da "Vagabondaggio" (1887)
Vagabondaggio
Nanni Lasca, da ragazzo, non si rammentava altro: suo padre, compare
Cosimo, che tirava la fune della chiatta, sul Simeto, con Mangialerba, Ventura e l'Orbo; e
lui a stendere la mano per riscuotere il pedaggio. Passavano carri, passavano vetturali,
passava gente a piedi e a cavallo d'ogni paese, e se ne andavano pel mondo, di qua e di
là del fiume.
Prima compare Cosimo aveva fatto il lettighiere. E Nanni aveva accompagnato
il babbo nei suoi viaggi, per strade e sentieri, sempre coll'allegro scampanellìo delle
mule negli orecchi. Ma una volta, la vigilia di Natale - giorno segnalato - tornato a
Licodia colla lettiga vuota, compare Cosimo trovò al Biviere la notizia che sua moglie
stava per partorire. - Comare Menica stavolta vi fa una bella bambina, - gli dicevano
tutti all'osteria. E lui, contento come una Pasqua, si affrettava ad attaccare i muli per
arrivare a casa prima di sera. Il baio, birbante, che lo guardava di mal'occhio, per certe
perticate che se l'era legate al dito, come lo vide spensierato, che si chinava ad
affibiargli il sottopancia canterellando, affilò le orecchie a tradimento - jjj! - e gli
assestò un calcio secco.
Nanni era rimasto nella stalla, a scopare quel po' d'orzo rimasto in fondo
alla mangiatoia. Al vedere il babbo lungo disteso nell'aia, che si teneva il ginocchio
colle due mani, e aveva la faccia bianca come un morto, volle mettersi a strillare. Ma
compare Cosimo balbettava: - Va' a pigliare dell'acqua fresca, piuttosto. Va' a chiamare
lo zio Carmine, che mi aiuti -. Accorse il ragazzo dell'osteria col fiato ai denti.
- O ch'è stato, compare Cosimo? - Niente, Misciu. Ho paura di aver la gamba
rotta. Va' a chiamare il tuo padrone piuttosto, che mi aiuti -.
Lo zio Carmine andava in bestia ogni volta che lo chiamavano: - Che c'è?
Cos'è successo? Non mi lasciano stare un momento, santo diavolone! - Finalmente comparve
sulla porta, sbadigliando, col cappuccio sino agli occhi.- Cos'è stato? Ora che volete?
Lasciate fare a me, compare Cosimo -.
Il poveraccio lasciava fare, colla gamba ciondoloni, come se non fosse stata
più roba sua. - Questa è roba della Gagliana, - conchiuse lo zio Carmine, posandolo di
nuovo in terra adagio adagio. Allora compare Cosimo sbigottì, e si abbandonò sul
ciglione, stralunato.
- Sta' zitto, malannaggia! che gli fai la jettatura, a tuo padre! - esclamò
lo zio Carmine, seccato dal piagnucolare che faceva Nanni, seduto sulle calcagna.
Cadeva la sera, smorta, in un gran silenzio. Poi si udirono lontano le chiese
di Francofonte, che scampanavano.
- La bella vigilia di Natale che mi mandò Domeneddio! - balbettò compare
Cosimo, colla lingua grossa dallo spasimo.
- Sentite, amico mio, - disse infine lo zio Carmine, che sentiva l'umidità
del Biviere penetrargli nelle ossa. - Qui non possiamo farvi nulla. Per muovervi di come
siete adesso, ci vorrebbe un paio di buoi.
- Che mi lasciate così, in mezzo alla strada? - si mise a lamentarsi compare
Cosimo.
- No, no, siamo cristiani, compare Cosimo. Bisogna aspettare lo zio Mommu per
darci una mano. Intanto vi manderò un fascio di fieno, e anche la coperta della mula, se
volete. Il fresco della sera è traditore, qui nel lago, amico mio. Tredici anni che
compro medicine!
- Ha la malaria nella testa il padrone, - disse poi Misciu, il ragazzo della
stalla, tornando col fieno e la coperta. - Non fa altro che dormire, tutto il giorno -.
Intanto sopra i monti spuntava la prima stella; poi un'altra, poi un'altra.
Compare Cosimo, sudando freddo, col naso in aria, le contava ad una ad una, e tornava a
lamentarsi:
- Che non giunge mai compare Mommu? Che mi lasciate qui stanotte, cristiani?
- Tornerà, tornerà, non dubitate, - rispondeva Misciu accoccolato su di un
sasso, col mento nelle mani.
- È andato a caccia pel Biviere. Alle volte passano mesi e settimane senza
che lo veda anima viva. Ma ora ch'è Natale deve venire per prendere la sua roba -.
E il ragazzo, mentre ciaramellava, s'andava appisolando anche lui, col mento
sulle mani, raggomitolato nei suoi cenci.
- Viene di notte, viene di giorno, secondo va la caccia. Quando si mette alla
posta delle anatre, lo zio Carmine gli lascia la chiave sotto l'uscio. Poi dorme di
giorno, o va a vendere la selvaggina di qua e di là; ma la sua roba l'ha sempre qui,
nella stalla, appesa al capezzale: il cavicchio pel fucile, il cavicchio per la carniera,
ogni cosa al suo posto. Tanti anni che sta qui. Lo zio Carmine dice ch'era ancora
giovane... -
Quando compare Cosimo tornava a lamentarsi, il ragazzo trasaliva, quasi lo
svegliassero, e poi tornava a borbottare, come in sogno. Nanni, stanco di singhiozzare,
sbarrava gli occhi nel buio. Tutt'a un tratto scappò una gallinella, schiamazzando.
- O zio Mommu! - si mise a chiamare Nanni ad alta voce. Dopo si spandeva un
gran silenzio, nella notte.
- Sono io! - disse infine Misciu. - Non risponde per non spaventar le anatre.
Poi ci ha fatta l'abitudine, a quella vita, e non parla mai -.
Però si udiva già il fruscìo dei giunchi secchi, e il tonfo degli scarponi
dello zio Mommu, che sfangava nel greto.
- Qua, zio Mommu! C'è compare Cosimo che gli è successo un accidente -.
Lo zio Mommu stava a guardare, al barlume che faceva la lanterna di compare
Carmine, tutto intirizzito e battendo le palpebre, con quel naso a becco di jettatore. Poi
sollevarono il lettighiere al modo che diceva lo zio Carmine, uno sotto le ascelle e
l'altro pei piedi.
- Cristo! come vi pesano le ossa, compare Cosimo! - sbuffava l'oste, per
fargli animo con qualche barzelletta. E lo zio Mommu, mingherlino, barellava davvero come
un ubbriaco, sotto quel peso.
- Ah, che vigilia di Natale mi ha mandato Domeneddio! - tornava a dire compare
Cosimo, steso alfine nello strapunto come un morto.
- Non ci pensate, compare Cosimo, che ora la Gagliana vi guarisce in un batter
d'occhio. Bisogna andare a chiamarla, compare Mommu, nel tempo stesso che andate a Lentini
per vendere la vostra roba -.
Il vecchietto acconsentì con un cenno del capo, e mentre si preparava a
partire, legandosi in testa il fazzoletto, e assettandosi la bisaccia in spalla, l'oste
continuava:
- È meglio di un cerusico la Gagliana! Vedrete che vi guarirà in meno di
dire un'avemaria. State allegro, compare Cosimo; e se non avete bisogno d'altro, vado a
far la vigilia di Natale anch'io con quei quattro maccheroni.
