nella carrozza coperta, ella teneva su le ginocchia un fascio di rose. Passarono di sotto all'Aventino arborato. Intravidero i navigli carichi di vin siciliano ancorati nel porto di Ripa grande.

In vicinanza del cimitero, discesero; percorsero un tratto a piedi, fino al cancello, taciturni. Maria sentiva in fondo all'anima ch'ella non andava soltanto a portar fiori sul sepolcro d'un poeta ma che andava a piangere, in quel luogo di morte, qualche cosa di sè, irreparabilmente perduta. Il frammento di Percy, letto nella notte, nell'insonnio, le risonava in fondo all'anima, mentre guardava i cipressi alti nel cielo, oltre la muraglia imbiancata.

«La Morte è qui, e la Morte è là; da per tutto la Morte è all'opera; intorno a noi, in noi, sopra di noi, sotto di noi è la Morte; e noi non siamo che Morte.

«La Morte ha messo la sua impronta e il suo suggello su tutto ciò che noi siamo, e su tutto ciò che sentiamo e su tutto ciò che conosciamo e temiamo.

«Da prima muoiono i nostri piaceri, e quindi le nostre speranze, e quindi i nostri timori; e quando tutto ciò è morto, la polvere chiama la polvere e noi anche moriamo.

«Tutte le cose che noi amiamo ed abbiam care come noi stessi devono dileguarsi e perire. Tale è il nostro crudele destino. L'amore, l'amore medesimo morirebbe, se tutto il resto non morisse... »

Varcando la soglia, ella mise il suo braccio sotto quello di Andrea, presa da un piccolo brivido.

Il cimitero era solitario. Alcuni giardinieri davano acqua alle piante, lungo la muraglia, facendo oscillare l'inaffiatoio con un movimento continuo ed eguale, in silenzio. I cipressi funebri s'inalzavano diritti ed immobili nell'aria: soltanto le loro cime, fatte d'oro dal sole, avevano un leggero tremito. Tra i fusti rigidi e verdastri, come di pietra tiburtina, sorgevano le tombe bianche, le lapidi quadrate, le colonne spezzate, le urne, le arche. Dalla cupa mole dei cipressi scendevano un'ombra misteriosa e una pace religiosa e quasi una dolcezza umana, come dal duro sasso scende un'acqua limpida e benefica. Quella regolarità costante delle forme arboree e quel candor modesto del marmo sepolcrale davano all'anima un senso di riposo grave e soave. Ma in mezzo ai tronchi allineati come le canne sonore d'un organo e in mezzo alle lapidi, gli oleandri ondeggiavano con grazia, tutti invermigliati di fresche ciocche fiorite; i rosai si sfogliavano ad ogni fiato di vento, spargendo su l'erba la loro neve odorante; gli eucalipti inchinavano le pallide capellature che or sì or no parevano argentee; i salici versavano su le croci e su le corone il loro pianto molle; i cacti qua e là mostravano i magnifici grappoli bianchi simili a sciami dormienti di farfalle o a manipoli di rare piume. E il silenzio era interrotto a quando a quando dal grido di qualche uccello disperso.

Andrea disse, indicando il sommo dell'altura:

- Il sepolcro del poeta è lassù, in vicinanza di quella rovina, a sinistra, sotto l'ultimo torrione.

Maria si sciolse da lui, per salire su pei sentieri angusti, tra le siepi basse di mirto. Ella andava innanzi, e l'amante la seguiva. Ella aveva il passo un poco stanco; si soffermava ad ogni tratto; ad ogni tratto si volgeva indietro per sorridere all'amante. Era vestita di nero; portava un velo nero sul viso, che le giungeva fino al labbro superiore; e il suo sorriso tenue tremolava sotto l'orlo nero, si ombrava come d'un'ombra di lutto. Il suo mento ovale era più bianco e più puro delle rose ch'ella portava in mano.

Accadde che, mentre ella si volgeva, una rosa si sfogliò. Andrea si chinò a raccogliere le foglie sul sentiero, innanzi a' piedi di lei. Ella lo guardava. Egli posò i ginocchi a terra, dicendo:

- Adorata!

Un ricordo sorse a lei nello spirito, evidente come una visione.

