Il Piacere, di Gabriele D'AnnunzioLiber Liber

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Libro I

I

L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.

Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.

Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.

L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e mezzo. Mancava mezz'ora. Andrea Sperelli si levò dal divano dov'era disteso e andò ad aprire una delle finestre; poi diede alcuni passi nell'appartamento; poi aprì un libro, ne lesse qualche riga, lo richiuse; poi cercò intorno qualche cosa, con lo sguardo dubitante. L'ansia dell'aspettazione lo pungeva così acutamente ch'egli aveva bisogno di muoversi, di operare, di distrarre la pena interna con un atto materiale. Si chinò verso il caminetto, prese le molle per ravvivare il fuoco, mise sul mucchio ardente un nuovo pezzo di ginepro. Il mucchio crollò; i carboni sfavillando rotolarono fin su la lamina di metallo che proteggeva il tappeto; la fiamma si divise in tante piccole lingue azzurrognole che sparivano e riapparivano; i tizzi fumigarono.

Allora sorse nello spirito dell'aspettante un ricordo. Proprio innanzi a quel caminetto Elena un tempo amava indugiare, prima di rivestirsi, dopo un'ora di intimità. Ella aveva molt'arte nell'accumulare gran pezzi di legno su gli alari. Prendeva le molle pesanti con ambo le mani e rovesciava un po' indietro il capo ad evitar le faville. Il suo corpo sul tappeto, nell'atto un po' faticoso, per i movimenti de' muscoli e per l'ondeggiar delle ombre pareva sorridere da tutte le giunture, e da tutte le pieghe, da tutti i cavi, soffuso d'un pallor d'ambra che richiamava al pensiero la Danae del Correggio. Ed ella aveva appunto le estremità un po' correggesche, le mani e i piedi piccoli e pieghevoli, quasi direi arborei come nelle statue di Dafne in sul principio primissimo della metamorfosi favoleggiata.

Appena ella aveva compiuta l'opera, le legna conflagravano e rendevano un sùbito bagliore. Nella stanza quel caldo lume rossastro e il gelato crepuscolo entrante pe' vetri lottavano qualche tempo. L'odore del ginepro arso dava al capo uno stordimento leggero. Elena pareva presa da una specie di follia infantile, alla vista della vampa. Aveva l'abitudine, un po' crudele, di sfogliar sul tappeto tutti i fiori ch'eran ne' vasi, alla fine d'ogni convegno d'amore. Quando tornava nella stanza, dopo essersi vestita, mettendo i guanti o chiudendo un fermaglio sorrideva in mezzo a quella devastazione; e nulla eguagliava la grazia dell'atto che ogni volta ella faceva sollevando un poco la gonna ed avanzando prima un piede e poi l'altro perché l'amante chino legasse i nastri delle scarpe ancóra disciolti.

Il luogo non era quasi in nulla mutato. Da tutte le cose che Elena aveva guardate o toccate sorgevano i ricordi in folla e le imagini del tempo lontano rivivevano tumultuariamente. Dopo circa due anni, Elena stava per rivarcar quella soglia. Tra mezz'ora, certo, ella sarebbe venuta, ella si sarebbe seduta in quella poltrona, togliendosi il velo di su la faccia, un poco ansante, come una volta; ed avrebbe parlato. Tutte le cose avrebbero riudito la voce di lei, forse anche il riso di lei, dopo due anni.

Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque, fuori della Porta Pia, in una carrozza. La data era rimasta incancellabile nella memoria di Andrea. Egli ora, aspettando, poteva evocare tutti gli avvenimenti di quel giorno, con una lucidezza infallibile. La visione del paesaggio nomentano gli si apriva d'innanzi ora in una luce ideale, come uno di quei paesaggi sognati in cui le cose paiono essere visibili da lontano per un irradiamento che si prolunga dalle loro forme.

La carrozza chiusa scorreva con un rumore eguale, al trotto: le muraglie delle antiche ville patrizie passavano d'innanzi agli sportelli, biancastre, quasi oscillanti, con un movimento continuo e dolce. Di tratto in tratto si presentava un gran cancello di ferro, a traverso il quale vedevasi un sentiero fiancheggiato di alti bussi, o un chiostro di verdura abitato da statue latine, o un lungo portico vegetale dove qua e là raggi di sole ridevano pallidamente.

Elena taceva, avvolta nell'ampio mantello di lontra, con un velo su la faccia, con le mani chiuse nel camoscio. Egli aspirava con delizia il sottile odore di eliotropio esalante dalla pelliccia preziosa, mentre sentiva contro il suo braccio la forma del braccio di lei. Ambedue si credevano lontani dagli altri, soli; ma d'improvviso passava la carrozza nera d'un prelato; o un buttero a cavallo, o una torma di chierici violacei, o una mandra di bestiame.

A mezzo chilometro dal ponte ella disse:

- Scendiamo.

Nella campagna la luce fredda e chiara pareva un'acqua sorgiva; e, come gli alberi al vento ondeggiavano, pareva per un'illusion visuale che l'ondeggiamento si comunicasse a tutte le cose.

Ella disse, stringendosi a lui e vacillando sul terreno aspro:

- Io parto stasera. Questa è l'ultima volta...

Poi tacque; poi di nuovo parlò, a intervalli, su la necessità della partenza, su la necessità della rottura, con un accento pieno di tristezza. Il vento furioso le rapiva le parole di su le labbra. Ella seguitava. Egli interruppe, prendendole la mano e con le dita cercando tra i bottoni la carne del polso:

- Non più! Non più!

Si avanzavano lottando contro le folate incalzanti. Ed egli, presso alla donna, in quella solitudine alta e grave, si sentì d'improvviso entrar nell'anima come l'orgoglio d'una vita più libera, una sovrabbondanza di forze.

- Non partire! Non partire! Io ti voglio ancóra, sempre...

Le nudò il polso e insinuò le dita nella manica, tormentandole la pelle con un moto inquieto in cui era il desiderio di possessi maggiori.

Ella gli volse uno di quegli sguardi che lo ubriacavano come calici di vino. Il ponte era da presso, rossastro, nell'illuminazione del sole. Il fiume pareva immobile e metallico in tutta la lunghezza della sua sinuosità. I giunchi s'incurvavano su la riva, e le acque urtavano leggermente alcune pertiche infisse nella creta per reggere forse le lenze.

Allora egli cominciò ad incitarla con i ricordi. Le parlava de' primi giorni, del ballo al Palazzo Farnese, della caccia nella campagna del Divino Amore, degli incontri mattutini nella piazza di Spagna lungo le vetrine degli orefici o per la via Sistina tranquilla e signorile, quando ella usciva dal palazzo Barberini seguita dalle ciociare che le offerivano nei canestri le rose.

- Ti ricordi? Ti ricordi?

- Sì.

- E quella sera de' fiori, in principio; quando io venni con tanti fiori... Tu eri sola, accanto alla finestra: leggevi. Ti ricordi?

- Sì, sì.

- Io entrai. Tu ti volgesti appena; tu mi accogliesti duramente. Che avevi? Io non so. Posai il mazzo sopra il tavolino e aspettai. Tu incominciasti a parlare di cose inutili, senza volontà e senza piacere. Io pensai, scorato: «Già ella non mi ama più!» Ma il profumo era grande: tutta la stanza già n'era piena. Io ti veggo ancóra, quando afferrasti con le due mani il mazzo e dentro ci affondasti tutta la faccia, aspirando. La faccia risollevata pareva esangue e gli occhi parevano alterati come da una specie di ebrietà...

- Segui, segui! - disse Elena, con la voce fievole, china sul parapetto, incantata dal fascino delle acque correnti.

- Poi, sul divano: ti ricordi? Io ti ricoprivo il petto, le braccia, la faccia, con i fiori, opprimendoti. Tu risorgevi continuamente, porgendo la bocca, la gola, le palpebre socchiuse. Fra la tua pelle e le mie labbra sentivo le foglie fredde e molli. Se io ti baciavo il collo, tu rabbrividivi in tutto il corpo, e tendevi le mani per tenermi lontano. Oh, allora... Avevi la testa affondata nei cuscini, il petto nascosto dalle rose, le braccia nude sino al gomito; e nulla era più amoroso e più dolce che il piccolo tremito delle tue mani pallide su le mie tempie... Ti ricordi?

- Sì. Segui!

Egli seguiva, crescendo nella tenerezza. Inebriato delle sue parole, egli quasi perdeva la conscienza di ciò che diceva. Elena, con le spalle volte alla luce, andavasi chinando all'amante. Ambedue sentivano a traverso le vesti il contatto indeciso dei corpi. Sotto di loro, le acque del fiume passavano lente e fredde alla vista; i grandi giunchi sottili, come capigliature, vi si incurvavano entro ad ogni soffio e fluttuavano largamente.

Poi non parlarono più; ma, guardandosi, sentivano negli orecchi un rumore continuo che si prolungava indefinitamente portando seco una parte dell'essere loro, come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo del loro cervello e si spandesse ad empire tutta la campagna circostante.

Elena, sollevandosi, disse:

- Andiamo. Ho sete. Dove si può chiedere acqua?

Si diressero allora verso l'osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carrettieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell'occaso feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.

Come i due entrarono, nella gente dell'osteria non avvenne alcun moto di meraviglia. Tre o quattro uomini febbricitanti stavano intorno a un braciere quadrato, taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un angolo, tenendo ancóra fra i denti la pipa spenta. Due giovinastri, scarni e biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno d'ardor bestiale. E l'ostessa, una femmina pingue, teneva fra le braccia un bambino, cullandolo pesantemente.

Mentre Elena beveva l'acqua nel bicchiere di vetro, la femmina le mostrava il bambino, lamentandosi.

- Guardate, signora mia! Guardate, signora mia!

Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l'interno della bocca era coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fosse di già fuggita da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano.

- Sentite, signora mia, le mani come sono fredde. Non può più bere; non può più inghiottire; non può più dormire...

La femmina singhiozzava. Gli uomini febbricitanti guardavano con occhi pieni di una immensa prostrazione. Ai singhiozzi i due giovinastri fecero un atto d'impazienza.

- Venite, venite! - disse Andrea ad Elena, prendendole il braccio, dopo aver lasciato sul tavolo una moneta. E la trasse fuori.

Insieme, tornarono verso il ponte. Il corso dell'Aniene ora andavasi accendendo ai fuochi dell'occaso. Una linea scintillante attraversava l'arco; e in lontananza le acque prendevano un color bruno ma più lucido, come se sopra vi galleggiassero chiazze d'olio o di bitume. La campagna accidentata, simile ad una immensità di rovine, aveva una general tinta violetta. Verso l'Urbe il cielo cresceva in rossore.

- Povera creatura! - mormorò Elena con suono profondo di misericordia, stringendosi al braccio d'Andrea.

Il vento imperversava. Una torma di cornacchie passò nell'aria accesa, in alto, schiamazzando.

Allora, d'improvviso, una specie di esaltazione sentimentale prese l'anima di quei due, in conspetto della solitudine. Pareva che qualche cosa di tragico e di eroico entrasse nella loro passione. I culmini del sentimento fiammeggiarono sotto l'influenza del tramonto tumultuoso. Elena si arrestò.

- Non posso più - ella disse, ansando.

La carrozza era ancóra lontana, immobile, nel punto dove essi l'avevano lasciata.

- Ancóra un poco, Elena! Ancóra un poco! Vuoi ch'io ti porti?

Andrea, preso da un impeto lirico infrenabile, si abbandonò alle parole.

«Perché ella voleva partire? Perché ella voleva spezzare l'incanto? i loro destini ormai non erano legati per sempre? Egli aveva bisogno di lei per vivere, degli occhi, della voce, del pensiero di lei... Egli era tutto penetrato da quell'amore; aveva tutto il sangue alterato come da un veleno, senza rimedio. Perché ella voleva fuggire? Egli si sarebbe avviticchiato a lei, l'avrebbe prima soffocata sul suo petto. No, non poteva essere. Mai! Mai!»

Elena ascoltava, a testa bassa, affaticata contro il vento, senza rispondere. Dopo un poco, ella sollevò il braccio per far cenno al cocchiere di avanzarsi. I cavalli scalpitarono.

- Fermatevi a Porta Pia - gridò la signora, salendo nella carrozza insieme all'amante.

E con un movimento subitaneo si offerse al desiderio di lui che le baciò la bocca, la fronte, i capelli, gli occhi, la gola, avidamente, rapidamente, senza più respirare.

- Elena! Elena!

Un vivo bagliore rossastro entrò nella carrozza, riflesso dalle case color di mattone. Si avvicinava nella strada il trotto sonante di molti cavalli.

Elena, piegandosi su la spalla dell'amante con una immensa dolcezza di sommessione, disse:

- Addio, amore! Addio! Addio!

Come ella si sollevò, a destra e a sinistra passarono a gran trotto dieci o dodici cavalieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. Uno, il duca di Beffi, passando rasente, si curvò in arcione per guardare nello sportello.

Andrea non parlò più. Egli sentiva ora tutto il suo essere mancare in un abbattimento infinito. La puerile debolezza della sua natura, sedata la prima sollevazione, gli dava ora un bisogno di lacrime. Egli avrebbe voluto piegarsi, umiliarsi, pregare, muovere la pietà della donna con le lacrime. Aveva la sensazione confusa e ottusa d'una vertigine; e un freddo sottile gli assaliva la nuca, gli penetrava la radice dei capelli.

- Addio - ripeté Elena.

Sotto l'arco della Porta Pia la carrozza si fermava, perché egli discendesse.

Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva nella memoria quel giorno lontano; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Che aveva fatto egli, appena scomparsa la carrozza di Elena verso le Quattro Fontane? Nulla, in verità, di straordinario. Anche allora, come sempre, appena lontano l'oggetto immediato da cui il suo spirito traeva quella specie di esaltazione fatua, egli aveva riacquistato quasi d'un tratto la tranquillità, la conscienza della vita comune, l'equilibrio. Era salito su una vettura publica per tornare a casa; là s'era messo l'abito nero, come al solito, non dimenticando alcuna particolarità di eleganza; ed era andato a pranzo da sua cugina, come in ogni altro mercoledì, al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose dell'esistenza esteriore avevano su lui un gran potere d'oblio, lo occupavano, lo eccitavano al godimento rapido dei piaceri mondani.

Quella sera, infatti, il raccoglimento gli era venuto assai tardi, quando cioè rientrando nella sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo il piccolo pettine di tartaruga dimenticato da Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, tutta la notte, aveva sofferto, e con molti artifici del pensiero aveva acuito il suo dolore.

Ma il momento si approssimava. L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: «Fra pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?»

L'ansia in lui era verace e l'amore per quella donna era in lui rinato veracemente; ma la espressione verbale e plastica de' sentimenti in lui era sempre così artificiosa, così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne' più gravi commovimenti dell'animo.

Cercò d'imaginare la scena; compose alcune frasi; scelse con gli occhi intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all'attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezza delle gengive, ricordando che un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto la bocca. La sua vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell'amore alcun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, nell'esercizio dell'amore, trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere appunto gli cattivavano l'animo delle donne. Egli aveva in sé qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l'uomo di una notte erculea e l'amante timido, candido, quasi verginale. La ragione del suo potere stava in questo: che, nell'arte d'amare, egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nella ipocrisia.

«Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?» Egli si smarriva, mentre i minuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali disposizioni Elena sarebbe venuta.

L'aveva incontrata la mattina innanzi per la via de' Condotti, mentre ella guardava nelle vetrine. Era tornata a Roma da pochissimi giorni, dopo una lunga assenza oscura. L'incontro improvviso aveva dato ad ambedue una commozione viva; ma la publicità della strada li aveva costretti ad un riserbo cortese, cerimonioso, quasi freddo. Egli le aveva detto, con un'aria grave, un po' triste, guardandola negli occhi: - Ho tante cose da raccontarvi, Elena. Venite da me, domani? Nulla è mutato nel buen retiro. - Ella aveva risposto, semplicemente: - Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa. Ho anch'io qualche cosa da dirvi. Ora lasciatemi.

Ella aveva accettato sùbito l'invito, senza esitazione alcuna, senza metter patti, senza mostrar di dare importanza alla cosa. Una tal prontezza aveva da prima suscitato in Andrea non so qual preoccupazione vaga. Sarebbe ella venuta come un'amica o come un'amante? Sarebbe venuta a riallacciare l'amore o a rompere ogni speranza? In quei due anni che era mai accaduto nell'animo di lei? Andrea non sapeva; ma gli durava ancóra la sensazione avuta dallo sguardo di lei, nella strada, quando egli erasi inchinato a salutarla. Era pur sempre il medesimo sguardo, così dolce, così profondo, così lusinghevole, tra i lunghissimi cigli.

Mancavano due o tre minuti all'ora. L'ansia dell'aspettante crebbe a tal punto ch'egli credeva di soffocare. Andò alla finestra, di nuovo, e guardò verso le scale della Trinità. Elena, un tempo, saliva per quelle scale ai convegni. Mettendo il piede sull'ultimo gradino, si soffermava un istante; poi traversava rapida quel tratto di piazza ch'è d'innanzi alla casa dei Casteldelfino. Si udiva il suo passo un poco ondeggiante risonare sul lastrico, se la piazza era silenziosa.

L'orologio batté le quattro. Giungeva dalla piazza di Spagna e dal Pincio il romore delle vetture. Molta gente camminava sotto gli alberi, d'innanzi alla Villa Medici. Due donne stavano sul sedile di pietra, sotto la chiesa, a guardia di alcuni bimbi che correvano intorno l'obelisco. L'obelisco era tutto roseo, investito dal sole declinante; e segnava un'ombra lunga, obliqua, un po' turchina. L'aria diveniva rigida, come più s'appressava il tramonto. La città, in fondo, si tingeva d'oro, contro un cielo pallidissimo sul quale già i cipressi del Monte Mario si disegnavano neri.

Andrea trasalì. Vide un'ombra apparire in cima alla piccola scala che costeggia la casa dei Casteldelfino e discende su la piazzetta Mignanelli. Non era Elena; ma una signora che voltò per la via Gregoriana, camminando adagio.

«S'ella non venisse?» dubitò, ritraendosi dalla finestra. E nel ritrarsi dall'aria fredda, sentì più molle il tepore della stanza, più acuto il profumo del ginepro e delle rose, più misteriosa l'ombra delle tende e delle portiere. Pareva che in quel momento la stanza fosse tutta pronta ad accogliere la donna desiderata. Egli pensò alla sensazione che Elena avrebbe avuto entrando. Certo, ella sarebbe stata vinta da quella dolcezza così piena di memorie; avrebbe d'un tratto perduta ogni nozione della realtà, del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno de' convegni abituali, di non aver mai interrotta quella pratica di voluttà, d'esser pur sempre la Elena d'una volta. Se il teatro dell'amore era immutato, perché sarebbe mutato l'amore? Certo, ella avrebbe sentita la profonda seduzione delle cose una volta dilette.

Allora cominciò nell'aspettante una nuova tortura. Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico dànno alle cose un'anima sensibile e mutabile come l'anima umana; e leggono in ogni cosa, nelle forme, ne' colori, ne' suoni, ne' profumi, un simbolo trasparente, l'emblema d'un sentimento o d'un pensiero; ed in ogni fenomeno, in ogni combinazion di fenomeni credono indovinare uno stato psichico, una significazione morale. Talvolta la visione è così lucida che produce in quegli spiriti un'angoscia: si sentono essi come soffocare dalla pienezza della vita rivelata e si sbigottiscono de' loro stessi fantasmi.

Andrea vide nell'aspetto delle cose intorno riflessa l'ansietà sua; e come il suo desiderio si sperdeva inutilmente nell'attesa e i suoi nervi s'indebolivano, così parve a lui che l'essenza direi quasi erotica delle cose anche vaporasse e si dissipasse inutilmente. Tutti quegli oggetti, in mezzo a' quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano testimoni de' suoi amori, de' suoi piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi. Nella sua memoria, ciascuna forma, ciascun colore armonizzava con una imagine muliebre, era una nota in un accordo di bellezza, era un elemento in una estasi di passione. Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l'alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poiché egli ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione non comprendeva la comedia dell'amore senza gli scenarii.

Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. Ma nell'artificio quasi sempre egli metteva tutto sé; vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d'un incantatore il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.

Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d'una religione, gli strumenti d'un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o da cui l'imaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza. Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell'essenza che vi fu un giorno contenuta, così certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell'amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch'egli n'era turbato talvolta come dalla presenza d'un potere soprannaturale.

Pareva, in vero, ch'egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s'egli era nelle braccia dell'amata, dava a sé stesso ed al corpo ed all'anima di lei una di quelle supreme feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma s'egli era solo, un'angoscia grave lo stringeva, un rammarico inesprimibile, al pensiero che quel grande e raro apparato d'amore si perdeva inutilmente.

Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch'esse aspettanti, esalavano tutta la intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i versi argentei in gloria della donna e del vino, frammisti così armoniosamente agli indefinibili colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo, scintillavano percossi dal tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla finestra, e rendevan più diafana l'ombra vicina, propagavano un bagliore ai cuscini sottostanti. L'ombra, ovunque, era diafana e ricca, quasi direi animata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno i santuarii oscuri ov'è un tesoro occulto. Il fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle sue fiamme era, secondo l'imagine di Percy Shelley, come una gemma disciolta in una luce sempre mobile. Pareva all'amante che ogni forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in quell'attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non veniva!

Sorse allora nella mente di lui, per la prima volta, il pensiero del marito.

Elena non era più libera. Aveva rinunziato alla bella libertà della vedovanza, passando in seconde nozze con un gentiluomo d'Inghilterra, con un Lord Humphrey Heathfield, alcuni mesi dopo l'improvvisa partenza da Roma. Andrea infatti si ricordava di aver visto l'annunzio del matrimonio in una cronaca mondana, nell'ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e d'aver sentito fare su la nuova Lady Helen Heathfield una infinità di commenti per tutte le villeggiature di quell'autunno romano. Anche si ricordava di avere incontrato una decina di volte, nel precedente inverno, quel Lord Humphrey ai sabati della principessa Giustiniani-Bandini e nelle vendite publiche. Era un uomo di quarant'anni, d'una biondezza cinerea, calvo su le tempie, quasi esangue, con due occhi chiari ed acuti, con una grande fronte sporgente solcata di vene. Il suo nome, Heatfield, era ben quello del luogotenente generale che fu l'eroe della celebre difesa di Gibilterra (1779-83), reso immortale anche dal pennello di Joshua Reynolds.

Qual parte aveva quell'uomo nella vita di Elena? Da quali legami, oltre che dalle nozze, era Elena legata a colui? Quali transformazioni aveva operato in lei il contatto materiale e spirituale del marito?

Gli enigmi sorsero d'un tratto nell'animo di Andrea, tumultuariamente. In mezzo al tumulto, gli apparve netta e precisa l'imagine del connubio fisico di que' due; e il dolore fu così insopportabile ch'egli si levò col balzo istintivo d'un uomo il quale si senta d'improvviso ferire in un membro vitale. Attraversò la stanza, uscì nell'anticamera, origliò alla porta ch'egli aveva lasciata socchiusa. Eran quasi le cinque meno un quarto.

Dopo un poco, egli udì su per le scale un passo, un fruscìo di vesti, un respiro affaticato. Certo, una donna saliva. Tutto il sangue gli si mosse con tal veemenza, che, snervato dalla lunga aspettazione, egli credeva di smarrire le forze e di cadere. Ma pure udì il suono del piede feminile su gli ultimi gradini, un respiro più lungo, il passo sul pianerottolo, su la soglia. Elena entrò.

- Oh, Elena! Finalmente.

Era in quelle parole così profonda l'espressione dell'angoscia durata che alla donna apparve su le labbra un'indefinibile sorriso, misto di misericordia e di piacere. Egli le prese la destra, ch'era senza guanto, traendola verso la stanza. Ella ansava ancóra; ma aveva per tutto il volto diffusa una lieve fiamma, sotto il velo nero.

- Perdonatemi, Andrea. Ma non ho potuto liberarmi prima d'ora. Tante visite... tanti biglietti da restituire... Sono giornate faticose. Non ne posso più. Come fa caldo qui! Che profumo!

Ella stava ancóra in piedi, nel mezzo della stanza; un po' titubante e preoccupata, sebbene parlasse rapida e leggera. Un mantello di panno Carmélite, con maniche nello stile dell'Impero tagliate dall'alto in larghi sgonfi, spianate e abbottonate al polso, con un immenso bavero di volpe azzurra per unica guarnitura, le copriva tutta la persona senza toglierle la grazia della snellezza. Ella guardava Andrea, con gli occhi pieni di non so che sorriso tremulo che ne velava l'acuta indagine. Disse:

- Voi siete un poco mutato. Non saprei dirvi in che. Avete ora nella bocca, per esempio, qualche cosa di amaro ch'io non conosceva.

Disse queste parole con un tono di familiarità affettuosa. La voce di lei, risonando nella stanza, dava ad Andrea un diletto così vivo ch'egli esclamò:

- Parlate, Elena; parlate ancóra!

Ella rise. E domandò:

- Perché?

Egli rispose, prendendole la mano:

- Voi lo sapete.

Ella ritrasse la mano; e guardò il giovine fin dentro gli occhi.

- Io non so più nulla.

- Voi siete dunque mutata?

- Molto mutata.

Già il «sentimento» li traeva ambedue. La risposta di Elena chiariva d'un tratto il problema. Andrea comprese; e, rapidamente ma precisamente, per un fenomeno d'intuizione non raro in certi spiriti esercitati all'analisi dell'essere interiore, intravide l'attitudine morale della visitatrice e lo svolgimento della scena che doveva seguire. Egli però era già tutto invaso dalla malia di quella donna, come una volta. Inoltre, la curiosità lo pungeva forte. Disse:

- Non sedete?

- Sì, un momento.

- Là, su la poltrona.

- Ah, la mia poltrona! - ella stava per dire, con un moto spontaneo, poiché l'aveva riconosciuta; ma si trattenne.

Era una seggiola ampia e profonda, ricoperta d'un cuoio antico, sparso di Chimere pallide a rilievo, in sul gusto di quello che ricopre le pareti d'una stanza del palazzo Chigi. Il cuoio aveva preso quella tinta calda e opulenta che ricorda certi fondi di ritratti veneziani, o un bel bronzo conservante appena una traccia di doratura o una scaglia di tartaruga fina da cui trasparisca una foglia d'oro. Un gran cuscino, tagliato in una dalmatica, d'un colore assai disfatto, di quel colore che i setaiuoli fiorentini chiamavano rosa di gruogo, rendeva molle la spalliera.

Elena sedette. Posò su l'orlo della tavola da tè il guanto destro e il portabiglietti ch'era una sottile guaina d'argento liscio con sopra incise due giarrettiere allacciate, recanti un motto. Quindi si tolse il velo, sollevando le braccia per sciogliere il nodo dietro la testa; e l'atto elegante destò qualche onda lucida nel velluto: alle ascelle, lungo le maniche, lungo il busto. Poiché il calore del camino era soverchio, ella si fece schermo con la mano nuda che s'illuminò come un alabastro rosato: gli anelli nel gesto scintillarono. Ella disse:

- Coprite il fuoco; vi prego. Brucia troppo.

- Non vi piace più la fiamma? Ed eravate, un tempo, una salamandra! Questo camino è memore...

- Non movete le memorie - ella interruppe. - Coprite dunque il fuoco, e accendete un lume. Io farò il tè.

- Non volete togliervi il mantello?

- No, perché debbo andar via presto. E' già tardi.

- Ma soffocherete.

Ella si levò, con un piccolo atto d'impazienza.

- Aiutatemi, allora.

Andrea sentì, nel toglierle il mantello, il profumo di lei. Non era più quello d'una volta; ma era d'una tal bontà che gli giunse fino ai precordii.

- Avete un altro profumo - egli disse, con un accento singolare.

Rispose ella, semplicemente:

- Sì. Vi piace?

Andrea, ancóra tenendo il mantello fra le mani, affondò il volto nella pelliccia che ornava il collo e che più quindi era profumata dal contatto della carne e de' capelli di lei. Poi chiese:

- Come si chiama?

- E' senza nome.

Ella di nuovo sedette su la poltrona, entrando nel chiaror della fiamma. Aveva un abito nero, tutto composto di merletti in mezzo a cui brillavano perline innumerevoli, nere e d'acciaio.

Il crepuscolo moriva contro i vetri. Andrea accese su i candelabri di ferro certe candele attorte, di colore aranciato molto intenso. Poi trasse d'innanzi al caminetto il parafuoco.

Ambedue, in quell'intervallo di silenzio, erano nell'animo perplessi. Elena non aveva la conscienza esatta del momento, né la sicurezza di sé; pur tentando uno sforzo, non riusciva a riafferrare il suo proposito, a raccogliere le sue intenzioni, a riprendere la sua volontà. D'innanzi a quell'uomo a cui un tempo l'aveva stretta una così alta passione, in quel luogo dove ella aveva vissuto la sua più ardente vita, sentiva a poco a poco tutti i pensieri vacillare, dissolversi, dileguarsi. Ormai il suo spirito stava per entrare in quello stato delizioso, direi quasi di fluidità sentimentale, in cui riceve ogni movimento, ogni attitudine, ogni forma dalle vicende esterne, come un vapore aereo dalle mutazioni dell'atmosfera. Esitava, prima di abbandonarvisi.