- E tu che non vuoi mangiare un boccone? - chiese il lettighiere, voltandosi
al suo ragazzo che non si moveva di lì, smorto, colle mani in tasca, e il viso sudicio
dal piangere che aveva fatto.
- No, - rispose Nanni. - No, non ho più fame -.
- Povero figlio mio! che vigilia di Natale è venuta anche per te! -.
La Gagliana venne a giorno fatto, che lo zio Cosimo aveva il viso acceso e la
gamba gonfia come un otre, talché bisognò tagliargli le brache per cavargliele, mentre
la Gagliana, per modestia, si voltava dall'altra parte, cogli occhi bassi, preparando
intanto ogni cosa lesta lesta: bende, stecche, empiastri, con certe erbe miracolose che
sapeva lei. Poi si mise a tirare la gamba come un boia. Da principio compare Cosimo non
diceva nulla, sudando a grosse gocce, e ansimando quasi facesse una gran fatica. Ma poi,
tutt'un tratto, gli scappò un grande urlo, che fece drizzare a tutti i capelli in testa.
- Lasciatelo gridare, che gli fa bene! -
Compare Cosimo faceva proprio come una bestia quando le si dà il fuoco.
Talché lo zio Carmine s'era alzato per vedere anche lui coi suoi occhioni assonnati. E
Nanni strillava che pareva l'ammazzassero.
- Sembrate un ragazzo, compare Cosimo, - gli diceva l'oste. - Non vi hanno
detto di star tranquillo? Foste in mano di qualche cerusico, pazienza!
- Stava fresco, Dio liberi! - saltò su la vecchia, come se l'avessero punta.
- Per lo meno gli avrebbero tagliata la gamba a questo poveretto. Io non ho mai tagliato
neppure un pelo in vita mia, grazie a Dio! Tutta grazia che mi dà il Signore! Ora state
tranquillo, compare Cosimo, che non avete più bisogno di nulla -.
Ella sputava sul ginocchio enfiato l'empiastro che andava masticando; metteva
le stecche e stringeva forte le bende, senza badare agli - ohi! - ciarlando sempre come
una gazza. E quand'ebbe terminato si nettò le mani nella criniera ispida e grigia, che le
faceva come una cuffia sporca sulla testa.
- Sembra un diavolo quella strega! - ammiccava l'oste allo zio Mommu, il quale
stava a guardare col naso malinconico, seduto sullo strapunto, le gambe penzoloni, e
sgretolando a poco a poco il suo pane nero.
Lo zio Cosimo s'era lasciato andare di nuovo supino, col viso stralunato e
lucente di sudore, accarezzando colla mano il suo ragazzo, e balbettando che non era
nulla.
- Ora chi mi paga? - domandò infine la Gagliana.
- Non dubitate, che sarete pagata, - rispose il poveraccio più morto che
vivo. - Venderò il mulo, se così vorrà Dio, e vi pagherò, sorella mia! -
Com'era un bel giorno di Natale, col sole che veniva fin dentro la stalla, e
le galline pure, a beccare qualche briciola di pane, la gente che era stata a sentir messa
a Primosole si fermava a bere un sorso a metà strada, vedendo compare Cosimo sul
pagliericcio dello stallatico, volevano sapere il come ed il perché. Poi davano
un'occhiata ai muli in fondo alla stalla. L'oste li faceva vedere, fiutando la senseria:
- Belle e buone bestie! Quiete come il pane! Un affare d'oro per chi le
compra, se compare Cosimo, Dio liberi, rimane storpio -.
Il baio voltava indietro il capo come se capisse, colla sua boccata di fieno
in aria.
- No, no, ancora non sono in questo stato! - lagnavasi compare Cosimo dal
fondo del suo giaciglio.
- Diciamo così per dire, compare Cosimo, state tranquillo. Nessuno vi vuol
toccare la roba vostra, se non volete voi. Qui c'è paglia e fieno per i vostri muli, e
potete tenerceli cent'anni -.
Lo sventurato pensava a quello che si sarebbero mangiati i muli, di fieno e di
stallaggio, e lamentavasi:
- Stavolta non gliela faccio più la dote per la mia bambina che mi è nata
adesso!
- Ora gli si manda la notizia, a vostra moglie. La prima volta che lo zio
Mommu andrà a Licodia per vendere la sua roba -.
Così lo zio Mommu portò la brutta notizia alla moglie di compare Cosimo,
masticando le parole, e dondolandosi ora su di una gamba e ora sull'altra, che alla prima
non si capiva nulla, nella casa piena di vicine, mentre si aspettava il marito pel
battesimo. Comare Menica, poveretta, nella prima furia voleva balzare dal letto, in
camicia com'era, e correre al Biviere, se non era il medico che si mise a sgridarla:
- Come le bestie, voialtri villani! Non sapete cosa vuol dire una febbre
puerperale!
- Signore don Battista! Come posso fare a lasciare quel poveretto fuorivia, in
mano altrui, ora ch'è in quello stato?...
- E voi non vi movete! - appoggiava comare Stefana. - Vostro marito andrete a
trovarlo poi. Temete che scappi?
- Date retta al medico, - aggiunse la Cilona. - Compare Cosimo è in mano di
cristiani. Lo vedete qui, questo poveretto, che è venuto apposta? -
E lo zio Mommu accennava di sì con il capo, ritto dinanzi al letto, battendo
gli occhi, non sapendo come fare per voltare le spalle ed andarsene per le sue faccende.
Indi la convalescenza, il baliatico, il bisogno dei figliuoli; e il tempo era
passato. Compare Cosimo, quando infine la Gagliana gli aveva detto di alzarsi, era rimasto
su di una sedia, alla porta dello stallatico, con una gamba più corta dell'altra.
- Così com'è non ve la lasciavano neppure, se eravate in mano del cerusico!
- gli disse la Gagliana per consolarlo.
I muli stessi se li mangiò metà lei e metà la stalla. Quando il povero
zoppo, alla porta dell'osteria, vide Nunzio della Rossa che si portava via la sua lettiga,
si mise a sospirare: - Queste campanelle non le udrò più! -
E lo zio Carmine anche lui disse:
- Che diavolo rimpiangete! Quel baio birbante che vi azzoppò a quel modo? -
Intanto bisognava pensare a buscarsi da vivere, lui e il suo ragazzo; e adesso
ch'era conciato a quel modo per le feste, voleva essere un mestiere facile, di quelli poco
pane e poca fatica. «Se hai un guaio, dillo a tutti». Lo zio Carmine, ch'era un buon
diavolaccio, ne parlava con questo e con quello, e come seppe che uno della chiatta, lì
vicino, era morto di malaria, disse subito a compare Cosimo:
- Questo è quello che fa per voi -.
E tanto disse e tanto fece, per mezzo anche dello zio Antonio, l'oste di
Primosole, lì accanto al Simeto, che il capoccia della chiatta chinò il capo e disse di
sì anche lui. D'allora in poi compare Cosimo rimase a tirar la fune, su e giù pel fiume;
e con ogni conoscente che passava, mandava sempre a dire a sua moglie che sarebbe andato a
vederla, un giorno o l'altro, e la bambina pure. - Verrò a Pasqua. Verrò a Natale -.
