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Premessa [Indice]

Un libro che voglia servire di itinerario a chi desideri accostarsi alla Musica, penetrarne i segreti e gustarne le bellezze porta con sè difficoltà d'indole pratica insormontabili. Se il libro, com'è ovvio che sia, si indirizza ai profani, una delle difficoltà consiste nel volgarizzare concetti e nozioni della storia musicale schivando l'eccessivo scolasticismo tecnico e l'inerente pedanteria. L'altra difficoltà è quella dell'esemplificazione: in un libro riguardante le arti figurative l'esemplificazione può essere fatta con fotografie di quadri, statue, architetture, magari con tricromie. Con questo mezzo si riesce a dare una visione complessiva delle opere d'arte, e se si tratta di quadri riprodotti in tricromia, ci si avvicina abbastanza alla realtà.

Non così è per le riproduzioni musicali: esse non possono darci che esigui frammenti di composizioni, mai una visione totale. E poi... anche i frammenti saranno accessibili soltanto a chi legge la scrittura musicale, a chi suona un istrumento, e, nei casi più complessi, a chi può impadronirsi a occhio di una «partitura».

Per il profano, ed è questi che noi vorremmo condurre per le vie della Musica fino al godimento di essa, la scrittura musicale è lettera morta. Occorre perciò girare l'ostacolo tentando di spiegargli a parole ciò che non possiamo mettergli sott'occhio nella sua veste semiografica[01]. Ma questo assunto ci porta di fronte ad un'altra difficoltà altrettanto grande. Poichè il linguaggio verbale è di sua natura differentissimo dal linguaggio musicale, spiegare a parole una musica è fare una «traduzione» o meglio una «parafrasi», la quale andrà soggetta ai vari difetti comuni a tutte le mutazioni del genere. Inoltre se non vogliamo che il nostro discorso sia smunto e freddo, il che sarebbe un tradire la Musica di sua natura colorita e calda, se vogliamo dare un'idea sia pur vaga della liricità delle maggiori creazioni musicali e del rapimento che esse generano nell'animo dell'uditore, noi corriamo il rischio di cadere nell'enfasi rettorica o di ricorrere a paragoni e a immagini che lascino supporre un contenutismo del quale la pagina musicale è immune, come lontana ne è la nostra intenzione critica, salvo in quei casi nei quali il compositore medesimo si sia proposto di dare alla propria arte un contenuto qualsiasi.

Ma poi, la frase «linguaggio musicale», pur tanto usata, è dessa veramente esatta? Il linguaggio verbale ci consente di esprimere idee, concetti, ragionamenti logici. Nulla di tutto questo in ciò che vien detto comunemente «linguaggio musicale». Esso è astratto come il linguaggio architettonico, o tutt'al più risponde a stati d'animo non sempre né facilmente precisabili a parole. La Musica è dunque, se mai, un linguaggio sui generis, e va quindi ascoltata in un modo sui generis.

Volendo perciò venire incontro al desiderio di tanta brava gente che si domanda: «come si ascolta, come si accosta la musica? Che cos'è necessario sapere e quali sono i punti di vista (o meglio di udito) dai quali collocarsi per poter penetrare lo spirito, la forma, di una composizione musicale, e a nostra volta lasciarci permeare da essa?»; volendo, diciamo, venire incontro a questo desiderio e soddisfare il meno peggio possibile a queste domande, occorre deciderci a ridurre al minimo le citazioni musicali - alle sole assolutamente indispensabili - e ad affidarci alle spiegazioni verbali, corredate di ampie esemplificazioni tolte dalle composizioni più note e più importanti, controllandoci per modo da scivolare senza danno fra Scilla e Cariddi, e cioè fra l'arido tecnicismo e l'eccesso di immaginismo.

È quello che abbiamo tentato di fare. Ma il meglio di tutto è «ascoltare la musica»; suonare, o ricorrere a qualcuno che suoni, o, anche meglio, a qualche buon disco. È la raccomandazione più importante che possiamo dare a chi vuol capire la musica: ascoltare, ascoltare molto!

Il favore del pubblico che ci ha condotti, in breve tempo, a questa 4ª edizione, starebbe a dimostrare che, almeno in parte, il fine propostoci è stato raggiunto. Nel compilare questa nuova edizione ci siamo sforzati di chiarire maggiormente alcuni problemi di non facile esplicazione, di rettificare talune inesattezze involontariamente sfuggiteci, e di venire incontro a vari desideri che ci sono stati esposti, entro i limiti consentiti dalla necessità di non fare di questo libro un vero e proprio trattato dottrinario e di non accrescerne soverchiamente la mole. Con che l'autore si augura che gli continui il benevolo consenso, arriso alle edizioni precedenti, del pubblico amante di cultura e di arte.

Modena, maggio 1957

Gino Roncaglia

Capitolo I: Considerazioni generali [Indice]

«Tanto è Poesia la Musica quanto l'istessa Poesia».

Orazio Vecchi

Il problema fondamentale che sta alla base del presente libro è il seguente: «È possibile insegnare a udire, a godere una composizione musicale?»