Andrea disse, piano, quasi umile:

- Va bene, così?

Ella gli sorrise, senza rispondere, poiché quelle parole le avevano dato un diletto indefinibile, quasi un tremolio di dolcezza a sommo del petto. Incominciò la sua opera delicata. Accese la lampada sotto il vaso dell'acqua; aprì la scatola di lacca, dov'era conservato il tè, e mise nella porcellana una quantità misurata d'aroma; poi preparò due tazze. I suoi gesti erano lenti e un poco irresoluti, come di chi operando abbia l'animo rivolto ad altro oggetto; le sue mani bianche e purissime avevano nel muoversi una leggerezza quasi di farfalle, non parendo toccare le cose ma appena sfiorarle; dai suoi gesti, dalle sue mani, da ogni lieve ondulamento del suo corpo usciva non so che tenue emanazion di piacere e andava a blandire il senso dell'amante.

Andrea, seduto da presso, la guardava con gli occhi un poco socchiusi, bevendo per le pupille il fascino voluttuoso che nasceva da lei. Era come se ogni moto divenisse per lui tangibile idealmente. Quale amante non ha provato questo inesprimibile gaudio, in cui par quasi che la potenza sensitiva del tatto si affini così da avere la sensazione senza la immediata materialità del contatto?

Ambedue tacevano. Elena s'era abbandonata sul cuscino: aspettava che l'acqua bollisse. Guardando la fiamma azzurra della lampada, toglieva dalle dita gli anelli, e se li rimetteva di continuo, smarrita in un'apparenza di sogno. Non era un sogno, ma come una rimembranza vaga, ondeggiante, confusa, fuggevole. Tutte le memorie dell'amor passato le risorgevano nello spirito, ma senza chiarezza: e le davano una espressione incerta ch'ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore. Pareva come quando da molti fiori estinti, de' quali ciascuno ha perduto ogni singolarità di colori e di effluvi, nasce una comune esalazione in cui e' possibile riconoscere i diversi elementi. Pareva ch'ella portasse in sé l'ultimo alito dei ricordi già spirati, l'ultima traccia delle gioie già scomparse, l'ultimo risentimento della felicità già morta, qualche cosa di simile a un vapor dubbio da cui emergessero imagini senza nome, senza contorno, interrotte. Ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore; ma a poco a poco quell'agitazione misteriosa, quella inquietudine indefinibile aumentavano e le gonfiavano il cuore di dolcezza e di amarezza. I presentimenti oscuri, i segreti rimpianti, i timori superstiziosi, le aspirazioni combattute, i dolori soffocati, i sogni travagliati, i desiderii non appagati, tutti quei torbidi elementi che componevano l'interior vita di lei ora si rimescolavano e tempestavano.

Ella taceva, tutta raccolta in sé. Mentre il suo cuore quasi traboccava, ella godeva accumularvi ancóra col silenzio la commozione. Parlando, ella l'avrebbe dispersa.

Il vaso dell'acqua incominciò a levare il bollore pianamente.

Andrea su la sedia bassa, tenendo il gomito poggiato al ginocchio e il mento nella palma, guardava ora la bella creatura con tale intensità ch'ella, pur non volgendosi, sentiva su la sua persona quella persistenza e ne aveva quasi un vago malessere fisico. Andrea, guardandola, pensava: «Io ho posseduto questa donna, un giorno.» Egli ripeteva a sé stesso l'affermazione, per convincersi; e faceva, per convincersi, uno sforzo mentale, richiamava alla memoria una qualche attitudine di lei nel piacere, cercava di rivederla fra le sue braccia. La certezza del possesso gli sfuggiva. Elena gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta.

Ella era, in verità, ancor più desiderabile che una volta. L'enigma quasi direi plastico della sua bellezza era ancor più oscuro e attirante. La sua testa dalla fronte breve, dal naso dritto, dal sopracciglio arcuato, d'un disegno così puro, così fermo, così antico, che pareva essere uscita dal cerchio d'una medaglia siracusana, aveva negli occhi e nella bocca un singolar contrasto di espressione: quell'espressione passionata, intensa, ambigua, sopraumana, che solo qualche moderno spirito, impregnato di tutta la profonda corruzione dell'arte, ha saputo infondere in tipi di donna immortali come Monna Lisa e Nelly O' Brien.

«Altri ora la possiede» pensava Andrea, guardandola. «Altre mani la toccano, altre labbra la baciano.» E, mentre egli non giungeva a formar nella fantasia l'imagine dell'unione di sé con lei, vedeva nuovamente invece, con implacabile precisione, l'altra imagine. E una smania l'invadeva, di sapere, di scoprire, d'interrogare, acutissima.

Elena s'era chinata al tavolo, poiché il vapore fuggiva, per la commessura del coperchio, dal vaso bollente. Versò appena un poco d'acqua sul tè; poi mise due pezzi di zucchero in una sola tazza; poi versò sul tè altra acqua; poi spense la fiamma azzurra. Ella fece tutto questo con una cura quasi tenera, ma senza mai volgersi ad Andrea. L'interno tumulto risolvevasi ora in un intenerimento così molle ch'ella si sentiva chiudere la gola e inumidire gli occhi; e non poteva resistere. Tanti pensieri contrarii, tante contrarie agitazioni e alterazioni dell'animo si raccoglievano ora in una lacrima.

Ella, per un gesto, urtò il portabiglietti d'argento, che cadde sul tappeto. Andrea lo raccolse, e guardò le due giarrettiere incise. Portava ciascuna un motto sentimentale: From Dreamland - A stranger hither; Dal Paese del Sogno - Straniera qui.

Com'egli levava gli occhi, Elena gli offerì la tazza fumante, con un sorriso un poco velato dalla lacrima.

Vide egli quel velo; e innanzi a quell'inaspettato segno di tenerezza fu invaso da un tale impeto d'amore e di riconoscenza che posò la tazza, s'inginocchiò, prese la mano d'Elena, sopra vi mise la bocca.

- Elena! Elena!

Le parlava a voce bassa, in ginocchio, così da vicino che pareva volesse beverne l'alito. L'ardore era sincero, mentre le parole talvolta mentivano. «Egli l'amava, l'aveva sempre amata, non aveva mai mai mai potuto dimenticarla! aveva sentito, rincontrandola, tutta la sua passione insorgere con tal violenza che n'aveva avuto quasi terrore: una specie di terrore ansioso, come s'egli avesse intravisto, in un lampo, lo sconvolgimento di tutta la sua vita.»

- Tacete! Tacete! - disse Elena, con il volto atteggiato di dolore, pallidissima.

Andrea seguitava, sempre in ginocchio, accendendosi nell'imaginazione del sentimento. «Egli aveva sentito trascinar via da lei, in quella fuga improvvisa, la maggior e miglior parte di sé. Dopo, egli non sapeva dirle tutta la miseria dei suoi giorni, l'angoscia de' suoi rimpianti, l'assidua implacabile divorante sofferenza interiore. La tristezza era per lui in fondo a tutte le cose. La fuga del tempo gli era un supplizio insopportabile. Non tanto egli rimpiangeva i giorni felici quanto si doleva de' giorni che ora passavano inutilmente per la felicità. Quelli almeno gli avevan lasciato un ricordo: questi gli lasciavano un rammarico profondo, quasi un rimorso... La sua vita si consumava in sé stessa, portando in sé la fiamma inestinguibile d'un sol desiderio, l'incurabile disgusto d'ogni altro godimento. Talvolta lo assalivano impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati ardori verso il piacere; ed era come una ribellion violenta del cuore non saziato, come un sussulto della speranza che non si rassegnava a morire. Talvolta anche gli pareva d'esser ridotto a nulla; e rabbrividiva innanzi ai grandi abissi vacui del suo essere: di tutto l'incendio della sua giovinezza non gli restava che un pugno di cenere. Talvolta anche, a simiglianza d'uno di que' sogni che si dileguano su l'alba, tutto il suo passato, tutto il suo presente si dissolvevano; si distaccavano dalla sua conscienza e cadevano, come una spoglia fragile, come una veste vana. Egli non si ricordava più di nulla, come un uomo escito da una lunga infermità, come un convalescente stupefatto. Egli alfine obliava; sentiva l'anima sua entrar dolcemente nella morte... Ma, d'improvviso, su da quella specie di tranquillità obliosa scaturiva un nuovo dolore e l'idolo abbattuto risorgeva più alto come un germe indistruttibile. Ella, ella era l'idolo che seduceva in lui tutte le volontà del cuore, rompeva in lui tutte le forze dell'intelletto, teneva in lui tutte le più segrete vie dell'anima chiuse ad ogni altro amore, ad ogni altro dolore, ad ogni altro sogno, per sempre, per sempre...»

Andrea mentiva; ma la sua eloquenza era così calda, la sua voce era così penetrante, il tócco delle sue mani era così amoroso, che Elena fu invasa da una infinita dolcezza.

- Taci! - ella disse. - Io non debbo ascoltarti; io non sono più tua; io non potrò essere tua più mai. Taci! Taci!

- No, ascoltami.

- Non voglio. Addio. Bisogna ch'io vada. Addio, Andrea. E' già tardi, lasciami.

Ella sviluppò la mano dalla stretta del giovine; e, superando ogni interno languore, fece atto di levarsi.

- Perché dunque sei venuta? - chiese egli, con la voce un po' roca, impedendole quell'atto.

Sebbene la violenza fosse lievissima, ella corrugò i sopraccigli, ed esitò prima di rispondere.

- Son venuta - ella rispose, con una certa lentezza misurata, guardando l'amante negli occhi - son venuta perché tu m'hai chiamata. Per l'amore d'una volta, per il modo con cui quell'amore fu rotto, per il lungo silenzio oscuro della lontananza, io non avrei potuto senza durezza ricusare l'invito. E poi, io voleva dirti quel che t'ho detto: ch'io non sono più tua, che non potrò essere tua più mai. Volevo dirti questo, lealmente, per evitare a me e a te qualunque inganno doloroso, qualunque pericolo, qualunque amarezza, nell'avvenire. Hai inteso?

Andrea chinò il capo, quasi su le ginocchia di lei, in silenzio. Ella gli toccò i capelli, col gesto un tempo familiare.

- E poi - seguitò, con una voce che mise a lui un brivido in tutte le fibre - e poi... volevo dirti ch'io ti amo, ch'io ti amo non meno d'una volta, che ancóra tu sei l'anima dell'anima mia, e che io voglio essere la tua sorella più cara, la tua amica più dolce. Hai inteso?

Andrea non si mosse. Ella, prendendo le tempie di lui fra le sue mani, gli sollevò la fronte; lo costrinse a guardarla negli occhi.

- Hai inteso? - ripeté, con una voce anche più tenera e più sommessa.

I suoi occhi, all'ombra de' lunghi cigli, parevano come suffusi d'un qualche olio purissimo e sottilissimo. La sua bocca, un poco aperta, aveva nel labbro superiore un piccolo tremito.

- No; tu non mi amavi, tu non mi ami! - ruppe infine Andrea, togliendosi dalle tempie le mani di lei e traendosi indietro, poiché sentiva già nelle vene il fuoco insinuante ch'esalavano anche involontariamente quelle pupille e provava più acre il dolore d'aver perduto il possesso materiale della bellissima donna. - Tu non mi amavi! Tu, allora avesti cuore d'uccidere l'amor tuo, d'improvviso, quasi a tradimento, mentre ti dava la sua ebrezza più forte. Tu mi fuggisti, tu mi abbandonasti, tu mi lasciasti solo, sbigottito, tutto doloroso, a terra, mentre io ero ancóra accecato di promesse. Tu non mi amavi, tu non mi ami! Dopo una lontananza così lunga, piena di misteri, muta e inesorabile; dopo una così lunga attesa, in cui ho consunto il fiore della mia vita a nutrire una tristezza che m'era cara perché mi veniva da te; dopo tanta felicità e dopo tanta sciagura, ecco, tu rientri in un luogo dove ogni cosa per noi custodisce un ricordo ancóra vivo, e mi dici soavemente: «Io non sono più tua. Addio.» Ah, tu non mi ami!

- Ingrato! Ingrato! - esclamò Elena, ferita dalla voce quasi irosa del giovine. - Che sai tu di quel ch'è accaduto, di quel ch'io ho sofferto? Che sai?

- Io non so nulla, io non voglio nulla sapere - rispose Andrea, duramente, involgendola d'uno sguardo un po' torbido, in fondo a cui tralucevano i suoi desideri esasperati. - Io so che tu fosti mia, un giorno, tutta quanta, con un abbandono senza ritegno, con una voluttà senza misura, come non mai alcuna altra donna; e so che né il mio spirito né la mia carne dimenticheranno mai quella ebrezza...

- Taci!

- Che fa a me la tua pietà di sorella? Tu, contro il tuo volere, ma la offri guardandomi con occhi d'amante, toccandomi con mani malsicure. Troppe volte ho veduto i tuoi occhi spengersi nel gaudio; troppe volte le tue mani m'han sentito rabbrividire. Io ti desidero.

Incitato dalle sue stesse parole, egli la strinse forte ai polsi ed appressò la sua faccia a quella di lei così ch'ella ebbe in su la bocca il caldo alito.

- Io ti desidero, come non mai - seguitò egli, cercando d'attirarla al suo bacio, circondandole con un braccio il busto. - Ricórdati! Ricórdati!

Elena si levò respingendolo. Tremava tutta.

- Non voglio. Intendi?

Egli non intendeva. Si riavvicinava ancóra, con le braccia tese, per prenderla: pallidissimo, risoluto.

- Soffriresti tu - gridò ella con la voce un po' soffocata, non potendo patire la violenza - soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?

Ella aveva profferita quella domanda crudele, senza pensare. Ora, con gli occhi molto aperti, guardava l'amante: ansiosa e quasi sbigottita, come chi per salvarsi abbia vibrato un colpo senza misurarne la forza, e tema di aver ferito troppo nel profondo.

L'ardore di Andrea cadde d'un tratto. E gli si dipinse sul volto un dolor così grave che la donna n'ebbe al cuore una fitta.

Andrea disse, dopo un intervallo di silenzio:

- Addio.

In quella sola parola era l'amarezza di tutte le altre parole ch'egli aveva ricacciate indietro.

Elena rispose dolcemente:

- Addio. Perdonami.

Ambedue sentirono la necessità di chiudere, per quella sera, il colloquio periglioso. L'uno assunse una forma di cortesia esteriore quasi esagerata. L'altra divenne anche più dolce, quasi umile; e l'agitava un tremito incessante.

Prese ella di su la sedia il suo mantello. Andrea l'aiutò, con maniere premurose. Come ella non giungeva a mettere un braccio in una manica, Andrea la guidò, appena toccandola; quindi le porse il cappello e il velo.

- Volete andare di là, allo specchio?

- No, grazie.

Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva un piccolo specchio antico dalla cornice ornata di figure scolpite con uno stile così agile e franco che parevano, piuttosto che nel legno, formate in un oro malleabile. Era un'assai leggiadra cosa, uscita certo dalle mani d'un delicato quattrocentista per una Mona Amorrosisca o per una Laldomine. Molte volte, nel tempo felice, Elena s'era messo il velo d'innanzi a quella lastra offuscata e maculata che aveva apparenza d'un'acqua torba, un poco verdastra. Ora, si risovveniva.

Quando vide la sua imagine apparire in quel fondo, ebbe un'impressione singolare. Un'onda di tristezza, più densa, le traversò lo spirito. Ma non parlò.

Andrea la guardava, con occhi intenti.

Come fu pronta, ella disse:

- Sarà molto tardi.

- Non molto. Saranno le sei, forse.

- Io ho licenziata la mia carrozza - ella soggiunse. - Vi sarei tanto grata se mi faceste prendere una vettura chiusa.

- Permettete ch'io vi lasci qui sola, un momento? Il mio domestico è fuori.

Ella assentì.

- Date voi stesso l'indirizzo al vetturino, vi prego: Albergo del Quirinale.

Egli uscì, chiudendo dietro di sé la porta della stanza. Ella rimase sola.

Rapidamente, volse gli occhi intorno, abbracciò con uno sguardo indefinibile tutta la stanza, si fermò alle coppe dei fiori. Le pareti le sembravano più vaste, la volta le sembrava più alta. Guardando, ella aveva la sensazione come d'un principio di vertigine. Non avvertiva più il profumo; ma certo l'aria doveva essere ardente e grave come in una serra. L'imagine di Andrea le appariva in una specie di balenio intermittente; le sonava negli orecchi qualche onda vaga della voce di lui. Stava ella per aver male? - Pure, che delizia chiudere gli occhi e abbandonarsi a quel languore!

Scotendosi, andò verso la finestra, l'aprì, respirò il vento. Rianimata, si volse di nuovo alla stanza. Le fiamme pallide delle candele oscillavano agitando leggere ombre su le pareti. Il camino non aveva più vampa, ma i tizzoni illuminavano in parte le figure sacre del parafuoco fatto d'un frammento di vetrata ecclesiastica. La tazza di tè era rimasta su l'orlo del tavolo, fredda, intatta. Il cuscino della poltrona conservava ancóra l'impronta del corpo ch'eravisi affondato. Tutte le cose intorno esalavano una melancolia indistinta che affluiva e s'addensava al cuor della donna. Il peso cresceva su quel debole cuore, diveniva un'oppressione dura, un affanno insopportabile.

- Mio Dio! Mio Dio!

Ella avrebbe voluto fuggire. Una folata di vento più viva gonfiò le tende, agitò le fiammelle, sollevò un fruscìo. Ella trasalì, con un brivido; e quasi involontariamente chiamò:

- Andrea!

La sua voce, quel nome nel silenzio, le diedero uno strano sussulto, come se la voce, il nome non fossero partiti dalla sua bocca. - Perché Andrea indugiava? - Ella si mise in ascolto. Non giungeva che il rumor sordo, cupo, confuso della vita urbana, nella sera di San Silvestro. Su la piazza della Trinità de' Monti non passava alcuna vettura. Come il vento a tratti soffiava forte, ella richiuse la finestra: intravide la cima dell'obelisco, nera sul cielo stellato.

Forse Andrea non aveva trovato sùbito la vettura coperta, in piazza Barberini. Ella aspettò, seduta sul divano, cercando di quietare la folle agitazione, evitando di guardarsi nell'anima, forzando la sua attenzione alle cose esteriori. Attirarono i suoi occhi le figure vitree del parafuoco, appena illuminate dai tizzoni semispenti. Più sopra, su la sporgenza del caminetto, da una della coppe cadevano le foglie d'una grande rosa bianca che si disfaceva a poco a poco, languida, molle, con qualche cosa di feminino, direi quasi di carnale. Le foglie, concave, si posavano delicatamente sul marmo, simili a falde di neve nella caduta.

«Quanto, allora, pareva soave alle dita quella neve odorante!» ella pensò. «Tutte sfogliate, le rose conspargevano i tappeti, i divani, le sedie; ed ella rideva, felice, in mezzo alla devastazione; e l'amante, felice, erale ai piedi.»

Ma udì fermarsi una carrozza d'innanzi alla porta, nella strada; e si levò, scotendo la povera testa, come per cacciar via quella specie di ottusità che la fasciava. Sùbito dopo, rientrò Andrea, ansante.

- Perdonatemi - disse. - Ma, non avendo trovato il portiere, sono sceso fino in piazza di Spagna. La vettura è giù che aspetta.

- Grazie - fece Elena guardandolo timidamente a traverso il velo nero.

Egli era serio e pallido, ma calmo.

- Mumps arriverà forse domani - soggiunse ella, con una voce tenue. - Vi scriverò un biglietto, per dirvi quando potrò vedervi.

- Grazie - fece Andrea.

- Addio, dunque - ella riprese, tendendogli la mano.

- Volete che vi accompagni fin giù alla strada? Non c'è nessuno.

- Sì, accompagnatemi.

Ella guardavasi a torno, un poco esitante.

- Avete dimenticato nulla? - chiese Andrea.

Ella guardò i fiori. Ma rispose:

- Ah sì, il portabiglietti.

Andrea corse a prenderlo sul tavolo del tè. Porgendolo a lei, disse:

- A stranger hither!

- No, my dear. A friend.

Elena pronunziò questa risposta con la voce molto animata, vivacemente. Poi, d'un tratto, con un sorriso tra supplichevole e lusinghevole, misto di temenza e di tenerezza, su cui tremolò l'orlo del velo che giungeva fino al labbro superiore lasciando tutta libera la bocca:

- Give me a rose.

Andrea andò a ciascun vaso; e tolse tutte le rose, stringendole in un fascio ch'egli a stento reggeva tra le mani. Alcune caddero, altre si sfogliarono.

- Erano per voi, tutte - egli disse, senza guardare l'amata.

Ed Elena si volse per uscire, col capo chino, in silenzio, seguita da lui.

Discesero le scale, sempre in silenzio. Egli le vedeva la nuca, così fresca e delicata, dove di sotto al nodo del velo i piccoli riccioli neri si mescolavano alla pelliccia cinerea.

- Elena! - chiamò, a voce bassa, non potendo più vincere la struggente passione che gli gonfiava il cuore.

Ella si rivolse, mettendosi l'indice su le labbra per indicargli di tacere, con un gesto dolente che pregava, mentre gli occhi le lucevano. Affrettò il passo, salì nella vettura, si sentì posare su le ginocchia le rose.

- Addio! Addio!

E, come la vettura si mosse, ella s'abbandonò al fondo, sopraffatta, rompendo in lacrime senza freno, straziando le rose con le povere mani convulse.

II

Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte.

A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L'urbanità, l'atticismo, l'amore delle delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli qualità ereditarie. Un Alessandro Sperelli, nel 1466, portò a Federico d'Aragona, figliuolo di Ferdinando re di Napoli e fratello d'Alfonso duca di Calabria, il codice in foglio contenente alcune poesie «men rozze» de' vecchi scrittori toscani, che Lorenzo de' Medici aveva promesso in Pisa nel '65; e quello stesso Alessandro scrisse per la morte della divina Simonetta, in coro con i dotti del suo tempo, una elegìa latina, malinconica ed abbandonata a imitazion di Tibullo. Un altro Sperelli, Stefano, nel secolo medesimo, fu in Fiandra, in mezzo alla vita pomposa, alla preziosa eleganza, all'inaudito fasto borgognone; ed ivi rimase alla corte di Carlo il Temerario, imparentandosi con una famiglia fiamminga. Un figliuol suo, Giusto, praticò la pittura sotto gli insegnamenti di Giovanni Gossaert; e insieme col maestro venne in Italia, al seguito di Filippo di Borgogna ambasciator dell'imperator Massimiliano presso il papa Giulio II, nel 1508. Dimorò a Firenze, dove il principal ramo della sua stirpe continuava a fiorire; ed ebbe a secondo maestro Piero di Cosimo, quel giocondo e facile pittore, forte ed armonioso colorista, che risuscitava liberamente col suo pennello le favole pagane. Questo Giusto fu non volgare artista; ma consumò tutto il suo vigore in vani sforzi per conciliare la primitiva educazione gotica con il recente spirito del Rinascimento. Verso la seconda metà del secolo XVII la casata degli Sperelli si trasportò a Napoli. Ivi nel 1679 un Bartolomeo Sperelli pubblicò un trattato astrologico De Nativitatibus; nel 1720 un Giovanni Sperelli diede al teatro un'opera buffa intitolata La Faustina e poi una tragedia lirica intitolata Progne; nel 1756 un Carlo Sperelli stampò un libro di versi amatorii in cui molte classiche lascivie erano rimate con l'eleganza oraziana allora di moda. Miglior poeta fu Luigi, ed uomo di squisita galanteria, alla corte del re lazzarone e della regina Carolina. Verseggiò con un certo malinconico e gentile epicureismo, assai nitidamente; ed amò da fino amatore, ed ebbe avventure in copia, talune celebri, come quella con la marchesa di Bugnano che per gelosia s'avvelenò, e come quella con la contessa di Chesterfield che morta etica egli pianse in canzoni, odi, sonetti ed elegìe soavissime sebbene un poco frondose.

Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l'ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, ultimo discendente d'una razza intelettuale.

Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a vent'anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizii, l'avidità del piacere.

Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l'Europa.

L'educazione d'Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall'alta cultura ma anche dall'esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansion di quella sua forza era la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d'intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.

Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte. Bisogna che la vita d'un uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui.»

Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell'ebrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: - Habere, non haberi.»

Anche, diceva: «Il rimpianto è il vano pascolo d'uno spirito disoccupato. Bisogna sopra tutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni.»

Ma queste massime volontarie, che per l'ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una natura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.

Un altro seme paterno aveva perfidamente fruttificato nell'animo di Andrea: il seme del sofisma. «Il sofisma» diceva quell'incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare i sofismi equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell'oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l'uomo d'intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell'antichità. I sofismi fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.»

Un tal seme trovò nell'ingegno malsano del giovine un terreno propizio. A poco a poco, in Andrea la menzogna non tanto verso gli altri quanto verso sé stesso divenne un abito così aderente alla conscienza ch'egli giunse a non poter mai essere interamente sincero e a non poter mai riprendere su sé stesso il libero dominio.

Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.

Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l'Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».

Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabilì il suo home nel palazzo Zuccari alla Trinità de' Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l'ombra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era una estate di San Martino, una primavera de' morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quanta d'oro come una città dell'Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne' mari australi.

Quel languore dell'aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione infinita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacuità, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del clima, delle abitudini, degli usi. L'anima converte in fenomeni psichici le impressioni dell'organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.

Certo egli ora entrava in un novello stadio. - Avrebbe alfin trovato la donna e l'opera capaci d'impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? - Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza né il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto di arte, non aveva ancóra prodotto nessuna opera notevole. Avido d'amore e di piacere, non aveva ancóra interamente amato né aveva ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancóra ben distinta in cima de' pensieri l'imagine. Aborrendo dal dolore per natura e per educazione, era vulnerabile in ogni parte, accessibile al dolore in ogni parte.

Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli aveva smarrito ogni volontà ed ogni moralità. La volontà, abdicando, aveva ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico appunto, sottilissimo e potentissimo e sempre attivo, gli manteneva nello spirito un certo equilibrio; così che si poteva dire che la sua vita fosse una continua lotta di forze contrarie chiusa ne' limiti d'un certo equilibrio. Gli uomini d'intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezion della Bellezza è, dirò così, l'asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano.

Fluttuava ancóra su quella tristezza il ricordo di Costantia Landbrooke, vagamente, come un profumo svanito. L'amore di Conny era stato un assai fino amore; ed ella era una molto piacevole donna. Pareva una creatura di Thomas Lawrence; aveva in sé tutte le minute grazie feminine che son care a quel pittore dei falpalà, dei merletti, dei velluti, degli occhi luccicanti, delle bocche semiaperte; era una seconda incarnazione della piccola contessa di Shaftesbury. Vivace, loquace, mobilissima, prodiga di diminutivi infantili e di risa scampanellanti, facile alle tenerezze improvvise, alle malinconie subitanee, alle rapide ire, ella portava nell'amore molto movimento, molta varietà, molti capricci. La sua qualità più amabile era la freschezza, una freschezza tenace, continua, di tutte le ore. Quando si svegliava, dopo una notte di piacere, ella era tutta fragrante e monda come se uscisse allora dal bagno. La figura di lei, infatti, tornava nella memoria di Andrea specialmente con un'attitudine; con i capelli in parte sciolti sul collo e raccolti in parte al sommo del capo da un pettine fatto di greche d'oro; con l'iride degli occhi natante nel bianco, come una viola pallida nel latte; con la bocca aperta, rorida, tutta illuminata da' denti ridenti nel sangue roseo delle gengive; all'ombra delle cortine che diffondevano sul letto un albore tra glauco ed argenteo, simile alla luce d'un antro marittimo.

Ma il cinguettio melodioso di Conny Landbrooke era passato su l'animo di Andrea come una di quelle musiche leggere che lascian per qualche tempo nella mente un ritornello. Più d'una volta ella gli aveva detto, in qualche sua malinconia vespertina, con gli occhi velati di lacrime: «I know you love me not...» Egli, infatti, non l'amava, non n'era pago. Il suo ideale muliebre era men nordico. Idealmente, egli si sentiva attratto da una di quelle cortigiane del secolo XVI che sembrano portar sul volto non so qual velo magico, non so qual transparente maschera incantata, direi quasi un oscuro fascino notturno, il divino orrore della Notte.

Incontrando la duchessa di Scerni, Donna Elena Muti, egli pensò: «Ecco la mia donna.» Tutto il suo essere ebbe una sollevazione di gioia, nel presentimento del possesso.

Fu il primo incontro in casa della marchesa d'Ateleta. Questa cugina d'Andrea nel palazzo Roccagiovine aveva saloni molto frequentati. Ella attraeva specialmente per la sua arguta giocondità, per la libertà de' suoi motti, per il suo infaticabile sorriso. I lineamenti gai del volto rammentavano certi profili feminini ne' disegni del Moreau giovine, nelle vignette del Gravelot. Ne' modi, ne' gusti, nelle fogge del vestire ella aveva qualche cosa di pompadouresco, non senza una lieve affettazione, poiché era legata da una singolar somiglianza alla favorita di Luigi XV.