Mandava sempre a dire la stessa cosa; tanto che comare Menica ormai non ci credeva più; e
Nanni, ogni volta, guardava il babbo negli occhi, per vedere se dicesse davvero.
Ma succedeva che a Pasqua e a Natale s'aveva sempre una gran folla da
tragittare; talché quando il fiume era grosso c'erano più di cinquanta vetture che
aspettavano all'osteria di Primosole. Il capoccia della chiatta bestemmiava contro lo
scirocco e levante che gli toglieva il pan di bocca, e la sua gente si riposava:
Mangialerba, bocconi, dormendo sulle braccia in croce; Ventura, all'osteria; e l'Orbo
cantava tutto il giorno, ritto sull'uscio della capanna, a veder piovere, guardando il
cielo cogli occhi bianchi.
Comare Menica avrebbe voluto andarvi lei, a Primosole, almeno per vedere suo
marito e portargli la bambina, ché il padre non la conosceva neppure, quasi non l'avesse
fatta lui.
- Andrò appena avrò presi i denari del filato, - diceva essa pure. - Andrò
dopo la raccolta delle ulive, se mi avanza qualche soldo -.
Così passava il tempo. Intanto comare Menica fece una malattia mortale, di
quelle che don Battista, il medico, se ne lavava le mani come Pilato.
- Vostra moglie è malata malatissima, - venivano a dirgli lo zio Cheli,
compare Lanzare, tutti quelli che arrivavano da Licodia; e compare Cosimo stavolta voleva
correre davvero, a piedi, come poteva.
- Prestatemi due lire per la spesa del viaggio, padron Mariano -.
Ma il capoccia rispondeva:
- Aspettate prima se vi portano un buona notizia. Alle volte, intanto che voi
siete per via, vostra moglie guarisce, e voi ci perdete la spesa del viaggio -. L'Orbo
invece consigliava di far dire una messa alla Madonna di Primosole, ch'è miracolosa.
Finché giunse la notizia che da comare Menica c'era il prete.
- Vedete se avevo ragione? - esclamò padron Mariano. - Cosa andavate a fare,
se non c'era più aiuto? -
La bambina se l'era tolta in casa comare Stefana, per carità; e compare
Cosimo era rimasto a Primosole col sul ragazzo. Tanto, l'Orbo gli diceva che, coll'aiuto
di Dio, poteva vivere e morire alla chiatta al pari di lui, che vi mangiava pane da
cinquant'anni. E ne aveva vista passare tanta della gente! Passavano conoscenti, passavano
viandanti che nessuno sapeva donde venissero, a piedi, a cavallo, d'ogni nazione, se ne
andavano pel mondo, di qua e di là del fiume. - Come l'acqua del fiume stesso che se ne
andava al mare, ma lì pareva sempre la medesima, fra le due ripe sgretolate: a destra le
collinette nude di Valsavoia, a sinistra il tetto rosso di Primosole; e allorché pioveva,
per giorni e settimane, non si vedeva altro che quel tetto tristo nella nebbia. Poi
tornava il bel tempo, e spuntava del verde qua e là, fra le rocce di Valsavoia, sul
ciglio delle viottole, nella pianura, fin dove arrivava l'occhio. Infine veniva l'estate,
e si mangiava ogni cosa, il verde dei seminati, i fiori dei campi, l'acqua del fiume, gli
oleandri che intristivano sulle rive, coperti di polvere.
La domenica, cambiava. Lo zio Antonio, che teneva l'osteria di Primosole,
faceva venire il prete per la messa, e mandava Filomena, la sua figliuola, a scopare la
chiesetta, e a raccattare i soldi che i devoti vi buttavano dentro dal finestrino, per le
anime del Purgatorio. Accorrevano dai dintorni, a piedi, a cavallo, e l'osteria si
riempiva di gente. Alle volte arrivava anche il Zanno, che guariva di ogni male, colle sue
scarabattole; o don Tinu, il merciaiuolo, con un grande ombrellone rosso, e schierava la
sua mercanzia sugli scalini della chiesa, forbici, temperini, nastri e refe d'ogni colore.
Nanni si affollava insieme agli altri ragazzi per vedere. Ma suo padre gli diceva sempre:
- No, figliuolo mio, questa roba è per chi ha denari da spendere -.
Gli altri invece comperavano: bottoni, tabacchiere di legno, pettini di osso,
e Filomena frugava dappertutto colle mani sudice, senza che nessuno le dicesse nulla,
perché era la figliuola dell'oste. Anzi un giorno don Tinu le regalò un bel fazzoletto
giallo e rosso, che passò di mano in mano. - Sfacciata! - dicevano le comari. - Fa
l'occhio a questo e a quello per amor dei regali! - Un giorno Nanni li vide tutti e due
dietro il pollaio, che si tenevano abbracciati. Filomena, che stava all'erta per timore
del babbo, si accorse subito di quegli occhietti che si ficcavano nella siepe, e gli
saltò addosso colla ciabatta in mano. - Cosa vieni a fare qui, spione? se stai a
raccontare quel che hai visto, guai a te, veh! - Ma don Tinu la calmava con belle maniere:
- Non lo strapazzate quel ragazzo, comare Mena, ché gli fate pensare al male -.
Però Nanni non poteva levarsi dagli occhi il viso rosso di Filomena, e le
manacce di don Tinu che brancicavano. Quando lo mandavano a comperare il vino all'osteria,
si piantava dinanzi al banco della ragazza, che glielo mesceva colla faccia tosta, e lo
sgridava: - Guardate qua, cristiani! Non gli spuntano ancora i peli al mento, quel
moccioso, e ha già negli occhi la malizia! -
Nanni voleva far lo stesso colla Grazia, la servetta dell'osteria, quando
andavano insieme a raccoglier l'erbe per la minestra, lungo il fiume. Ma la fanciulla
rispondeva:
- No. Tu non mi dai mai niente -.
Essa invece gli portava, nascoste in seno, delle croste di formaggio, che gli
avventori avevano lasciato cadere sotto la tavola, o un pezzetto di pane duro rubato alle
galline.
Accendevano un focherello fra due sassi, e giocavano a far la merenda. Ma
Nanni finiva sempre il giuoco col buttar le mani sulla roba, e darsela a gambe. La
ragazzetta allora rimaneva a bocca aperta, grattandosi il capo. E alla sera si buscava
pure gli scapaccioni di Filomena, che la vedeva tornare spesso colle mani vuote. Nanni,
per risparmiarsi la fatica, le arraffava anche la sua parte di cicoria o di finocchi
selvatici.
Poi, il giorno dopo, giurava colle mani in croce che non l'avrebbe fatto più.
E la poverina ci tornava sempre, appena lo vedeva da lontano, coi capelli rossi in mezzo
alle stoppie gialle; si accostava quatta quatta, e gli si metteva alle calcagna come un
cane. Quand'essa arrivava piagnucolando ancora per le busse che s'era buscate all'osteria,
Nanni per consolarla le diceva:
- E tu perché non scappi, e te ne vai a casa tua? -
Egli raccontava che aveva la sua casa anche lui, laggiù al paese, e i parenti
e ogni cosa: di là da quelle montagne turchine; ci voleva una giornata buona di cammino,
e un giorno o l'altro ci sarebbe andato.