Come per le arti figurative, anche nel campo musicale c'è chi scetticamente pensa che non ci sia niente da fare; e c'è chi, andando all'estremo opposto, crede che si possa educare chiunque. Chi sostiene la prima opinione suppone, naturalmente, che musicisti, o per lo meno orecchianti, si nasca, e che perciò non si possa migliorare la situazione di individui musicalmente sordi. In questa credenza c'è qualche cosa di vero: come esistono persone che nascono con una spontanea sensibilità acustica e con attitudini musicali, così ne esistono altre prive affatto di orecchio, persone per le quali la musica non è che «un fastidioso rumore». Se l'educazione musicale, praticata fino da fanciulli (educazione prima di tutto dell'orecchio, e poi del gusto), non ha potuto nulla su costoro, non c'è veramente nulla da fare. Ci troviamo in questo caso di fronte a eccezionali forme di insensibilità musicale (non acustica). Ho detto di proposito «eccezionali» poichè l'esperienza dimostra che questi casi, invero disgraziati, sono rarissimi. Un ottimo musicista che fu per quarant'anni insegnante di Musica e Canto corale negli Istituti Magistrali, mi assicurava che nella prima classe del corso inferiore gli arrivavano spesso fanciulli apparentemente privi d'orecchio: «stìmpanèe»[02], com'egli diceva con un'espressiva e mal traducibile parola del dialetto modenese.

Ma, soggiungeva, un'assidua educazione abituava il 98-99% di questi giovani ad apprezzare gli intervalli sonori e a riprodurli, per modo che al termine dell'anno scolastico essi erano in grado di cantare come ogni altro una melodia, e alla fine del corso superiore cantavano già con sicurezza qualche parte in composizioni polifoniche a 3 e a 4 voci. I refrattari assoluti sono dunque una minoranza trascurabile, com'è, del resto, nel campo visivo, dei ciechi e dei daltonici. Abituarsi a intonare una scala e a riconoscere gli intervalli è indispensabile a chi ascolta, come, a chi guarda una statua o un quadro, distinguere linee rette curve spezzate e colori. L'esperienza quarantenne del citato maestro di canto, ed altre osservazioni del genere, sia personali che riferitemi, stanno dunque a provare false entrambe le opinioni estreme. Concluderemo perciò affermando che si può educare l'orecchio e il gusto musicale, pure rimanendone esclusa una trascurabile minoranza di musicalmente sordi.

Non è qui il caso di studiare quello che la famiglia e poi la scuola (dall'asilo in su) possono ed hanno il dovere di fare per l'educazione acustica e musicale del fanciullo e del giovane[03]. Prendiamo il giovane e l'uomo adulto come sono, e vediamo quello che si può ancora fare per avviarli all'audizione e al godimento di una composizione musicale. Trascuriamo dunque coloro che, per disgrazia di natura o per difetto d'educazione giovanile, si possono ormai considerare come dei perduti per la Musica. Per tutti gli altri l'avviamento fondamentale è il medesimo che per qualunque altra arte, e consiste nello sviluppo del sentimento della Poesia e nella conoscenza degli elementi tecnici attraverso i quali la Poesia si esplica.

Dio ci guardi dal voler ridurre l'espressione artistica ad un puro giuoco di tecnica. La Storia musicale (ed anche quella delle altre arti) ci insegna che ci sono stati, e ci sono ancora, tecnici consumati (compositori ed esecutori) i quali non sanno darci un briciolo di poesia. Manca loro cioè quella scintilla divina, quel quid che spontaneamente, istintivamente, a volte ex abrupto, altre volte dopo lunga meditazione ed elaborazione, ma sempre per un impulso interiore invincibile, per una spinta più o meno cosciente, per un'illuminazione totale o per una serie di illuminazioni graduali, conduce infallibilmente l'artista verso la perfezione. La tecnica e l'ispirazione si fondono allora in una forma ben definita, nella quale s'addensa una forza espressiva prodigiosa. Lo Zingarelli e Simone Mayr furono tecnici senza dubbio sapientissimi, ma nulla del primo e ben poco del secondo ha resistito al tempo. Eppure con la stessa tecnica dello Zingarelli e del Mayr scrissero capolavori Rossini e Donizetti, e scrissero senza pentimenti. Al contrario le melodie di Vincenzo Bellini, che sembrano uscite da un soffio spontaneo, furono lungamente elaborate e modificate. È noto che della celebre «Casta Diva» esistono otto tentativi diversi. Pentimenti e mutamenti si notano anche nelle opere di Verdi confrontando la traccia del primo abbozzo con la versione definitiva delle sue opere, e specialmente lo spartito del Falstaff che gli servì alle prove, con l'edizione definitiva; spartito di recente posto in luce e accuratamente illustrato da Guglielmo Barblan. È certo poi che la creazione fu sempre lunga elaborazione e tormento per Beethoven, come ci attestano i suoi quaderni di studi, in cui uno stesso tema subisce numerosissime varianti prima di raggiungere la forma ultima.

Può sembrare che io stia sfondando delle porte aperte, ma se tali sono per i musicisti, così non è per i profani, ai quali in particolare mi rivolgo, e pei quali molte porte, talvolta tutte, sono chiuse, e non sempre per loro colpa.