- Ti ricordi - ella disse - quella mattina, a Schifanoja, quando io ti gettai un pugno di foglie, dalla penultima terrazza? Tu t'inginocchiasti sul gradino, mentre io discendevo... Quei giorni, non so, mi paiono tanto vicini e tanto lontani! Mi pare d'averli vissuti ieri, d'averli vissuti un secolo fa. Ma forse li ho sognati?

Giunsero, tra le siepi basse di mirto, fino all'ultimo torrione a sinistra dov'è il sepolcro del poeta e del Trelawny. Il gelsomino, che s'arrampica per l'antica rovina, era fiorito; ma delle viole non rimaneva che la folta verdura. Le cime dei cipressi giungevano alla linea dello sguardo e tremolavano illuminate più vivamente dall'estremo rossor del sole che tramontava dietro la nera croce del Monte Testaccio. Una nuvola violacea, orlata d'oro ardente, navigava in alto verso l'Aventino.

«Qui sono due amici, le cui vite furono legate. Che anche la loro memoria viva insieme, ora ch'essi giacciono sotto la tomba; e che l'ossa loro non sieno divise, poiché i loro due cuori nella vita facevano un cuor solo: for their two hearts in life were single hearted!»

Maria ripetè l'ultimo verso. Poi disse ad Andrea, mossa da un pensier delicato:

- Scioglimi il velo.

E gli si appressò arrovesciando un poco il capo perché egli le sciogliesse il nodo su la nuca. Le dita di lui le toccavano i capelli, i meravigliosi capelli che, quando erano sparsi, parevano vivere come una foresta, di una vita profonda e dolce; all'ombra de' quali egli aveva tante volte assaporata la voluttà de' suoi inganni e tante volte evocata un'imagine perfida. Ella disse:

- Grazie.

E si tolse il velo di su la faccia, guardando Andrea con occhi un poco abbagliati. Ella appariva molto bella. Il cerchio intorno le occhiaie era più cupo e più cavo, ma le pupille brillavano d'un fuoco più penetrante. Le ciocche dense de' capelli aderivano alle tempie, come ciocche di giacinti bruni, un po' violetti. Il mezzo della fronte, scoperto, libero, splendeva nel contrasto, d'un candor quasi lunare. Tutti i lineamenti s'erano affinati, avevano perduto qualche parte della loro materialità, alla fiamma assidua dell'amore e del dolore.

Ella avvolse al velo nero gli steli delle rose, annodò le estremità con molta cura; poi aspirò il profumo, quasi affondando il viso nel fascio. E poi depose il fascio su la semplice pietra ov'era inciso il nome del poeta. E il suo gesto ebbe una indefinibile espressione, che Andrea non poté comprendere.

Seguitarono innanzi per cercare la tomba di John Keats, del poeta d'Endymion.

Andrea le domandò, soffermandosi a riguardare indietro, verso il torrione:

- Come le hai avute, quelle rose?

Ella gli sorrise ancóra, ma con gli occhi umidi.

- Sono le tue, quelle della notte di neve, rifiorite stanotte. Non ci credi?

Si levava il vento della sera; e il cielo, dietro la collina, era tutto d'un color diffuso d'oro in mezzo a cui la nuvola discioglievasi come consunta da un rogo. I cipressi in ordine, su quel campo di luce, erano più grandiosi e più mistici, tutti penetrati di raggi e vibranti nei culmini acuti. La statua di Psiche in cima al viale medio aveva assunto un pallore di carne. Gli oleandri sorgevano in fondo come mobili cupole di porpora. Su la piramide di Cestio saliva la luna crescente, per un ciel glauco e profondo come l'acqua d'un golfo in quiete.

Essi discesero, lungo il viale medio, fino al cancello. I giardinieri ancóra davan acqua alle piante, sotto la muraglia, facendo oscillare l'inaffiatoio con un movimento continuo ed eguale, in silenzio. Due altri uomini, tenendo per i lembi una coltre mortuaria di velluto e d'argento, la sbattevano forte; e la polvere metteva un luccichio spandendosi. Giungeva dall'Aventino un suono di campane.

Maria si strinse al braccio dell'amante, non reggendo più all'angoscia, sentendosi ad ogni passo mancare il suolo, credendo di lasciare su la via tutto il suo sangue. E, appena fu nella carrozza, ruppe in lacrime disperate, singhiozzando su la spalla dell'amante:

- Io muoio.

Ma ella non moriva. E sarebbe stato meglio, per lei, s'ella fosse morta.