Il mercoledì d'ogni settimana Andrea Sperelli aveva un posto alla mensa della marchesa. Un martedì a sera, in un palco del Teatro Valle, la marchesa gli aveva detto, ridendo:

- Bada di non mancare, Andrea, domani. Abbiamo tra gli invitati una persona interessante, anzi fatale. Premunisciti però contro la malia... Tu sei in un momento di debolezza.

Egli le aveva risposto, ridendo:

- Verrò inerme, se non ti dispiace, cugina; anzi in abito di vittima. E' un abito di richiamo, che porto da molte sere; inutilmente, ahimè!

- Il sacrificio è prossimo, cugino mio.

- La vittima è pronta.

La sera seguente, egli venne al palazzo Roccagiovine alcuni minuti prima dell'ora consueta, avendo una mirabile gardenia all'occhiello e una inquietudine vaga in fondo all'anima. Il suo coupé si fermò innanzi alla porta, perché l'androne era già occupato da un'altra carrozza. Le livree, i cavalli, tutta la cerimonia che accompagnava la discesa della signora, avevano l'impronta della grande casata. Il conte intravide una figura alta e svelta, un'acconciatura tempestata di diamanti, un piccolo piede che si posò sul gradino. Poi, come anch'egli saliva la scala, vide la dama alle spalle.

Ella saliva d'innanzi a lui, lentamente, mollemente, con una specie di misura. Il mantello foderato d'una pelliccia nivea come la piuma de' cigni, non più retto dal fermaglio, le si abbandonava intorno al busto lasciando scoperte le spalle. Le spalle emergevano pallide come l'avorio polito, divise da un solco morbido, con le scapule che nel perdersi dentro i merletti del busto avevano non so qual curva fuggevole, quale dolce declinazione di ali; e su dalle spalle svolgevasi agile e tondo il collo; e dalla nuca i capelli, come ravvolti in una spira, piegavano al sommo della testa e vi formavano un nodo, sotto il morso delle forcine gemmate.

Quell'armoniosa ascensione della dama sconosciuta dava agli occhi d'Andrea un diletto così vivo ch'egli si fermò un istante, sul primo pianerottolo, ad ammirare. Lo strascico faceva su i gradini un fruscìo forte. Il servo caminava indietro, non su i passi della sua signora lungo la guida di tappeto rosso, ma da un lato, lungo la parete, con una irreprensibile compostezza. Il contrasto tra quella magnifica creatura e quel rigido automa era assai bizzarro. Andrea sorrise.

Nell'anticamera, mentre il servo prendeva il mantello, la dama gittò uno sguardo rapidissimo al giovine ch'entrava. Questi udì annunziare:

- Sua Eccellenza la duchessa di Scerni!

Sùbito dopo:

- Il signor conte Sperelli-Fieschi d'Ugenta!

E gli piacque che il suo nome fosse pronunziato accanto al nome di quella donna.

Nel salone erano già il marchese e la marchesa d'Ateleta, il barone e la baronessa d'Isola, Don Filippo del Monte. Il fuoco ardeva nel caminetto; alcuni divani erano disposti nel raggio del calore; quattro musae dalle larghe foglie venate di sanguigno si protendevano su le spalliere basse.

La marchesa, facendosi incontro ai due sopraggiunti, disse con quel suo bel riso inestinguibile:

- Per l'amabilità del caso, non c'è più bisogno di presentazione tra voi due. Cugino Sperelli, inchinatevi alla divina Elena.

Andrea s'inchinò profondamente. La duchessa gli offrì la mano, con un gesto di grazia, guardandolo negli occhi.

- Son molto lieta di vedervi, conte. Mi parlò tanto di voi, a Lucerna, l'estate scorsa, un vostro amico: Giulio Musèllaro. Ero, confesso, un po' curiosa... Musèllaro anche mi diede a leggere la rarissima vostra Favola d'Ermafrodito e mi regalò la vostra acquaforte del Sonno, una prova avanti lettera, un tesoro. Voi avete in me un'ammiratrice cordiale. Ricordatevi.

Ella parlava con qualche pausa. Aveva la voce così insinuante che quasi dava la sensazione d'una carezza carnale; e aveva quello sguardo involontariamente amoroso e voluttuoso che turba tutti gli uomini e ne accende d'improvviso la brama.

Un servo annunziò:

- Il cavalier Sakumi!

Ed apparve l'ottavo ed ultimo commensale.

Era il segretario della Legazione giapponese, piccolo di statura, giallognolo, con i pomelli sporgenti, con gli occhi lunghi ed obliqui, venati di sangue, su cui le palpebre battevano di continuo. Aveva il corpo troppo grosso in paragon delle gambe troppo sottili; e camminava con le punte de' piedi in dentro, come se una cintura gli stringesse forte le anche. Le falde della sua giubba erano troppo abondanti; i calzoni facevano una quantità di pieghe; la cravatta portava assai visibili i segni della mano inesperta. Egli pareva un daimio cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci di crostacei mostruosi e poi ficcato ne' panni d'un tavoleggiante occidentale. Ma, pur nella sua goffagine, aveva un'espressione arguta, una specie di finezza ironica agli angoli della bocca.

A mezzo del salone, s'inchinò. Il gibus gli cadde di mano.

La baronessa d'Isola, una bionda piccoletta, dalla fronte tutta coperta di riccioli, graziosa e smorfiosa come una giovine bertuccia, disse con la sua voce acuta:

- Venite qua, Sakumi, qua, accanto a me!

Il cavaliere giapponese s'inoltrava reiterando i sorrisi e gli inchini.

- Vedremo stasera la principessa Issé? - gli domandò Donna Francesca d'Ateleta, che piacevasi di raccogliere ne' suoi saloni i più bizzarri esemplari delle colonie esotiche in Roma per amor della varietà pittoresca.

L'Asiatico parlava una lingua barbarica, appena intelligibile, mista d'inglese, di francese e d'italiano.

Tutti, a un punto, parlavano. Era quasi un coro, di mezzo a cui si levavano di tratto in tratto, come zampilli d'argento, le fresche risa della marchesa.

- Io vi ho certo veduta un'altra volta; non so più dove, non so più quando, ma vi ho certo veduta - diceva Andrea Sperelli alla duchessa, ritto in piedi d'innanzi a lei. - Su per le scale, mentre vi guardavo salire, nel fondo della mia memoria si risvegliava un ricordo indistinto, qualche cosa che prendeva forma seguendo il ritmo di quel vostro salire, come un'imagine nascente da un'aria di musica... Non son giunto ad aver limpido il ricordo; ma, quando vi siete voltata, ho sentito che il vostro profilo aveva una non dubbia rispondenza con quella imagine. Non poteva essere una divinazione; era dunque un oscuro fenomeno della memoria. Io vi ho certo veduta, un'altra volta. Chi sa! Forse in un sogno, forse in una creazione d'arte, forse anche in un diverso mondo, in una esistenza anteriore...

Pronunziando queste ultime frasi troppo sentimentali e chimeriche, egli rise apertamente come per prevenire un sorriso o incredulo o ironico della dama. Elena invece rimase grave.

«Ascoltava ella o pensava ad altro? Accettava ella quella specie di discorsi o voleva con quella serietà prendersi gioco di lui? Intendeva ella di secondare l'opera di seduzione iniziata da lui così sollecitamente o si chiudeva nell'indifferenza e nel silenzio incurante? Era ella, insomma, una donna per lui espugnabile o no?» Andrea, perplesso, interrogava il mistero. A quanti hanno l'abitudine della seduzione, specialmente ai temerarii, è nota questa perplessità che certe donne sollevano tacendo.

Un servo aprì la grande porta che dava nella sala da pranzo.

La marchesa mise il suo braccio sotto quello di Don Filippo del Monte e diede l'esempio. Gli altri seguirono.

- Andiamo - disse Elena.

Parve ad Andrea che ella gli si appoggiasse con un po' di abbandono. «Non era un'illusione del suo desiderio? Forse.» Egli pendeva nel dubbio; ma, ad ogni attimo che passava, si sentiva più a dentro conquistare dalla malia dolcissima; ad ogni attimo gli cresceva l'ansietà di penetrare l'animo della donna.

- Cugino, qui - disse Donna Francesca assegnandogli il posto.

Nella tavola ovale, egli stava tra il barone d'Isola e la duchessa di Scerni, avendo di fronte il cavaliere Sakumi. Il quale stava tra la baronessa d'Isola e Don Filippo del Monte. Il marchese e la marchesa occupavano i capi. Su la mensa le porcellane, le argenterie, i cristalli, i fiori scintillavano.

Assai poche dame potevan gareggiare con la marchesa d'Ateleta nell'arte di dar pranzi. Ella metteva più cura nella preparazione di una mensa che in un abbigliamento. La squisitezza del suo gusto appariva in ogni cosa; ed ella era, in verità, l'arbitra delle eleganze conviviali. Le sue fantasie e le sue raffinatezze si propagavano per tutte le tavole della nobiltà quirite. Ella, appunto, in quell'inverno aveva introdotta la moda delle catene di fiori sospese dall'un capo all'altro, fra i grandi candelabri; ed anche la moda dell'esilissimo vaso di Murano, latteo e cangiante come l'opale, con entro una sola orchidea, messo tra i varii bicchieri innanzi a ciascun convitato.

- Fior diabolico - disse Donna Elena Muti, prendendo il vaso di vetro e osservando da vicino l'orchidea sanguigna e difforme.

Ella aveva la voce così ricca di suono che anche le parole più volgari e le frasi più comuni parevano prendere su la sua bocca non so qual significato occulto, non so qual misterioso accento e qual grazia nuova. Alla guisa medesima il re frigio faceva d'oro quantunque cose ei toccasse con la mano.

- Fiore simbolico, tra le vostre dita - mormorò Andrea, guardando la dama che in quell'attitudine era sovrammirabile.

La dama vestiva un tessuto d'un color ceruleo assai pallido, sparso di punti d'argento, che brillava di sotto ai merletti antichi di Burano bianchi d'un bianco indefinibile, pendente un poco nel fulvo ma tanto poco che appena pareva. Il fiore, quasi innaturale, come generato da un malefizio, ondeggiava in sul gambo, fuor di quel fragile tubo che certo l'artefice avea foggiato con un soffio in una gemma liquefatta.

- Ma io preferisco le rose - disse Elena, posando l'orchidea, con un atto di repulsione che faceva contrasto al suo precedente moto di curiosità.

Poi si gettò nella conversazione generale. Donna Francesca parlava dell'ultimo ricevimento all'Ambasciata d'Austria.

- Vedesti Madame de Cahen? - le chiese Elena. - Aveva un abito di tulle giallo tempestato di non so quanti colibrì con gli occhi di rubino. Una magnifica uccelliera danzante... E Lady Ouless, la vedesti? Aveva una vesta di tarlatane bianca, tutta sparsa di alghe marine e di non so che pesci rossi, e su l'alghe e su i pesci una seconda vesta di tarlatane verdemare. Non la vedesti? Un acquario di bellissimo effetto...

Ed ella, dopo le piccole maldicenze, rideva d'un riso cordiale che le dava un tremolio alla parte inferiore del mento e alle narici.

D'innanzi a quella volubilità incomprensibile, Andrea rimaneva ancor titubante. Quelle cose frivole o maligne uscivano dalle stesse labbra che allora allora, pronunziando una frase semplicissima, l'avevan turbato fin nel profondo; uscivano dalle stesse labbra che allora allora, tacendo, eragli parsa la bocca della Medusa di Leonardo, umano fiore dell'anima divinizzato dalla fiamma della passione e dall'angoscia della morte. «Qual era dunque la vera essenza di quella creatura? Aveva ella percezione e conscienza della sua metamorfosi costante o era ella impenetrabile anche a sé stessa, rimanendo fuori dal proprio mistero? Quanto nelle sue espressioni e manifestazioni entrava d'artificio e quanto di spontaneità?» Il bisogno di conoscere lo pungeva anche fra la delizia in lui effusa dalla vicinanza della donna ch'egli incominciava ad amare. La trista consuetudine dell'analisi l'incitava pur sempre, gli impediva pur sempre di obliarsi; ma ogni tentativo era punito, come la curiosità di Psiche, dall'allontanamento dell'amore, dall'offuscamento dell'oggetto vagheggiato, dalla cessazion del piacere. «Non era meglio, invece, abbandonarsi ingenuamente alla prima ineffabile dolcezza dell'amor che nasceva?» Egli vide Elena nell'atto di bagnare le labbra in un vino biondo come un miele liquido. Scelse tra i bicchieri quello ove il servo aveva versato un egual vino; e bevve con Elena. Ambedue, nel tempo medesimo, posarono su la tovaglia il cristallo. La comunità dell'atto fece volgere l'una verso l'altro. E lo sguardo li accese ambedue, più assai del sorso.

- Non parlate? - chiesegli Elena, con un'affettazione di leggerezza, che le alterava un poco la voce. - Corre fama voi siate uno squisitissimo parlatore... Scuotetevi, dunque!

- Ah, cugino, cugino! - esclamò Donna Francesca, con un'aria di commiserazione, mentre Don Filippo del Monte le mormorava qualche cosa nell'orecchio.

Andrea si mise a ridere.

- Cavaliere Sakumi, noi siamo i taciturni. Scuotiamoci!

All'Asiatico scintillarono di malizia i lunghi occhi, ancor più rosseggianti sul rossor fosco che i vini gli accendevano ai pomelli. Fino a quel momento, egli aveva guardato la duchessa di Scerni, con l'espressione estatica d'un bonzo che sia nel conspetto della divinità. La sua larga faccia, che pareva uscita fuori da una pagina classica del gran figuratore umorista O-kou-sai, rosseggiava come una luna d'agosto, tra le catene de' fiori.

- Sakumi - soggiunse a bassa voce Andrea, chinandosi verso Elena - è innamorato.

- Di chi?

- Di voi. Non ve ne siete accorta?

- No.

- Guardatelo.

Elena si volse. E l'amorosa contemplazione del daimio travestito le chiamò alle labbra un riso così aperto che quegli si sentì ferire e restò visibilmente umiliato.

- Tenete - ella disse per compensarlo; e, spiccando dal festone una camelia bianca, la gittò all'inviato del Sol Levante. - Trovate una similitudine, in mia lode.

L'Asiatico portò la camelia alle labbra, con un gesto comico di divozione.

- Ah, Ah, Sakumi, - fece la piccola baronessa d'Isola - voi mi siete infedele!

Egli balbettò qualche parola, accendendosi anche più nel volto. Tutti ridevano, liberamente, come se quello straniero fosse stato invitato appunto per dare agli altri argomento di gioco. E Andrea, ridendo, si volse alla Muti.

Ella tenendo il capo sollevato, anzi piegato indietro un poco, guardava il giovine furtivamente, di fra le palpebre socchiuse, con uno di quegli indescrivibili sguardi della donna, che paiono assorbire e quasi direi bevere dall'uom preferito tutto ciò che in lui è più amabile, più desiderabile, più godibile, tutto ciò che in lei ha destata quella istintiva esaltazion sessuale da cui ha principio la passione. I lunghissimi cigli velavano l'iride inclinata all'angolo dell'orbita; e il bianco nuotava come in una luce liquida, un po' azzurra; e un tremolio quasi impercettibile moveva la palpebra inferiore. Pareva che il raggio dello sguardo andasse alla bocca di Andrea, come alla cosa più dolce.

Elena era presa, infatti, da quella bocca. Pura di forma, accesa di colore, gonfia di sensualità, con un'espressione un po' crudele quando rimaneva serrata, quella bocca giovenile ricordava per una singolar somiglianza il ritratto del gentiluomo incognito ch'è nella Galleria Borghese, la profonda e misteriosa opera d'arte in cui le imaginazioni affascinate credetter ravvisare la figura del divino Cesare Borgia dipinta dal divino Sanzio. Quando le labbra si aprivano al riso, quell'espressione fuggiva; e i denti bianchi quadri, eguali, d'una straordinaria lucentezza, illuminavano una bocca tutta fresca e gioconda come quella d'un fanciullo.

Appena Andrea si volse, Elena ritrasse lo sguardo; ma non così presto che il giovine non ne cogliesse il baleno. N'ebbe egli una gioia così forte che sentì salire alle gote una fiamma. «Ella mi vuole! Ella mi vuole!» pensò, esultando, nella certezza d'aver già conquistata la rarissima creatura. Ed anche pensò: «E' un piacere non mai provato.»

Ci sono certi sguardi di donna che l'uomo amante non iscambierebbe con l'intero possesso del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido il fulgore della prima tenerezza non sa la più alta delle felicità umane. Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà quell'attimo.

Elena domandò, mentre intorno la conversazione facevasi più viva:

- Resterete a Roma tutto l'inverno?

- Tutto l'inverno, e oltre - rispose Andrea, a cui quella semplice domanda parve chiudere una promessa d'amore.

- Avete dunque una casa?

- Casa Zuccari: domus aurea.

- Alla Trinità de' Monti? Voi felice!

- Perché felice?

- Perché voi abitate in un luogo ch'io prediligo.

- V'è raccolta, è vero? come un'essenza in un vaso, tutta la sovrana dolcezza di Roma.

- E' vero! Tra l'obelisco della Trinità e la colonna della Concezione è sospeso ex-voto il mio cuore cattolico e pagano.

Ella rise di quella frase. Egli aveva pronto un madrigale intorno il cuor sospeso, ma non lo profferì; perché gli spiaceva di prolungare il dialogo su quel tono falso e leggero e di disperdere così l'intimo suo godimento. Tacque.

Ella rimase un poco pensosa. Poi, di nuovo, si gittò nella conversazione generale, con una vivacità anche maggiore, profondendo i motti e le risa, facendo scintillare i suoi denti e le sue parole. Donna Francesca mordeva un poco la principessa di Ferentino, non senza finezza, accennando all'avventura lesbica di lei con Giovanella Daddi.

- A proposito, la Ferentino annunzia per l'Epifania un'altra fiera di beneficenza - disse il barone d'Isola. - Non ne sapete ancóra nulla?

- Io sono patronessa - rispose Elena Muti.

- Voi siete una patronessa preziosa - fece Don Filippo del Monte, un uomo quarantenne, quasi tutto calvo, sottile aguzzatore di epigrammi, che portava sul volto una specie di maschera socratica in cui l'occhio destro scintillava mobilissimo per mille diverse espressioni e il sinistro rimaneva sempre immobile e quasi vetrificato sotto la lenta rotonda, come se l'uno servisse per esprimere e l'altro per vedere. - Nella Fiera di maggio, riceveste una nuvola d'oro.

- Ah, la Fiera di maggio! Una follia - esclamò la marchesa d'Ateleta.

Come i servi venivan mescendo vin ghiacciato di Sciampagna, ella soggiunse:

- Ti ricordi, Elena? I nostri banchi erano vicini.

- Cinque luigi per sorso! Cinque luigi per morso! - si mise a gridare Don Filippo del Monte, imitando per gioco la voce di un banditore.

La Muti e l'Ateleta ridevano.

- Già, già è vero. Voi gittavate il bando, Filippo - disse Donna Francesca. - Peccato che tu non ci fossi, cugino mio! Per cinque luigi avresti mangiato un frutto segnato prima da' miei denti e per altri cinque luigi avresti bevuto Champagne nel concavo delle mani d'Elena.

- Che scandalo! - interruppe la baronessa d'Isola, con una smorfietta d'orrore.

- Ah, Mary! E tu non vendevi le sigarette accese prima da te, e molto inumidate, per un luigi? - fece Donna Francesca, sempre ridendo.

E Don Filippo:

- Io vidi qualche cosa di meglio. Leonetto Lanza ottenne dalla contessa di Lùcoli, per non so quanto, un sigaro d'avana ch'ella aveva tenuto sotto l'ascella...

- Ohibò! - interruppe di nuovo la piccola baronessa, comicamente.

- Ogni opera di carità è santa - sentenziò la marchesa. - Io, a furia di morsi nelle frutta, misi insieme circa dugento luigi.

- E voi? - chiese Andrea Sperelli alla Muti, sorridendo a mala pena. - E voi, con la vostra coppa carnale?

- Io, dugento settanta.

Così motteggiavano tutti, tranne il marchese. Questo Ateleta era un uomo già vecchio, afflitto da una sordità incurabile, bene incerettato, dipinto d'un color biondastro, artefatto dal capo a' piedi. Pareva uno di quei personaggi finti che si vedono ne' gabinetti di figure in cera. Ogni tanto, quasi sempre male a proposito, metteva fuori una specie di risolino secco che pareva lo stridore d'una macchinetta arruginita ch'egli avesse dentro il corpo.

- Ma, a un certo punto, il prezzo del sorso arrivò a dieci luigi. Capite? - soggiunse Elena. - E all'ultimo quel matto di Galeazzo Secìnaro venne ad offrirmi un biglietto da cinquecento lire chiedendo in cambio ch'io m'asciugassi le mani alla sua barba bionda...

Il finale del pranzo era, come sempre in casa d'Ateleta, splendidissimo; poiché il vero lusso d'una mensa sta nel dessert. Tutte quelle squisite e rare cose dilettavano la vista, oltre il palato, disposte con arte in piatti di cristallo guarniti d'argento. I festoni intrecciati di camelie e di violette s'incurvavano tra i pampinosi candelabri del XVIII secolo animati dai fauni e dalle ninfe. E i fauni e le ninfe e le altre leggiadre forme di quella mitologia arcadica, e i Silvandri e le Filli e le Rosalinde animavan della lor tenerezza, su le tappezzerie delle pareti, un di que' chiari paesi citerèi ch'esciron dalla fantasia d'Antonio Watteau.

La leggera eccitazione erotica, che prende gli spiriti al termine d'un pranzo ornato di donne e di fiori, rivelavasi nelle parole, rivelavasi ne' ricordi di quella Fiera di maggio ove le dame spinte da una emulazione ardente a raccogliere la maggior possibile somma nel loro ufficio di venditrici, avevano attirato i compratori con inaudite temerità.

- Accettaste? - chiese Andrea Sperelli alla duchessa.

- Sacrificai le mie mani alla Beneficenza - ella rispose. - Venticinque luigi di più!

- All the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand...

Egli rideva, ripetendo le parole di Lady Macbeth, ma in fondo a lui era una sofferenza confusa, un tormento non bene definito, che somigliava la gelosia. Gli appariva ora, all'improvviso, quel non so che di eccessivo e quasi direi di cortigianesco onde in qualche momento offuscavasi la gran maniera della gentildonna. Da certi suoni della voce e del riso, da certi gesti, da certe attitudini, da certi sguardi ella esalava, forse involontariamente, un fascino troppo afrodisiaco. Ella dispensava con troppa facilità il godimento visuale delle sue grazie. Di tratto in tratto, alla vista di tutti, forse involontariamente, ella aveva una movenza o una posa o una espressione che nell'alcova avrebbe fatto fremere un amante. Ciascuno, guardandola, poteva rapirle una scintilla di piacere, poteva involgerla d'imaginazioni impure, poteva indovinarne le segrete carezze. Ella pareva creata, in verità, soltanto ad esercitare l'amore; - e l'aria ch'ella respirava era sempre accesa dai desiderii sollevati intorno.

«Quanti l'han posseduta?» pensò Andrea. «Quanti ricordi ella serba, della carne e dell'anima?»

Il cuore gli si gonfiava come d'un'onda amara, in fondo a cui per sempre bolliva quella sua tirannica intolleranza d'ogni possesso imperfetto. E non sapeva distogliere gli occhi dalle mani d'Elena.

In quella mani incomparabili, morbide e bianche, d'una transparenza ideale, segnata d'una trama di vene glauche appena visibile; in quelle palme un poco incavate e ombreggiate di rose, ove un chiromante avrebbe trovato oscuri intrichi, avevano bevuto, dieci, quindici, venti uomini, l'un dopo l'altro, a prezzo. Egli vedeva le teste di quegli uomini sconosciuti chinarsi e suggere il vino. Ma Galeazzo Secìnaro era uno de' suoi amici: bello e gagliardo signore, imperialmente barbato come un Lucio Vero, rivale temibile.

Allora, sotto l'incitazione di quelle imagini, la cupidigia gli crebbe così fiera e l'invase una impazienza così tormentosa che il termine del pranzo gli pareva non giungesse più mai. «Io avrò da lei, in questa sera medesima, la promessa» pensò. Dentro, lo pungeva un'ansietà come di chi tema vedersi fuggire un bene a cui molti emuli mirano. E l'incurabile e insaziabile vanità gli rappresentava l'ebrezza della vittoria. Certo, quanto più la cosa da un uom posseduta suscita negli altri l'invidia e la brama, tanto più l'uomo ne gode e n'è superbo. In questo appunto è l'attrattivo delle donne di palco scenico. Quando tutto il teatro risona di applausi e fiammeggia di desiderii, quegli che solo riceve lo sguardo e il sorriso della diva si sente inebriare dall'orgoglio come da una tazza di vin troppo forte e smarrisce la ragione.

- Tu che sei una innovatrice - diceva la Muti rivolgendosi a Donna Francesca, mentre bagnava le dita nell'acqua tiepida d'un vaso di cristallo azzurro orlato d'argento - dovresti rimmeter l'uso del dare acqua alle mani col mesciroba e col bacino antico, fuor di tavola. Questa modernità è brutta. Non vi pare, Sperelli?

Donna Francesca si levò. Tutti la imitarono. Andrea offerse il braccio a Elena, inchinandosi, ed ella lo guardò, senza sorridere, mentre posava il braccio nudo su quello di lui lentamente. Le sue ultime parole erano state gaie e leggere; quello sguardo invece era così grave e profondo che il giovine si sentì prendere l'anima.

- Andate - ella chiese - andate domani sera al ballo dell'Ambasciata di Francia?

- E voi? - chiese a sua volta Andrea.

- Io, sì.

- Io, sì.

Sorrisero, come due amanti. Ed ella soggiunse, mentre sedeva:

- Sedete.

Il divano era discosto dal caminetto, lungo la coda del pianoforte che le pieghe ricche d'una stoffa celavano in parte. Una gru di bronzo, a una estremità, reggeva nel becco levato un piatto sospeso a tre catenelle, come quel d'una bilancia; e il piatto conteneva un libro nuovo e una piccola sciabola giapponese, un waki-zashi, ornato di crisantemi d'argento nella guaina, nella guardia, nell'elsa.

Elena prese il libro ch'era a metà intonso; lesse il titolo; poi lo ripose nel piatto che ondeggiò. La sciabola cadde. Come ella ed Andrea si chinavano nel tempo medesimo per raccoglierla, le loro mani s'incontrarono. Ella, rialzatasi, esaminò la bell'arma curiosamente; e la tenne, mentre Andrea le parlava di quel nuovo libro di romanzo e s'insinuava in argomenti generali d'amore.

- Perché mai rimanete così lontano dal «gran pubblico»? - gli domandò ella. - Avete giurato fedeltà ai «Venticinque Esemplari»?

- Sì, per sempre. Anzi il mio sogno è l'«Esemplare Unico» da offerire alla «Donna Unica». In una società democratica com'è la nostra, l'artefice di prosa o di verso deve rinunziare ad ogni benefizio che non sia di amore. Il lettor vero non è già chi mi compra ma chi mi ama. Il lettor vero è dunque la dama benevolente. Il lauro non ad altro serve che ad attirare il mirto...

- Ma la gloria?

- La vera gloria è postuma, e quindi non godibile. Che importa a me d'avere, per esempio, cento lettori nell'isola dei Sardi ed anche dieci ad Empoli e cinque, mettiamo, ad Orvieto? E qual voluttà mi viene dall'essere conosciuto quanto il confettiere Tizio od il profumiere Caio? Io, autore, andrò nel conspetto dei posteri armato come potrò meglio; ma io, uomo, non desidero altra corona di trionfo che una... di belle braccia ignude.

Egli guardò le braccia di Elena, scoperte insino alla spalla. Erano così perfette nell'appiccatura e nella forma che richiamavano la similitudine firenzuolesca del vaso antico «di mano di buon maestro» e tali dovevano essere «quelle di Pallade quando era innanzi al pastore». Le dita vagavano su le cesellature dell'arma; e l'unghie lucenti parevan continuare la finezza delle gemme che distinguevano le dita.

- Voi, se non erro, - disse Andrea, involgendo lei del suo sguardo come d'una fiamma - dovete avere il corpo della Danae del Correggio. Lo sento, anzi, lo veggo, dalla forma delle vostre mani.

- Oh, Sperelli!

- Non imaginate voi dal fiore la intera figura della pianta? Voi siete, certo, come la figlia d'Acrisio, che riceve la nuvola d'oro, non quella della Fiera di maggio, ohibò! Conoscete il quadro della Galleria Borghese?

- Lo conosco.

- Mi sono ingannato?

- Basta, Sperelli: vi prego.

- Perché?