Che cos'è dunque la forma? Non altro che la tecnica vivificata dallo spirito, cioè dall'intuizione poetica che si identifica col contenuto. Nel passato si creò fra le parole contenuto e forma uno sdoppiamento che talora si costituisce in dissidio, nelle opere che non hanno raggiunto una compiutezza artistica, e si riduce ad unità, nelle opere perfette. Ma in realtà, è più esatto parlare di contenuto e di tecnica, dalla cui maggiore o minore fusione e trasfigurazione risulta la forma.

E questa una premessa indispensabile a quella preparazione, senza la quale nessuna opera d'arte si afferra e si penetra. C'è anche chi non crede che tale preparazione sia necessaria, e si osserva da costoro che il pubblico gusta il Barbiere, il Rigoletto, la Bohème, e simili, senza particolare studio. E qui si confonde la preparazione tecnica e storico-erudita - la quale non è, a rigore, indispensabile per gustare un'opera d'arte - con quella estetico-spirituale di cui non si può fare a meno. Ora, quest'ultima specie di preparazione, l'abitudine del teatro (soprattutto nel passato, quando vi si andava con poca spesa per molte sere, e le stesse opere venivano riudite molte volte) l'ha più o meno ampiamente creata. Non c'è (o non c'era) operaio che non abbia sentita qualche opera di Rossini, di Bellini, di Donizetti, di Verdi, di Meyerbeer, di Thomas, e che perciò non abbia (o avesse) la preparazione a gustare Bizet, Gounod, Mascagni, Puccini, Massenet, Giordano, Saint-Saëns, ed anche le meno wagneriane delle opere di Wagner, quali il Tannhäuser e il Lohengrin.

E insieme all'abitudine a gustare l'opera si è formata quella di giudicare e apprezzare l'esecuzione vocale e orchestrale (più quella, perché più lineare, che questa per sua natura più complessa). Tuttavia l'apprezzamento dell'esecuzione, equivalente alla messa in luce di un quadro, è sempre più delicato e soggetto a influenze estranee: suggestione della réclame, della claque, frequenza di buone o cattive esecuzioni (se prevalgono le prime il gusto si affina, se prevalgono le seconde si deteriora), possibilità di fare confronti fra diverse esecuzioni di uno stesso lavoro, influenza della musica popolare che ci circonda (oggi si dice leggera; talvolta verrebbe voglia di dir sciocca) e del modo con cui viene eseguita, influenza della cultura artistica generale, dell'indirizzo mentale, e perfino... dello sport. Ci sono infatti pubblici i quali considerano l'esecuzione di un cantante come una prova di resistenza sportiva, e perciò si entusiasmano - naturalmente a gran torto - per la forza di certi polmoni e per la durata di certe note (specie se acute). Anche il virtuosismo tecnico può essere causa di giudizi errati da parte di chi ascolta se non ne conosce il valore estetico. Un violinista, ad esempio, può essere apprezzato per la sua bravura acrobatica e mandare in visibilio un pubblico, il quale così abbagliato, non si avvede magari della nessuna capacità interpretativa. Ho sentito una volta un celebre violinista eseguire la Sonata a Kreutzer di Beethoven come si eseguisce la Zingaresca di Sarasate (mancanza di stile), e il pubblico fanatizzava esclusivamente per la nitidezza dell'esecuzione. Ho udito un cantante famoso cantare la Messa di Requiem di Verdi come non si dovrebbe cantare neppure la Butterfly: singhiozzi a sproposito, portamenti sdolcinati, note di testa prese all'improvviso, e tutto ciò senza nessun nesso né col testo né con la musica; e il pubblico delirava! Il Direttore d'orchestra spesso lascia fare (se no l'impresa lo manda a spasso), i giornali lodano (questi hanno cantanti e impresari alle costole) e in tal modo il pubblico si disorienta sempre più e la sua preparazione diventa negativa.

Ma non è questo il luogo dove insistere su quanto vi è di marcio nell'ambiente musicale, e in special modo teatrale, italiano. Già fino dal Settecento Benedetto Marcello scrivendo quell'ironico atto d'accusa che è «Il teatro alla moda» sferzava difetti e vizi teatrali; e molti altri fecero altrettanto. Da allora le cose sono andate, a onor del vero, migliorando, ma non tanto che, sia pure in grado più attenuato o larvato, vizi e difetti non ne affiorino ancora. Il guaio si è che spesso i musicisti stessi, anche i più seri, o non fanno niente per migliorare la situazione, o fanno di tutto per aggravarla, pigliando di punta il pubblico quando fa il viso dell'armi a novità che non è preparato a ricevere (o che non meritano di essere ricevute) con onore o almeno con riguardo, e insistendo in un sordo disprezzo contro il dilettantismo. Ora, il dilettante è l'appassionato per eccellenza; mancherà di cultura e di erudizione, sarà per istinto conservatore tradizionalista, talvolta sarà anche di gusti faciloni, ma è sempre stato il migliore pubblico, così in teatro come nelle sale da concerto, che riempie per circa quattro quinti. Non credo che i compositori ci guadagnerebbero ad avere un pubblico tutto o in maggioranza formato di autentici musicisti; le differenze di scuola e di tendenze (ed anche - perché no? - le rivalità di mestiere) creerebbero delle barriere di ostilità insormontabili. È noto che le maggiori manifestazioni di ottusità e di incomprensione, contro Verdi, contro Puccini, e perfino contro Wagner, sono venute proprio da musicisti di professione. Questo per non citare che esempi relativamente recenti e per non risalire alle polemiche dell'Artusi contro il Monteverdi, dello Zarlino contro il Galilei, di Weber e Berlioz contro Rossini, e via dicendo. Per quattro quinti il pubblico musicale è formato da dilettanti, i quali, soggetti, come tutta l'umanità, a passioni, possono, sì, fischiare una sera II Barbiere, la Norma, La Traviata, salvo però a ricredersi onestamente in un tempo più o meno breve. Non lo urtate questo pubblico, non lo disprezzate, non lo trattate con facile ironia: guidatelo, sorreggetelo, accostatelo e vi risponderà con sincerità e comprensione. Invece, neanche a farlo apposta, per i dilettanti non c'è neppure un giornale o una rivista di divulgazione: e sarebbe tanto utile !