Due giorni dopo, Andrea faceva colazione in compagnia di Galeazzo Secìnaro, a un tavolo del Caffè di Roma. Era una mattinata calda. Il Caffè era quasi deserto, immerso nell'ombra e nel tedio. I servi sonnecchiavano, tra il ronzio delle mosche.

- Dunque - raccontava il principe barbato - sapendo che a lei piace di darsi in circostanze straordinarie e bizzarre, osai...

Raccontava, crudamente, il modo audacissimo con cui aveva potuto prendere Lady Heathfield; raccontava senza scrupoli e senza reticenze, non tralasciando alcuna particolarità, lodando la bontà dell'acquisto al conoscitore. Egli s'interrompeva, di tratto in tratto, per mettere il coltello in un pezzo di carne succulenta e sanguinante, che fumigava, o per vuotare un bicchiere di vin rosso. La sanità e la forza emanavano da ogni sua attitudine.

Andrea Sperelli accese una sigaretta. Ad onta de' conati, egli non riesciva a inghiottire il cibo, a vincere la ripugnanza dello stomaco agitato in sommo da un orribile tremolio. Quando il Secìnaro gli versava il vino, egli beveva insieme il vino e il tossico.

A un certo punto, il principe, sebbene fosse assai poco sottile, ebbe un dubbio; guardò l'antico amante di Elena. Questi non dava, oltre la disappetenza, altro segno esteriore di turbamento; gittava all'aria, con pacatezza, i nuvoli di fumo e sorrideva del solito suo sorriso un po' ironico al narratore giocondo.

Il principe disse:

- Oggi ella verrà da me, per la prima volta.

- Oggi? A casa tua?

- Sì.

- E' un mese eccellente questo, a Roma, per l'amore. Dalle tre alle sei pomeridiane ogni buen retiro nasconde una coppia...

- Infatti - interruppe Galeazzo - ella verrà alle tre.

Ambedue guardaron l'orologio. Andrea chiese:

- Vogliamo andarcene?

- Andiamo - rispose Galeazzo, levandosi. - Faremo la via Condotti insieme. Io vado per fiori al Babuino. Dimmi tu, che sai: quali fiori preferisce?

Andrea si mise a ridere; e gli venne alle labbra un motto atroce. Ma disse, incurantemente:

- Le rose, una volta.

D'innanzi alla Barcaccia, si separarono.

La piazza di Spagna, in quell'ora, aveva già una deserta apparenza estiva. Alcuni operai restauravano un condotto; e un cumulo di terra, disseccato dal sole, levavasi in turbini di polvere ai soffii caldi del vento. La scala della Trinità splendeva bianca e deserta.

Andrea salì, piano piano, soffermandosi ad ogni due o tre gradini, come se trascinasse un peso enorme. Rientrò nella sua casa; restò nella sua stanza, sul letto, fino alle due e tre quarti. Alle due e tre quarti uscì. Prese la via Sistina, seguitò per le Quattro Fontane, oltrepassò il palazzo Barberini; si arrestò poco discosto, innanzi agli scaffali d'un venditore di libri vecchi, aspettando le tre. Il venditore, un omuncolo tutto rugoso e pelloso come una testuggine decrepita, gli offerse i libri. Sceglieva i suoi migliori volumi, a uno a uno, e glie li metteva sotto gli occhi, parlando con una voce nasale d'insopportabile monotonia. Mancavano pochi minuti alle tre. Andrea guardava i titoli dei libri e vigilava i cancelli del palazzo e udiva la voce del libraio confusamente, in mezzo al fragore delle sue vene.

Una donna uscì dai cancelli, discese pel marciapiede verso la piazza, montò in una vettura publica, si allontanò per la via del Tritone.

Andrea discese dietro di lei; prese di nuovo la via Sistina; rientrò nella sua casa. Aspettò che venisse Maria. Gittato sul letto, si mantenne così immobile che pareva non soffrisse più.

Alle cinque, giunse Maria.

Ella disse, ansante:

- Sai? Io posso rimanere con te, tutta la sera, tutta la notte, fino a domattina.

Ella disse:

- Questa sarà la prima e l'ultima notte d'amore! Io parto martedì.

Ella gli singhiozzò su la bocca, tremando forte, stringendoglisi forte contro la persona:

- Fa che io non veda domani! Fammi morire!