- Pianta i tuoi padroni e l'osteria, e te ne scappi a casa tua -.
La ragazzetta ascoltava a bocca aperta, colle gambe penzoloni sul greto
asciutto, guardando attonita là dove Nanni le faceva vedere tante belle cose, oltre i
monti turchini. Infine si grattava il capo, e rispondeva:
- Non so. Io non ci ho nessuno -.
Egli intanto si divertiva a tirar sassi sull'acqua; o cercava di far scivolare
Grazia giù dalla sponda, facendole il solletico. Poi si metteva a correre, ed egli la
inseguiva a zollate. Andavano pure a scovare i grilli dalle tane, con uno sterpolino; o a
caccia di lucertole. Nanni sapeva coglierle con un nodo scorsoio fatto in cima a un filo
di giunco sottile; dentro al cerchietto che formava il nodo spuntava una bella campanella
lucente, e le povere bestioline, assetate in quell'arsura, si lasciavano adescare.
In mezzo alla gran pianura riarsa il fiume s'insaccava come un burrone
enorme, fra le rive slabbrate. - Mostrava le ossa, - brontolavano quelli della chiatta.
Talché anche i poveri diavoli ci si arrischiavano a guado, qualche miglio più in su.
Tanti baiocchi levati di bocca a quegli altri poveri diavoli che stavano colla fune in
mano tutto il giorno, sotto il solleone. E litigavano fra di loro, a digiuno. Nanni allora
per un nulla si buscava delle pedate anche da suo padre, sciancato com'era.
Di tanto in tanto passava una frotta di mietitori, che tornavano al mare,
bianchi di polvere, e si calavano nel greto, uomini e donne, colle gambe nude,
raccomandandosi ai loro santi, nel dialetto forestiero. Poi nell'afa della strada, diritta
diritta, si vedeva venire da lontano il polverone che accompagnava qualche carro, o
spuntava dall'altra parte la sonagliera mezza addormentata di un mulattiere. L'Orbo, che
non aveva nessuno al mondo, e se l'era girato tutto, diceva: - Quello lì viene da
Catania, quest'altro da Siracusa -. E sempre cuor contento, lui, raccontava agli uomini
stesi bocconi le meraviglie che aveva visto laggiù, lontano lontano. E Nanni ascoltava
intento, come aveva fatto la Grazia ai racconti che lui sballava, con delle allucinazioni
di vagabondaggio negli occhi stanchi di vedere eternamente l'osteria dello zio Antonio,
che fumava tutta sola, nella tristezza del tramonto.
Ma chi gli mise davvero la pulce nell'orecchio fu il Zanno, una volta che lo
chiamarono per lo zio Carmine al Biviere. Fin da Pasqua di Rose, i viandanti che venivano
a passar la notte allo stallatico, e non lo vedevano, come al solito, a portar la paglia
dal fienile o a riscuotere lo stallaggio, dicevano: - E compare Carmine? - Zio Mommu lo
mostrava con un cenno del capo, lungo disteso nel pagliericcio, sotto un mucchio di
bisacce; e Misciu, col cappuccio in capo, mangiato dalle febbri anche lui soggiungeva: -
Ha la terzana -. Alle volte, quando alla voce riconosceva un conoscente, lo zio Carmine
rispondeva con un grugnito: - Son qua. Sono ancora qua -.
Erano quasi sempre le stesse facce stanche che si vedevano passare, dinanzi al
lumicino moribondo appeso al travicello, e tiravano fuori dalla bisaccia la scarsa
merenda, accoccolati su di un basto, masticando adagio adagio. Lo zio Carmine non
brontolava più, non si moveva più dalla sua cuccia, zitto e cheto. Soltanto quando udiva
fermarsi alla porta una vettura, rizzava il capo come poteva, per amor del guadagno, e
chiamava:
- O Misciu! -
Però non potevano lasciarlo morire a quel modo, come un cane. Ventura,
Mangialerba, e spesso anche compare Cosimo, tirandosi dietro la gamba storpia, venivano
apposta da Primosole, e stavano a guardare compare Carmine lungo disteso, con la faccia
color di terra, come un morto addirittura. Infine risolvettero di chiamargli la Gagliana,
quella vecchietta che faceva miracoli, a venti miglia in giro.
- Vedrete che la Gagliana vi guarirà in un batter d'occhio, - andavano
dicendo a lui pure. - È meglio di un dottore quel diavolo di donna. Cosa ne dite, compare
Carmine? -
Compare Carmine non diceva né sì né no, pensando al denaro che si sarebbe
mangiato la Gagliana. Però nel forte della febbre tornava a piagnucolare:
- Chiamatemi pure la Gagliana, senza badare a spesa. Non mi lasciate morire
senza aiuto, signori miei! -
La Gagliana la battezzò febbre pericolosa, di quelle che è meglio mandare
pel prete addirittura. Giusto era sabato, e passava gente che tornava al paese. Tutto ciò
gli rimase fitto in mente, a Nanni ch'era andato a vedere anche lui: i curiosi che
dall'uscio allungavano il collo verso il moribondo; la Gagliana che cercava nelle tasche
il rimedio fatto apposta, brontolando; e il malato che guardava tutti ad uno ad uno, cogli
occhi spaventati. L'Orbo, a canzonare la Gagliana che non sapeva trovare il rimedio, le
domandava:
- Cosa ci vuole per farmi tornare la vista? -
Lo zio Carmine morì la notte istessa. Peccato! perché la domenica poi si
trovò a passare il Zanno, il quale ci aveva il tocca e sana per ogni male! nelle sue
scarabattole. Lo menarono appunto a vedere il morto. Ei gli toccò il ventre, il polso, la
lingua, e conchiuse: - Se c'ero io, lo zio Carmine non moriva! -
Raccontava pure molte cose dei miracoli che aveva fatto, tale e quale come la
Gagliana, dei paesi che aveva visti, e come Nanni ascoltava a bocca aperta, gli piacque
quel ragazzetto, e gli disse, accarezzandogli i capelli rossi:
- Vuoi venire con me? Mi porterai la balla e ti farai uomo.
- Egli ha tutt'altra balla da portare! - sospirò compare Cosimo; e pensava
nel tempo stesso che se gli succedeva una disgrazia, come quella di compare Carmine, il
suo ragazzo restava in mezzo a una strada.
C'era anche l'oste di Primosole, il quale maritava Filomena con Lanzise, uomo
dabbene che non sapeva nulla, e tornavano tutti da Lentini pel contratto, gli sposi,
compare Antonio ed altra gente. Lanzise era uno che ci aveva il fatto suo, terra, buoi, e
un pezzo di vigna lì vicino alla Savona, dicevano.