Appena dalle opere teatrali che hanno un prossimo collegamento con la tradizione il pubblico passa ad ascoltare opere più avveniriste (anche Barbiere, Norma e Traviata erano già, quando apparvero, dei grandi salti nel nuovo) come La dannazione di Faust di Berlioz, le opere di Wagner dal Tristano al Parsifal, il Pélleas e Mélisande di Debussy (e per ora fermiamoci qui) allora le difficoltà di penetrazione da parte del pubblico diventano improvvisamente così forti ch'egli recalcitra come un ragazzaccio che non vuole andare a scuola, o reagisce con la ottusità bruta di un toro infuriato contro un drappo rosso. Gli mancano i punti d'appoggio per un accostamento e per una successiva adesione. Soltanto dopo lungo tempo, quando altri indirizzi nuovi verranno affermandosi, egli si attaccherà disperatamente a ciò che prima respinse.

Le difficoltà di penetrazione aumentano a dismisura per la musica sinfonica, e più ancora per quella da camera. Un referendum dell'Eiar dette a questo riguardo, anni fa, risultati indubbiamente umilianti, risultati che invano si è tentato da qualche parte di fare apparire meno catastrofici con argomentazioni eccessivamente cavillose e inconsistenti. La cosa si spiega benissimo se pensiamo che il pubblico che frequenta il teatro d'opera in realtà si interessa di una sola cosa: del canto. La sua modesta fatica consiste nel seguire una linea sola, trascurando (o quasi) il resto. S'intende che il canto gli va tanto più a genio quanto più esso è melodico e strofico. Perciò di fronte a Wagner, dove la linea del canto ha andamento infinito e disegno insolito, e il maggior interesse si concentra nel complesso tessuto sinfonico e nel ritorno di temi numerosi a significazione determinata, è naturale che un pubblico così impreparato si smarrisca totalmente. Per afferrare e godere un tessuto sinfonico, sia esso wagneriano o no (peggio se straussiano, debussyano o - Dio ci salvi - dodecafonico o politonale), occorre che il pubblico sappia ascoltare simultaneamente molte voci strumentali, sappia seguirne le linee, distinguere i timbri, comporre tutto ciò ad unità, cioè fare di tale molteplicità di disegni una sintesi istantanea. Il quadro musicale non sta fermo come un'architettura una scultura o una pittura; bisogna perciò che l'ascoltatore si orienti con estrema prontezza in questo mare magnum. Ma non basta: come vi sono valori contrappuntistici (sovrapposizioni di vari disegni melodici) da afferrare, vi sono pure valori armonici (accordi: sovrapposizioni di note in vario rapporto fra loro; modulazioni: passaggi più o meno complessi e rapidi fra tonalità diverse); e la bellezza di un brano di musica non dipende solo dalla genialità dell'ispirazione melodica, dalle derivazioni e varianti ritmiche d'un tema dato, e dal colore dei timbri strumentali, ma da tutto questo insieme di elementi, più quelli armonici e contrappuntistici, attraverso ai quali l'anima del compositore si manifesta e trasmette a noi il suo sogno. «Non essere in musica esclusivamente melodista - scriveva Giuseppe Verdi all'Arrivabene. - Nella musica vi è qualche cosa di più della melodia: qualche cosa di più dell'armonia: vi è la musica». E ciò scrivendo, Verdi evidentemente comprendeva nella parola musica un vasto complesso di elementi fra loro inscindibili, in cui si concreta, e dai quali cioè prende forma l'opera d'arte.