Ella tacque. Ormai ambedue sentivano avvicinarsi il cerchio che doveva chiuderli e stringerli insieme rapidamente. Né l'una né l'altro aveva conscienza di quella rapidità. Dopo due o tre ore dal primo vedersi, già l'una si dava all'altro, in ispirito; e la scambievole dedizione pareva naturale.

Ella disse, dopo un intervallo, senza guardarlo:

- Siete molto giovine. Avete già molto amato?

Egli rispose con un'altra domanda.

- Credete voi che ci sia più nobiltà di animo e di arte ad imaginare in una sola unica donna tutto l'Eterno feminino, oppure che un uomo di spiriti sottili ed intensi debba percorrere tutte le labbra che passano, come le note d'un clavicembalo ideale, finché trovi l'Ut gaudioso?

- Io non so. E voi?

- Neanche io so risolvere il gran dubbio sentimentale. Ma, per istinto, ho percorso il clavicembalo; e temo d'aver trovato l'Ut, a giudicare almeno dall'avvertimento interiore.

- Temete?

- Je crains ce que j'espère.

Egli parlava con naturalezza quel linguaggio manierato, quasi estenuando nell'artifizio delle parole la forza del suo sentimento. Ed Elena si sentiva dalla voce di lui prendere come in una rete e trarre fuor della vita che movevasi a torno.

- Sua Eccellenza la principessa di Micigliano! - annunziava il servo.

- Il signor conte di Gissi!

- Madame Chrysoloras!

- Il signor marchese e la signora marchesa Massa d'Albe!

I saloni si popolavano. Lunghi strascichi lucenti passavano sul tappeto purpureo; fuor de' busti constellati di diamanti, ricamati di perle, avvivati di fiori, emergevano le spalle nude; le capigliature scintillavano quasi tutte di que' meravigliosi gioielli ereditarii che fanno invidiata la nobiltà di Roma.

- Sua Eccellenza la principessa di Ferentino!

- Sua Eccellenza il duca di Grimiti!

Già si formavano i diversi gruppi, i diversi focolari della malignità e della galanteria. Il gruppo maggiore, tutto composto di uomini, stava presso il pianoforte, intorno la duchessa di Scerni ch'erasi levata in piedi per tener testa a quella specie d'assedio. La Ferentino si avvicinò a salutare l'amica con un rimprovero.

- Perché non sei venuta oggi da Ninì Santamarta? Ti aspettavamo.

Ella era alta e magra, con due strani occhi verdi che parevan lontani in fondo alle occhiaie oscure. Vestiva di nero, con una scollatura a punta sul petto e sulle spalle; portava tra i capelli, d'un biondo cinereo, una gran mezzaluna di brillanti, a simiglianza di Diana, e agitava un gran ventaglio di piume rosse, con gesti repentini.

- Ninì va stasera da Madame Van Huffel.

- Anch'io andrò, più tardi, per un poco - disse la Muti. - La vedrò.

- Oh, Ugenta, - fece la principessa, volgendosi ad Andrea - vi cercavo per rammentarvi il nostro appuntamento. Domani è giovedì. La vendita del cardinale Immenraet comincia domani, a mezzogiorno. Venite a prendermi all'una.

- Non mancherò, principessa.

- Bisogna ch'io porti via quel cristallo di ròcca ad ogni costo.

- Avrete però qualche competitrice.

- Chi?

- Mia cugina.

- E poi?

- Me - disse la Muti.

- Te? Vedremo.

I cavalieri intorno chiedevano schiarimenti.

- Una contesa di dame del XIX secolo, per un vaso di cristallo di ròcca già appartenuto a Niccolò Niccoli; su quel vaso è intagliato il troiano Anchise che scioglie un de' calzari di Venere Afrodite - annunziò solennemente Andrea Sperelli. - Lo spettacolo è dato per grazia, domani, dopo la prima ora del pomeriggio, nelle sale delle vendite publiche, in via Sistina. Contendono: la principessa di Ferentino, la duchessa di Scerni, la marchesa d'Ateleta.

Tutti ridevano, a quel bando.

Il Grimiti domandò:

- Son lecite le scommesse?

- La côte! La côte! - si mise a garrire Don Filippo del Monte, imitando la voce stridula del bookmaker Stubbs.

La Ferentino col suo ventaglio rosso gli diede un colpo sulla spalla. Ma la facezia parve buona. Le scommesse incominciarono. Come dal gruppo partivano risa e motti, a poco a poco altre dame e altri gentiluomini si avvicinarono per prender parte all'ilarità. La notizia della contesa si spargeva rapidamente; prendeva le proporzioni d'un avvenimento mondano; occupava tutti i belli spiriti.

- Datemi un braccio e facciamo un giro - disse Donna Elena Muti ad Andrea.

Quando furono lontani dal gruppo, nel salone contiguo, Andrea stringendole il braccio mormorò:

- Grazie!

Ella si appoggiava a lui, soffermandosi di tratto in tratto per rispondere ai saluti. Pareva un poco stanca; ed era pallida come le perle delle sue collane. Ciascun giovine elegante le faceva un complimento volgare.

- Questa stupidità mi soffoca - ella disse.

Nel volgersi, vide Sakumi che la seguiva portando la camelia bianca all'occhiello, in silenzio, con gli occhi imbambolati, senza osare d'accostarsi. Gli mandò un sorriso misericorde.

- Povero Sakumi!

- L'avete veduto ora soltanto? - le chiese Andrea.

- Sì.

- Quando eravamo seduti accanto al pianoforte, egli dal vano d'una finestra guardava continuamente le vostre mani che giocavano con un'arma del suo paese destinata a tagliar le pagine d'un libro occidentale.

- Dianzi?

- Già, dianzi. Forse egli pensava: «Dolce cosa far harakiri con quella piccola sciabola ornata di crisantemi che paion fiorire dalla lacca e dal ferro al tocco delle sue dita!»

Ella non sorrise. Su la sua faccia era disceso un velo di tristezza e quasi di sofferenza; i suoi occhi parevano occupati da un'ombra più cupa, vagamente illuminati sotto la palpebra superiore, come dell'albor d'una lampada; un'espressione dolente le abbassava un poco gli angoli della bocca. Ella teneva il braccio destro abbandonato lungo la veste, reggendo nella mano il ventaglio e i guanti. Non porgeva più la mano ai salutatori e ai lusingatori; né dava più ascolto ad alcuno.

- Che avete, ora? - le chiese Andrea.

- Nulla. Bisogna ch'io vada dalla Van Huffel. Conducetemi a salutare Francesca; e poi accompagnatemi fin giù, alla mia carrozza.

Tornarono nel primo salone. Luigi Gullì, un giovine maestro venuto dalle natali Calabrie in cerca di fortuna, nero e crespo come un arabo, eseguiva con molta anima la Sonata in do diesis minore di Ludovico Beethoven. La marchesa d'Ateleta, ch'era una sua proteggitrice, stava in piedi accanto al pianoforte, guardando la tastiera. A poco a poco la musica grave e soave prendeva tutti que' leggeri spiriti ne' suoi cerchi, come un gorgo tardo ma profondo.

- Beethoven - disse Elena, con un accento quasi religioso, arrestandosi e sciogliendo il suo braccio da quello di Andrea.

Ella così rimase ad ascoltare, in piedi, presso una delle banane. Tenendo proteso il braccio sinistro, si metteva un guanto, con estrema lentezza. In quell'attitudine l'arco delle sue reni appariva più svelto; tutta la figura, continuata dallo strascico, appariva più alta ed eretta; l'ombra della pianta velava e quasi direi spiritualizzava il pallore della carne. Andrea la guardò. E le vesti, per lui, si confusero con la persona.

«Ella sarà mia» pensava, con una specie d'ebrietà, poiché la musica patetica gli aumentava l'eccitamento. «Ella mi terrà fra le sue braccia, sul suo cuore!»

Imaginò di chinarsi e di posare la bocca su la spalla di lei. - Era fredda quella pelle diafana che sembrava un latte tenuissimo attraversato da una luce d'oro? - Ebbe un brivido sottile; e socchiuse le palpebre, come per prolungarlo. Gli giungeva il profumo di lei, una emanazione indefinibile, fresca ma pur vertiginosa come un vapore d'aròmati. Tutto il suo essere insorgeva e tendeva con ismisurata veemenza verso la stupenda creatura. Egli avrebbe voluto involgerla, attrarla entro di sé, suggerla, beverla, possederla in un qualche modo sovrumano.

Quasi constretta dal soverchiante desiderio del giovine, Elena si volse un poco; e gli sorrise d'un sorriso così tenue, direi quasi così immateriale, che non parve espresso da un moto delle labbra, sì bene da una irradiazione dell'anima per le labbra, mentre gli occhi rimanevan tristi pur sempre, e come smarriti nella lontananza d'un sogno interiore. Eran veramente gli occhi della Notte, così inviluppati d'ombra, quali per una Allegoria avrebbeli forse imaginati il Vinci dopo aver veduta in Milano Lucrezia Crivelli.

E nell'attimo che durò il sorriso, Andrea si sentì solo con lei, in mezzo alla moltitudine. un orgoglio enorme gli gonfiava il cuore.

Poiché Elena fece l'atto di mettersi l'altro guanto, egli la pregò sommesso:

- No, non quello!

Elena intese; e lasciò nuda la mano.

Una speranza era in lui, di baciarle la mano, prima ch'ella partisse. D'improvviso, gli risorse nello spirito la visione della Fiera di maggio, quando gli uomini le bevevano nel concavo delle palme il vino. Di nuovo, un'acuta gelosia lo punse.

- Ora, andiamo - ella disse, riprendendogli il braccio.

Finita la Sonata, le conversazioni si riannodavano più vive. Il servo annunziò altri tre o quattro nomi, tra cui quello della principessa Issé che entrava con un piccolo passo incerto, vestita all'europea, sorridente dal volto ovale, candida e minuta come la figurina d'un netske. Un movimento di curiosità si propagò pel salone.

- Addio, Francesca - disse Elena. prendendo congedo dall'Ateleta. - A domani.

- Così presto?

- Mi aspettano in casa Van Huffel. Ho promesso di andare.

- Peccato! Canterà, ora, Mary Dyce.

- Addio. A domani.

- Prendi. E addio. Cugino amabile, accompagnatela.

La marchesa le diede un mazzo di violette doppie; e si volse poi ad incontrar la principessa Issè, graziosamente. Mary Dyce, vestita di rosso, alta e ondeggiante come una fiamma, incominciava a cantare.

- Sono tanto stanca! - mormorò Elena, appoggiandosi ad Andrea. - Chiedete, vi prego, la mia pelliccia.

Egli prese la pelliccia dal servo che glie la porgeva. Aiutando la dama a indossarla, le sfiorò l'omero con le dita; e sentì ch'ella rabbrividiva. Tutta l'anticamera era piena di valletti in livree diverse, che s'inchinavano. La voce soprana di Mary Dyce portava le parole d'una Romanza di Robert Schumann: «Ich kann's nicht fassen, nicht glauben...»

Scendevano in silenzio. Il servo era andato innanzi a fare avanzare la carrozza fino a piè della scala. Udivasi rintronare lo scalpitìo de' cavalli sotto l'androne sonoro. Ad ogni scalino, Andrea sentiva il premere lieve del braccio di Elena che s'abbandonava un poco, tenendo il capo sollevato, anzi alquanto piegato indietro, con gli occhi socchiusi.

- Nel salire, vi seguiva la mia ammirazione sconosciuta. Nel discendere vi accompagna il mio amore - le disse Andrea, sommessamente, quasi umilmente, ponendo tra le ultime parole una pausa esitante.

Ella non rispose. Ma portò alle nari il mazzo delle viole ed aspirò il profumo. Nell'atto, l'ampia manica del mantello scivolò lungo il braccio, oltre il gomito. La vista di quella viva carne, uscente di fra la pelliccia come una massa di rose bianche fuor della neve, accese ancor più ne' sensi del giovine la brama, per la singolar procacità che il nudo feminile acquista allor quando è mal celato da una veste folta e grave. un piccolo fremito gli moveva le labbra; ed egli tratteneva a stento le parole desiose.

Ma la carrozza era pronta a piè della scala, e il servo era allo sportello.

- Casa Von Huffel - ordinò la duchessa, montando, aiutata dal conte.

Il servo s'inchinò, lasciando lo sportello; ed occupò il suo posto. I cavalli scalpitavano forte, levando faville.

- Badate! - gridò Elena, tendendo al giovine la mano; e i suoi occhi e i suoi diamanti scintillavano nell'ombra.

«Essere con lei, là nell'ombra e cercare con la bocca il suo collo fra la pelliccia profumata!» Egli avrebbe voluto dirle:

- Prendetemi con voi!

I cavalli scalpitavano.

- Badate! - ripeté Elena.

Egli le baciò la mano, premendo, come per lasciarle su la cute un'impronta di passione. Quindi chiuse lo sportello. E, al colpo, la carrozza partì rapidamente, con un alto rimbombo per tutto l'androne, uscendo nel Fòro.

III

Così ebbe principio l'avventura di Andrea Sperelli con Donna Elena Muti.

Il giorno dopo, le sale delle vendite publiche, in via Sistina, erano piene di gente elegante, venuta per assistere all'annunziata contesa.

Pioveva forte. In quelle stanze umide e basse entrava una luce grigia; lungo le pareti erano disposti in ordine alcuni mobili di legno scolpito e alcuni grandi trittici e dittici della scuola toscana del XIV secolo; quattro arazzi fiamminghi, rappresentanti la Storia di Narcisso, pendevano fino a terra; le maioliche metaurensi occupavano due lunghi scaffali; le stoffe, per lo più ecclesiastiche, stavano o spiegate su le sedie o ammucchiate su i tavoli; i cimeli più rari, gli avorii, gli smalti, i vetri, le gemme incise, le medaglie, le monete, i libri di preghiere, i codici miniati, gli argenti lavorati erano raccolti entro un'alta vetrina, dietro il banco dei periti; un odor singolare, prodotto dall'umidità del luogo e da quelle cose antiche, empiva l'aria.

Quando Andrea Sperelli entrò, accompagnando la principessa di Ferentino, ebbe un segreto tremito. Pensò: «Sarà già venuta?» E i suoi occhi rapidamente la cercarono.

Ella era già venuta, infatti. Sedeva innanzi al banco, tra il cavaliere Dàvila e Don Filippo del Monte. Aveva posato su l'orlo del banco i guanti e il manicotto di lontra da cui usciva fuori un mazzo di violette. Teneva tra le dita un quadretto d'argento, attribuito a Caradosso Foppa; e l'osservava con molta attenzione. Gli oggetti passavano di mano in mano, lungo il banco; il perito ne faceva le lodi ad alta voce; le persone in piedi, dietro la fila delle sedie, si chinavano per guardare; quindi incominciava l'incanto. Le cifre si seguivano rapidamente. Ad ogni tratto, il perito gridava:

- Si delibera! Si delibera!

Qualche amatore, incitato dal grido, gittava una più alta cifra, guardando gli avversarii. Il perito gridava, con alzato il martello:

- Uno! Due! Tre!

E percoteva il banco. L'oggetto apparteneva all'ultimo offerente. Un mormorio si propagava intorno; poi di nuovo accendevasi la gara. Il cavaliere Dàvila, un gentiluomo napoletano che aveva le forme gigantesche e maniere quasi feminee, celebre raccoglitore e conoscitor di maioliche, dava il suo giudizio su ciascun pezzo importante. Tre, veramente, in quella vendita cardinalizia, eran le cose «superiori»: la Storia di Narcisso, la tazza di cristallo di ròcca, e un elmo d'argento cesellato da Antonio del Pollajuolo, che la Signoria di Firenze donò al conte d'Urbino nel 1472, in ricompensa de' servigi da lui resi nel tempo della presa di Volterra.

- Ecco la principessa - disse Don Filippo del Monte alla Muti.

La Muti si levò per salutare l'amica.

- Di già sul campo! - esclamò la Ferentino.

- Di già.

- E Francesca?

- Non è ancor giunta.

Quattro o cinque eleganti signori, il duca di Grimiti, Roberto Casteldieri, Ludovico Barbarisi, Giannetto Rùtolo, si appressarono. Altri sopravvenivano. Lo scroscio della pioggia copriva le parole.

Donna Elena porse la mano allo Sperelli, francamente, come ad ognuno. Egli si sentì, da quella stretta di mano, allontanare. Elena gli parve fredda e grave. Tutti i suoi sogni s'agghiacciarono e precipitarono, in un attimo; i ricordi della sera innanzi si confusero; le speranze si estinsero. Che aveva ella? Non era più la donna medesima. Vestiva una specie di lunga tunica di lontra e portava sul capo una specie di tòcco, anche di lontra. Aveva nell'espressione del volto qualche cosa di aspro e quasi di sprezzante.

- C'è ancóra tempo, alla tazza - ella disse alla principessa; e si rimise a sedere.

Ogni oggetto passava per le sue mani. Un Centauro intagliato in un sardonio, opera assai fina, forse proveniente dal disperso museo di Lorenzo il Magnifico, la tentò. Ed ella prese parte alla gara. Comunicava la sua offerta al perito, a voce bassa, senza levare gli occhi su di lui. A un certo punto, i competitori si arrestarono; ella ottenne la pietra, a buon prezzo.

- Acquisto eccellente - disse Andrea Sperelli, che stava in piedi, dietro la sedia di lei.

Elena non poté trattenere un lieve sussulto. Prese il sardonio e lo diede a vedere, levando la mano all'altezza della spalla, senza voltarsi. Era veramente un'assai bella cosa.

- Potrebbe essere il Centauro che Donatello copiò - soggiunse Andrea.

E nell'animo di lui, insieme con l'ammirazione per la cosa bella, sorse l'ammirazione per il nobile gusto della dama che ora la possedeva. «Ella è dunque, in tutto, una eletta» pensò. «Quali piaceri può dare ella a un amante raffinato!» Colei s'ingrandiva, nella sua imaginazione; ma, ingrandendosi, sfuggivagli. La gran sicurezza della sera innanzi mutavasi in una specie di scoraggiamento; e i dubbii primitivi risorgevano. Egli aveva troppo sognato, nella notte, a occhi aperti, nuotando in una felicità senza fine, mentre il ricordo d'un gesto, d'un sorriso, d'un'aria della testa, d'una piega del vestito lo prendeva e l'allacciava, come una rete. Ora, tutto quel mondo imaginario crollava miseramente al contatto della realtà. Egli non aveva visto negli occhi di Elena il singolar saluto a cui aveva tanto pensato; egli non era stato distinto da lei, in mezzo agli altri, con nessun segno. «Perché? » Si sentiva umiliato. Tutta quella gente fatua, d'intorno, gli faceva ira; gli facevano ira quelle cose che attraevan l'attenzione di lei; gli faceva ira Don Filippo del Monte che di tratto in tratto chinavasi verso di lei per mormorarle forse qualche malignità. Sopravvenne l'Ateleta. La quale era, come sempre, allegra. Il suo riso, tra i signori che già l'attorniavano, fece volgere vivamente Don Filippo.

- La Trinità è perfetta - egli disse, e si levò.

Andrea occupò sùbito la sedia, accanto alla Muti. Come gli giunse alle nari il profumo sottile delle viole, mormorò:

- Non sono quelle di ieri sera.

- No - fece Elena, freddamente.

Nella sua mobilità, ondeggiante e carezzante come l'onda, c'era sempre la minaccia del gelo inaspettato. Ella era soggetta a rigidità subitanee. Andrea tacque, non comprendendo.

- Si delibera! Si delibera! gridava il perito.

Le cifre salivano. La gara era ardente intorno l'elmo d'Antonio del Pollajuolo. Anche il cavalier Dàvila entrava in lizza. Pareva che a poco a poco l'aria si riscaldasse e che il desiderio di quelle cose belle e rare prendesse tutti gli spiriti. La mania si propagava, come un contagio. In quell'anno, a Roma, l'amore del bibelot e del bric-à-brac era giunto all'eccesso; tutti i saloni della nobiltà e dell'alta borghesia erano ingombri di «curiosità»; ciascuna dama tagliava i cuscini del suo divano in una pianeta o in un piviale e metteva le sue rose in un vaso di farmacia umbro o in una coppa di calcedonio. I luoghi delle vendite publiche erano un ritrovo preferito; e le vendite erano frequentissime. Nelle ore pomeridiane del tè le signore, per eleganza, giungevano dicendo: «Vengo dalla vendita del pittore Campos. Molta animazione. Magnifici i piatti arabo-ispani! Ho preso un gioiello di Maria Leczinska. Eccolo. »

- Si delibera!

Le cifre salivano. Intorno al banco si accalcavano gli amatori. La gente elegante si dava ai bei parlari, fra le Natività e le Annunciazioni giottesche. Le signore, fra quell'odore di muffa e di anticaglie, portavano il profumo delle loro pellicce e segnatamente quello delle violette, poiché tutti i manicotti contenevano un mazzolino secondo la moda leggiadra. Per la presenza di tante persone, un tepore dilettoso diffondevasi nell'aria, come in una umida cappella dove fossero molti fedeli. La pioggia seguitava a crosciar di fuori e la luce a diminuire. Furono accese le fiammelle del gas; e i due diversi chiarori lottavano.

- Uno! Due! Tre!

Il colpo di martello diede il possesso dell'elmo fiorentino a Lord Humphrey Heathfield. L'incanto ricominciò di nuovo su piccoli oggetti, che passavano lungo il banco, di mano in mano. Elena li prendeva delicatamente, li osservava e li posava quindi innanzi ad Andrea, senza dir nulla. Erano smalti, avorii, orologi del XVIII secolo, gioielli d'oreficeria milanese del tempo di Ludovico il Moro, libri di preghiere scritti a lettere d'oro su pergamena colorita d'azzurro. Tra le dita ducali quelle preziose materie parevano acquistar pregio. Le piccole mani avevano talvolta un leggero tremito al contatto delle cose più desiderabili. Andrea guardava intensamente; e nella sua imaginazione egli trasmutava in una carezza ciascun moto di quelle mani. «Ma perché Elena posava ogni oggetto sul banco, invece di porgerlo a lui?»

Egli prevenne il gesto di Elena, tendendo la mano. E da allora in poi gli avorii, gli smalti, i gioielli passarono dalle dita dell'amata in quelle dell'amante, comunicando un indefinibile diletto. Pareva ch'entrasse in loro una particella dell'amoroso fascino di quella donna, come entra nel ferro un poco della virtù d'una calamita. Era veramente una sensazione magnetica di diletto, una di quelle sensazioni acute e profonde che si provan quasi soltanto negli inizii di un amore e che non paiono avere né una sede fisica né una sede spirituale, a simiglianza di tutte le altre, ma sì bene una sede in un elemento neutro del nostro essere, in un elemento quasi direi intermedio, di natura ignota, men semplice d'uno spirito, più sottile d'una forma, ove la passione si raccoglie come in un ricettacolo, onde la passione s'irradia come da un focolare.

«E' un piacere non mai provato» pensò Andrea Sperelli anche una volta.

L'invadeva un leggero torpore e a poco a poco lo abbandonava la conscienza del luogo e del tempo.

- Vi consiglio questo orologio - gli disse Elena, con uno sguardo di cui egli da prima non comprese la significazione.

Era una piccola testa di morto scolpita nell'avorio con una straordinaria potenza d'imitazione anatomica. Ciascuna mascella portava una fila di diamanti, e due rubini scintillavano in fondo alle occhiaie. Su la fronte era inciso un motto: RUIT HORA; su l'occipite un altro motto: TIBI, HIPPOLYTA. Il cranio si apriva, come una scatola, sebbene la commessura fosse quasi invisibile. L'interior battito del congegno dava a quel teschietto una inesprimibile apparenza di vita. Quel gioiello mortuario, offerta d'un artefice misterioso alla sua donna, aveva dovuto segnar le ore dell'ebrezza e col suo simbolo ammonire gli spiriti amanti.

In verità, non poteva il Piacere desiderare un più squisito e più incitante misurator del tempo. Andrea pensò: «Me lo consiglia ella per noi?» E a quel pensiero tutte le speranze rinacquero e risorsero di tra l'incertezza, confusamente. Egli si gittò nella gara, con una specie d'entusiasmo. Gli rispondevano due o tre competitori accaniti, tra cui Giannetto Rùtolo che, avendo per amante Donna Ippolita Albónico, era attratto dall'iscrizione: TIBI, HIPPOLYTA.

Dopo poco, rimasero soli a contendere, il Rùtolo e lo Sperelli. Le cifre salivano oltre il prezzo reale dell'oggetto, mentre i periti sorridevano. A un certo punto, Giannetto Rùtolo non rispose più, vinto dalla ostinazione dell'avversario.

- Si delibera! Si delibera!

L'amante di Donna Ippolita, un poco pallido, gridò un'ultima cifra. Lo Sperelli aumentò. Ci fu un momento di silenzio. Il perito guardava i due competitori; quindi levò il martello, con lentezza, sempre guardando.

- Uno! Due! Tre!

La testa di morto rimase al conte d'Ugenta. Un mormorio si diffuse per la sala. Uno sprazzo di luce entrò per la vetrata e fece splendere i fondi aurei dei trittici, avvivò la fronte dolente d'una madonna senese e il cappellino grigio della principessa di Ferentino, coperto di scaglie d'acciaio.

- Quando la tazza? - chiese la principessa con impazienza.

Gli amici guardarono i cataloghi. Non c'era più speranza che la tazza del bizzarro umanista fiorentino andasse all'incanto in quel giorno. Per la molta concorrenza, la vendita procedeva lentamente. Rimaneva ancóra un lungo elenco d'oggetti minuti, come cammei, monete, medaglie. Alcuni antiquarii e il principe Stroganow si disputavano ogni pezzo. Tutti gli aspettanti ebbero una disillusione. La duchessa di Scerni si levò per andarsene.

- Addio, Sperelli - disse. - A questa sera, forse.

- Perché dite «forse»?

- Mi sento tanto male.

- Che avete mai?

Ella, senza rispondere, si volse agli altri salutando. Ma gli altri seguivano il suo esempio; escivano insieme. I giovini signori motteggiavano intorno il mancato spettacolo. La marchesa d'Ateleta rideva, ma la Ferentino pareva di pessimo umore. I servi che aspettavano nel corridoio, facevano avanzar le carrozze, come alla porta d'un teatro o d'una sala di concerti.

- Non vieni dalla Miano? - domandò l'Ateleta ad Elena.

- No; torno a casa.

Ella aspettò, su l'orlo del marciapiede, che il suo coupé s'avanzasse. La pioggia si disperdeva; tra larghe nuvole bianche scorgevasi qualche intervallo d'azzurro; una zona di raggi faceva luccicare il lastrico. E la signora, investita da quel chiaror tra biondo e roseo, nel mantello magnifico che scendeva con poche pieghe diritte e quasi simmetriche, era bellissima. Il sogno medesimo della sera innanzi sorse nello spirito d'Andrea, quando egli intravide l'interno del coupé tappezzato di raso come un boudoir, dove luccicavano il cilindro d'argento pieno d'acqua calda destinato a tenere tiepidi i piccoli piedi ducali. «Essere là, con lei, in quella intimità così raccolta, in quel tepore fatto dal suo alito, nel profumo delle violette appassite, intravedendo appena da' cristalli appannati le vie coperte di fango, le case grige, la gente oscura!»

Ma ella inchinò lievemente il capo allo sportello, senza sorridere; e la carrozza partì, verso il palazzo Barberini, lasciandogli nell'anima una vaga tristezza, uno scoramento indefinito. - Ella aveva detto «forse». Poteva dunque non venire al palazzo Farnese. E allora?

Questo dubbio l'affliggeva. Il pensiero di non rivederla gli era insopportabile: tutte le ore passate lontano da lei già gli pesavano. Egli chiedeva a sé stesso: «L'amo io dunque già tanto?» Il suo spirito pareva chiuso in un cerchio, entro cui turbinavano confusamente tutti i fantasmi delle sensazioni avute nella presenza di quella donna. D'un tratto, emergevano dalla sua memoria, con una singolare esattezza, una frase di lei, una intonazione di voce, un'attitudine, un movimento degli occhi, la forma d'un divano sul quale ella sedeva, il Finale della Sonata del Beethoven, una nota di Mary Dyce, la figura del servo che stava allo sportello, una qualunque particolarità, un qualunque frammento, ed oscuravano con la vivezza della loro imagine le cose della esistenza in corso, si sovrapponevano alle cose presenti. Egli le parlava, mentalmente; le diceva, mentalmente, tutto quello che poi le avrebbe detto in realtà, ne' futuri colloqui. Prevedeva le scene, i casi, le vicende, tutto lo svolgimento dell'amore, secondo le suggestioni del suo desiderio. - In che modo si sarebbe ella data a lui, la prima volta?

Mentre saliva le scale del palazzo Zuccari, per rientrare nel suo appartamento, gli balenava questo pensiero. - Ella, certo, sarebbe venuta là. La via Sistina, la via Gregoriana, la piazza della Trinità de' Monti, specialmente in certe ore, erano quasi deserte. La casa non era abitata che da stranieri. Ella avrebbe dunque potuto avventurarsi senza timori. Ma come attirarla? - La sua impazienza era tanta ch'egli avrebbe voluto poter dire: «Verrà domani!»