Il matrimonio fece chiasso. Talché venne anche don Tinu a vender roba pel
corredo. La sera mangiava all'osteria come al solito. Non si sa come, a motivo di un conto
sbagliato, attaccarono lite collo zio Antonio, e don Tinu gli disse: - becco! -
Compare Antonio era un omettino cieco d'un occhio, che al vederlo non
l'avreste pagato un soldo. Però si diceva che avesse più di un omicidio sulla sua
coscienza, e a venti miglia in giro gli portavano rispetto. Al sentirsi dire quella mala
parola sul mostaccio da don Tinu, il quale aveva una faccia di minchione, andò a staccare
lo schioppo dal capezzale, per spifferar le sue ragioni anche lui, mentre la moglie, che
la malaria inchiodava in fondo a un letto da anni ed anni, rizzatasi a sedere in camicia,
strillava:
- Aiuto che s'ammazzano, santi cristiani! -
E Filomena, per dividerli, buttava piatti e bicchieri addosso a don Tinu,
gridando:
- Birbante! ladro! scomunicato!
- Che vi pare azione d'uomo cotesta, compare Antonio? - rispose don Tinu più
giallo del solito. - Io non ho altro addosso che questo po' di temperino.
- Avete ragione, - disse lo zio Antonio. - Vi risponderò colla stessa lingua
che avete in bocca voi -. E andò a posare lo schioppo senza aggiunger altro.
Più tardi Nanni andava all'osteria per il vino, quando vide venirsi incontro
don Tinu tutto stralunato, che si guardava attorno sospettoso.
- Te' due soldi, - gli fece, - e và a dire a compare Antonio che l'aspetto
qui, per quella faccenda che sa lui. Ma che nessuno ti veda, veh! -
La sera trovarono compar Antonio lungo disteso dietro una macchia di
fichidindia, col suo cane accanto che gli leccava la ferita. - Che è stato, compare
Antonio? Chi vi ha dato la coltellata? -
Compare Antonio non volle dirlo. - Portatemi sul mio letto, per ora. Se poi
campo ci penso io; se muoio ci pensa Dio.
- Questo fu don Tino che me l'ammazzò! - strillava la moglie. - L'ha mandato
a chiamare con Nanni dello zoppo! -
E Filomena badava a ripetere:
- Birbante! ladro! scomunicato! -
Compare Cosimo, che aveva una gran paura della giustizia, se la prese anche
lui col suo ragazzo, il quale si ficcava in quegli imbrogli.
- Se ti metto le mani addosso voglio romperti le ossa! - andava gridando.
E Nanni perciò se ne stava alla larga, dall'altra parte del fiume, col ventre
vuoto, come una bestia inselvatichita. Grazia lo vide da lontano, coi capelli rossi,
dietro l'abbeveratoio a secco, e corse a raggiungerlo.
- Ora me ne vado col Zanno, - disse lui, - e alla chiatta non ci torno più -.
Poscia, rassicurato a poco a poco, vedendo che dietro il muro non spuntava lo
zio Cosimo col bastone, si mise a sgretolare la sponda dell'abbeveratoio, tutta fessa e
scalcinata, un sasso dopo l'altro, e dopo li tirava lontano; mentre la ragazzetta stava a
guardare. Tutt'a un tratto s'accorsero che il sole era tramontato, e la nebbia sorgeva
tutt'intorno, dal fiume e dalla pianura.
- Senti! - disse Grazia. - Lo zio Cosimo che chiama! -
Nanni se la diede a gambe senza rispondere, e lei s'affannava a corrergli
dietro, colla vesticciuola tutta sbrindellata che svolazzava sulle gambette nude.
Camminarono un bel pezzo, e infine si trovarono soli, nella campagna buia, col cuore che
batteva forte, lontano lontano dalla capanna delle chiatte, dove si udiva ancora cantare
l'Orbo. Era una bella notte piena di stelle, e dappertutto i grilli facevano cri-cri nelle
stoppie. Come Nanni si fermò, vide Grazia che gli veniva dietro.
- E tu dove vai? - le disse.
Essa non rispose. E tornarono a udirsi i grilli tutt'intorno. Non si udiva
altro. Solo il fruscìo del grano in spiga al loro passaggio; e appena si fermavano ad
ascoltare cadeva un gran silenzio, quasi il buio si stringesse loro ai panni. Di tanto in
tanto correva una folata di ponente caldo, come un'ombra, sull'onda del seminato. Allora
Grazia si mise a piangere.
Passava un vetturale coi suoi muli; e la piccina a piagnucolare:
- Portateci al paese, vossignoria, per carità! -
Il mulattiere, ciondoloni sul basto, borbottò qualche parola mezzo
addormentato, e tirò di lungo. E i due fanciulli dietro. Arrivarono a uno stallatico, e
si accoccolarono dietro il muro ad aspettare il giorno.
Quando Dio volle spuntò l'alba, e un gallo si mise a cantare d'allegria sul
mucchio di concime. Da un sentierolo fra due siepi sbucò un vecchietto, con una bisaccia
piena in spalla. Aveva la faccia buona, e Grazia gli domandò:
- Per andare al paese, vossignoria, da che parte si va? -
Lo zio Mommu accennò di sì col capo, e seguitò per la sua via, col naso a
terra. Si misero dietro a lui, che andava a vendere la sua roba al paese, e arrivarono
sulla piazza che era giorno chiaro. C'era già una donnicciuola imbacuccata in una
mantellina bianca, la quale vendeva verdura e fichidindia. Delle altre donne entravano in
chiesa. Davanti lo stallatico salassavano un mulo; e dei contadini freddolosi stavano a
guardare, col fazzoletto in testa e le mani in tasca. In alto, nel campanile già tutto
pieno di sole, la campana sonava a messa.
Essi andarono a sedere tristamente sul marciapiede, accanto al vecchietto con
cui erano venuti, e che s'era messo a vender anatre e gallinelle che nessuno comprava,
aspettando il Zanno che non veniva neppur lui. Il tempo passava, e passava anche della
gente che veniva a comprare la verdura dalla donnicciuola colla mantellina, pesandola
colle mani. Da una stradicciuola spuntarono due signori, col cappello alto, passeggiando
adagio adagio, e si fermarono a contrattare lungamente, toccando la roba colla punta del
bastone, senza comprar nulla. Poi venne la serva della locanda a prendere una grembialata
di pomodori. Sulla piazza facevano passeggiare innanzi e indietro il mulo salassato.
Infine lo speziale chiuse la bottega, mentre sonava mezzogiorno.
Allora lo zio Mommu tirò dalla bisaccia un pane nero, e si mise a mangiarlo
adagio adagio con un pezzo di cipolla. Vedendo i due ragazzi che guardavano affamati,
gliene tagliò una gran fetta per ciascuno, senza dir nulla. Infine raccolse la sua
mercanzia, e se ne andò a capo chino, com'era venuto.
Ora rimanevano soli e sconsolati. Si presero per mano e arrivarono sino alla
fontana ch'era in fondo al paesetto. Per la strada che scendeva a zig zag nella pianura
arrivava gente a ogni momento. Donne che venivano ad attinger acqua, vetturali che
abbeveravano i muli, e coppie di contadini che tornavano dai campi, chiacchierando a voce
alta, colle bisacce vuote avvolte al manico della zappa. Poi una mandra di pecore, in
mezzo a un nuvolo di polvere. Un frate cappuccino, che tornava dalla cerca, saltò a terra
da una bella mula baia, schiacciata sotto il carico, e si chinò a bere alla cannella,
tutto rosso, sguazzando nell'acqua la barbona polverosa. Quando non passava alcuno,
venivano delle cutrettole a saltellare sui sassi, in mezzo alla fanghiglia, battendo la
coda. Lontano si udiva la cantilena dei trebbiatori nell'aia, perduta in mezzo alla
pianura che non finiva mai, e cominciava a velarsi nelle caligini della sera. E in fondo,
come un pezzetto di specchio appannato, il Biviere.