Ci fu un tempo, nel '500, quando scrivevano (per voci) Pierluigi da Palestrina, Orazio Vecchi, Lodovico da Vittoria, Orlando di Lasso (per non citare che i giganti), e poi nel '700 quando (per voci e strumenti, ed anche per strumenti soli) scrivevano Antonio Vivaldi, Giorgio Federico Händel, Giovanni Sebastiano Bach, che questo gusto della musica polifonica, sinfonica e sinfonico-vocale, era diffuso anche fra il popolo. Poi in Italia la voga degli spettacoli teatrali andò rarefacendo le manifestazioni polifoniche e sinfoniche, fino a farle cessare. Solo dalla metà dell'800, per volontà ed opera di pochi illuminati, fra i primi Carlo Andreoli, la musica da camera e sinfonica riapparve, non senza contrasto e fatica, suscitando apprensioni ed ostilità perfino in Giuseppe Verdi: tanto è vero che gli artisti di genio sono quasi sempre troppo chiusi nel loro mondo per poter capire quello degli altri! Quando si pensa che la Sinfonia Eroica di Beethoven, che è del 1805 apparve in Italia solo nel 1866; e la Va, che è del 1808, soltanto nel 1877, c'è da arrossire! Ma lasciamo stare il passato e veniamo al presente. Ci sono città che passano per colte, dotate di Biblioteca e di Università, che hanno sentito sì e no una volta tanto tre o quattro delle nove sinfonie di Beethoven, e dove su centomila abitanti si fatica a trovarne 150-200 che si sobbarchino all'audizione di un concerto da camera; anche se l'interprete ha un nome celebre. Le più facili e sensoriali manifestazioni pseudo-artistiche trasmesse dalla radio e portate anche sui teatri da appositi gruppi a ciò specializzati, fanno all'arte musicale vera e propria una concorrenza demolitrice, e portano alla formazione del gusto colpi mortali.

L'arte è linguaggio interiore raggiunto per intuizione o ispirazione; e dev'essere parimenti sentito più per intuizione o illuminazione che per raziocinio. Il critico che discute su l'opera d'arte sovrappone o sostituisce il raziocinio all'intuizione. Tale raziocinio è la conseguenza della sua intuizione, è successiva ad essa, e serve a render conto a sé e agli altri del fatto artistico, aiuta a rivivere l'opera d'arte. Ma, ripetiamo, il punto di partenza è sempre un atto intuitivo: solo esso ci può condurre ad intendere un'opera d'arte.

Per poter intendere il linguaggio musicale più alto, abbia esso o no l'appoggio della parola (e nel secondo caso va da sé che le difficoltà sono maggiori) bisogna anzitutto sapersi sollevare sopra la morta gora della platealità, vincere l'istinto che ci guiderebbe verso un edonismo sensoriale di natura prettamente materialista, possedere la facoltà di sognare ad occhi aperti, non opporre al sogno alcuna fredda reazione razionalista; in una parola, abbandonarsi e lasciarsi portare in alto, lasciarsi prendere dal gioco delle emozioni. Ed è bene una volta per sempre avvertire che l'emozione non va confusa con la commozione, essendo questa di natura sensoriale e l'altra tutta spirituale. La musica trasforma le lacrime - fenomeno di commozione fisica - in puro canto, fenomeno che riguarda unicamente lo spirito: così, ad esempio, nel preludio al 3° atto de La Traviata. Esprimere le emozioni, il mondo interiore, è liricità. E in istato lirico entra, ripetiamo, chi si accosta all'opera d'arte con abbandono. Chi non si abbandona a questo rapimento lirico ne resta fuori. Ora, trasformare la commozione fisica in emozione artistica vuol dire trasfigurare: l'arte perciò è trasfigurazione. (Non si confonda, per carità!, trasfigurazione con deformazione, e tanto meno con deformità, confusione divenuta oggi tanto frequente e comoda).

Occorre infine rendersi conto della forma, che è poi l'unica via attraverso la quale ci si manifesta l'emozione, cioè il contenuto. E quando diciamo contenuto si badi a non confonderlo col soggetto, poiché uno stesso soggetto può essere sentito ed espresso assai diversamente da autore ad autore. Perché? È questione di forma. Così il contenuto e la tecnica, e cioè la forma, della Manon di Puccini non sono quelli della Manon di Massenet; per la stessa ragione l'Otello di Verdi è tanto diverso dall'Otello di Rossini; il Barbiere di Rossini da quello di Paisiello, e così via. E non è questione solo di differenze dei libretti, ma di interpretazioni musicali che partono da stati emotivi completamente diversi. E non è neppur necessario che il soggetto piova molto dall'alto, che sia, per esempio, la druidessa Norma che miete il sacro vischio all'albore della sorgente luna in un solenne rito religioso, o il cavaliere del San Gral Lohengrin che svela i misteri della sua natura regale e della sua potenza celestiale. Basta un semplice fanfarone come Figaro che grida con enfasi «Largo al factotum della città», o una donna perduta (ma non del tutto) come Violetta che esclama appassionata «Amami Alfredo», o un ciarlatano come Dulcamara che canta scherzosamente «Io son ricco, tu sei bella» per creare il capolavoro. E, nel campo puramente strumentale, basta un breve ritmo come quello che apre la 5ª Sinfonia di Beethoven per suscitare nell'animo del compositore tali risonanze impensate, tale prodigio di emozioni da fargli scrivere una delle più grandi pagine di tutta la musica sinfonica.

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E ancora: non bisogna permettere che la fantasia sostituisca suggerimenti letterari e metafisici a quella che abbiamo detta emozione artistica, e che, nel caso della Musica, è determinata unicamente da elementi sonori e ritmici, timbrici e tonali, armonici e contrappuntistici. Sono questi elementi i costruttori della forma, e solo attraverso ad essi deve scaturire la poesia che è il fine supremo d'ogni opera d'arte. E dire poesia significa trasfigurazione della realtà.