«Ella è libera» pensò. «Non la tiene la vigilanza d'un marito. Nessuno può chiederle conto delle assenze anche lunghe, anche insolite. Ella è padrona d'ogni suo atto, sempre.» Gli si presentarono allo spirito, subitamente, interi giorni e intere notti di voluttà, Si guardò intorno, nella stanza calda, profonda, segreta; e quel lusso intenso e raffinato, tutto fatto di arte, gli piacque, per lei. Quell'aria aspettava il suo respiro; quei tappeti chiedevano d'essere premuti dal suo piede; quei cuscini volevano l'impronta del suo corpo.

«Ella amerà la mia casa» pensò. «Amerà le cose ch'io amo.» Il pensiero gli dava una indicibile dolcezza; e gli pareva che già un'anima nuova, consapevole della imminente gioia, palpitasse sotto gli alti soffitti.

Chiese il tè al servo; e s'adagiò d'innanzi al caminetto, per meglio godere le finzioni della sua speranza. Trasse dall'astuccio il piccolo teschio gemmato e si mise ad esaminarlo attentamente. Al chiaror del fuoco l'esile dentatura adamantina brillava su l'avorio giallastro e i due rubini illuminavano l'ombra delle occhiaie. Sotto il cranio polito risonava il battito incessante del tempo. - RUIT HORA. - Quale artefice mai poteva avere avuta per una sua Ippolita quella superba e libera fantasia di morte, nel secolo in cui i maestri smaltisti ornavan di teneri idillii pastorali gli orioletti destinati a segnar pe' cicisbei l'ora de' ritrovi ne' parchi del Watteau? La scoltura rivelava una mano dotta, vigorosa, padrona d'uno stile proprio: era in tutto degna d'un quattrocentista penetrante come il Verrocchio.

«Vi consiglio questo orologio.» Andrea sorrideva un poco, ricordando le parole di Elena pronunziate in un modo così strano, dopo un così freddo silenzio. - Senza dubbio, dicendomi quella frase, ella pensava all'amore: ella pensava ai prossimi convegni d'amore, senza dubbio. Ma perché poi, di nuovo, era diventata impenetrabile? Perché non s'era curata più di lui? Che aveva ella? - Andrea si smarrì nell'indagine. Però l'aria calda, la mollezza della poltrona, la luce discreta, le variazioni del fuoco, l'aroma del tè, tutte quelle sensazioni grate ricondussero il suo spirito agli errori dilettosi. Egli andava errando senza mèta, come in un fantastico labirinto. In lui il pensiero assumeva talvolta la virtù dell'oppio: poteva inebriarlo.

- Mi permetto di ricordare al signor conte che per le sette è atteso in casa Doria - disse a voce bassa il servo, che aveva anche l'ufficio di rammentatore. - Tutto è preparato.

Egli andò a vestirsi, nella camera ottagonale ch'era, in verità, il più elegante e comodo spogliatoio desiderabile per un giovine signore moderno. Vestendosi, aveva una infinità di minute cure della sua persona. Sopra un gran sarcofago romano, trasformato con molto gusto in una tavola per abbigliamento, erano disposti in ordine i fazzoletti di batista, i guanti da ballo, i portafogli, gli astucci delle sigarette, le fiale delle essenze, e cinque o sei gardenie fresche in piccoli vasi di porcellana azzurra. Egli scelse un fazzoletto con le cifre bianche e ci versò due o tre gocce di pao rosa; non prese alcuna gardenia perché l'avrebbe trovata alla mensa di casa Doria; empì di sigarette russe un astuccio d'oro martellato, sottilissimo, ornato d'uno zaffiro su la sporgenza della molla, un po' curvo per aderire alla coscia nella tasca de' calzoni. Quindi uscì.

In casa Doria, tra un discorso e l'altro, la duchessa Angelieri, a proposito del recente parto della Miano, disse:

- Pare che Laura Miano e la Muti sieno in rotta.

- Forse per Giorgio? - chiese un'altra dama, ridendo.

- Si dice. E' una storia incominciata a Lucerna, quest'estate...

- Ma Laura non era a Lucerna.

- Appunto. C'era suo marito...

- Credo che sia una malignità; null'altro - interruppe la contessa fiorentina, Donna Bianca Dolcebuono. - Giorgio è ora a Parigi.

Andrea aveva udito, sebbene al suo lato destro la loquace contessa Starnina l'occupasse di continuo. Le parole della Dolcebuono non bastavano a lenirgli la puntura acutissima. Egli avrebbe voluto, almeno, sapere fino in fondo. Ma l'Angelieri rinunziava a seguitare; e altre conversazioni si mescolavano fra i trionfi delle magne rose di Villa Pamphily.

«Chi era questo Giorgio? Forse l'ultimo amante di Elena? Ella aveva passata una parte dell'estate a Lucerna. Ella veniva di Parigi. Ella, nell'uscire dalla vendita, erasi rifiutata di andare in casa Miano.» Nell'animo di Andrea le apparenze erano contro di lei tutte. Un desiderio atroce l'invase, di rivederla, di parlarle. L'invito al palazzo Farnese era per le dieci; alle dieci e mezzo egli si trovava già là, aspettando.

Aspettò molto. Le sale si empivano rapidamente; le danze incominciavano: nella galleria d'Annibale Caracci le semiddie quiriti lottavan di formosità con le Ariadne, con le Galatee, con le Aurore, con le Diane degli affreschi; le coppie turbinando esalavano profumi: le mani inguantate delle dame premevano la spalla dei cavalieri; le teste ingemmate si curvavano o si ergevano; certe bocche semiaperte brillavano come la porpora; certe spalle nude luccicavano sparse d'un velo d'umidore; certi seni parevano irrompere dal busto, sotto la veemenza dell'ansia.

- Non ballate, Sperelli? - chiese Gabriella Barbarisi, una fanciulla bruna come l'oliva speciosa, mentre passava a braccio d'un danzatore, agitando con la mano il ventaglio e col sorriso un neo ch'ella aveva in una fossetta presso la bocca.

- Sì, più tardi - rispose Andrea. - Più tardi.

Incurante delle presentazioni e dei saluti, egli sentiva crescere il suo tormento nell'attesa inutile; e girava di sala in sala alla ventura. Il «forse» gli faceva temere ch'Elena non venisse. - E s'ella proprio non veniva? Quando l'avrebbe egli riveduta? - Passò Donna Bianca Dolcebuono; e, senza sapere perché, egli le si mise al fianco dicendole molte frasi cortesi, provando quasi un poco di sollievo in compagnia di lei. Avrebbe voluto parlarle di Elena, interrogarla, rassicurarsi. L'orchestra diè principio a una Mazurka assai molle; e la contessa fiorentina col suo cavaliere entrò nella danza.

Allora Andrea si volse a un gruppo di giovini signori, che stava presso una porta. Eravi Ludovico Barbarisi, eravi il duca di Beffi, con Filippo del Gallo, con Gino Bommìnaco. Guardavano le coppie girare e malignavano un po' grossolanamente. Il Barberisi raccontava d'aver vedute le rotondità del petto alla contessa Lùcoli, ballando il Walzer. Il Bommìnaco domandò:

- Ma come?

- Provaci. Basta chinare gli occhi nel corsage. Ti assicuro che vale la pena...

- Avete badato alle ascelle di Madame Chrysoloras? Guardate!

Il duca di Beffi mostrava una danzatrice che aveva in su la fronte bianca come il marmo di Luni un'accensione di chiome rosse, a similitudine d'una sacerdotessa d'Alma Tadema. Il suo busto era congiunto agli omeri da un semplice nastro, e si scorgevano sotto le ascelle due ciuffi rossastri troppo abondanti.

Il Bommìnaco si mise a ragionare dell'odor singolare che hanno le donne rosse.

- Tu lo conosci bene, quell'odore - disse con malizia il Barbarisi.

- Perché?

- La Micigliano...

Il giovine si compiacque manifestamente di sentir nominare una delle sue amanti. Non protestò, ma rise; poi volgendosi allo Sperelli:

- Che hai stasera? Ti cercava tua cugina, un momento fa. Ora balla con mio fratello. Eccola.

- Guarda! - esclamò Filippo del Gallo. - E' tornata l'Albónico. Balla con Giannetto.

- E' tornata anche la Muti, da una settimana - fece Ludovico. - Che bella creatura!

- E' qui?

- Non l'ho veduta ancóra.

Andrea ebbe al cuore un sussulto, temendo che da qualcuna di quelle bocche fosse per uscire una malignità anche contro di lei. Ma il passaggio della principessa Issé, a braccio del ministro di Danimarca, divagò gli amici. Egli nondimeno sentivasi spingere da una temeraria curiosità a riallacciare il discorso sul nome dell'amata, per sapere, per iscoprire; ma non osò. La Mazurka finiva; il gruppo disperdevasi. «Ella non viene! Ella non viene!» L'inquietudine interiore gli cresceva così fieramente che egli pensò d'abbandonare le sale, poiché il contatto di quella folla eragli insoffribile.

Volgendosi, vide apparire su l'ingresso della galleria la duchessa di Scerni a braccio dell'ambasciatore di Francia. In un attimo, egli incontrò lo sguardo di lei; e gli occhi d'ambedue in quell'attimo, parvero mescolarsi, penetrarsi, beversi. Ambedue sentirono che l'uno cercava l'altra e l'altra l'uno; ambedue sentirono, ad un punto, scendere su l'anima un silenzio, in mezzo a quel rumore, e quasi direi aprirsi un abisso in cui tutto il mondo circostante scomparve sotto la forza d'un pensiero unico.

Ella s'avanzava nell'istoriata galleria del Caracci, dov'era minore la calca, portando un lungo strascico di broccato bianco che la seguiva come un'onda grave sul pavimento. Così bianca e semplice, nel passare volgeva il capo ai molti saluti, mostrando un'aria di stanchezza, sorridendo con un piccolo sforzo visibile che le increspava gli angoli della bocca, mentre gli occhi sembravan più larghi sotto la fronte esangue. Non la fronte sola ma tutte le linee del volto assumevano dall'estremo pallore una tenuità quasi direi psichica. Ella non era più né la donna seduta alla mensa degli Ateleta, né quella al banco delle vendite, né quella diritta un'istante sul marciapiede della via Sistina. La sua bellezza aveva ora un'espressione di sovrana idealità, che meglio splendeva in mezzo alle altre dame accese in volto dalla danza, eccitate, troppo mobili, un po' convulse. Alcuni uomini, guardandola, rimanevan pensosi. Ella metteva anche negli animi più ottusi o fatui un turbamento, una inquietudine, un'aspirazione indefinibile. Chi aveva il cuor libero imaginava con un fremito profondo l'amore di lei; chi aveva un'amante provava un oscuro rammarico sognando un'ebrezza sconosciuta, nel cuore non pago; chi recava entro di sé la piaga d'una gelosia o d'un inganno aperta da un'altra donna, sentiva ben che avrebbe potuto guarire.

Ella s'avanzava così, tra gli omaggi, avvolta dallo sguardo degli uomini. All'estremità della galleria, si unì ad un gruppo di dame che parlavano vivamente agitando i ventagli, sotto la pittura di Perseo e di Fineo impietrato. Eranvi la Ferentino, la Massa d'Albe, la marchesa Daddi-Tosinghi, la Dolcebuono.

- Perché così tardi? - le chiese quest'ultima.

- Ho esitato molto, prima di venire, perché non mi sento bene.

- Infatti, sei pallida.

- Credo che riavrò le nevralgie alla faccia, come l'anno scorso.

- Non sia mai!

- Guarda, Elena, Madame de la Boissière - disse Giovanella Daddi, con quella sua strana voce rauca. - Non sembra un cammello vestito da cardinale, con un parrucchino giallo?

- Madamoiselle Vanloo stasera perde la testa per tuo cugino - disse la Massa d'Albe alla principessa, vedendo passare Sofia Vanloo a braccio di Ludovico Barbarisi. - L'ho sentita dianzi che supplicava, dopo un giro di Polka accanto a me: «Ludovic, ne faites plus ça en dansant; je frissonne toute...»

Le dame si misero a ridere in coro, tra l'agitazion de' ventagli. Giungevano dalle sale contigue le prime note d'un Walzer ungherese. I cavalieri si presentarono. Andrea poté finalmente offrire il braccio a Elena e trarla seco.

- Aspettandovi, ho creduto di morire! Se voi non foste venuta, Elena, io vi avrei cercata ovunque. Quando vi ho vista entrare, ho trattenuto a stento un grido. Questa è la seconda sera ch'io vi vedo, ma mi par già di amarvi non so da che tempo. Il pensiero di voi, unico, incessante, è ora la vita della mia vita...

Egli proferiva le parole d'amore sommessamente, senza guardarla, tenendo gli occhi fissi d'innanzi a sé; ed ella le ascoltava nella stessa attitudine, impassibile in vista, quasi marmorea. Nella galleria rimanevano poche persone. Lungo le pareti, tra i busti dei Cesari, i cristalli opachi de' lumi, in forma di gigli, versavano un chiarore eguale, non troppo forte. La profusione delle piante verdi e fiorite dava imagine di una serra suntuosa. Le onde della musica si propagavano nell'aria calda, sotto le volte concave e sonore, passando su tutta quella mitologia come un vento su un giardino opulento.

- Mi amerete voi? - chiese il giovine. - Ditemi che mi amerete!

Ella rispose, con lentezza:

- Son venuta qui per voi soltanto.

- Ditemi che mi amerete! - ripeté il giovine, sentendo tutto il sangue delle sue vene affluire al cuore come un torrente di gioia.

Ella rispose:

- Forse.

E lo guardò con lo sguardo medesimo che la sera innanzi era a lui parso una divina promessa, con quell'indefinibile sguardo che quasi dava alla carne la sensazione del tócco amoroso d'una mano. Poi ambedue tacquero; ed ascoltarono l'avviluppante musica della danza, che a tratti a tratti facevasi piana come un sussurro o levavasi come un turbine improvviso.

- Volete che balliamo? - domandò Andrea, che dentro tremava al pensiero di tenerla fra le braccia.

Ella esitò un poco. Quindi rispose:

- No; non voglio.

Vedendo entrare nella galleria la duchessa di Bugnara, sua zia materna, e la principessa Alberoni con l'ambasciatrice di Francia, soggiunse:

- Ora, siate prudente; lasciatemi.

Ella gli tese la mano inguantata; e andò incontro alle tre dame, sola, con un passo ritmico e leggero. Dava una sovrana grazia alla sua persona e al suo passo il lungo strascico bianco, poiché l'ampiezza e la pesantezza del broccato contrastavano con l'esilità della cintura. Andrea, seguendola con gli occhi, ripeteva mentalmente la frase di lei: «Son venuta per voi soltanto.» - Ella era pur così bella, per lui, per lui solo! - Subitamente, dal fondo del cuore gli si levò un resto dell'amarezza che vi avevano messa le parole dell'Angelieri. L'orchestra lanciavasi con impeto in una ripresa. Ed egli non dimenticò mai né quelle note, né lo splendor della stoffa trascinata, né una minima piega, né una minima ombra, né alcuna particolarità di quel momento supremo.

IV

Elena, dopo poco, aveva lasciato il palazzo Farnese, quasi di nascosto, senza prender congedo né da Andrea né da alcun altro. Era dunque rimasta al ballo appena mezz'ora. L'amante l'aveva cercata per tutte le sale, a lungo e invano.

La mattina seguente, egli mandò un servo al palazzo Barberini per avere notizie di lei; e seppe ch'ella stava male. La sera andò di persona, sperando d'esser ricevuto; ma una camerista gli disse che la signora soffriva molto e che non poteva vedere nessuno. Il sabato, verso le cinque del pomeriggio, tornò, sempre sperando.

Egli usciva dalla casa Zuccari, a piedi. Era un tramonto paonazzo e cinereo, un po' lugubre, che a poco a poco si stendeva su Roma come un velario greve. Intorno alla fontana della piazza Barberini i fanali già ardevano, con fiammelle pallidissime, come ceri intorno a un feretro; e il Tritone non gittava acqua, forse per causa d'un restauro o d'una pulitura. Venivano giù per la discesa carri tirati da due o da tre cavalli messi in file e torme d'operai tornanti dalle opere nuove. Alcuni, allacciati per le braccia, si dondolavano cantando a squarciagola una canzone impudica.

Egli si fermò, per lasciarli passare. Due o tre di quelle figure rossastre e bieche gli rimasero impresse. Notò che un carrettiere aveva una mano fasciata e le fasce macchiate di sangue. Anche, notò un altro carrettiere in ginocchio sul carro, che aveva la faccia livida, le occhiaie cave, la bocca contratta, come un uomo attossicato. Le parole della canzone si mescevano ai gridi gutturali, ai colpi delle fruste, al rumore delle ruote, al tintinnio dei sonagli, alle ingiurie, alle bestemmie, alle aspre risa.

La sua tristezza s'aggravò. Egli si trovava in una disposizion di spirito strana. La sensibilità de' suoi nervi era così acuta che ogni minima sensazione a lui data dalle cose esteriori pareva una ferita profonda. Mentre un pensiero fisso occupava e tormentava tutto il suo essere, egli aveva tutto il suo essere esposto agli urti della vita circostante. Contro ogni alienazione della mente ed ogni inerzia della volontà, i suoi sensi rimanevano vigili ed attivi; e di quell'attività egli aveva una conscienza non esatta. I gruppi delle sensazioni gli attraversavano d'improvviso lo spirito, simili a grandi fantasmagorie in una oscurità; e lo turbavano e sbigottivano. Le nuvole del tramonto, la forma del Tritone cupa in un cerchio di fanali smorti, quella discesa barbarica d'uomini bestiali e di giumenti enormi, quelle grida, quelle canzoni, quelle bestemmie esasperavano la sua tristezza, gli suscitavano nel cuore un timor vago, non so che presentimento tragico.

Una carrozza chiusa usciva dal giardino. Egli vide chinarsi al cristallo un volto di donna, in atto di saluto; ma non lo riconobbe. Il palazzo levavasi d'innanzi a lui, ampio come una reggia; le vetrate del primo piano brillavano di riflessi violacei; su la sommità indugiava un bagliore fievole; dal vestibolo usciva un'altra carrozza chiusa.

«Se potessi vederla!» egli pensò, soffermandosi. Rallentava il passo, per prolungare l'incertezza e la speranza. Ella gli pareva assai lontana, quasi perduta, in quell'edificio così vasto.

La carrozza si fermò; e un signore mise il capo fuori dello sportello, chiamando:

- Andrea!

Era il duca di Grimiti, un parente.

- Vai dalla Scerni? - chiese colui con un sorriso fine.

- Sì, - rispose Andrea - a prendere notizie. Tu sai, è malata.

- Lo so. Vengo di là. Sta meglio.

- Riceve?

- Me, no. Ma potrà forse ricever te.

E il Grimiti si mise a ridere maliziosamente, tra il fumo della sua sigaretta.

- Non capisco - fece Andrea, serio.

- Bada; si dice già che tu sia in favore. L'ho saputo iersera, in casa Pallavicini; da una tua amica: te lo giuro.

Andrea fece un atto d'impazienza e si voltò per andarsene.

- Bonne chance! - gli gridò il duca.

Andrea entrò sotto il portico. In fondo a lui, la vanità godeva di quella diceria già sorta. Egli ora si sentiva più sicuro, più leggero, quasi lieto, pieno d'un intimo compiacimento. Le parole del Grimiti gli avevano d'un tratto sollevato gli spiriti, come un sorso d'un liquor cordiale. Mentre saliva le scale, gli cresceva la speranza. Giunto avanti alla porta, aspettò per contenere l'ansia. Suonò.

Il servo lo riconobbe; e disse sùbito:

- Se il signor conte ha la bontà d'attendere un momento, vado ad avvertire Mademoiselle.

Egli assentì; e si mise a passeggiare su e giù per la vasta anticamera ove gli pareva ripercuotersi forte il tumulto del suo sangue. Le lanterne di ferro battuto illuminavano inegualmente il cuoio delle pareti, le cassapanche scolpite, i busti antichi su' piedistalli di broccatello. Sotto il baldacchino splendeva di ricami l'impresa ducale; un liocorno d'oro in campo rosso. In mezzo a un tavolo, un piatto di bronzo era colmo di biglietti; e, gittandovi gli occhi sopra, Andrea vide quello recente del Grimiti. «Bonne chance!» Gli risonava ancor negli orecchi l'augurio ironico.

Madamoiselle apparve, dicendo:

- La duchessa sta un poco meglio. Credo che il conte potrà passare, un momento. Venga, di grazia, con me.

Ella era una donna di gioventù già sfiorita, piuttosto sottile, vestita di nero, con due occhi grigi che scintillavano singolarmente tra i falsi ricci biondicci. Aveva il passo e il gesto lievissimi, quasi furtivi, come di chi abbia la consuetudine di vivere intorno agli infermi o di attendere ad uffici delicati o di eseguire ordini di segretezza.

- Venga, signor conte.

Ella precedeva Andrea, lungo le stanze appena rischiarate, su i tappeti folti che attenuavano ogni rumore; e il giovine, pur nell'irrefrenabile tumulto del suo spirito, provava contro di lei un senso istintivo di repulsione, senza sapere perché.

Giunta innanzi a una porta che coprivano due bande di tappezzeria medìcea orlate di velluto rosso, ella si fermò, dicendo:

- Entro prima io, ad annunziarla. Attenda qui.

Una voce di dentro, la voce di Elena, chiamò:

- Cristina!

Andrea si sentì tremar le vene con tal furia a quel suono inaspettato, che pensò: «Ecco, ora vengo meno.» Aveva come l'antiveggenza indistinta d'una qualche felicità soprannaturale, superante la sua aspettazione, avanzante i suoi sogni, soverchiante le sue forze. - Ella era là, oltre quella soglia. - Ogni nozione della realità fuggiva dal suo spirito. Gli pareva d'aver, un tempo, pittoricamente o poeticamente imaginata una simile avventura d'amore, in quello stesso modo, con quello stesso apparato, con quello stesso fondo, con quello stesso mistero; e un altro, un suo personaggio imaginario, n'era l'eroe. Ora, per uno strano fenomeno fantastico, quella ideal finzione d'arte confondevasi col caso reale; ed egli provava un senso inesprimibile di smarrimento. - Ciascuna banda di arazzo recava una figura simbolica. Il Silenzio e il Sonno, due efebi, svelti e lunghi quali avrebbe potuto disegnarli il Primaticcio bolognese, custodivano la porta. Ed egli, egli proprio, eravi d'innanzi, in attesa; ed oltre la soglia, forse nel letto, respirava la divina amante. - Egli credeva udire il respiro di lei nel palpito delle sue arterie.

Madamoiselle uscì, alfine. Tenendo sollevato con la mano il grave tessuto, disse a voce bassa, con un sorriso:

- Può entrare.

E si ritrasse. Andrea entrò.

Ebbe, da prima, l'impressione d'un'aria assai calda, quasi soffocante: sentì nell'aria l'odor singolare del cloroformio; scorse qualche cosa di rosso nell'ombra, il damasco rosso delle pareti, i cortinaggi del letto; udì la voce stanca di Elena, che mormorava:

- Vi ringrazio, Andrea, d'esser venuto. Sto meglio.

Un poco esitando, poiché non vedeva distintamente le cose a quel lume fievole, s'avanzò fino al letto.

Ella sorrideva, col capo affondato su i guanciali, supina, nella mezz'ombra. Una zona di lana bianca le fasciava la fronte e le gote, passando di sotto al mento, come un soggólo monacale; né la pelle del volto era men bianca di quella fascia. Gli angoli esterni delle palpebre si restringevano per la contrazion dolorosa dei nervi infiammati; a intervalli la palpebra inferiore aveva un piccolo tremolio involontario; e l'occhio era umido, infinitamente soave, come velato da una lacrima che non potesse sgorgare, quasi implorante, fra i cigli che trepidavano.

Una immensa tenerezza invase il cuore del giovine, quando la vide da presso. Elena trasse fuori una mano e gliela tese, con un gesto assai lento. Egli si chinò, quasi in ginocchio contro la proda del letto; e si mise a coprir di baci rapidi e leggeri quella mano che ardeva, quel polso che batteva forte.

- Elena! Elena! Mio amore!

Elena aveva chiuso gli occhi, come per gustare più intimamente il rivo di piacere che le saliva dal braccio e le si effondeva a sommo del petto e le s'insinuava nelle fibre più segrete. Volgeva la mano, sotto la bocca di lui, per sentire i baci su la palma, sul dosso, tra le dita, intorno intorno al polso, su tutte le vene, in tutti i pori.

- Basta! - mormorò, riaprendo gli occhi; e con la mano che le parve un po' intorpidita sfiorò i capelli d'Andrea.

In quella carezza così tenue era tanto abbandono che fu su l'anima di lui la foglia di rosa sul calice colmo. La passione traboccò. Gli tremavano le labbra, sotto l'onda confusa di parole ch'egli non conosceva, ch'egli non profferiva. Aveva la sensazione violenta e divina come d'una vita che si dilatasse oltre le sue membra.

- Che dolcezza! E' vero? - disse Elena, sommessa, ripetendo quel gesto blando. E un brivido visibile le corse la persona, a traverso le coperte pesanti.

Poiché Andrea fece l'atto di prenderle di nuovo la mano, ella pregava...

- No... Così, resta così! Mi piaci!

Premendogli la tempia, lo costrinse a posare il capo su la sponda, per modo ch'egli sentiva contro una guancia la forma del ginocchio di lei. Lo guardò quindi ella un poco, pur sempre accarezzandogli i capelli; e con una voce morente di delizia, mentre le passava tra' cigli qualche cosa come un baleno bianco, soggiunse, allungando le parole:

- Quanto mi piaci!

Un inesprimibile allettamento voluttuoso era nell'apertura delle sue labbra, quando pronunziava la prima sillaba di quel verbo così liquido e sensuale in bocca a una donna.

- Ancóra! - mormorò l'amante, i cui sensi languivano di passione, alla carezza delle dita, alla lusinga della voce di lei. - Ancóra! Dimmi! Parla!

- Mi piaci! - ripeteva Elena, vedendo ch'egli la guardava fiso nelle labbra e forse conoscendo il fascino ch'ella emanava con quella parola.

Poi tacquero ambedue. L'uno sentiva la presenza dell'altra fluire e mescersi nel suo sangue, finché questo divenne la vita di lei e il sangue di lei la vita sua. Un silenzio profondo ingrandiva la stanza; il crocifisso di Guido Reni faceva religiosa l'ombra dei cortinaggi; il romore dell'Urbe giungeva come il murmure d'un flutto assai lontano.

Allora, con un movimento repentino, Elena si sollevò sul letto, strinse fra le due palme il capo del giovine, l'attirò, gli alitò sul volto il suo desiderio, lo baciò, ricadde, gli si offerse.

Dopo, una immensa tristezza la invase; la occupò l'oscura tristezza che è in fondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l'acqua amara. Ella, giacendo, teneva le braccia fuori dalla coperta abbandonate lungo i fianchi, le mani supine, quasi morte, agitate di tratto in tratto da un lieve sussulto; e guardava Andrea, con gli occhi bene aperti, con uno sguardo continuo, immobile, intollerabile. A una a una, le lacrime incominciarono a sgorgare; e scendevano per le gote a una a una, silenziosamente.

- Elena, che hai! Dimmi: che hai? - le chiese l'amante, prendendole i polsi, chinandosi a suggerle dai cigli le lacrime.

Ella stringeva forte i denti e le labbra per contenere il singulto.

- Nulla. Addio. Lasciami; ti prego! Mi vedrai domani. Va.

La sua voce e il suo gesto furono così supplichevoli che Andrea obbedì.

- Addio - egli disse; e la baciò in bocca, teneramente, provando il sapore delle stille salse, bagnandosi di quel caldo pianto. - Addio. Amami! Ricòrdati!

Gli parve, rivarcando la soglia, di udire dietro di sé uno scoppio di singulti. Andò innanzi, un po' incerto, titubante come un uomo che abbia la vista malsicura. Gli persisteva nel senso l'odore del cloroformio, simile a un vapor d'ebrezza; ma ad ogni passo qualche cosa d'intimo gli sfuggiva, si disperdeva nella'aria; ed egli, per un istintivo impulso, avrebbe voluto restringersi, chiudersi, invilupparsi, impedire quella dispersione. Le stanze erano deserte e mute, d'innanzi. A una porta, Madamoiselle comparve, senza alcun rumore di passi, senza alcun fruscìo di vesti, come un fantasma.

- Di qua, signor conte. Ella non ritrova la via.

Sorrideva in una maniera ambigua e irritante; e la curiosità rendeva più pungenti i suoi occhi grigi. Andrea non parlò. Di nuovo la presenza di quella donna gli era molesta, lo turbava, gli suscitava quasi un vago ribrezzo, gli faceva ira.