- Guarda com'è lontano! - disse Nanni col cuore stretto.
Il sole era già tramontato; ma non sapevano dove andare, e rimanevano
aspettando, l'uno accanto all'altra seduti sul muricciuolo, nel buio. Infine si presero
per mano e tornarono verso l'abitato. Nelle case luccicava ancora qualche finestra; però
i cani si mettevano a latrare, appena i due ragazzi si fermavano presso a un uscio, e il
padrone minaccioso gridava: - Chi è là? -
La fanciulletta scoraggiata buttò le braccia al collo di Nanni.
- No! No! - piagnucolava lui, - lasciami stare -.
Trovarono una tettoia addossata a un casolare, e vi passarono la notte,
tenendosi abbracciati per scaldarsi. Li svegliò lo scampanìo del paese in festa, che il
sole era già alto. Mentre andavano per via, guardando la gente che usciva vestita in
gala, scorsero in piazza don Tinu il merciaiuolo, colle sue scarabattole di già in
mostra, sotto l'ombrellone rosso.
- Signore don Tinu, - gli disse Grazia tutta contenta. - Benvenuto a
vossignoria! -
Don Tinu si accigliò e rispose:
- O tu chi sei? Io non ti conosco -.
La fanciulletta si allontanò mogia mogia. Ma don Tinu vide il ragazzetto, che
guardava da lontano timoroso, e gli disse:
- Tu sei quello dell'osteria del Pantano, lo so.
- Sissignore, don Tinu, - rispose Nanni col sorriso d'accattone.
E tutto il giorno gli ronzò intorno, affannato, sul marciapiede. Quando vide
che don Tinu raccoglieva la sua mercanzia, e stava per andarsene, si fece animo, e gli
disse:
- Se mi volete con voi, vossignoria, io vi porterò la roba.
- Va bene, - rispose don Tinu. - Ma la tua compagna lasciala stare pei fatti
suoi, ché non ho pane per tutti e due -.
Grazia scorata, si allontanò passo passo, colle mani sotto il grembiule, e
poi si mise a guardare tristamente dall'altra cantonata, mentre Nanni se ne andava dietro
al merciaiuolo, curvo sotto il carico.
Un buon diavolaccio, quel don Tinu. Sempre allegro, anche quando gli
lasciava andare una pedata o uno scapaccione. In viaggio gli raccontava delle barzellette
per smaliziarlo e ingannare la noia della strada a piedi. Oppure gli insegnava a tirar di
coltello, in qualche prato fuori mano. - Così ti farai uomo, - gli diceva.
Giravano pei villaggi, da per tutto dov'era la fiera. Schieravano in piazza la
mercanzia, su di una panchetta, e vociavano nella folla. C'erano trecconi, bestiame, gente
vestita da festa; e il Zanno che faceva veder l'Ecceomo, e si sbracciava a vendere
empiastri e medaglie benedette, a strappare denti, e a dire la buona ventura, ritto su un
trespolo, in un mare di sudore. I curiosi facevano ressa intorno, a bocca aperta, sotto il
sole cocente. Poi veniva il santo colla banda, e lo portavano in processione. Dopo, tutta
la giornata, le donne stavano sugli usci, cariche d'ori, sbadigliando. La sera accendevano
la luminaria e facevano il passaggio.
Don Tinu ripeteva:
- Se restavi alla chiatta, con tuo padre, le vedevi tutte queste cose, di'? -
Capitarono anche una volta al paese di Nanni, il quale non ci si
raccapezzava più, dopo tanto tempo, e passando davanti alla sua casa vide un ballatoio
che non ci era prima, e della gente che non conosceva, e vi stava pei fatti suoi. Cercò
anche dei parenti. Il fratello, Pierantonio, era lontano, camparo alle Madonìe, laggiù
verso la marina; e la sorella, Benedetta, s'era maritata, un buon partito che le aveva
procurato comare Stefana, dotandola coi suoi denari, e facevano tutti una famiglia, in una
bella casa nuova, col terrazzino e il letto col cortinaggio, che quasi non volevano
lasciarvi entrare quel vagabondo.
Pure donna Stefana, per politica, come seppe chi era e donde veniva, gli fece
dar da colazione, pane vino e companatico, in un angolo della tavola, che egli subito
disse grazie, perché le due donne sembrava che gli contassero i bocconi, sua sorella
ritta sull'uscio colle mani sul ventre e l'orecchio teso per sentire se capitava il
marito, guardando di sottocchio donna Stefana come fosse sulle spine. - No e sì - sì e
no. - Le parole cascavano di bocca, e il pane e il companatico pure. Toccarono appena del
babbo e del fratello che erano lontani, uno di qua e l'altro di là, e tacquero subito
perché poco avevano da dire, dopo tanto che non si erano visti. Benedetta anzi non aveva
neppure conosciuto il babbo, come fosse figlia del peccato.
- Questa povera orfanella, - disse forte donna Stefana, - non ha avuto nessuno
al mondo, né amici né parenti. Dillo tu stessa, figliuola mia. Se non ero io, come ti
trovavi? -
Benedetta disse di sì, con un'occhiata riconoscente. Poi guardò il fratello,
e chinò gli occhi. Infine gli chiese se contava di fermarsi molto, in paese, dandogli del
voi, sempre cogli occhi bassi. Donna Stefana invece gli ficcava addosso i suoi, quasi
volesse frugarlo sotto i panni, con certe occhiate sospettose che covavano le posate.
Appena fuori dell'uscio si sentì dar tanto di catenaccio dietro le spalle.
- Queste son cose che succedono, - disse poi don Tinu, quando seppe com'era
andata la visita alla sorella. - Il mondo è grande, e ciascuno pei fatti suoi -.
Andavano pel mondo, di qua e di là, per fiere e per villaggi, sempre colla
roba in collo, sicché infine una volta capitarono a Primosole, dopo tanto tempo. - Ora ti
faccio vedere tuo padre, s'è ancora al mondo, - disse don Tinu. Nanni non voleva, fra la
vergogna e la paura; ma il merciaio soggiunse:
- Lascia fare a me, che le cose le so fare -.
E andò avanti a prevenire compare Cosimo ch'era sempre lì, alla chiatta, su
di un piede come le gru. - Ecco vostro figlio Nanni, compar Cosimo, che è venuto apposta
per baciarvi le mani -.
Lo zio Cosimo aveva la terzana, e stava lì, al sole, appoggiato alla fune,
col fazzoletto in testa, aspettando la febbre. - Che il Signore t'accompagni, figliuol
mio, e ti aiuti sempre -.
Adesso ch'era stremo di forza, gli venivano i lucciconi agli occhi, vedendo
che bel pezzo di ragazzo s'era fatto il suo Nanni. Costui narrava pure di Benedetta e del
fratello, ch'era stato a cercarli; e il padre, tutto contento, scrollava, tentennava il
capo, colla faccia sciocca. Una miseria, in quella chiatta: Ventura partito per cercar
fortuna altrove; Mangialerba più che mai sotto i piedi della sua donnaccia, becco e
bastonato, e l'Orbo sempre lo stesso, attaccato alla fune come un'ostrica e allegro come
un uccello, che cantava nel silenzio della malaria, guardando il cielo cogli occhi
bianchi.