Guardandolo nella faccia disfatta, gli domandò:

- Tu soffri? Anche tu... pensi che non ci rivedremo più mai?

Egli provava una difficoltà immensa a parlarle, a risponderle. Aveva la lingua torpida, gli mancavano le parole. Provava un bisogno istintivo di nascondere la faccia, di sottrarsi allo sguardo, di sfuggire alle domande. Non seppe consolarla, non seppe illuderla. Rispose, con una voce soffocata, irriconoscibile:

- Taci.

Le si raccolse ai piedi; restò lungo tempo con la testa sul grembo di lei, senza parlare. Ella gli teneva le mani su le tempie, sentendogli la pulsazione delle arterie ineguale e veemente, sentendolo soffrire. Ed ella stessa non soffriva più del suo proprio dolore, ma soffriva ora del dolore di lui, soltanto del dolore di lui.

Egli si levò; le prese le mani; la trasse nell'altra stanza. Ella obedì.

Nel letto, smarrita, sbigottita, innanzi al cupo ardore del forsennato, ella gridava:

- Ma Che hai? Ma che hai?

Ella voleva guardarlo negli occhi, conoscere quella follia; ed egli nascondeva il viso, perdutamente, nel seno, nel collo, ne' capelli di lei, ne' guanciali.

A un tratto, ella gli si svincolò dalle braccia, con una terribile espressione d'orrore in tutte quante le membra, più bianca de' guanciali, sfigurata più che s'ella fosse allora allora balzata di tra le braccia della Morte.

Quel nome! Quel nome! Ella aveva udito quel nome!

Un gran silenzio le vuotò l'anima. Le si aprì, dentro, un di quegli abissi in cui tutto il mondo sembra scomparire all'urto d'un pensiero unico. Ella non udiva più altro; ella non udiva più nulla. Andrea gridava, supplicava, si disperava invano.

Ella non udiva. Una specie d'istinto la guidò negli atti. Ella trovò gli abiti; si vestì.

Andrea singhiozzava sul letto, demente. S'accorse ch'ella usciva dalla stanza.

- Maria! Maria!

Ascoltò.

- Maria!

Gli giunse il romore della porta che si richiuse.

III

La mattina del 20 giugno, lunedì, alle dieci, incominciò la publica vendita delle tappezzerie e dei mobili appartenuti a S. E. il Ministro plenipotenziario del Guatemala.

Era una mattina ardente. Già l'estate fiammeggiava su Roma. Per la via Nazionale correvano su e giù, di continuo, i tramways, tirati da cavalli che portavano certi strani cappucci bianchi contro il sole. Lunghe file di carri carichi ingombravano la linea delle rotaie. Nella luce cruda, tra le mura coperte d'avvisi multicolori come d'una lebbra, gli squilli delle cornette si mescevano allo schiocco delle fruste, agli urli dei carrettieri.

Andrea, prima di risolversi a varcare la soglia di quella casa, vagò pe' marciapiedi, alla ventura, lungo tempo, provando una orribile stanchezza, una stanchezza così vacua e disperata che quasi pareva un bisogno fisico di morire.

Quando vide uscir dalla porta su la strada un facchino con un mobile su le spalle, si risolse. Entrò, salì le scale rapidamente; udì, dal pianerottolo, la voce del perito.

- Si delibera!

Il banco dell'incanto era nella stanza più ampia, nella stanza del Buddha. Intorno, s'affollavano i compratori. Erano, per la maggior parte, negozianti, rivenditori di mobili usati, rigattieri: gente bassa. Poichè d'estate mancavano gli amatori, i rigattieri accorrevano, sicuri d'ottenere oggetti preziosi a prezzo vile. Un cattivo odore si spandeva nell'aria calda, emanato da quegli uomini impuri.

- Si delibera!

Andrea soffocava. Girò per le altre stanze, ove restavano soltanto le tappezzerie su le pareti e le tende e le portiere, essendo quasi tutte le suppellettili radunate nel luogo dell'asta. Sebbene premesse un denso tappeto, egli udiva risonare il suo passo, distintamente, come se le volte fossero piene di echi.

Trovò una camera semicircolare. Le mura erano d'un rosso profondo, nel quale brillavano disseminati alcuni guizzi d'oro; e davano imagine d'un tempio e d'un sepolcro; davano imagine d'un rifugio triste e mistico, fatto per pregare e per morire. Dalle finestre aperte entrava la luce cruda, come una violazione; apparivano gli alberi della Villa Aldobrandini.