Tutto ciò costituisce lo stato di grazia, indispensabile all'accostamento e, nel caso migliore, alla penetrazione, al possesso, d'un'opera musicale.

Che la musica, come taluno mostra di credere, sia più accessibile delle altre arti, è una pura illusione. Molti suppongono di raggiungerne senza sforzo la bellezza, ma se si esamina attentamente quanto costoro ne dicono, ci si accorge tosto che i loro commenti non sono che sovrapposizioni letterarie o visive o sensoriali, e che dall'espressione musicale vera e propria sono rimasti lontanissimi. Di una folla che ascolta musica e sembra dominata dal fascino che ne emana, quante persone sono veramente nello stato di grazia voluto? Ho spesso fatto questa inchiesta, ed ho sempre (dico sempre) constatato che il numero degli eletti è scarso; e spesso sono fuori della grazia, per pregiudiziali erudite d'indole tecnica, storica o filosofica, proprio molti musicisti di professione. Questo spiega perché Weber e Berlioz non capirono Rossini, perché Rossini non capì Wagner, perché Boito giovane non capì Verdi, e via dicendo, come s'è già accennato.

Dio mi guardi dal voler popolarizzare, o peggio democratizzare, il gusto musicale! La Musica, come del resto ogni Arte, è di sua natura aristocratica in quanto anch'essa, come le sorelle, ha per oggetto uno stato lirico, e richiede perciò alto sentire, che non può essere se non di una minoranza più colta (più vasta nei paesi di maggiore cultura); con la quale parola - ripeto - non si vuol indicare tutto ciò che costituisce un più o meno arido bagaglio di erudizione, ma tutto ciò che concorre alla formazione del gusto e della sensibilità. E fra i mezzi che concorrono alla formazione del gusto e della sensibilità lirica nei riguardi della Musica, oltre alla tendenza naturale (dono divino) c'è l'educazione morale, ci sono (o meglio ci dovrebbero essere) le riviste non tecniche ed erudite, e ci dovrebbe essere l'ambiente. Con quest'ultima parola intendo indicare le abitudini domestiche e cittadine; ciò che si sente di musica in casa fino dall'infanzia, dalle canzoncine della mamma o della balia, ai trattenimenti familiari, da ciò che si ascolta alla radio a ciò che si sente cantare e suonare in casa propria o presso gli amici, dalla banda in piazza (quando c'erano le bande, e talvolta erano e buone e utili) fino alla chiesa, alle sale da concerto e ai teatri.

Non è affatto un caso tanto singolare che molti figli di Giovanni Sebastiano Bach diventassero ottimi musicisti. A parte la tendenza naturale, che può essere stata ereditaria, ci fu l'educazione domestica. Essi crebbero in un ambiente saturo di musica, e il loro grande padre, non contento di far musica all'organo in chiesa e al cembalo in casa, e di provare musica con cantori e strumentisti, e di comporre, e di dar lezioni di musica, scrisse appositamente per educare i figli quell'opera monumentale che è «Il clavicembalo ben temperato!».

E c'è poi - o ci dovrebb'essere - la scuola. Dove si insegna la musica oggi? Non intendiamo parlare dei Conservatori e Licei Musicali dove studiano solo coloro che vogliono darsi alla musica quale professione, né delle scuole private dove ci si prepara a carpire bene o male un diploma - generalmente di pianoforte - in qualche scuola governativa. Il canto, come elemento culturale e formativo del gusto e dello spirito, si insegna negli Istituti Magistrali, ma tale insegnamento va poi perduto perché nessuna società corale polifonica accoglie dopo la scuola questi elementi, pochi dei quali hanno la volontà e la dignità di continuare ad occuparsi di musica almeno per proprio conto, e disperdono il molto o poco sapere acquistato ad insegnare canzoncine rudimentali; o tutt'al più qualche canto all'unisono (il verdiano «Va pensiero» è quello che ne fa più le spese) ai fanciulli delle scuole elementari. Ma ci vuol ben altro che il nobile «Va pensiero» e le troppo ignobili canzoncine pseudosacre e pseudopatriottiche a formare il gusto artistico dei ragazzi! Fuori degli Istituti Magistrali manca ogni insegnamento di Musica come canto pratico, o come cultura storica ed estetica, nelle scuole medie, ed è raro e ad ogni modo incompiuto nelle Università. I giovani dei Licei classici studiano, bene o male, Omero, Virgilio, Dante, Leopardi, Manzoni, imparano a conoscere la scultura greca, il rinascimento fiorentino e il barocco, ma non sono tenuti a sapere chi erano Palestrina, Mon-teverdi, Vivaldi, Händel, Bach, Franck, Mussorgski ecc. dei quali ignorano spesso completamente perfino i nomi. All'Università la Musica, dove c'è tale insegnamento, riguarda solo gli studenti di Lettere (come corso complementare - si noti bene -, mentre la Storia dell'Arte è corso obbligatorio) ed acquista per contagio dalle altre materie una malattia che per l'Arte è spesso la più deleteria: l'erudizione.