- Con me vostro figlio girerà il mondo, e si farà uomo. - ripeteva don Tinu.
Anche lo zio Antonio, poveretto, non era più quello di prima, e stava lì, sull'uscio
dell'osteria, inchiodato dalla paralisi sulla scranna, a salutar la gente che passava,
colla faccia da minchione, per tirare gli avventori.
- Benedicite, vossignoria. Che non mi riconoscete più, zio Antonio? - gli
disse il merciaiuolo fermandosi a salutarlo. Lo zio Antonio accennava di sì col capo,
come pulcinella. Allora don Tinu trasse fuori un bel sigaro e glielo mise nelle mani che
tremavano continuamente, posate sulle ginocchia.
Ma l'altro scosse il capo, accennando di no, che non poteva. Don Tinu, per
cortesia, gli chiese infine di sua moglie, e di comare Filomena, che non si vedevano,
nell'osteria deserta; e il vecchio, colle mani tremanti, accennò di qua e di là,
lontano, verso il camposanto e verso la città. Per bere un sorso, dovettero sgolarsi a
chiamare un ragazzaccio che compare Antonio s'era tirato in casa, onde fare andare
l'osteria, e arrivò dall'orticello abbandonato, tutto sonnacchioso, fregandosi gli occhi,
insaccato in un giubbone vecchio dello zio Antonio che gli arrivava alle calcagna.
- Abbiamo fatto un'opera di carità, - osservò don Tinu nel pagare il vino
bevuto. - Statevi bene, compare Antonio -.
Così era fatto don Tinu, colle mani sempre aperte, quando ne aveva, e il
cuore più aperto ancora. Gli piaceva ridere e divertirsi, e aveva amici e conoscenti in
ogni luogo. Spesso lasciava Nanni al negozio, diceva lui, e correva a godersi la festa di
qua e di là colle comari (aveva comari da per tutto). Appena arrivava in un paese lo
mandavano a chiamare di nascosto, e gli facevano trovare il desco apparecchiato dietro
l'uscio, mentre il marito era alla processione colla testa nel sacco. Finché une volta,
per la festa del Cristo, a Spaccaforno, portarono don Tinu a casa su di una scala, come un
Ecceomo davvero.
Era stata Grazia che era venuta a chiamarlo: - Signore don Tinu, vi aspettano
dove sapete vossignoria -.
Don Tinu esitava, grattandosi la barba. Non che avesse paura, no. Ma quella
ragazza allampanata gli portava la jettatura, c'era da scommettere. Lei intanto rimaneva
sull'uscio della bottega, sorridendo timidamente, col viso nella mantellina rattoppata.
Nanni che da un pezzo non la vedeva, le disse:
- O tu come sei qui?
- Son venuta a piedi, - rispose Grazia, tutta contenta che le avesse parlato.
- Son venuta a piedi da Scordia e Carlentini, perché laggiù morivo di fame. Ora fo i
servizi a chi mi chiama -.
S'era fatta grande, tanto che la vesticciuola sbrindellata non arrivava a
coprirle del tutto le gambe magre; colla faccia seria e pallida di donna fatta che ha
provato la fame: e due pèsche fonde e nere sotto gli occhi.
Nanni che stava leccando col pane il piatto di don Tinu le disse:
- Te'; ne vuoi? - Ma Grazia si vergognava a dir di sì.
- Io sto con don Tinu, e faccio il merciaiuolo, - aggiunse Nanni.
Ad un tratto egli si fece serio, guardandola fiso.
- Entra! -
La ragazza esitava, intimidita da quegli occhi. Nanni ripeté:
- Entra, ti dico! sciocca! -
E la tirò pel braccio chiudendo l'uscio. Ella obbediva tutta tremante. Poi
gli buttò le braccia al collo.
- Tanto tempo che ti volevo bene! -
E ricominciò a narrar la storia del suo misero vagabondaggio: la fame, il
freddo, le notti senza ricovero, gli stenti e le brutalità che aveva sofferto; seduta
sulla balla della mercanzia, colla schiena curva, le braccia abbandonate sulle ginocchia,
ma gli occhi lucenti di contentezza adesso, e una gran gioia che le si spandeva infine sul
viso sbattuto e scarno.
- Sai, tanto tempo che ti volevo bene! Ti rammenti? quando s'andava tu ed io
per l'erbe della minestra a Primosole? e l'isolotto che lasciava il fiume quando era
magra? e quella notte che abbiamo dormito insieme dietro un muro, sulla strada di
Francofonte? Poi, quando tu te ne sei andato con don Tinu, e non sapevo che fare, né dove
andare... Quella donna che vendeva i fichidindia, vedendomi ogni giorno a frugare nel
mondezzaio, fra le bucce e i torsi di lattuga, mi dava ora una crosta di pane ed ora
qualche cucchiaiata di minestra. Ma essa pure dovette andarsene, quando finì il tempo dei
fichidindia, ed io partii con quello che faceva gente per la raccolta delle ulive, laggiù
al Leone. Presi le febbri e mi mandarono all'ospedale. Dopo non mi vollero più perché
dicevano che mi mangiavo il pane a tradimento. Sono stata anche a dissodare, dov'hanno
fatto quella gran piantagione di vigne, al Boschitello; e ho lavorato allo stradone, e ci
sarei tuttora a mangiar pane, se non fosse stato pel soprastante... -
S'interruppe, facendosi rossa, e guardò Nanni timorosa. Ma a costui non
gliene importava nulla. Le disse solo:
- Vattene ora, ché sta per tornare il mio padrone -.
La poveretta si lasciava spingere verso l'uscio, col capo chino sotto la
mantellina rattoppata, balbettando:
- Non ci ho colpa, ti giuro, per la Madonna Addolorata! Cosa potevo fare? Egli
era il soprastante... Tu non c'eri più!... Non sapevo dov'eri nemmeno...
- Sì, sì, va bene. Adesso vattene, ché sta per venire don Tinu, - ripeteva
lui allungando il collo fuori dell'uscio, di qua e di là della straduccia, come un ladro.
Infine la ragazza se ne andò adagio adagio, rasente al muro.
Poco dopo portarono a casa il merciaiuolo colle ossa rotte; ché lo zio
Cheli, per combinazione, tornando prima del solito, aveva trovato don Tinu che gli faceva
il pulcinella in casa.
Il Zanno nel medicare il merciaiuolo andava predicando:
- Coi villani ci vuole prudenza, don Tinu caro! ché son peggio delle bestie.
Vetturali poi, Dio liberi!... -
Ogni volta, quando gli capitava male, don Tinu si sfogava dopo col ragazzo, a
calci e scapaccioni; tanto che agli strilli accorrevano l'oste e i viandanti, e il Zanno
gli diceva:
- Non gli dar retta, figliuol mio, perché il tuo padrone dev'essere ubriaco
-.