Egli ritornò nella sala del perito. Sentì di nuovo il lezzo. Volgendosi, vide in un angolo la principessa di Ferentino con Barbarella Viti. Le salutò, avvicinandosi.

- Ebbene, Ugenta, che avete comprato?

- Nulla.

- Nulla? Io credevo, invece, che voi aveste comprato tutto.

- Perché mai?

- Era una mia idea... romantica.

La principessa si mise a ridere. Barbarella la imitò.

- Noi ce ne andiamo. Non e possibile rimaner qui, con questo profumo. Addio, Ugenta. Consolatevi.

Andrea s'accostò al banco. Il perito lo riconobbe.

- Desidera qualche cosa il signor conte?

Egli rispose:

- Vedrò.

La vendita procedeva rapidamente. Egli guardava intorno a sé le facce dei rigattieri, si sentiva toccare da quei gomiti, da quei piedi; si sentiva sfiorare da quegli aliti. La nausea gli chiuse la gola.

- Uno! Due! Tre!

Il colpo di martello gli sonava sul cuore, gli dava un urto doloroso alle tempie.

Egli comprò il Buddha, un grande armario, qualche maiolica, qualche stoffa. A un certo punto udì come un suono di voci e di risa feminili, un fruscio di vesti feminili, verso l'uscio. Si volse. Vide entrare Galeazzo Secìnaro con la marchesa di Mount Edgcumbe, e poi la contessa di Lùcoli, Gino Bommìnaco, Giovanella Daddi. Quei gentiluomini e quelle dame parlavano e ridevano forte.

Egli cercò di nascondersi, di rimpicciolirsi, tra la folla che assediava il banco. Tremava, al pensiero d'essere scoperto. Le voci, le risa gli giungevano di sopra le fronti sudate della folla, nel calor soffocante. Per ventura, dopo alcuni minuti, i gai visitatori se ne andarono.

Egli si aprì un varco tra i corpi agglomerati, vincendo il ribrezzo, facendo uno sforzo enorme per non venir meno. Aveva la sensazione, in bocca, come d'un sapore indicibilmente amaro e nauseoso che gli montasse su dal dissolvimento del suo cuore. Gli pareva d'escire, dai contatti di tutti quegli sconosciuti, come infetto di mali oscuri e immedicabili. La tortura fisica e l'angoscia morale si mescolavano.

Quando egli fu nella strada, alla luce cruda, ebbe un po' di vertigine. Con un passo malsicuro, si mise in cerca d'una carrozza. La trovò su la piazza del Quirinale; si fece condurre al palazzo Zuccari.

Ma, verso sera, una invincibile smania l'invase, di rivedere le stanze disabitate. Salì, di nuovo, quelle scale; entrò col pretesto di chiedere se gli avevano i facchini portato i mobili al palazzo.

Un uomo rispose:

- Li portano proprio in questo momento. Ella dovrebbe averli incontrati, signor conte.

Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. Dalle finestre prive di tende entrava lo splendore rossastro del tramonto, entravano tutti gli strepiti della via sottoposta. Alcuni uomini staccavano ancóra qualche tappezzeria dalle pareti, scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, su cui erano visibili qua e là i buchi e gli strappi. Alcuni altri toglievano i tappeti e li arrotolavano, suscitando un polverio denso che riluceva ne' raggi. Un di costoro canticchiava una canzone impudica. E il polverio misto al fumo delle pipe si levava sino al soffitto.

Andrea fuggì.

Nella piazza del Quirinale, d'innanzi alla reggia, sonava una fanfara. Le larghe onde di quella musica metallica si propagavano per l'incendio dell'aria. L'obelisco, la fontana, i colossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si imporporavano come penetrati d'una fiamma impalpabile. Roma immensa, dominata da una battaglia di nuvoli, pareva illuminare il cielo.

Andrea fuggì, quasi folle. Prese la via del Quirinale, discese per le Quattro Fontane, rasentò i cancelli del palazzo Barberini che mandava dalle vetrate baleni; giunse al palazzo Zuccari.

I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro portavano già l'armario su per la scala, faticosamente.

Egli entrò. Come l'armario occupava tutta la larghezza, egli non poté passare oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa.

Francavilla al Mare: luglio-dicembre 1888.

 
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