Appena fu sotto il portico, respirò come un uomo liberato da un'angoscia. La fontana metteva tra gli alberi un chioccolìo sommesso, rompendo a tratti in uno strepito sonoro; tutto il cielo risfavillava di stelle che certe nuvole lacere avvolgevano come in lunghe capigliature cineree o in vaste reti nere; fra i colossi di pietra, a traverso i cancelli, apparivano e sparivano i fanali delle vetture in corsa; spandevasi nell'aria fredda il soffio della vita urbana; le campane sonavano, da lungi e da presso. Egli aveva alfine la conscienza intera della sua felicità.

Una felicità piena, obliosa, libera, sempre novella, tenne ambedue, dopo d'allora. La passione li avvolse, e li fece incuranti di tutto ciò che per ambedue non fosse un godimento immediato. Ambedue, mirabilmente formati nello spirito e nel corpo all'esercizio di tutti i più alti e più rari diletti, ricercavano senza tregua il Sommo, l'Insuperabile, l'Inarrivabile; e giungevano così oltre, che talvolta una oscura inquietudine li prendeva pur nel colmo dell'oblio, quasi una voce d'ammonimento salisse dal fondo dell'essere loro ad avvertirli d'un ignoto castigo, d'un termine prossimo. Dalla stanchezza medesima il desiderio risorgeva più sottile, più temerario, più imprudente; come più s'inebriavano, la chimera del loro cuore ingigantiva, s'agitava, generava nuovi sogni; parevano non trovar riposo che nello sforzo, come la fiamma non trova la vita che nella combustione. Talvolta, una fonte di piacere inopinata aprivasi dentro di loro, come balza d'un tratto una polla viva sotto le calcagna d'un uomo che vada alla ventura per l'intrico d'un bosco; ed essi vi bevevano senza misura, finché non l'avevano esausta. Talvolta, l'anima, sotto l'influsso dei desiderii, per un singolar fenomeno d'allucinazione, produceva l'imagine ingannevole d'una esistenza più larga, più libera, più forte, «oltrapiacente»; ed essi vi s'immergevano, vi godevano, vi respiravano come in una loro atmosfera natale. Le finezze e le delicatezze del sentimento e dell'imaginazione succedevano agli eccessi della sensualità.

Ambedue non avevano alcun ritegno alle mutue prodigalità della carne e dello spirito. Provavano una gioia indicibile a lacerare tutti i veli, a palesare tutti i segreti, a violare tutti i misteri, a possedersi fin nel profondo, a penetrarsi, a mescolarsi, a comporre un essere solo.

- Che strano amore! - diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. - Mi sarei data a te la sera stessa ch'io ti vidi.

Ella ne provava una specie d'orgoglio. E l'amante diceva:

- Quando udii, quella sera, annunziare il mio nome accanto al tuo, su la soglia, ebbi, non so perché, la certezza che la mia vita era legata alla tua, per sempre!

Essi credevano quel che dicevano. Rilessero insieme l'elegia romana del Goethe: «Lass dich, Geliebte, nicht reun, dass du mir so schnell dich ergeben!... Non ti pentire, o diletta, d'esserti così prontamente concessa! Credimi, io di te non serbo alcun pensiero basso e impuro. Gli strali d'Amore han vario effetto: gli uni graffiano appena, e del tossico che s'insinua il suo cuor soffre molt'anni; bene pennuti e armati d'un ferro aguzzo e vivo, gli altri penetrano nel midollo e subitamente infiammano il sangue. Ai tempi eroici, quando gli dei e le dee amavano, il desio seguiva lo sguardo, il godimento seguiva il desio. Credi tu che la dea dell'Amore abbia a lungo meditato quando sotto i boschetti d'Ida, Anchise un giorno le piacque? E la Luna? S'ella esitava, l'Aurora gelosa avrebbe presto risvegliato il bel pastore! Ero vede Leandro in piena festa, e l'acceso amante si tuffa nell'onda notturna. Rea Silva, la vergine regia, va ad attingere acqua nel Tevere e la ghermisce il dio...»

Come per il divino elegiopèo di Faustina, per essi Roma s'illuminava d'una voce novella. Ovunque passavano, lasciavano una memoria d'amore. Le chiese remote dell'Aventino: Santa Sabina su le belle colonne di marmo pario, il gentil verziere di Santa Maria del Priorato, il campanile di Santa Maria in Cosmedin, simile a un vivo stelo roseo nell'azzurro, conoscevano il loro amore. Le ville dei cardinali e dei principi: la Villa Pamphily, che si rimira nelle sue fonti e nel suo lago tutta graziata e molle, ove ogni boschetto par chiuda un nobile idillio ed ove i baluardi lapidei e i fusti arborei gareggian di frequenza; la Villa Albani, fredda e muta come un chiostro, selva di marmi effigiati e museo di bussi centenarii, ove dai vestibili e dai portici, per mezzo alle colonne di granito, le cariatidi e le erme, simboli d'immobilità, contemplano l'immutabile simetria del verde; e la Villa Medici che pare una foresta di smeraldo ramificante in una luce soprannaturale; e la Villa Ludovisi, un po' selvaggia, profumata di viole, consacrata dalla presenza della Giunone cui Wolfgang adorò, ove in quel tempo i platani d'Oriente e i cipressi dell'Aurora, che parvero immortali, rabbrividivano nel presentimento del mercato e della morte; tutte le ville gentilizie, sovrana gloria di Roma, conoscevano il loro amore. Le gallerie dei quadri e delle statue: la sala borghesiana delle Danae d'innanzi a cui Elena sorrideva quasi rivelata, e la sala degli specchi ove l'imagine di lei passava tra i putti di Ciro Ferri e le ghirlande di Mario de' Fiori; la camera dell'Eliodoro, prodigiosamente animata della più forte palpitazion di vita che il Sanzio abbia saputo infondere nell'inerzia d'una parete, e l'appartamento dei Borgia, ove la grande fantasia del Pinturicchio si svolge in un miracoloso tessuto d'istorie, di favole, di sogni, di capricci, di artifizi e di ardiri; la stanza di Galatea, per ove si diffonde non so che pura freschezza e che serenità inestinguibile di luce, e il gabinetto dell'Ermafrodito, ove lo stupendo mostro, nato dalla voluttà d'una ninfa e d'un semidio, stende la sua forma ambigua tra il rifulgere delle pietre fini; tutte le solitarie sedi della Bellezza conoscevano il loro amore.

Essi comprendevano l'alto grido del poeta: «Eine Welt zwar bist Du, o Rom! Tu sei un mondo, o Roma! Ma senza l'amore il mondo non sarebbe il mondo, Roma stessa non sarebbe Roma.» E la scala della Trinità, glorificata dalla lenta ascensione del Giorno, era la scala della Felicità, per l'ascensione della bellissima Elena Muti.

Elena spesso piacevasi di salire per quei gradini al buen retiro del palazzo Zuccari. Saliva piano, seguendo l'ombra; ma l'anima sua correva rapida alla cima. Ben molte ore gaudiose misurò il piccolo teschio d'avorio dedicato ad Ippolita, che Elena talvolta accostava all'orecchio con un gesto infantile, mentre premeva l'altra guancia sul petto dell'amante, per ascoltare insieme la fuga degli attimi e il battito del cuore. Andrea le pareva sempre nuovo. Talvolta, ella rimaneva quasi attonita d'innanzi all'infaticabile vitalità di quello spirito e di quel corpo. Talvolta, le carezze di lui le strappavano un grido in cui esalavasi tutto il terribile spasimo dell'essere sopraffatto dalla violenza della sensazione. Talvolta, fra le braccia di lui, la occupava una specie di torpore quasi direi veggente, in cui ella credeva divenire, per la transfusione d'un'altra vita, una creatura diafana, leggera, fluida, penetrata d'un elemento immateriale, purissima; mentre tutte le pulsazioni nella lor moltitudine le davano imagine del tremito innumerevole d'un mar calmo in estate. Anche, talvolta, fra le braccia, sul petto di lui, dopo le carezze, ella sentiva dentro di sé la voluttà acquietarsi, agguagliarsi, addormentarsi, a similitudine di un'acqua estuante che a poco a poco si posi; ma se l'amato respirava più forte o appena appena si muoveva, ella sentiva di nuovo un'onda ineffabile attraversarla dal capo a' piedi, vibrare diminuendo, e infine morire. Questa «spiritualizzazione» del gaudio carnale, causata dalla perfetta affinità dei due corpi, era forse il più saliente tra i fenomeni della loro passione. Elena, talvolta, aveva lacrime più dolci dei baci.

E nei baci, che dolcezza profonda! Ci sono bocche di donne le quali paiono accendere d'amore il respiro che le apre. Le invermigli un sangue ricco più d'una porpora o le geli un pallor d'agonia, le illumini la bontà d'un consenso o le oscuri un'ombra di disdegno, le dischiuda il piacere o le torca la sofferenza, portano sempre in loro un enigma che turba gli uomini intellettuali e li attira e li captiva. Un'assidua discordia tra l'espression delle labbra e quella degli occhi genera il mistero; per che un'anima duplice vi si riveli con diversa bellezza, lieta e triste, gelida e passionata, crudele e misericorde, umile e orgogliosa, ridente e irridente; e l'ambiguità suscita l'inquietudine nello spirito che si compiace delle cose oscure. Due quattrocentisti meditativi, perseguitori infaticabili d'un Ideale raro e superno, psicologi acutissimi a cui si debbon forse le più sottili analisi della fisionomia umana, immersi di continuo nello studio e nella ricerca delle difficoltà più ardue e de' segreti più occulti, il Botticelli e il Vinci, compresero e resero per vario modo nell'arte loro tutta l'indefinibile seduzione di tali bocche.

Ne' baci d'Elena era, in verità, per l'amato, l'elisir sublimissimo. Di tutte le mescolanze carnali quella pareva loro la più completa, la più appagante. Credevano, talvolta, che il vivo fiore delle loro anime si disfacesse premuto dalle labbra, spargendo un succo di delizie per ogni vena insino al cuore; e, talvolta, avevano al cuore la sensazione illusoria come d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Tanto era la congiunzion perfetta, che l'una forma sembrava il natural complemento dell'altra. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro finché non si sentivan morire d'ambascia, mentre le mani dell'una tremavan su le tempie dell'altro smarritamente. Un bacio li prostrava più d'un amplesso. Distaccati, si guardavano, con gli occhi fluttuanti in una nebbia torbida. Ed ella diceva, con voce un po' roca, senza sorridere:- Moriremo.

Talvolta, riverso, egli chiudeva le palpebre aspettando. Ella, che conosceva quell'artifizio, chinavasi sopra di lui con meditata lentezza, a baciarlo. Non sapeva l'amato dove avrebbe ricevuto quel bacio ch'egli, nella sua volontaria cecità, vagamente presentiva. In quel minuto d'aspettazione e d'incertezza, un'ansia indescrivibile gli agitava tutte le membra, simile nell'intensità al raccapriccio d'un uomo bendato che sia sotto la minaccia d'un suggello di fuoco. Quando infine le labbra lo toccavano, frenava a stento un grido. E la tortura di quel minuto gli piaceva; poiché non di rado la sofferenza fisica nell'amore attrae più della blandizia. Elena anche, per quel singolare spirito imitativo che spinge gli amanti a rendere esattamente una carezza, voleva provare.

- Mi sembra - diceva ad occhi chiusi - che tutti i pori della mia pelle sieno come un milione di piccole bocche anelanti alla tua, spasimanti per essere elette, invidiose l'una dell'altra...

Egli allora, per equità, si metteva a coprirla di baci rapidi e fitti, trascorrendo tutto il bel corpo, non lasciando intatto alcun minimo spazio, non allentando la sua opera mai. Ella rideva, felice, sentendosi cingere come d'una veste invisibile; rideva e gemeva, folle, sentendo la furia di lui imperversare; rideva e piangeva, perduta, non potendo più reggere al divorante ardore. Poi, con uno sforzo repentino, faceva prigione il collo di lui fra le sue braccia, l'allacciava con i suoi capelli, lo teneva, tutto palpitante, simile a una preda. Egli, stanco, era contento di cedere e di rimaner così presto in quei vincoli. Guardandolo, ella esclamava:

- Come sei giovine! Come sei giovine!

La giovinezza in lui, contro tutte le corruzioni, contro tutte le dispersioni, resisteva, persisteva, a somiglianza d'un metallo inalterabile, d'un aroma indistruttibile. Lo splendor sincero della giovinezza era, appunto, la qualità sua più preziosa. Alla gran fiamma della passione, quanto in lui era più falso, più tristo, più arteficiato, più vano, si consumava come un rogo. Dopo la resoluzion delle forze, prodotta dall'abuso dell'analisi a dall'azion separata di tutte le sfere interiori, egli tornava ora all'unità delle forze, dell'azione, della vita; riconquistava la confidenza e la spontaneità; amava e godeva giovenilmente. Certi suoi abbandoni parevano d'un fanciullo inconsapevole; certe sue fantasie erano piene di grazia, di freschezza e di ardire.

- Qualche volta - gli diceva Elena - la mia tenerezza per te si fa più delicata di quella d'un amante. Io non so... Diventa quasi materna.

Andrea rideva, perché ella era maggiore appena di tre anni.

- Qualche volta - egli diceva a lei - la comunione del mio spirito col tuo mi par così casta ch'io ti chiamerei sorella, baciandoti le mani.

Queste fallaci purificazioni ed elevazioni del sentimento avvenivano sempre nei languidi intervalli del piacere, quando sul riposo della carne l'anima provava un bisogno vago d'idealità. Allora, anche, risorgevano nel giovine le idealità dell'arte ch'egli amava; e gli tumultuavano nell'intelletto tutte le forme un tempo create e contemplate, chiedendo di uscire; e le parole del monologo goethiano l'incitavano. «Che può sotto i tuoi occhi l'accesa natura? Che può la forma dell'arte intorno a te, se la passionata forza creatrice non t'empie l'anima e non affluisce alla punta delle tue dita, incessantemente, per riprodurre?» Il pensiero di dar gioia all'amante, con un verso numeroso o con una linea nobile, lo spinse all'opera. Egli scrisse La Simona; e fece le due acqueforti, dello Zodiaco e della Tazza d'Alessandro.

Eleggeva, nell'esercizio dell'arte, gli strumenti difficili, esatti, perfetti, incorruttibili: la metrica e l'incisione; e intendeva proseguire e rinnovare le forme tradizionali italiane, con severità, riallacciandosi ai poeti dello stil novo e ai pittori che precorrono il Rinascimento. Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero, amava l'espressione. I suoi saggi letterarii erano esercizii, giuochi, studii, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità. Egli pensava, con Enrico Taine, fosse più difficile compor sei versi belli che vincere una battaglia in campo. La sua Favola d'Ermafrodito imitava nella struttura la Favola di Orfeo del Poliziano; ed aveva strofe di straordinaria squisitezza, potenza e musicalità specialmente nei cori cantati da mostri di duplice natura: dai Centauri, dalle Sirene e dalle Sfingi. Questa sua nuova tragedia, La Simona, di breve misura, aveva un sapor singolarissimo. Sebbene rimata negli antichi modi toscani, pareva immaginata da un poeta inglese del secolo scorso d'Elisabetta, sopra una novella del Decamerone; chiudeva in sè qualche parte del dolce e strano incanto che c'è in certi drammi minori di Guglielmo Shakespeare.

Il poeta segnò così la sua opera, nel frontespizio dell'Esemplare Unico: A. S. CALCOGRAPHUS AQUA FORTI SIBI TIBI FECIT.

Il rame l'attraeva più della carta; l'acido nitrico, più dell'inchiostro; il bulino, più della penna. Già uno de' suoi maggiori, Giusto Sperelli, aveva esperimentata l'incisione. Alcune stampe di lui, eseguite intorno l'anno 1520, rivelavano manifestamente l'influenza di Antonio Pollajuolo, per la profondità e quasi direi acerbità del segno. Andrea praticava la maniera rembrandtesca a tratti liberi e la maniera nera prediletta dagli acquafortisti inglesi della scuola del Green, del Dixon, dell'Earlom. Egli aveva formata la sua educazione su tutti gli esemplari, aveva studiata partitamente la ricerca di ciascuno intagliatore, aveva imparato da Alberto Durero e dal Parmigiano, da Marc'Antonio e dall'Holbein, da Annibale Caracci e dal Marc-Ardell, da Guido e dal Callotta, dal Toschi e da Gerardo Audran; ma l'intendimento suo, d'innanzi al rame, era questo: rischiarare con gli effetti di luce del Rembrandt le eleganze di disegno de' Quattrocentisti fiorentini appartenenti alla seconda generazione come Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandajo e Filippino Lippi.

I due rami recenti rappresentavano, in due episodii d'amore, due attitudini della bellezza d'Elena Muti; e prendevano il titolo dagli accessorii.

Tra le cose più preziose possedute da Andrea Sperelli era una coperta di seta fina, d'un colore azzurro disfatto, intorno a cui giravano i dodici segni dello Zodiaco in ricamo, con le denominazioni Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpius, Arcitenens, Caper, Amphora, Pisces a caratteri gotici. Il Sole trapunto d'oro occupava il centro del cerchio; le figure degli animali, disegnate con uno stile un po' arcaico che ricordava quello de' musaici, aveva uno splendore straordinario; tutta quanta la stoffa pareva degna d'ammantare un talamo imperiale. Essa, infatti, proveniva dal corredo di Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro; la quale andò in sposa all'imperator Massimiliano.

La nudità di Elena non poteva, in verità, avere una più ricca ammantatura. Talvolta, mentre Andrea stava nell'altra stanza, ella si svestiva in furia, si distendeva nel letto, sotto la coperta mirabile; e chiamava forte l'amante. Ed a lui che accorreva ella dava imagine d'una divinità avvolta in una zona di firmamento. Anche, talvolta, volendo andare innanzi al camino, ella levavasi dal letto traendo seco la coperta. Freddolosa, si stringeva addosso la seta, con ambo le braccia; e camminava a piedi nudi, con passi brevi, per non implicarsi nelle pieghe abbondanti. Il Sole splendevale su la schiena, a traverso i capelli disciolti; lo Scorpione le prendeva una mammella; un gran lembo zodiacale strisciava dietro di lei, sul tappeto, trasportando le rose, s'ella le aveva già sparse.

L'acquaforte rappresentava appunto Elena dormente sotto i segni celesti. La forma muliebre appariva secondata dalle pieghe della stoffa, col capo abbandonato un poco fuor della proda del letto, con i capelli pioventi fino a terra, con un braccio pendulo e l'altro posato lungo il fianco. Le parti non nascoste, ossia la faccia, il sommo del petto e le braccia erano luminosissime; e il bulino aveva reso con molta potenza lo scintillio dei ricami nella mezz'ombra e il mistero dei simboli. Un alto levriere bianco, Famulus, fratel di quello che posa la testa su le ginocchia della contessa d'Arundel nel quadro di Pietro Paolo Rubens, tendeva il collo verso la signora, guatando, fermo su le quattro zampe, disegnato con una felice arditezza di scorcio. Il fondo della stanza era opulento e oscuro.

L'altra acquaforte riferivasi al gran bacino d'argento che Elena Muti aveva ereditato da sua zia Flaminia.

Questo bacino era storico: e si chiamava la Tazza d'Alessandro. Fu donato alla principessa di Bisenti da Cesare Borgia prima ch'ei partisse per la terra di Francia a portare la bolla di divorzio e le dispense di matrimonio a Luigi XII; e doveva esser compreso fra le salmerie favolose che il Valentino portò seco nel suo ingresso a Chinon descritto dal signor di Brantôme. Il disegno delle figure che giravano a torno e di quelle che sorgevano dal margine delle due estremità era attribuito al Sanzio.

La tazza si chiamava di Alessandro perché fu composta in memoria di quella prodigiosa a cui nei vasti conviti soleva prodigiosamente bere il Macedone. Stuoli di Sagittarii giravano intorno ai fianchi del vaso, con tesi gli archi, tumultuando, nelle attitudini mirabili di quelli i quali Raffaello dipinse ignudi saettanti contro l'Erma nel fresco che sta nella sala borghesiana ornata da Giovan Francesco Bolognesi. Inseguivano una gran Chimera che sorgeva su dall'orlo, come un'ansa, alla estremità del vaso, mentre dalla parte opposta balzava il giovine sagittario Bellerofonte con l'arco teso contro il mostro nato di Tifone. Gli ornamenti della base e dell'orlo erano d'una rara leggiadria. L'interno era dorato, come quel d'un ciborio. Il metallo era sonoro come uno strumento. Il peso era di trecento libbre. La forma tutta quanta era armoniosa.

Spesso, per capriccio, Elena Muti prendeva in quella tazza il suo bagno mattutino. Ella vi si poteva bene immergere, se non distendere, con tutta la persona; e nulla, in verità, eguagliava la suprema grazia di quel corpo raccolto nell'acqua che la doratura tingeva d'un indescrivibile tenuità di riflessi, poiché il metallo non era argento ancóra e l'oro moriva.

Invaghito di tre forme diversamente eleganti, cioè della donna, della tazza, e del veltro, l'acquafortista trovò una composizione di linee bellissima. La donna, ignuda, in piedi, entro il bacino, appoggiandosi con una mano su la sporgenza della Chimera e con l'altra su quella di Bellerofonte, protendevasi innanzi ad irridere il cane che, piegato in arco su le zampe anteriori abbassate e su le posteriori diritte, a simiglianza di un felino quando spicca il salto, ergeva verso di lei il muso lungo e sottile come quel d'un luccio, argutamente.

Non mai Andrea Sperelli aveva con più ardore goduta e sofferta l'intenta ansietà dell'artefice in vigilare l'azion dell'acido cieca e irreparabile; non mai aveva con più ardore acuita la pazienza nella sottilissima opera della punta secca su le asprezze dei passaggi. Egli era nato, in verità, calcografo, come Luca d'Olanda. Possedeva una scienza mirabile (ch'era forse un raro senso) di tutte le minime particolarità di tempo e di grado le quali concorrono a infinitamente variare sul rame l'efficacia dell'acqua forte. Non la pratica, non la diligenza, non la intelligenza soltanto, ma specie quel natio senso quasi infallibile l'avvertiva del momento giusto, dell'attimo puntuale, in cui la corrosione giungeva a dare tal preciso valor d'ombra che nell'intenzion dell'artefice doveva avere la stampa. E nel padroneggiar così spiritualmente quell'energia bruta e quasi direi nell'infonderle uno spirito d'arte e nel sentir non so che occulta rispondenza di misura tra il battere del polso e il progressivo mordere dell'acido, era il suo inebriante orgoglio, la sua tormentosa gioia.

Pareva ad Elena esser deificata dall'amante, come l'Isotta riminese nelle indistruttibili medaglie che Sigismondo Malatesta fece coniare in gloria di lei.

Ma ella, ne' giorni appunto in cui Andrea attendeva all'opera, diveniva triste e taciturna e sospirosa, quasi l'occupasse un'interna angoscia. Aveva, d'improvviso, effusioni di tenerezza così struggenti, miste di lacrime e di singhiozzi mal frenati, che il giovine rimaneva attonito, in sospetto, senza comprendere.

Una sera, tornavano a cavallo, dall'Abentino, giù per la via di Santa Sabina, avendo ancóra negli occhi la gran visione dei palazzi imperiali incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra i cipressi nerastri che penetrava una polvere d'oro. Cavalcavano in silenzio, poiché la tristezza di Elena erasi comunicata all'amante. D'innanzi a Santa Sabina, questi fermò il baio, dicendo:

- Ti ricordi?

Alcune galline, che beccavano in pace tra i ciuffi d'erba, si dispersero ai latrati di Famulus. Lo spiazzo, invaso dalle gramigne, era tranquillo e modesto come il sagrato d'un villaggio; ma i muri avevano quella luminosità singolare che riflettesi dagli edifizi di Roma «nell'ora di Tiziano»,

Elena anche sostò.

- Come pare lontano, quel giorno! - disse, con un po' di tremito nella voce.

Infatti, quella memoria si perdeva nel tempo indefinitamente, quasi che il loro amore durasse da molti mesi, da molti anni. Le parole di Elena avevano suscitato nell'animo di Andrea la strana illusione e, insieme, una inquietudine. Elena si mise a ricordare tutte le particolarità di quella visita, fatta in un pomeriggio di gennaio, sotto un sole primaverile. Si diffondeva nelle minuzie, insistendo; e di tratto in tratto interrompevasi come chi segua, oltre le sue parole, un pensiero non espresso. Andrea credé sentire nella voce di lei il rimpianto. - Che rimpiangeva ella mai? Il loro amore non vedeva d'innanzi a sé giorni anche più dolci? La primavera non teneva già Roma? - Egli, perplesso, quasi non l'ascoltava più. I cavalli scendevano, al passo, l'uno a fianco dell'altro, talvolta respirando forte dalle froge o accostando i musi come per confidarsi un secreto. Famulus andava su e giù, in perpetua corsa.

- Ti ricordi - seguitava Elena - ti ricordi di quel frate che ci venne ad aprire, quando sonammo la campanella?

- Sì, sì...

- Come ci guardò stupefatto! Era piccolo piccolo, senza barba, tutto rugoso. Ci lasciò soli nell'atrio, per andare a prendere le chiavi della chiesa; e tu mi baciasti. Ti ricordi?

- Sì.

- E tutti quei barili, nell'atrio! E quell'odore di vino, mentre il frate ci spiegava le storie intagliate nella porta di cipresso! E poi, la Madonna del Rosario! Ti ricordi? La spiegazione ti fece ridere; e io sentendoti ridere, non potei frenarmi; e ridemmo tanto innanzi a quel poveretto che si confuse e non aprì più bocca neanche all'ultimo per dirti grazie...

Dopo un intervallo, ella riprese:

- E a Sant'Alessio, quando tu non volevi lasciarmi vedere la cupola pel buco della serratura! Come ridemmo, anche là!

Tacque, di nuovo. Veniva su per la strada una compagnia d'uomini con una bara, seguitata da una carrozza pubblica, piena di parenti che piangevano. Il morto andava al cimitero degli Israeliti. Era un funerale muto e freddo. Tutti quegli uomini, dal naso adunco e dagli occhi rapaci, si somigliavano tra loro come consanguinei.

Affinché la compagnia passasse, i due cavalli si divisero, prendendo ciascuno un lato, rasente il muro; e gli amanti si guardarono, al di sopra del morto, sentendosi crescere la tristezza.

Quando si riaccostarono, Andrea domandò:

- Ma tu che hai? A che pensi?

Ella esitò, prima di rispondere. Teneva gli occhi abbassati sul collo dell'animale, accarezzandolo col pomo del frustino, irresoluta e pallida.

- A che pensi? - ripeté il giovine.

- Ebbene, te lo dirò. Io parto mercoledì, non so per quanto tempo; forse per molto, per sempre; non so... Quest'amore si rompe, per colpa mia; ma non mi chiedere come, non mi chiedere perché, non mi chiedere nulla: ti prego! Non potrei risponderti.

Andrea la guardò, quasi incredulo. La cosa gli pareva così impossibile che non gli fece dolore.

- Tu dici per gioco; è vero Elena?

Ella scosse la testa, negando, poiché le si era chiusa la gola; e subitamente spinse al trotto il cavallo. Dietro di loro, le campane di Santa Sabina e di Santa Prisca cominciarono a suonare, nel crepuscolo. Essi trottavano in silenzio, suscitando gli echi sotto gli archi, sotto i templi, nelle ruine solitarie e vacue. Lasciarono a sinistra San Giorgio in Velabro che aveva ancóra un bagliore vermiglio su i mattoni del campanile, come nel giorno della felicità. Costeggiarono il Fòro romano, il Fòro di Nerva, già occupati da un'ombra azzurrognola, simile a quella de' ghiacciai nella notte. Si fermarono all'Arco dei Pantani, dove li attendevano gli staffieri e le carrozze.

Appena fuor di sella, Elena tese la mano ad Andrea, evitando di guardarlo negli occhi. Pareva ch'ella avesse gran fretta di allontanarsi.

- Ebbene? - le chiese Andrea, aiutandola a montar nel legno.

- A domani. Stasera, no.

V

Il commiato su la via Nomentana, quell'adieu au grand air voluto da Elena, non isciolse alcuno de' dubbi che Andrea aveva nell'animo. - Quali erano mai le cagioni occulte di quella partenza subitanea? - Invano egli cercava di penetrare il mistero; i dubii l'opprimevano.

Ne' primi giorni, gli assalti del dolore e del desiderio furono così crudeli ch'egli credeva morirne. La gelosia, che dopo le prime apparite erasi dileguata innanzi all'assiduo ardore di Elena, risorgeva in lui destata dalle imaginazioni impure; e il sospetto che un uomo potesse nascondersi in quell'oscuro intrico, gli dava un tormento insopportabile. Talvolta, contro la donna lontana, l'invadeva una bassa ira, un rancore pien d'amarezza, e quasi un bisogno di vendetta, come s'ella lo avesse ingannato e tradito per abbandonarsi a un altro amante. Anche, talvolta credeva di non desiderarla più, di non amarla più, di non averla mai amata; ed era in lui un fenomeno non nuovo questa cessazion momentanea d'un sentimento, questa specie di sincope spirituale che, per esempio, gli rendeva completamente estranea in mezzo alla gente la donna diletta e gli permetteva d'assistere a un gaio pranzo un'ora dopo aver bevute le lacrime di lei. Ma quegli oblii non duravano. La primavera romana fioriva con inaudita letizia: la città di travertino e di mattone sorbiva la luce, come un'avida selva; le fontane papali si levavano in un cielo più diafano d'una gemma; la piazza di Spagna odorava come un roseto; e la Trinità de' Monti, in cima alla scala popolata di putti, pareva un duomo d'oro.