Dopo di che non ci meraviglieremo più se troveremo il nostro pubblico tanto lontano da un'effettiva intelligenza musicale. Ma sbaglierebbe chi credesse che gustare la musica sia solo questione di sensibilità. Oltre a sentire bisogna anche capire. Che cosa? La Musica è un linguaggio (adoperiamo ancora questo termine, anche se impreciso) ma sui generis. Come si possono studiare le parti di un discorso, si possono ricercare le parti di una composizione musicale: introduzione, tema, svolgimento, contrasto o accordo fra diversi temi, fra diversi disegni musicali successivi o sovrapposti, perorazione, conclusione. Ci si può render conto del discorso, del sentimento, o del carattere delle armonie e del loro mutare (modulazioni) alla ricerca di un impianto diverso (altra tonalità). Si può riconoscere il ritorno di determinate frasi, di determinati ritmi, e delle variazioni subite da questi elementi, e degli effetti prodotti su la musica dalle tinte strumentali e dal loro cambiare.

Tutto ciò rende certamente più complesso, ma insieme più pieno il piacere estetico dell'audizione di una composizione musicale.

Capitolo II: Teorie estetiche musicali [Indice]

La prima domanda che si propone uno che si accosti alla Musica è: «che cosa esprime?». Domanda alla quale filosofi d'ogni scuola e musicisti hanno tentato di rispondere con teorie delle quali, per curiosità più che per necessità, passiamo a riassumere le più importanti. Ciò che qui esporremo succintamente non è proprio, a rigore, indispensabile per accostarsi alla Musica, ma può costituire un complemento utile. In realtà la dottrina tecnica e storica, la cultura filosofica e letteraria, possono servire a chiarire un ambiente, un'epoca, ma non aiutano se non indirettamente a penetrare un'opera d'arte, per la quale occorre una particolare innata sensibilità e una facile fantasia (cioè potere d'intuizione) che l'esercizio, vale a dire il molto vedere, ascoltare, leggere opere d'arte, perfeziona e acuisce, formando il gusto estetico. Dalle espressioni grossolane e ottuse, che piacciono agli spiriti rozzi, ci si eleva così alla contemplazione pura delle opere più eccelse.

Per accostarsi all'Arte, dicevamo, occorrono sensibilità, gusto e, fino a un certo punto, cultura. Non c'è bisogno di dire che non è la cultura giuridica o quella agraria, zootecnica, meccanica, ecc., che interessa nel nostro caso. Uno può essere un giudice acuto e retto, o un meccanico dotto e geniale, e non capire una nota di musica né un quadro né un'architettura, mentre un operaio incolto ma dotato di naturale sensibilità, a volte subisce il fascino dell'Arte con maggior prontezza e intensità. Ed è perciò che nel «loggione» dei teatri si odono spesso giudizi più assennati di quelli emessi dall'aulica poltrona occupata dal commendatore X, o dal palchetto aristocratico del ricco proprietario Y. Nel caso particolare della Musica, la sensibilità che si richiede riguarda la percezione degli intervalli, dei toni e dei modi, degli accordi e delle loro modulazioni; la percezione distinta dei canti e dei contraccanti nell'intreccio delle parti di una polifonia, e quella dei timbri strumentali e vocali. Sono tutte doti naturali che l'esercizio rivela e affina; come si affina il gusto, che si porta sempre più in alto alla scuola dei grandi musicisti, evitando con sacra intransigenza quanto è volgare.

La ricerca dell'altezza però non deve condurre verso un altrettanto nocivo preziosismo intellettualistico. Il gusto delle cose lambiccate e ricercate, dei particolari minuziosamente e frammentariamente studiati e fuor del comune, sviano dal retto apprezzamento altrettanto come l'abbandono alla faciloneria e al sentimentalismo.

La cultura storica, letteraria, estetica, è spesso necessaria a penetrare più profondamente stili ed epoche. Essa riguarda non soltanto le tendenze del gusto di un determinato secolo o periodo storico (inutile, per esempio, cercare la violenza tragica nelle musiche del settecento italiano), ma anche il carattere, le vicende della vita e il pensiero di un autore. A quest'ultimo proposito la conoscenza, ad esempio, dell'infelicità terribile di Beethoven, la lettura del suo epistolario e la penetrazione del mondo morale che animava il suo pensiero, e per riflesso inevitabile la sua arte, agevoleranno il possesso estetico dei suoi massimi poemi sonori, dalla sonata detta «Appassionata» alla IX Sinfonia.

Infine, anche formatisi e sviluppatisi sensibilità e gusto, non è detto che la comunione con l'opera d'arte si stabilisca prontamente. Occorre talvolta pazientare, e ripetere lungamente l'audizione, fino a che tale comunione fra l'opera musicale e il nostro spirito si stabilisca. Non bisogna aver fretta di dire: «bello» o «brutto». Solo dopo che l'emozione si sarà ripetuta più volte e, a seconda dei casi, confermata, intensificata o affievolita, potremo dare un giudizio di tal fatta. Ed è necessario anche udire spesso musica, frequentare teatri, concerti sinfonici e da camera, vocali e strumentali; e in mancanza di questi, suonare (o far suonare) o ascoltare mediante dischi, o alla radio, il più spesso possibile, e abbondantemente, musica d'ogni genere (tranne il volgare), d'ogni età e d'ogni popolo. Ascoltare, ascoltare e poi ancora ascoltare!

