da "Drammi intimi" (1884)
L'ultima visita
Nel palazzo Dolfini tutt'a un tratto era calata una nube di tristezza. La
malattia di donna Vittoria, che durava da circa una settimana, s'era aggravata nella
notte. Il medico, prima d'andarsene, aveva scritto un'ultima ordinazione sul tavolino
dell'anticamera, volgendo le spalle all'uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già
in cravatta bianca sino dalle dieci di mattina. I parenti e gli amici intimi arrivavano,
uno dopo l'altro, col viso lungo; attraversavano in punta di piedi tutta l'infilata delle
stanze oscure sino al salotto dove era il marito dell'inferma, in piedi, fra un crocchio
di intimi che scambiavano qualche parola a bassa voce, e li accoglieva con una stretta di
mano silenziosa che rispondeva alle mute interrogazioni. Di tanto in tanto un domestico in
fretta; una cameriera socchiudeva discretamente l'uscio della camera buia del tutto. Là
dentro a intervalli si udiva come un soffio di parole mormorate da voci che sembravano di
un altro mondo; e il fruscìo dei vestiti dava l'immagine di un battere d'ali.
Era una pleurite che donna Vittoria aveva presa all'uscire da una festa, in
mezzo al suo drappello di eleganti che si affrettavano a metterle la pelliccia su le
spalle, a darle il braccio, ad aprirle lo sportello del legno tiepido e profumato come un
nido. Ella aveva sentito in quel momento un brivido scenderle per le belle spalle nude,
ancora ansanti per il valzer, sotto la lontra del mantello. Poi s'era messa a letto e non
s'era più levata. Il suo medico, il medico della società, era venuto da principio a far
quattro chiacchiere, sprofondato nella gran poltrona ai piedi del letto, buttando giù
svogliatamente, prima d'andarsene, senza togliersi i guanti, due o tre righi della sua
bella scrittura di signora su di un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie.
Però dopo due o tre giorni s'era fatto serio, e il marito l'accompagnava nel salotto,
fermandosi a parlare tutti e due un momento nel vano della finestra. Alla porta era una
vera processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea, che lasciavano una parola,
un nome, una carta di visita, delle quali il portinaio ogni sera recava un vassoio tutto
pieno in anticamera, colla lista fitta di condoglianze e d'augùri, insieme col bollettino
del giorno accomodato in guisa da poter passare sotto gli occhi dell'inferma, la quale
voleva leggere tutti i giorni i nomi di coloro che erano venuti a domandare della sua
salute; e alle volte gli occhi ardenti di febbre si fermavano su di una firma, e si
velavano di lagrime.
Ogni sera miss Florence lasciava il romanzo che stava leggendo, e scendeva con
la bimba nella camera di donna Vittoria, la quale le accoglieva con un sorriso pallido. La
figliuola, una ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce color d'oro pendenti giù
per le spalle, e le attaccature fini di già, quasi fosse una donnina, andava a baciare la
mamma in punta di piedi, col passo discreto di ragazzina bene educata. Poi le augurava la
buona notte in inglese o in tedesco, secondo la giornata, e se ne andava dietro
all'istitutrice, diritta ed impettita. Infine, la vigilia, donna Vittoria aveva trattenuto
la ragazzina per mano, e le aveva parlato, nella sua lingua nativa, due o tre parole che
accusavano la febbre, col sorriso triste nel viso color di cera. La bimba ascoltava seria
e zitta, coi grand'occhi azzurri spalancati. Più tardi il medico era venuto due volte e
aveva chiesto un consulto. Nel salotto, il vai e vieni degli intimi era stato più
affaccendato ed ansioso. Nella sala accanto, dietro la tenda dell'uscio, si udivano i
medici a consulto, la conversazione era di tratto in tratto interrotta da qualche parola
misteriosa seguìta da brevi silenzi. Nel cortile, il frastuono degli staffieri e delle
carrozze contrastava col silenzio solenne degli altri giorni, come qualcosa fosse mutato
in quella casa. Sino a notte avanzata lo stesso coupé che aveva ricondotto la signora dal
ballo aspettò attaccato nel cortile, co' suoi due fanali accesi che si riverberavano
sull'acqua della fontana. Il giorno dopo arrivò la visita insolita di una lontana
parente, mezza beghina, che il legno era andata a prendere; e dinanzi al suo vestito quasi
umile, gli usci dorati si spalancarono premurosi. Ella andò ad assidersi al capezzale
dell'inferma, con un'aria d'intimità quasi materna, chiedendole della salute,
chiacchierando di mille cose con la voce pacata della donna che vive nella pace della
chiesa. Parlò di se stessa, de' suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto
che si trova nella religione. Giusto cominciava allora la Quaresima, l'epoca della
penitenza dopo i peccati del Carnevale. Alle volte le malattie sono avvertimenti che il
Signore ci dà perché ci si rammenti di lui. Per questo i buoni cristiani antichi usavano
far venire il Viatico appena fossero malati da più di otto giorni; non è giusto
aspettare all'ultimo momento per riconciliarsi con Dio. Si era visto tante volte, con
tanti malati gravi, che già il miglior rimedio è una buona confessione.