Alle incitazioni che gli venivano dalla nuova bellezza di Roma, quanto in lui rimaneva del fascino di quella donna, nel sangue e nell'anima, ravvivavasi e raccendevasi. Ed egli era turbato, fin nel profondo, da invincibili angosce, da implacabili tumulti, da indefinibili languori, che somigliavano un poco quelli della pubertà. Una sera, in casa Dolcebuono, dopo un tè, essendo rimasto ultimo nel salone tutto pieno di fiori e ancor vibrante d'una Cachoucha del Raff, egli parlò d'amore a Donna Bianca; e non se ne pentì, né in quella sera né in seguito.

La sua avventura con Elena Muti era ormai notissima come, o prima o poi, o più o meno, nella società elegante di Roma e in ogni altra società son note tutte le avventure e tutte le flirtations. Le precauzioni non valgono. Ciascuno ivi è così buon conoscitore della mimica erotica, che gli basta sorprendere un gesto o un'attitudine o uno sguardo per avere un sicuro indizio, mentre gli amanti, o coloro che son per divenire tali, non sospettano. Inoltre, ci sono in ogni società alcuni curiosi che fan professione di scoprire e che vanno su le vestigia degli amori altrui con non minor perseveranza de' segugi in traccia di selvaggina. Essi sono sempre vigili e non paiono; colgono infallibilmente una parola mormorata, un sorriso tenue, un piccolo sussulto, un lieve rossore, un baleno d'occhi; ne' balli, nelle grandi feste, dove sono più probabili le imprudenze, girano di continuo, sanno insinuarsi nel più fitto, con un'arte straordinaria, come nelle moltitudini i borsaiuoli; e l'orecchio è teso a rapire un frammento di dialogo, l'occhio è pronto dietro il luccicor della lente, a notare una stretta, una languidezza, un fremito, la pression nervosa d'una mano feminea su la spalla d'un danzatore.

Un terribile segugio era, per esempio, Don Filippo del Monte, il commensale della marchesa d'Ateleta. Ma, in verità, Elena Muti non si preoccupava molto delle maldicenze mondane; e in questa sua ultima passione era giunta a temerità quasi folli. Ella copriva ogni ardimento con la sua bellezza, col suo lusso, col suo alto nome; e passava pur sempre inchinata, ammirata, adulata, per quella certa molle tolleranza che è una delle più amabili qualità dell'aristocrazia quirite e che le viene forse appunto dall'abuso della mormorazione.

Or dunque l'avventura aveva, d'un tratto, inalzato Andrea Sperelli, in conspetto delle dame, a un alto grado di potere. Un'aura di favore l'avvolse; e la sua fortuna, in poco tempo, divenne meravigliosa. Un fenomeno assai frequente, nelle società moderne, è il contagio del desiderio. Un uomo, che sia stato amato da una donna di pregi singolari, eccita nelle altre l'imaginazione; e ciascuna arde di possederlo, per vanità e per curiosità, a gara. Il fascino di Don Giovanni è più nella sua fama che nella sua persona. Inoltre, giovava allo Sperelli quel certo nome ch'egli aveva d'artista misterioso; ed erano rimasti celebri due sonetti, scritti nell'albo della principessa di Ferentino, ne' quali come in un dittico ambiguo egli aveva lodato una bocca diabolica e una bocca angelica, quella che perde le anime e quella che dice Ave. La gente volgare non imagina quali profondi e nuovi godimenti l'aureola della gloria, anche pallida o falsa, porti all'amore. Un amante oscuro, avesse anche la forza di Ercole e la bellezza d'Ippolito e la grazia d'Ila, non mai potrà dare all'amata le delizie che l'artista, forse inconsapevolmente, versa in abondanza negli ambiziosi spiriti feminili. Gran dolcezza dev'essere per la vanità di una donna il poter dire: - In ciascuna lettera ch'egli mi scrive è forse la più pura fiamma del suo intelletto a cui mi riscalderò io sola; in ciascuna carezza egli perde una parte della sua volontà e della sua forza; e i suoi più alti sogni di gloria cadono nelle pieghe della mia veste, ne' cerchi che segna il mio respiro!

Andrea Sperelli non esitò un istante d'innanzi alle lusinghe. A quella specie di raccoglimento, prodotto in lui dal dominio unico di Elena, succedeva ora il dissolvimento. Non più tenute dall'ignea fascia che le stringeva ad unità, le sue forze tornavano al primitivo disordine. Non potendo più conformarsi, adeguarsi, assimilarsi a una superior forma dominatrice, l'anima sua, camaleontica, mutabile, fluida, virtuale si trasformava, si difformava, prendeva tutte le forme. Egli passava dall'uno all'altro amore con incredibile leggerezza; vagheggiava nel tempo medesimo diversi amori; tesseva, senza scrupolo, una gran trama d'inganni, di finzioni, di menzogne, d'insidie, per raccogliere il maggior numero di prede. L'abitudine della falsità gli ottundeva la conscienza. Per la continua mancanza della riflessione, egli diveniva a poco a poco impenetrabile a sé stesso, rimaneva fuori del suo mistero. A poco a poco egli quasi giungeva a non vedere più la sua vita interiore, in quella guisa che l'emisfero esterno della terra non vede il sole pur essendogli legato indissolubilmente. Sempre vivo, spietatamente vivo, era in lui un istinto: l'istinto del distacco da tutto ciò che l'attraeva senza avvincerlo. E la volontà, disutile come una spada di cattiva tempra, pendeva al fianco di un ebro o di un inerte.

Il ricordo di Elena talvolta, risorgendo d'improvviso, lo riempiva; ed egli o cercava di sottrarsi alle malinconie del rimpianto o piacevasi invece rivivere nella imaginazione viziata l'eccessività di quella vita, per averne uno stimolo ai nuovi amori. Ripeteva a sé stesso le parole del lied: «Ricorda i giorni spenti! E metti su le labbra della seconda baci soavi quanto quelli che tu davi alla prima, non è gran tempo!» Ma già la seconda eragli uscita dall'anima. Egli aveva parlato d'amore a Donna Bianca Dolcebuono, da principio senza quasi pensarci, istintivamente attratto forse per virtù di un indefinito riflesso che a colei veniva dall'essere amica di Elena. Forse germogliava il piccolo seme di simpatia che avevan gittato in lui le parole della contessa fiorentina, al pranzo in casa Doria. Chi sa dire per quale misterioso procedere un qualunque contatto spirituale o materiale tra un uomo e una donna, anche insignificante, può generare ed alimentare in ambedue un sentimento latente, innavvertito, insospettato, che dopo molto tempo le circostanze faranno emergere d'un tratto? E' il fenomeno medesimo che noi riscontriamo nell'ordine intellettuale, quando il germe d'un pensiero o l'ombra d'una imagine si ripresentano d'un tratto, dopo un lungo intervallo, per uno sviluppo inconsciente, elaborati in imagine compiuta, in pensiero complesso. Le medesime leggi governano tutte le attività del nostro essere; e le attività di cui noi siam consapevoli non sono che una parte delle nostre attività.

Donna Bianca Dolcebuono era l'ideal tipo della bellezza fiorentina, quale fu reso dal Ghirlandajo nel ritratto di Giovanna Tornabuoni, ch'è in Santa Maria Novella. Aveva un chiaro volto ovale, la fronte larga alta e candida, la bocca mite, il naso un poco rilevato, gli occhi di quel color tanè oscuro lodato dal Firenzuola. Prediligeva disporre i capelli con abbondanza su le tempie, fino a mezzo delle guance, alla foggia antica. Ben le conveniva il cognome, poiché ella portava nella vita mondana una bontà nativa, una grande indulgenza, una cortesia per tutti eguale, e una parlatura melodiosa. Era, insomma, una di quelle donne amabili, senza profondità né di spirito né d'intelletto, un poco indolenti, che sembrano nate a vivere in piacevolezza e a cullarsi ne' discreti amori come gli uccelli su gli alberi fiorenti.

Quando udì le frasi di Andrea, ella esclamò, con un grazioso stupore:

- Dimenticate Elena così presto?

Poi, dopo alcuni giorni di graziose esitazioni, le piacque di cedere; e non di rado ella parlava d'Elena al giovine infedele, senza gelosia, candidamente.

- Ma perché mai sarà partita prima del solito, quest'anno? - gli chiese una volta, sorridendo.

- Io non so - rispose Andrea, senza poter nascondere un po' d'impazienza e di amarezza.

- Tutto, proprio, è finito?

- Bianca, vi prego, parliamo di noi! - interruppe egli con la voce alterata, poiché quei discorsi lo turbavano e irritavano.

Ella rimase un momento pensosa, come se volesse sciogliere un enigma; quindi sorrise scotendo la testa, come se rinunziasse, con una fugace ombra di malinconia su gli occhi.

- Così è l'amore.

E rese all'amante le carezze.

Andrea, possedendola, possedeva in lei tutte le gentili donne fiorentine del Quattrocento, alle quali cantava il Magnifico:

E' si vede in ogni lato
Che 'l proverbio dice il vero,
Che ciascun muta pensiero
Come l'occhio è separato.
Vedesi cambiare amore:
Come l'occhio sta di lunge,
Così sta di lunge il core:
Perché appresso un altro il punge.
Col qual tosto e' si congiunge
Con piacere e con diletto...

Allorché, nell'estate, ella era per partire, disse, prendendo congedo, senza nascondere la sua commozione gentile:

- Io so che, quando ci rivedremo, voi non mi amerete più. Così è l'amore. Ma ricordatevi di un'amica!

Egli non l'amava. Pure, nelle giornate calde e tediose, certe molli cadenze della voce di lei gli tornavan nell'anima come la magia d'una rima e gli suscitavano la visione d'un giardin fresco d'acque pel quale ella andasse in compagnia d'altre donne sonando e cantando come in una vignetta del Sogno di Polifilo.

E Donna Bianca si dileguò. E vennero altre, talvolta in coppia: Barbarella Viti, la mascula, che aveva una superba testa di giovinetto, tutta quanta dorata e fulgente come certe teste giudee del Rembrandt; la contessa di Lùcoli, la dama delle turchesi, una Circe di Dosso Dossi, con due bellissimi occhi pieni di perfidia, varianti come i mari d'autunno, grigi, azzurri, risplendenti di quella prodigiosa carnagione, composta di luce, di rose e di latte, che han soltanto i babies delle grandi famiglie inglesi nelle tele del Reynolds, del Gainsborough e del Lawrences; la marchesa Du Deffand, una bellezza del Direttorio, una Récamier, dal lungo e puro ovale, dal collo di cigno, dalle mammelle saglienti, dalle braccia bacchiche; Donna Isotta Cellesi, la dama degli smeraldi, che volgeva con una lenta maestà divina la sua testa d'imperatrice tra lo scintillio delle enormi gemme ereditarie; la principessa Kalliwoda, la dama senza gioielli, che nella fragilità delle sue forme chiudeva nervi d'acciaio per il piacere, e su la cerea delicatezza dei suoi lineamenti apriva due voraci occhi leonini, gli occhi d'uno Scita.

Ciascuno di questi amori portò a lui una degradazione novella; ciascuno l'inebriò d'una cattiva ebrezza, senza appagarlo; ciascuno gli insegnò una qualche particolarità e sottilità del vizio a lui ancóra ignota. Egli aveva in sé i germi di tutte le infezioni. Corrompendosi, corrompeva. La frode gli invescava l'anima, come d'una qualche materia viscida e fredda che ogni giorno divenisse più tenace. Il pervertimento de' sensi gli faceva ricercare e rilevare nelle sue amanti quel ch'era in loro men nobile e men puro. Una bassa curiosità lo spingeva a scieglier le donne che avevan peggior fama; un crudel gusto di contaminazione lo spingeva a sedurre le donne che avean fama migliore. Fra le braccia dell'una egli si ricordava d'una carezza dell'altra, d'un modo di voluttà appreso dall'altra. Talvolta (e fu, in ispecie, quando la notizia delle seconde nozze di Elena Muti gli riaprì per qualche tempo la ferita) piacevasi di sovrapporre alla nudità presente le evocate nudità di Elena e di servirsi della forma reale come d'un appoggio sul qual godere la forma ideale. Nutriva l'imagine con uno sforzo intenso, finché l'imaginazione giungeva a possedere l'ombra quasi creata.

Pur tuttavia egli non aveva culto per le memorie dell'antica felicità. Talvolta, anzi, quelle gli davano un appiglio a una qualunque avventura. Nella Galleria Borghese, per esempio, nella memore sala degli specchi, egli ottenne da Lilian Theed la prima promessa; nella Villa Medici, su per la memore scala verde che conduce al Belvedere, egli intrecciò le sue dita alle lunghe dita d'Angélique Du Deffand; e il piccolo teschio d'avorio appartenuto al cardinale Immenraet, il gioiello mortuario segnato del nome d'Ippolita oscura, gli suscitò il capriccio di tentare Donna Ippolita Albónico.

Questa dama aveva nella sua persona una grande aria di nobiltà, somigliando un poco a Maria Maddalena d'Austria, moglie di Cosimo II de' Medici, nel ritratto di Giusto Suttermans, ch'è in Firenze, dai Corsini. Amava gli abiti suntuosi, i broccati, i velluti, i merletti. I larghi collari medìcei parevano la foggia meglio adatta a far risaltare la bellezza della sua testa superba.

In una giornata di corse, su la tribuna, Andrea Sperelli voleva ottenere da Donna Ippolita ch'ella andasse la dimane al palazzo Zuccari per prendere il misterioso avorio dedicato a lei. Ella si schermiva, ondeggiando tra la prudenza e la curiosità. Ad ogni frase del giovine un po' ardita, corrugava le sopracciglia mentre un sorriso involontario le sforzava la bocca; e la sua testa, sotto il cappello ornato di piume bianche, sul fondo dell'ombrellino ornato di merletti bianchi, era in un momento di singolare armonia.

- Tibi, Hippolyta! Dunque venite? Io vi aspetterò tutto il giorno, dalle due fino a sera. Va bene?

- Ma siete pazzo?

- Di che temete? Io giuro alla Maestà Vostra di non toglierle neppure un guanto. Rimarrà seduta come in un trono, secondo il suo regal costume; e, anche prendendo una tazza di te, potrà non posare lo scettro invisibile che porta sempre nella destra imperiosa. E' concessa la grazia, a questi patti?

- No.

Ma ella sorrideva, poiché compiacevasi di sentir rilevare quell'aspetto di regalità ch'era la sua gloria. E Andrea Sperelli continuava a tentarla, sempre in tono di scherzo o di preghiera, unendo alla seduzione della sua voce uno sguardo continuo, sottile, penetrante, quello sguardo indefinibile che sembra svestire le donne, vederle ignude a traverso le vesti, toccarle su la pelle viva.

- Non voglio che mi guardiate così - disse Donna Ippolita, quasi offesa, con un lieve rossore.

Su la tribuna eran rimaste poche persone. Signore e signori passeggiavano su l'erba, lungo lo steccato, o circondavano il cavallo vittorioso, o scommettevano coi publici scommettitori urlanti, sotto l'incostanza del sole che appariva e spariva fra i molti arcipelaghi delle nuvole.

- Scendiamo - ella soggiunse, non accorgendosi degli occhi seguaci di Giannetto Rùtolo che stava appoggiato alla ringhiera della scala.

Quando, per discendere, passarono d'innanzi a colui, lo Sperelli disse:

- Addio, marchese, a poi. Correremo.

Il Rùtolo s'inchinò profondamente a Donna Ippolita; e una sùbita fiamma gli colorò la faccia. Eragli parso di sentire nel saluto del conte una leggera irrisione. Rimase alla ringhiera, seguendo sempre con gli occhi la coppia nel recinto. Visibilmente, soffriva.

- Rùtolo, alle vedette! - fecegli, con un riso malvagio, la contessa di Lùcoli passando a braccio con Don Filippo del Monte, giù per la scala di ferro.

Egli sentì la punta nel mezzo del cuore. Donna Ippolita e il conte d'Ugenta, dopo essere giunti fin sotto la specola dei giudici, tornavano verso la tribuna. La dama teneva il bastone dell'ombrellino su la spalla, girandolo fra le dita; la cupola bianca le roteava dietro la schiena, come un'aureola, e i molti merletti s'agitavano e si sollevavano incessantemente. Entro quel cerchio mobile ella di tratto in tratto rideva alle parole del giovine; e ancóra un lieve rossore tingeva la nobile pallidezza del suo volto. Di tratto in tratto, i due si soffermavano.

Giannetto Rùtolo, fingendo di voler osservare i cavalli che entravano nella pista, volse il binocolo fra i due. Visibilmente, gli tremavano le mani. Ogni sorriso, ogni gesto, ogni attitudine di Ippolita gli dava un atroce dolore. Quando abbassò il binocolo, egli era assai smorto. Aveva sorpreso negli occhi dell'amata, che si posavano su lo Sperelli, quello sguardo ch'egli ben conosceva poiché n'era stato, un tempo, illuminato di speranza. Gli parve che tutto ruinasse intorno a lui. Un lungo amore finiva, troncato da quello sguardo, irreparabilmente. Il sole non era più il sole; la vita non era più la vita.

La tribuna si ripopolava rapidamente, già che il segnale della terza corsa era prossimo. Le dame salivano in piedi su i sedili. Un mormorio correva lungo i gradi, simile a un vento sopra un giardino in pendio. La campanella squillò. I cavalli partirono come un gruppo di saette.

- Correrò in onor vostro, Donna Ippolita - disse Andrea Sperelli all'Albónico, prendendo congedo per andare a prepararsi alla seguente corsa, ch'era di gentiluomini. - Tibi, Hippolyta, semper!

Ella gli strinse la mano, forte, per augurio, non pensando che anche Giannetto Rùtolo stava fra i contenditori. Quando vide, poco oltre, l'amante pallido scender giù per la scala, l'ingenua crudeltà dell'indifferenza le regnava nei belli occhi oscuri. Il vecchio amore le cadeva dall'anima, pari a una spoglia inerte, per l'invasione del nuovo. Ella non apparteneva più a quell'uomo; non gli era legata da nessun legame. Non è concepibile come prontamente e intieramente rientri nel possesso del proprio cuore la donna che non ama più.

«Egli me l'ha presa» pensò colui, camminando verso la tribuna del Jockey-club, su l'erba che parevagli s'affondasse sotto i suoi piedi come un'arena. Davanti, a poca distanza, camminava l'altro, con un passo disinvolto e sicuro. La persona alta e snella, nell'abito cinerino, aveva quella particolare inimitabile eleganza che sol può dare il lignaggio. Egli fumava. Giannetto Rùtolo, venendo dietro, sentiva l'odore della sigaretta, ad ogni buffo di fumo; ed era per lui un fastidio insopportabile, un disgusto che gli saliva dalle viscere, come contro un veleno.

Il duca Beffi e Paolo Caligàro stavano su la soglia, già in assetto di corsa. Il duca si chinava su le gambe aperte, con un movimento ginnico, per provare l'elasticità de' suoi calzoni di pelle o la forza de' suoi ginocchi. Il piccolo Caligàro imprecava alla pioggia della notte, che aveva reso pesante il terreno.

- Ora - disse allo Sperelli - tu hai molte probabilità, con Miching Mallecho.

Giannetto Rùtolo udì quel presagio, ed ebbe al cuore una fitta. Egli riponeva nella vittoria una vaga speranza. Nella sua imaginazione vedeva gli effetti d'una corsa vinta e d'un duello fortunato, contro il nemico. Spogliandosi, ogni suo gesto tradiva la preoccupazione.

- Ecco un uomo che, prima di montare a cavallo, vede aperta la sepoltura - disse il duca di Beffi, posandogli una mano su la spalla, con un atto comico. - Ecce homo novus.

Andrea Sperelli, il quale in tal momento aveva gli spiriti gai, ruppe in un di que' suoi franchi scoppi di risa, ch'erano la più seducente effusione della sua giovinezza.

- Perché ridete, voi? - gli chiese Rùtolo, pallidissimo, fuori di sé, fissandolo di sotto ai sopraccigli corrugati.

- Mi pare - rispose lo Sperelli, senza turbarsi - che voi mi parliate in un tono assai vivo, caro marchese.

- Ebbene?

- Pensate del mio riso quel che più vi piace.

- Penso che è sciocco.

Lo Sperelli balzò in piedi, fece un passo, e levò contro Giannetto Rùtolo il frustino. Paolo Caligàro giunse a trattenergli il braccio, per prodigio. Altre parole irruppero. Sopravvenne Don Marcantonio Spada; udì l'alterco, e disse:

- Basta, figliuoli. Sapete ambedue quel che dovrete fare domani. Ora, dovete correre.

I due avversari compirono la lor vestizione, in silenzio. Quindi uscirono. Già la notizia del litigio s'era sparsa nel recinto e saliva su per le tribune, ad accrescere l'aspettazion della corsa. La contessa di Lùcoli, con raffinata perfidia, la diede a Donna Ippolita Albónico. Questa, non lasciando trasparire alcun turbamento, disse:

- Mi dispiace. Parevano amici.

La diceria si diffondeva, trasformandosi, per le belle bocche feminee. Intorno ai publici scommettitori ferveva la folla. Miching Mallecho, il cavallo del conte d'Ugenta, e Brummel, il cavallo del marchese Rùtolo, erano i favoriti; venivano poi Satirist del duca di Beffi e Carbonilla del conte Caligàro. I buoni conoscidori però diffidavano de' due primi, pensando che la concitazion nervosa dei due cavalieri avrebbe certamente nociuto alla corsa.

Ma Andrea Sperelli era calmo, quasi allegro.

Il sentimento della sua superiorità su l'avversario l'assicurava; inoltre, quella tendenza cavalleresca alle avventure perigliose, ereditata dal padre byroneggiante, gli faceva vedere il suo caso in una luce di gloria; e tutta la nativa generosità del suo sangue giovenile risvegliavasi, d'innanzi al rischio. Donna Ippolita Albónico, d'un tratto, gli si levava in cima dell'anima, più desiderabile e più bella.

Egli andò incontro al suo cavallo, con il cuor palpitante, come incontro a un amico che gli portasse l'annunzio aspettato d'una fortuna. Gli palpò il muso, con dolcezza; e l'occhio dell'animale, quell'occhio ove brillava tutta la nobiltà della razza per una inestinguibile fiamma, l'inebriò come lo sguardo magnetico di una donna.

- Mallecho, - mormorava, palpandolo - è una gran giornata! Dobbiamo vincere.

Il suo trainer, un omuncolo rossiccio, figgendo le pupille acute su gli altri cavalli che passavano portati a mano dai palafrenieri, disse, con la voce roca:

- No doubt.

Miching Mallecho esq. era un magnifico baio, proveniente dalle scuderie del barone di Soubeyran. Univa alla slanciata eleganza delle forme una potenza di reni straordinaria. Dal pelo lucido e fino, di sotto a cui apparivano gli intichi delle vene sul petto e su le cosce, pareva esalare quasi un fuoco vaporoso, tanto era l'ardore della sua vitalità. Fortissimo nel salto, aveva portato assai spesso nelle cacce il suo signore, di là da tutti gli ostacoli, non rifiutandosi d'innanzi a una triplice filagna o d'innanzi a una maceria mai, sempre alla coda dei cani, intrepidamente. Un hop del cavaliere l'incitava più d'un colpo di sperone; e una carezza lo faceva fremere.

Prima di montare, Andrea esaminò attentamente tutta la bardatura, si assicurò d'ogni fibbia e d'ogni cinghia; quindi balzò in sella, sorridendo. Il trainer dimostrò con un espressivo gesto la sua fiducia, guardando il padrone allontanarsi.

Intorno alle tabelle delle quote persisteva la folla degli scommettitori. Andrea sentì su la sua persona tutti gli sguardi. Volse gli occhi alla tribuna destra per vedere l'Albónico, ma non poté distinguer nulla tra la moltitudine delle dame. Salutò da presso Lilian Theed a cui eran ben noti i galoppi di Mallecho dietro le volpi e dietro le chimere. La marchesa d'Ateleta fece da lontano un atto di rimprovero, poiché aveva saputo l'alterco.

- Com'è quotato Mallecho? - chiese egli a Ludovico Barbarisi.

Andando al punto di partenza, egli pensava freddamente al metodo che avrebbe tenuto per vincere; e guardava i suoi tre competitori, che lo precedevano, calcolando la forza e la scienza di ciascuno. Paolo Caligàro era un demonio di malizia, rotto a tutte le furberie del mestiere, come un jockey; ma Carbonilla, sebbene veloce, era di poca resistenza. Il duca di Beffi, cavaliere d'alta scuola, che aveva vinto più d'un match in Inghilterra, montava un animale d'umor difficile, che poteva rifiutarsi innanzi a qualche ostacolo. Giannetto Rùtolo invece ne montava uno eccellente ed assai ben disciplinato; ma sebben forte, egli era troppo impetuoso e prendeva parte a una corsa publica per la prima volta. Inoltre, doveva trovarsi in uno stato di nervosità terribile, come da molti segni appariva.

Andrea pensava, guardandolo: «La mia vittoria d'oggi influirà sul duello di domani, senza dubbio. Egli perderà la testa, certo, qui e là. Io debbo essere calmo, su tutt'e due i campi.» Poi, anche, pensò: «Quale sarà l'animo di Donna Ippolita?» Gli parve che intorno ci fosse un silenzio insolito. Misurò con l'occhio la distanza fino alla prima siepe; notò su la pista un sasso luccicante; s'accorse d'essere osservato dal Rùtolo; ebbe un fremito per tutta la persona.

La campanella diede il segnale; ma Brummel aveva già preso lo slancio; e la partenza quindi, non essendo stata contemporanea, fu ritenuta non buona. Anche la seconda fu una falsa partenza, per colpa di Brummel. Lo Sperelli e il duca di Beffi si sorrisero fuggevolmente.

La terza partenza fu valida. Brummel, sùbito, si staccò dal gruppo, radendo lo steccato. Gli altri tre cavalli seguirono di pari, per un tratto; e saltarono la prima siepe, felicemente; poi, la seconda. Ciascuno dei tre cavalieri faceva un gioco diverso. Il duca di Beffi cercava di mantenersi nel gruppo perché d'innanzi agli ostacoli Satirist fosse istigato dall'esempio. Il Caligàro moderava la foga di Carbonilla, a conservarle le forze per gli ultimi cinquecento metri. Andrea Sperelli aumentava gradatamente la velocità, volendo incalzare il suo nemico in prossimità dell'ostacolo più difficile. Poco dopo, infatti, Mallecho avanzò i due compagni e si diede a serrare da presso Brummel.

Il Rùtolo sentì dietro di sé il galoppo incalzante, e fu preso da tale ansietà che non vide più nulla. Tutto alla vista gli si confuse, come s'egli fosse per perdere gli spiriti. Faceva uno sforzo immenso per tenere piantati gli speroni nel ventre del cavallo; e lo sbigottiva il pensiero che le forze lo abbandonassero. Aveva negli orecchi un rombo continuo, e in mezzo al rombo udiva il grido breve e secco d'Andrea Sperelli.

- Hop! Hop!

Sensibilissimo alla voce più che ad ogni altra instigazione, Mallecho divorava l'intervallo di distanza, non era più che a tre o quattro metri da Brummel, stava per raggiungerlo, per superarlo.

- Hop!

Un'altra barriera attraversava la pista. Il Rùtolo non la vide, poiché aveva smarrita ogni conscienza, conservando solo un furioso istinto di aderire all'animale e di spingerlo innanzi, alla ventura. Brummel saltò; ma, non coadiuvato dal cavaliere, urtò le zampe posteriori e ricadde dall'altra parte così male che il cavaliere perse le staffe, pur restando in sella. Seguitò tuttavia a correre. Andrea Sperelli teneva ora il primo posto; Giannetto Rùtolo, senza aver recuperato le staffe, veniva secondo, incalzato da Paolo Caligàro; il duca di Beffi, avendo sofferto da Satirist un rifiuto, veniva ultimo. Passarono sotto le tribune, in quest'ordine; udirono un clamore confuso, che si dileguò.

Su le tribune, tutti gli animi stavan sospesi nell'attenzione. Alcuni indicavano ad alta voce le vicende della corsa. Ad ogni mutamento nell'ordine dei cavalli, molte esclamazioni si levavano tra un lungo mormorio; e le dame ne avevano un fremito. Donna Ippolita Albónico, ritta in piedi sul sedile, appoggiandosi alle spalle del marito il quale era sotto di lei, guardava senza mai mutarsi, con una meravigliosa padronanza; se non che le labbra troppo chiuse e un leggerissimo increspamento della fronte potevan forse rivelare a un indagatore lo sforzo. A un certo punto, ritrasse dalle spalle del marito le mani per tema di tradirsi con un qualche involontario moto.