Il Zanno invece se voleva ubriacarsi si chiudeva nella sua stanzetta, faccia a
faccia colla bottiglia. Non gridava, non picchiava nessuno, sempre con quel risolino furbo
sulla faccia magra; e le donne venivano a cercarlo a casa sua di soppiatto, verso sera,
imbacuccate sino al naso, e chiudeva a catenaccio. Tutto il giorno sempre allegro, a
strappar denti senza dolore, vendere empiastri e intascar soldi. Nanni, allorché lo
incontrava per le piazze, nelle bettole, andando di qua e di là per fiere e per paesi,
gli ripeteva:
- Vi rammentate, vossignoria, quando mi diceste se volevo venire con voi a
fare il Zanno, quella volta che morì lo zio Carmine, allo stallatico del Biviere? -
Il Zanno fingeva di non capire, perché non voleva aver questioni con don
Tinu; ma infine, messo alle strette, si lasciò scappare:
- Be', se il tuo padrone ti manda via, io non ci ho difficoltà a pigliarti
con me -.
Nanni se la legò al dito, e la prima volta che il merciaio si sciolse la
cinghia per menargli la solfa addosso, gli disse brusco:
- Don Tinu, lasciamo stare la cinghia, vossignoria, ché se no stavolta
finisce male.
- Ah, carogna! e rispondi anche! Ti farò vedere io come finisce!...
- Lasciate stare la cinghia, don Tinu, o finisce male, vi ho detto -.
E mise la mano in tasca.
Don Tinu ch'era stato il suo maestro e gli vide la faccia pallida, mutò
subito registro:
- Ah, così rispondi al tuo padrone? Ora ti lascio morir di fame. Pigliati la
tua roba, e via di qua -.
Nanni raccolse i quattro cenci nel fazzoletto e conchiuse:
- Benedicite a vossignoria -.
E se ne andò a trovare il Zanno.
- Bada che qui si guarda e non si vede: si ode e non si sente: si ha bocca e
non si parla - gli disse il Zanno per prima cosa. - Se hai giudizio starai bene; se hai la
lingua lunga andrai a darla ai cani, come quel re che aveva le orecchie lunghe e non
poteva tenere una cosa sullo stomaco. Io non faccio chiacchiere né chiassi come don Tinu,
bada! Marcia, torna e sparisci! E bravo chi ti trova! -
Menavano una vita allegra, ma sempre coll'orecchio teso e un piede in aria.
Di notte, se picchiavano all'uscio, era un lungo tramestìo, un ciangottare dietro
l'uscio, un andare e venire prima di tirare il catenaccio. Poi Nanni udiva il suo padrone
che parlava con qualcuno sottovoce nell'altra stanza, e pestare nel mortaio; oppure erano
strilli e pianti soffocati. Una notte, che non poteva chiudere occhio, vide dal buco della
serratura il Zanno che intascava dei soldi, e una che gli parve Grazia, bianca come la
cera vergine, la quale se ne andava barcollando.
Ma il Zanno, appena gli chiese se era davvero Grazia, montò in furia come una
bestia.
- Tu sei troppo curioso, figliuol mio, e un giorno o l'altro ti finisce male
-.
E gli finì male davvero, per un altro motivo. Un giorno, per la festa
dell'Immacolata, appena rizzarono il trespolo sulla piazza di Spaccaforno, vennero gli
sbirri e li acciuffarono tutti e due, cogli unguenti e gli elisiri, e li portarono al
Criminale, accusati d'infanticidio. Ma allorché il Zanno vide Grazia sullo scanno,
accusata insieme a loro, si mise a giurare e spergiurare colle mani in croce che non
l'aveva mai vista né conosciuta, com'è vero Iddio!
Ma c'erano testimoni che avevano visto quella ragazza con Nanni tempo fa,
quando egli era passato un'altra volta da Spaccaforno con don Tinu il merciaio, nella
settimana santa, anzi egli aveva chiuso l'uscio. Grazia, più morta che viva, balbettava:
- Signor giudice, fatemi tagliare la testa, ché sono una scellerata! Prima
feci il peccato e poi non seppi far la penitenza -.
Era stato per la disperazione, dacché tutti la scacciavano come un cane
malato... e per la vergogna anche... Sì, perché no? dopo che Nanni l'aveva mandata via,
e cominciava a capire il male che aveva fatto... Fu una notte, nel casolare abbandonato
dietro il ponticello, che prima serviva pei lavoranti della strada... Una notte che
pioveva... e le pareva di morire, lì, sola e abbandonata... E non sapeva come fare, con
quella creaturina abbandonata al par di lei... Poi, quando non l'udì più vagire, e la
vide tutta bianca, si strascinò sino al burrone, là, nella cava delle pietre, e
l'avvolse nel grembiule, prima, povere carni tenere d'innocente! Ma Nanni non sapeva
nulla, com'è vero Dio. Non s'erano più visti... Potevano andare loro stessi, a vedere
lì nella cava delle pietre, vicino al casolare, giù dal ponticello...
Così Grazia andò in galera, ma loro se la cavarono colla sola paura della
forca, il Zanno e l'aiutante. Però il Zanno fece voto a Dio e al Cristo di Spaccaforno
che giovani non ne voleva più alla cintola, com'è vero Gesù Sacramentato!
Nanni girò ancora un po' di qua e di là, finché spinto dalla fame tornò a
Primosole, dove almeno ci aveva qualcuno. Trovò che suo padre era sotto terra, e l'Orbo
guidava lui la chiatta, asciutto come un osso.
Giusto c'era Filomena, che cominciava a farsi vecchia, e nessuno la voleva per
quella storia di don Tinu e gli altri sdruccioloni che si erano scoperti dopo; la Filomena
adesso gli diceva ogni volta:
- Io ci ho la mia roba, grazie a Dio, e il marito che volessi prendere
starebbe come un principe -.
L'Orbo, che faceva da mezzano per un bicchier di vino, aiutava:
- L'ho vista io con questi occhi.
- Per me, - rispose alfine Nanni, - se voi siete contenta, sono contento io
pure -.
E si fece il nido come un gufo. Di correre il mondo ne aveva abbastanza ora, e
badava a mangiare e bere colla moglie e gli avventori, che tenevano allegra la casa e
lasciavano dei soldi nel cassetto. Ogni tanto gli portavano la notizia:
- Sapete, zio Giovanni? vostro fratello gli è successo un accidente -.
Oppure:
- Gnà Benedetta, vostra sorella, ha avuto un altro maschio -.
Tale e quale come suo padre, che aveva messo radici a Primosole, dopo che era
rimasto zoppo, e venivano a dirgli sin lì quel che succedeva al mondo di qua e di là.
Un giorno, dopo anni e anni, in mezzo a una torma di mietitori, vide passare
anche una vecchia che neppure il diavolo l'avrebbe più riconosciuta, mangiata com'era
dalla fame e dagli strapazzi, la quale gli disse:
- Che non mi riconoscete più, compare Nanni? Sono Grazia, vi rammentate? -
Ma egli la mandò subito via per paura di Filomena che ascoltava dal letto,
come aveva fatto l'altra volta per paura del padrone che stava per venire. Ora voleva
godersi tranquillamente la sua pace e la provvidenza che il Cielo mandava, insieme alla
moglie che gli aveva dato Dio. E se si trovavano a passare il Zanno oppure don Tinu, che
ora gli portavano rispetto, e lasciavano anche loro bei soldi all'osteria, soleva dire con
la moglie, o con chi c'era:
- Poveri diavoli! Costoro vanno ancora pel mondo a buscarsi il pane! -
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