- Quando? - chiese soltanto donna Vittoria, bianca come il merletto del suo
guanciale.
- Ma... più presto è, meglio è! Dio non si fa aspettare.
- Va bene! - mormorò l'inferma.
E non aggiunse altro; e seguitava a fissare il volto scialbo della vecchietta
con gli occhi immobili, ardenti.
Appena questa se ne fu andata, fece chiamare suo marito.
Aveva un altro viso; un viso in cui ad un tratto fossero passati vent'anni di
malattia e fosse discesa una calma di morte. La voce le si era fatta profonda e rauca,
come qualcosa cominciasse a mancare in lei.
- Vorrei vedere i miei amici... tutti i miei amici... - mormorò.
E la sfilata incominciò: tutti quelli che erano passati a chieder notizie di
lei; tutti quelli che poterono essere informati del desiderio dell'inferma; così, come si
incontravano, amici e conoscenti, in visita, dal confettiere, fra una pasta e un
bicchierino di madera, al Corso, con una parola buttata là fra tante altre di chi veniva
a dare il buon giorno allo sportello della carrozza. Nella sala tornarono a sfilare dei
lunghi strascichi di seta, dei passi che facevano scricchiolare gli stivalini verniciati,
delle ondate di profumi leggeri e delicati nell'atmosfera grave, delle osservazioni brevi
scambiate a bassa voce nell'uscire con un segno del capo, stringendo il manicotto sul
petto, e con la mazzettina in mano. Calava la sera, una sera tiepida e dorata di
primavera. Per la via si udiva il rumore non interrotto delle file delle carrozze che
tornavano dal passeggio. Solo la camera dell'inferma, che dava sul giardino, rimaneva in
gran pace. Un domestico portò una lampada accesa.
Giungeva ancora qualcheduno in ritardo, col viso interrogativo, che il marito
introduceva, uno per volta, con un cenno del capo e qualche parola lenta. Poi lui si
lasciava cadere nella gran poltrona del medico ai piedi del letto, come vinto dalla
stanchezza; e stava a guardare l'inferma, di già coi segni della morte sul viso all'ombra
della ventola ricamata. Ella salutava gli amici con una occhiata, con un sorriso triste,
con qualche parola breve e dolce che sembrava una carezza, e ad ogni nuovo arrivo le si
rischiarava il viso, quasi girassero il paralume dall'altra parte. Indi tornava ad
oscurarsi, come si riaffacciasse a lei il sentimento del suo stato. Ad ogni momento voleva
sapere che ora fosse.
- E il signor Ginoli non si fa vedere? - chiese infine.
Il marito non rispose; si guardarono un istante. Ella non distolse gli occhi,
col viso immobile e pallido. E con quegli occhi in un istante si dissero tutto. Il marito,
quando passò nelle altre stanze e la lasciò sola un momento, aveva le spalle curve come
gli pesassero addosso cent'anni.