- Sperelli è caduto - annunziò a voce alta la contessa di Lùcoli.

Mallecho, infatti, saltando, aveva messo un piede in fallo su l'erba umida ed erasi piegato su le ginocchia, rialzandosi immediatamente. Andrea gli era passato dal collo, senza danno; e con una prontezza fulminea era tornato in sella, mentre il Rùtolo e il Caligàro sopraggiungevano. Brummel, sebbene offeso alle zampe posteriori, faceva prodigi, per virtù del suo sangue puro. Carbonilla infine spiegava tutta la sua velocità, condotta con arte mirabile dal suo cavaliere. Mancavano circa ottocento metri alla mèta.

Lo Sperelli vide la vittoria fuggirgli; ma raccolse tutti gli spiriti per riafferrarla. Teso su le staffe, curvo su la criniera, gittava di tratto in tratto quel grido breve, èsile, penetrante, che aveva tanto potere sul nobile animale. Mentre Brummel e Carbonilla, affaticati sul terreno pesante, perdevano vigore, Mallecho aumentava la veemenza del suo slancio, stava per riconquistare il suo posto, già sfiorava la vittoria con la fiamma delle sue narici. Dopo l'ultimo ostacolo, avendo superato Brummel, raggiungeva con la testa la spalla di Carbonilla. A circa cento metri dalla mèta, radeva lo steccato, avanti, avanti, lasciando dietro di sé e la morella del Caligàro lo spazio di dieci «lunghezze». La campana squillò; un applauso risonò per tutte le tribune, come il crepitar sordo di una grandine; un clamore si propagò nella folla su la prateria inondata dal sole.

Andrea Sperelli rientrando nel recinto pensava: «La fortuna è con me, oggi. Sarà con me anche domani?» Sentendo venire a sé l'aura del trionfo, ebbe contro l'oscuro pericolo quasi una sollevazion d'ira. Avrebbe voluto affrontarlo sùbito, in quello stesso giorno, in quella stessa ora, senza altro indugio, per godere una duplice vittoria e per mordere quindi al frutto che gli offriva la mano di Donna Ippolita. Tutto il suo essere accendevasi d'orgoglio selvaggio, al pensiero di posseder quella bianca e superba donna per diritto di conquista violenta. L'imaginazione gli fingeva un gaudio non mai provato, quasi direi una voluttà d'altri tempi, quando i gentiluomini scioglievano i capelli delle amasie con mani omicide e carezzevoli, affondandovi la fronte ancóra grondante per la fatica dell'abbattimento e la bocca ancóra amara delle profferte ingiurie. Egli era invaso da quella inesplicabile ebrezza che dànno a certi uomini d'intelletto l'esercizio della forza fisica, l'esperimento del coraggio, la rivelazione della brutalità. Quel che in fondo a noi è rimasto della ferocia originale torna al sommo talvolta con una strana veemenza ed anche sotto la meschina gentilezza dell'abito moderno il nostro cuore talvolta si gonfia di non so che smania sanguinaria ed anela alla strage. Andrea Sperelli aspirava la calda ed acre esalazion del suo cavallo, pienamente, e nessuno di quanti delicati profumi egli aveva fin allora preferiti, nessuno aveva mai dato al suo senso un più acuto piacere.

Appena smontò, fu accerchiato da amiche e da amici che si congratulavano. Miching Mallecho, sfinito, tutto fumante e spumante, sbuffava protendendo il collo e scotendo le briglie. I suoi fianchi s'abbassavano e si sollevavano con un moto continuo, così forte che pareva scoppiare; i suoi muscoli sotto la pelle tremavano come le corde degli archi dopo lo scocco; i suoi occhi iniettati di sangue e dilatati avevano ora l'atrocità di quelli d'una fiera; il suo pelo, ora interrotto da larghe chiazze più oscure, si apriva qua e là a spiga sotto i rivoli del sudore; la vibrazione incessante di tutto il suo corpo faceva pena e tenerezza, come la sofferenza d'una creatura umana.

- Poor fellow! - mormorò Lilian Theed.

Andrea gli esaminò i ginocchi per veder se la caduta li avesse offesi. Erano intatti. Allora, battendolo pianamente in sul collo, gli disse con un accento indefinibile di dolcezza:

- Va, Mallecho, va.

E lo riguardò allontanarsi.

Poi, avendo lasciato l'abito di corsa, cercò di Ludovico Barbarisi e del barone di Santa Margherita.

Ambedue accettarono l'incarico di assisterlo nella questione col marchese Rùtolo. Egli li pregò di sollecitare.

- Stabilite, dentro questa sera, ogni cosa. Domani, all'una dopo mezzogiorno, io debbo essere già libero. Ma domattina lasciatemi dormire almeno fino alle nove. Io pranzo dalla Ferentino; e passerò poi in casa Giustiniani; e poi, a ora tarda, al Circolo. Sapete dove trovarmi. Grazie, e a rivederci, amici.

Salì alla tribuna; ma evitò di avvicinarsi sùbito a Donna Ippolita. Sorrideva, sentendosi avvolgere dagli sguardi feminili. Molte belle mani si tendevano a lui; molte belle voci lo chiamavano familiarmente Andrea; alcune anzi lo chiamavan con una certa ostentazione. Le dame che avevano scommesso per lui gli dicevano la somma della loro vincita; dieci luigi, venti luigi. Altre gli domandarono, con curiosità:

- Vi batterete?

A lui pareva di aver raggiunto il culmine della gloria avventurosa in un sol giorno, meglio che il duca di Buckingham e il signor di Lauzun. Egli era uscito vincitore da una corsa eroica, aveva acquistata una nuova amante, magnifica e serena come una dogaressa; aveva provocato un duello mortale; ed ora passava tranquillo e cortese, né più né meno del solito, fra il sorriso di tali dame a cui egli conosceva altro che la grazia della bocca. Non poteva egli forse indicare di molte un vezzo segreto o una particolare abitudine di voluttà? Non vedeva egli, a traverso tutta quella chiara freschezza di stoffe primaverili, il neo biondo, simile a una piccola moneta d'oro, sul fianco sinistro d'Isotta Cellesi; o il ventre incomparabile di Giulia Moceto, polito come una coppa d'avorio, puro come quel d'una statua, per l'assenza perfetta di ciò che nelle sculture e nelle pitture antiche rimpiangeva il poeta del Musée secret? Non udiva nella voce sonora di Barbarella Viti un'altra indefinibile voce che ripeteva di continuo una parola invereconda; o nell'ingenuo riso di Aurora Seymour un altro indefinibile suono, rauco e gutturale, che ricordava un poco il rantolo dei gatti in su' focolari e il tubare delle tortore ne' boschi? Non sapeva le squisite depravazioni della contessa de Lùcoli che s'inspirava su i libri erotici, su le pietre incise e su le miniature; o gli invincibili pudori di Francesca Daddi che ne' supremi aneliti, come un'agonizzante, invocava il nome di Dio? Quasi tutte le donne ch'egli aveva ingannato, o che lo avevano ingannato, erano là e gli sorridevano.

- Ecco l'eroe! - disse il marito dell'Albónico, tendendogli la mano, con amabilità insolita, e stringendogliela forte.

- Eroe da vero - aggiunse Donna Ippolita, col tono insignificante d'un complimento obbligato, parendo ignorare il dramma.

Lo Sperelli s'inchinò e passò oltre, perché provava non so che imbarazzo d'innanzi a quella strana benevolenza del marito. Un sospetto gli balenò nell'animo, che il marito gli fosse grato d'aver attaccato briga con l'amante della moglie; e sorrise alla viltà di quell'uomo. Come si volse, gli occhi di Donna Ippolita s'incontrarono, si mescolarono con i suoi.

Nel ritorno, dal mail-coach del principe di Ferentino vide fuggire verso Roma Giannetto Rùtolo con un piccolo legno a due ruote, al trotto fitto d'un gran roano ch'egli guidava chinato avanti, tenendo la testa bassa e il sigaro tra i denti, senza curarsi delle guardie che gli intimavano di mettersi nella fila. Roma, in fondo, si disegnava oscura sopra una zona di luce gialla come zolfo; e le statue in sommo della basilica di San Giovanni entro un ciel viola, fuor della zona, grandeggiavano. Allora ebbe Andrea la conscienza intera del male ch'egli faceva soffrire a quell'anima.

La sera, in casa Giustiniani, disse all'Albónico:

- Riman dunque fermo che domani, dalle due alle cinque, io vi aspetterò.

Ella voleva chiedergli:

- Come? non vi battete, domani?

Ma non osò. Rispose:

- Ho promesso.

Poco tempo dopo, si accostò ad Andrea il marito, mettendoglisi a braccio con affettuosa premura, per chiedergli notizie del duello. Egli era un uomo ancor giovine, biondo, elegante, con i capelli molto radi, con l'occhio biancastro, con i due canini sporgenti fuor dalle labbra. Aveva una leggera balbuzie.

- Dunque? Dunque? Domani, eh?

Andrea non sapeva vincere la ripugnanza; e teneva il braccio teso lungo il fianco, per dimostrare che non amava quella familiarità. Come vide entrare il barone di Santa Margherita, si liberò dicendo:

- Mi preme di parlare col Santa Margherita. Scusate, conte.

Il barone l'accolse con queste parole:

- Tutto è stabilito.

- Bene. Per che ora?

- Per le dieci e mezzo, alla Villa Sciarra. Spada e guanto di sala. A oltranza.

- Chi sono gli altri due?

- Roberto Casteldieri e Carlo de Souza. Ci siamo sbrigati sùbito, evitando le formalità. Giannetto aveva già pronti i suoi. Abbiamo steso il verbale di scontro, al Circolo, senza discussione. Cerca di non andare a letto troppo tardi; mi raccomando. Tu devi essere stanco.

Per millanteria, uscendo di casa Giustiniani, Andrea andò al Circolo delle Cacce; e si mise a giocare cogli sportsmen napoletani. Verso le due il Santa Margherita lo sorprese, lo forzò ad abbandonare il tavolo, e volle ricondurlo a piedi fino al palazzo Zuccari.

- Mio caro, - ammoniva, in cammino - tu sei troppo temerario. In questi casi, un'imprudenza può esser fatale. Per conservarsi intatta la vigoria, un buono spadaccino deve avere a sé medesimo le cure che ha un buon tenore per conservarsi la voce. Il polso è delicato quanto la laringe; le articolazioni delle gambe sono delicate quanto le corde vocali. Intendi? Il meccanismo si risente d'ogni minimo disordine; lo strumento si guasta, non obedisce più. Dopo una notte d'amore o di giuoco o di crapula, anche le stoccate di Camillo Agrippa non potrebbero andar diritte e le parate non potrebbero essere né esatte né veloci. Ora, basta sbagliare d'un millimetro per prendersi tre pollici di ferro in corpo.

Erano al principio della via de' Condotti; e vedevano, al fondo, la piazza di Spagna illuminata dalla piena luna, la scala biancheggiante, la Trinità de' Monti alta nell'azzurro soave.

- Tu, certo, - seguitò il barone - hai molti vantaggi su l'avversario: tra gli altri, il sangue freddo e la pratica del terreno. T'ho veduto a Parigi contro il Gavaudan. Ti ricordi? Gran bel duello! Ti battesti come un dio.

Andrea si mise a ridere di compiacenza. L'elogio di quell'insigne duello gli gonfiava il cuore d'orgoglio, gli metteva nei nervi una sovrabbondanza di forze. La sua mano, istintivamente, stringendo il bastone faceva atto di ripetere il famoso colpo che trafisse il braccio al marchese di Gavaudan il 12 dicembre del 1885.

- Fu - egli disse - una «contro di terza» e un «filo».

E il barone riprese:

- Giannetto Rùtolo, su la pedana, è un discreto tiratore; sul terreno, è di primo impeto. S'è battuto una volta sola, con mio cugino Cassìbile; e n'è uscito male. Fa molto abuso di «uno, due» e di «uno, due, tre», attaccando. Ti gioveranno gli «arresti in tempo» e specialmente le «inquartate». Mio cugino, appunto, lo bucò con una «inquartata» netta, al secondo assalto. E tu sei un tempista forte. Abbi però l'occhio sempre vigile, e cerca di conservar la misura. Sarà bene che tu non dimentichi d'avere a fronte un uomo a cui hai presa, dicono, l'amante e su cui hai levato il frustino.

Erano nella piazza di Spagna. La Barcaccia metteva un chioccolìo roco ed umile, luccicando alla luna che vi si specchiava dall'alto della colonna cattolica. Quattro o cinque vetture publiche stavano ferme, in file, coi fanali accesi. Dalla via del Babuino giungeva un tintinnio di sonagli e un romor sordo di passi, come d'un gregge in cammino.

A piè della scala, il barone s'accomiatò.

- Addio, a domani. Verrò qualche minuto prima delle nove, con Ludovico. Tirerai due colpi, per scioglierti. Penseremo noi ad avvisare il medico. Va; dormi profondo.

Andrea si mise su per la scala. Al primo ripiano si soffermò, attirato dal tintinnio dei sonagli, che s'avvicinava. Veramente, egli si sentiva un po' stanco; a anche un po' triste, in fondo al cuore. Dopo la fierezza suscitatagli nel sangue da quel colloquio di scienza d'arme e dal ricordo della sua bravura, una specie d'inquietudine l'invadeva, non bene distinta, mista di dubbio e di scontento. I nervi, troppo tesi in quella giornata violenta e torbida, gli si rilassavano ora, sotto la clemenza della notte primaverile. - Perché, senza passione, per puro capriccio, per sola vanità, per sola prepotenza, erasi egli compiaciuto di sollevare un odio e di rendere dolorosa l'anima di un uomo? - Il pensiero della orribile pena che certo doveva affliggere il suo nemico, in una notte così dolce, gli mosse quasi un senso di pietà. L'imagine di Elena gli traversò il cuore, in un baleno; gli tornarono nella mente le angosce durate un anno innanzi, quando egli l'aveva perduta, e le gelosie, e le collere, e gli sconforti inesprimibili. - Anche allora le notti erano chiare, tranquille, solcate di profumi; e come gli pesavano! - Aspirò l'aria, per ove salivano i fiati delle rose fiorite ne' piccoli giardini laterali; e guardò giù nella piazza passare il gregge.

La folta lana biancastra delle pecore agglomerate procedeva con un fluttuamento continuo, accavallandosi, a similitudine d'un'acqua fangosa che inondasse il lastrico. Qualche belato tremulo mescevasi al tintinno; altri belati, più sottili, più timidi, rispondevano; i butteri gittavano di tratto in tratto un grido e distendevano le aste, cavalcando dietro e a' fianchi; la luna dava a quel passaggio d'armenti, per mezzo alla gran città addormentata, non so che mistero quasi di cosa veduta in sogno.

Andrea si ricordò che in una notte serena di febbraio, uscendo da un ballo dell'Ambasciata inglese nella via Venti Settembre, egli ed Elena avevano incontrata una mandra; e la carrozza aveva dovuto fermarsi. Elena, china al cristallo, guardava le pecore passar rasente le ruote e indicava gli agnelli più piccoli, un un'allegria infantile; ed egli teneva il suo viso accosto al viso di lei, socchiudendo gli occhi, ascoltando lo scalpiccìo, i belati, il tintinno.

Perché mai gli tornavano ora tutte quelle memorie di Elena? - Riprese a salire, lentamente. Sentì più grave, nel salire, la sua stanchezza; i ginocchi gli si piegavano. Gli lampeggiò d'improvviso il pensiero della morte. «S'io rimanessi ucciso? S'io ricevessi una cattiva ferita e n'avessi per tutta la vita un impedimento?» La sua avidità di vivere e di godere si sollevò contro quel pensiero lugubre. Egli disse a sé medesimo: «Bisogna vincere.» E vide tutti i vantaggi ch'egli avrebbe avuti da quell'altra vittoria: il prestigio della sua fortuna, la fama della sua prodezza, i baci di Donna Ippolita, nuovi amori, nuovi godimenti, nuovi capricci.

Allora, dominando ogni agitazione, si mise a curare l'igiene della sua forza. Dormì fino a che non fu risvegliato dalla venuta dei due amici; prese la doccia consueta; fece distendere sul pavimento la striscia d'incerato; e invitò il Santa Margherita a tirar due «cavazioni» e quindi il Barbarisi a un breve assalto, durante il quale compì con esattezza parecchie azioni di tempo.

- Ottimo pugno - disse il barone, congratulandosi.

Dopo l'assalto, lo Sperelli, prese due tazze di tè e qualche biscotto leggero. Scelse un paio di calzoni larghi, un paio di scarpe comode e col tacco molto basso, una camicia poco inamidata; preparò il guanto, bagnandolo alquanto su la palma e spargendolo di pece greca in polvere: vi unì una stringa di cuoio per fermar l'elsa al polso; esaminò la lama e la punta delle due spade; non dimenticò alcuna cautela, alcuna minuzia.

Quando fu pronto, disse:

- Andiamo. Sarà bene che ci troviamo sul terreno prima degli altri. Il medico?

Aspetta di là.

Giù per le scale, egli incontrò il duca di Grimiti che veniva anche da parte della marchesa d'Ateleta.

- Vi seguirò nella villa, e porterò poi sùbito la notizia a Francesca - disse il duca.

Discesero tutti insieme. Il duca salì nel suo legnetto, salutando. Gli altri salirono nella carrozza coperta. Andrea non ostentava il buon umore, perché i motti prima d'un duello grave gli parevano di pessimo gusto; ma era tranquillissimo. Fumava, ascoltando il Santa Margherita e il Barbarisi discutere, a proposito d'un recente caso avvenuto in terra di Francia, se fosse o non fosse lecito adoperar la mano sinistra contro l'avversario. Di tratto in tratto, chinavasi allo sportello per guardar nella via.

Roma splendeva, nel mattino di maggio, abbracciata dal sole. Lungo la corsa, una fontana illustrava del suo riso argenteo una piazzetta ancor nell'ombra; il portone d'un palazzo mostrava il fondo d'un cortile ornato di portici e di statue; dall'architrave barocco d'una chiesa di travertino pendevano i paramenti del mese di Maria. Sul ponte apparve il Tevere lucido fuggente tra le case verdastre, verso l'isola di San Bartolomeo. Dopo un tratto di salita, apparve la città immensa, augusta, radiosa, irta di campanili, di colonne e d'obelischi, incoronata di cupole e di rotonde, nettamente intagliata, come un'acropoli, nel pieno azzurro.

- Ave, Roma. Moriturus te salutat - disse Andrea Sperelli, gittando il residuo della sigaretta, verso l'Urbe.

Poi soggiunse:

- In verità, cari amici, un colpo di spada oggi mi seccherebbe.

Erano nella Villa Sciarra, già per metà disonorata dai fabricatori di case nuove; e passavano in un viale di lauri alti e snelli, tra due spalliere di rose. Il Santa Margherita, sporgendosi fuor dello sportello, vide un'altra carrozza, ferma sul piazzale, d'innanzi alla villa; e disse:

- Ci aspettano già.

Guardò l'orologio. Mancavano dieci minuti all'ora precisa. Fece fermare il legno; e insieme col testimone e col chirurgo si diressero verso gli avversari. Andrea rimase nel viale, ad attendere. Mentalmente, si mise a svolgere alcune azioni di offesa e di difesa, ch'egli intendeva eseguire con probabilità di esito; ma lo distraevano i vaghi miracoli della luce e dell'ombra per l'intrico dei lauri. I suoi occhi erravano dietro le apparenze dei rami commossi dal vento mattutino, mentre il suo animo meditava la ferita; e gli alberi, gentili come nelle amorose allegorie di Francesco Petrarca, gli facevano sospiri in sul capo ove regnava il pensiero del buon colpo.

Sopraggiunse a chiamarlo il Barbarisi, dicendo:

- Siamo pronti. Il custode ha aperto la villa. Abbiamo a disposizione le stanze terrene; una gran comodità. Vieni a spogliarti.

Andrea lo seguì. Mentre si spogliava, i due medici aprivano i loro astucci dove riscintillavano i piccoli strumenti d'acciaio. Uno era ancor giovine, pallido, calvo, con le mani feminee, con la bocca un po' cruda, con un continuo visibile attrito della mandibola inferiore sviluppata straordinariamente. L'altro era già maturo, fatticcio, sparso di lentiggini, con una folta barba rossastra, con un collo taurino. L'uno pareva la contraddizione fisica dell'altro; e la lor diversità richiamava l'attenzion curiosa dello Sperelli. Preparavano, sopra un tavolo, le fasce e l'acqua fenicata per disinfettar le lame. L'odore dell'acido spandevasi nella stanza.

Quando lo Sperelli fu in assetto, uscì col suo testimone e con i medici, sul piazzale. Ancóra una volta, lo spettacolo di Roma tra le palme attrasse i suoi sguardi e gli diede un gran palpito. L'impazienza l'invase. Egli avrebbe voluto già trovarsi in guardia e udire il comando dell'attacco. Gli pareva d'aver nel pugno il colpo decisivo, la vittoria.

- Pronto? - gli chiese il Santa Margherita, andandogli incontro.

- Pronto.

Il terreno scelto era a fianco della villa, nell'ombra, sparso di fina ghiaia e battuto. Giannetto Rùtolo stava già all'altra estremità, con Roberto Casteldieri e con Carlo de Souza. Ciascuno aveva assunto un'aria grave, quasi solenne. I due avversarii furono posti l'uno di fronte all'altro; e si guardarono. Il Santa Margherita, che aveva il comando del combattimento, notò la camicia di Giannetto Rùtolo fortemente inamidata, troppo salda, con il colletto troppo alto; e fece osservar la cosa al Casteldieri, ch'era il secondo. Questi parlò al suo primo; e lo Sperelli vide il nemico accendersi d'improvviso nel volto e con un gesto risoluto far l'atto di scamiciarsi. Egli, con tranquillità fredda, seguì l'esempio; si rimboccò i pantaloni; prese dalle mani del Santa Margherita il guanto, la stringa e la spada; si armò con molta cura, e quindi agitò l'arma per accertarsi di averla bene impugnata. In quel moto, il bicipite emerse visibilissimo, rivelando il lungo esercizio del braccio e l'acquisito vigore.

Quando i due stesero le spade per prendere la misura, quella di Giannetto Rùtolo oscillava in un pugno convulso. Dopo l'ammonimento d'uso intorno la lealtà, il barone di Santa Margherita comandò con una voce squillante e virile:

- Signori, in guardia!

I due scesero in guardia nel tempo medesimo, il Rùtolo battendo il piede, lo Sperelli inarcandosi con leggerezza. Il Rùtolo era di statura mediocre, assai smilzo, tutto nervi, con una faccia olivastra a cui davan fierezza le punte de' baffi rilevate e la piccola barba acuta in sul mento, alla maniera di Carlo I ne' ritratti del Van Dyck. Lo Sperelli era più alto, più slanciato, più composto, bellissimo nell'attitudine, fermo e tranquillo in un equilibrio di grazia e di forza, con in tutta la persona una sprezzatura di grande signore. L'uno guardava l'altro entro gli occhi; e ciascuno provava internamente un indefinibile brivido alla vista dell'altrui carne nuda contro cui appuntavasi la lama sottile. Nel silenzio, udivasi il mormorio fresco della fontana misto al fruscìo del vento su per i rosai rampicanti ove le innumerevoli rose bianche e gialle tremolavano.

- A loro! - comandò il barone.

Andrea Sperelli aspettava dal Rùtolo un attacco impetuoso; ma colui non si mosse. Per un minuto, ambedue rimasero a studiarsi, senza avere il contatto del ferro, quasi immobili. Lo Sperelli, chinandosi ancor più su' garretti, in guardia bassa, si scoperse interamente, col portar la spada molto in terza; e provocò l'avversario, con l'insolenza degli occhi e col batter del piede. Il Rùtolo venne innanzi con una finta di botta diritta, accompagnandola con una voce, alla maniera di certi spadaccini siciliani; e l'assalto incominciò.

Lo Sperelli non isviluppava alcuna azione decisiva, limitandosi quasi sempre alle parate, costringendo l'avversario a scoprire tutte le intenzioni, a esaurire tutti i mezzi, a svolgere tutte le varietà del gioco. Parava netto e veloce, senza ceder terreno, con una precision mirabile, come s'ei fosse su la pedana, in un'academia di scherma, d'innanzi a un fioretto innocuo; mentre il Rùtolo attaccava con ardore, accompagnando ogni botta con un grido spento, simile a quello degli abbattitori d'alberi in esercitar l'accetta.

- Alt! - comandò il Santa Margherita, a' cui vigili occhi non isfuggiva alcun moto delle due lame.

E si accostò al Rùtolo, dicendo:

- Ella è toccato, se non erro.

Infatti, colui aveva una scalfittura su l'antibraccio, ma così lieve che non ci fu nemmen bisogno del taffetà. Alenava però; e la sua estrema pallidezza, cupa come un lividore, era un segno dell'ira contenuta. Lo Sperelli, sorridendo, disse a bassa voce al Barbarisi:

- Conosco ora il mio uomo. Gli metterò un garofano sotto la mammella destra. Sta attento al secondo assalto.

Poiché, senza badarci, egli posò a terra la punta della spada, il dottor calvo, quel della gran mandibola, venne a lui con la spugna imbevuta d'acqua fenicata e disinfettò di nuovo la lama.

- Per iddio! - mormorò Andrea al Barbarisi. - M'ha l'aria d'un iettatore. Questa lama si rompe.

Un merlo si mise a fischiare tra gli alberi. Ne' rosai qualche rosa sfogliavasi e disperdevasi al vento. Alcune nuvole a mezz'aria salivano incontro al sole, rade, simili a velli di pecore; e si disfacevano in bioccoli; e a mano a mano si dileguavano.

- In guardia!

Giannetto Rùtolo, conscio della sua inferiorità al paragon del nemico, risolse di lavorar sotto misura, alla disperata, e di rompere così ogni azion seguita dell'altro. Egli aveva da ciò la bassa statura e il corpo agile, esile, flessibile, che offriva assai poco bersaglio ai colpi.

- A loro!

Andrea Sperelli sapeva già che il Rùtolo sarebbesi avanzato in quel modo, con le solite finte. Egli stava in guardia inarcato come una balestra pronta a scoccare, intento per scegliere il tempo.

- Alt! - gridò il Santa Margherita.

Il petto del Rùtolo faceva un po' di sangue. La spada dell'avversario eragli penetrata sotto la mammella destra, ledendo i tessuti fin quasi alla costola. I medici accorsero. Ma il ferito disse sùbito al Casteldieri, con voce rude, in cui sentivasi un tremito di collera:

- Non è nulla. Voglio seguitare.

Egli si rifiutò di rientrare nella villa per la medicatura. Il dottor calvo, dopo aver spremuto il piccolo fòro, appena sanguinante e dopo avergli fatta una lavanda antisettica, applicò un semplice pezzo di drappo; e disse:

- Può seguitare.

Il barone, per invito del Casteldieri, senza indugio comandò il terzo assalto.

- In guardia!

Andrea Sperelli s'avvide del pericolo. Di fronte a lui il nemico, tutto raccolto su i garretti, quasi direi nascosto dietro la punta della sua lama, appariva risoluto a un supremo sforzo. Gli occhi gli brillavano singolarmente e la coscia sinistra, per l'eccessiva tension de' muscoli, gli tremava forte. Andrea questa volta, contro l'impeto, si preparava a gittarsi da banda per ripetere il colpo decisivo del Cassìbile, e il disco bianco del drappo sul petto ostile servivagli da bersaglio. Egli ambiva rimettere ivi la stoccata ma trovar lo spazio intercostale, non la costa. D'intorno, il silenzio pareva più profondo; tutti gli astanti avevano conscienza della volontà micidiale che animava que' due uomini; e l'ansietà li teneva, e li stringeva il pensiero di dover forse ricondurre a casa un morto o un morente. Il sole, velato dalle pecorelle, spandeva una luce quasi lattea; le piante, or sì or no, stormivano; il merlo fischiava ancóra, invisibile.

- A loro!

Il Rùtolo si precipitò sotto misura, con due giri di spada e con una botta in seconda. Lo Sperelli parò e rispose, facendo un passo indietro. Il Rùtolo incalzava, furioso, con stoccate velocissime, quasi tutte basse, non accompagnandole più con i gridi. Lo Sperelli, senza sconcertarsi a quella furia, volendo evitare un incontro, parava forte e rispondeva con tale acredine che ogni sua botta avrebbe potuto passar fuor fuora il nemico. La coscia del Rùtolo, presso l'inguine, sanguinava.

- Alt! - tuonò il Santa Margherita quando se n'accorse.

Ma in quell'attimo appunto lo Sperelli, facendo una parata di quarta bassa e non trovando il ferro avversario, ricevé in pieno torace un colpo; e cadde tramortito su le braccia del Barbarisi.

- Ferita toracica, al quarto spazio intercostale destro, penetrante in cavità, con lesione superficiale del polmone - annunziò nella stanza, quand'ebbe osservato, il chirurgo taurino.

 
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