Allora l'inferma, fra una visita e l'altra, chiamò la cameriera, e le disse
due o tre parole che la ragazza sola poté udire, tanto le era mancata la voce. La
cameriera ascoltava, impassibile, ai piedi del letto, stecchita nel suo grembiulino di
seta nera che le serrava il petto magro. Poi, al momento di andare, si chinò
all'improvviso, e baciò la mano della padrona scoppiando in lacrime.
- Va! - disse donna Vittoria, accarezzandole i capelli. - Va. Non piangere -.
Si udì il rumore di un legno che usciva dal portone. Poscia, ad intervalli,
una specie di silenzio d'attesa. In quel silenzio le poche parole che si scambiavano due o
tre persone lì presenti, facevano quasi trasalire. L'inferma allora fissava l'uscio con
gli occhi lucenti, gli occhi che soli sembravano vivi in quell'ombra. Ad un tratto si udì
il legno che tornava, poi un passo leggero sul tappeto, ed entrò un giovanotto sulla
trentina, biondissimo, bianco tanto che sembrava pallido, con un soprabito scuro
abbottonato fin sotto il mento, e la lente pendente sul petto a un filo che non si vedeva,
come un bottone d'acciaio piantato lì. Nell'anticamera egli aveva domandato al domestico:
- Come sta?...
- Male, male assai - rispose questi.
Il giovanotto entrò col passo incerto e l'occhio smarrito. Nelle altre stanze
non incontrò nessuno.
- Oh, Ginoli! - disse l'inferma, con un sorriso.
Egli non rispose, aspirando fortemente, quasi gli fosse mancato il fiato nel
salire la scala in fretta. Infine balbettò:
- Va meglio, non è vero? giacché mi hanno lasciato passare... - Ella
accennò di sì col capo, due o tre volte, poscia balbettò:
- Stasera mi sento un po' male... ma ho visto tanta gente... e sono stanca.
Però fa piacere rivedere gli amici... -
La contessa Bruni, che era rimasta sino a quel momento, si alzò per
accomiatarsi.
- Addio, - disse donna Vittoria, come essa si fermava a stringerle la mano a
lungo.
Rimasero una signora attempata, amica di casa, che si era offerta di vegliare
la notte, e due altri, marito e moglie, zii per parte di madre di donna Vittoria. La zia
parlava di cure portentose, di guarigioni insperate. Gli altri tacevano, senza ascoltare.
- Verrete domani? - disse lei, voltando il capo verso Ginoli.
Egli balbettò di sì.
Ella stette a guardarlo, quasi colpita da quelle parole istesse. E ad un
tratto due lagrime le scesero lentamente sulle guance.
- Quando sarà giorno? - riprese. E voltò la testa dall'altra parte, senza
aspettare la risposta.
Di tanto in tanto la cameriera attraversava la camera, senza far rumore, o si
udiva il passo leggero di un servitore nella sala accanto. Allora levavano il capo tutti
insieme, senza sapere perché.
Soltanto l'inferma mormorava a lunghi intervalli:
- Mi sento male, mi sento male assai -.
Una volta Ginoli, come fuori di sé, si alzò per congedarsi. Ma ella se ne
avvide, e gli disse, con gli occhi sempre rivolti al cielo del letto:
- Ve ne andate di già... -
Si udì un campanello per la strada, e uno scalpiccìo che si avvicinava. Poi
fu aperto bruscamente l'uscio della camera, quasi dicessero a Ginoli:
- Ora andatevene -.
L'inferma volse il capo ottenebrato dall'agonia, e gli stese la mano agitando
le labbra come per mormorare parole inintelligibili. Egli la strinse: era fredda. E se ne
andò barcollando come un ubbriaco. Nel salotto s'imbatté nel marito, e si guardarono un
istante, immobili. In quel momento si udì in anticamera il campanello del viatico; il
marito chinò il capo, pallidissimo. L'altro si dileguò rapidamente.
Attraverso la lunga fila di stanze deserte e silenziose, passava solo il suono
di quel campanello squillante.
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