Il problema della formazione e del raffinamento della sensibilità e del gusto musicale si risolve soprattutto così.

Né sarà mal fatto accompagnare tutto ciò con letture di storia, di monografie, di studi e di riviste, od anche di giornali (ove gli scrittori siano critici di qualche serietà). E occorre far tutto ciò senza prevenzioni e pregiudizi, con fede, volontà, e abbandono, e - ripetiamo - soprattutto senza fretta. Guardiamoci dalle indigestioni: anche il cervello, come l'apparato digerente, ha bisogno di non rimpinzarsi troppo e di masticare adagio: poco al giorno, ma ripetere spesso.

Quanto a capire la musica, cioè a distinguerne gli elementi armonici, contrappuntistici, strumentali, e via dicendo, ossia quanto a rendersi conto della forma e della struttura, la conoscenza di tali elementi faciliterà indubbiamente la comprensione dello stile e dell'espressione di una composizione. Ma bisogna stare attenti che l'interesse per il meccanismo sonoro, per la costruzione, ossia per la «tecnica» non soverchi e non annulli il fatto «sensibilità estetica». Bisogna, quindi, far rientrare l'architettura sonora nel quadro dell'espressione. Per esempio: la complessa grandiosità di costruzione di una «fuga» di Bach è elemento certamente fondamentale della sua potenza espressiva, sacra e metafisica, così come l'espressività della «Casta Diva» o del Preludio al III atto della Traviata non può essere disgiunta dalla loro linearità.

La musica nelle sue manifestazioni più alte è anche religione, e richiede perciò fede in chi le si accosta. Bisogna sapersi spogliare di ogni concetto terrestre, di ogni materialità, e rappresentarsi attraverso alle forme sonore una forma di vita superiore, immateriale, ultracosmica. Dice Dante del canto di Casella:

«che mi sapea quetar tutte mie voglie»

e il Leopardi chiama la Musica rivelatrice di

«alto mistero d'ignorati elisi».

Essa estingue ogni desiderio materiale: è l'estinzione di tutto ciò ch'è terragno, la liberazione dello spirito, il carducciano «oblio lene de la faticosa vita», il nirvana, il mare dell'infinito leopardiano nel quale è dolce naufragare. È la negazione, l'annientamento del relativo; l'affermazione e il possesso dell'assoluto, e, come tale, scintilla divina, e perciò forza spirituale.

Con che noi esponiamo una teoria che sappiamo non condivisa da tutti. Ma in fatto di teorie, filosofi ed esteti ce ne hanno largito una varietà non indifferente, che va dalle più materialiste alle più idealiste. Scorriamone, per curiosità, le principali.

Mario Pilo, ad esempio[04], cerca l'origine della musica come arte nelle grida incoerenti e nelle voci più o meno commosse degli animali e dei selvaggi; siamo in un campo completamente naturalistico e materialistico, dove si confonde il suono bruto con la Musica arte, cioè espressione dello spirito. Egli ci parla di «gusto musicale» degli artropodi (insetti, ragni e simili!).

Per il Pilo «i redivivi nostri progenitori sono i degenerati, gl'idioti, gl'impulsivi, gli psicastenici, i folli» (p. 24)!, ed «è musica qualsiasi suono capace di dare un diletto acustico: né più né meno» (p. 27). E specifica che per diletto intende «qualsiasi diletto acustico, prima di tutto e soprattutto sensorio specifico» (id.). Parla di «bello sensoriale» (p. 34). e si entusiasma per un tale che «aspirando e soffiando l'aria ritmicamente, arrotando i denti, fischiando e sbuffando, ed insieme battendo in ritmo le dita e i polsi ed i gomiti sulla piccola mensa tremante e rumoreggiante di piatti bicchieri e posate, riesce a dare evidente, completa, miracolosa l'evocazione della realtà», quella cioè di un treno in corsa (p. 45); e costui gli pare un «musicista», forse più verista di quello che non lo siano stati Arturo Honegger nel suo Pacific 231, o Alessandro Mossolof nella Fonderia d'acciaio.

Il Pilo accede alla opinione di Tolstoi che l'unione della musica e della poesia è «un connubio ibrido» che snatura l'una e l'altra, ed anche le altre arti che si alleano ad esse nella creazione del melodramma. Tale concetto tenderebbe a separare le arti le une dalle altre come da compartimenti stagni, e nega ottusamente ogni risonanza d'insieme in nome di quel denominatore comune che si chiama la poesia. Leone Tolstoi nel suo celebre libro «Che cos'è l'Arte?» racconta di avere assistito a una rappresentazione del Sigfrido di Wagner, e di essere fuggito a metà del 2° atto, irritato da tutto ciò che di assurdo falso e ridicolo vi era nell'apparato scenico, meccanismi, truccature ecc., oltre che dal poema, dalla musica e dalla loro unione. Ora, in questo fatto non si può se non constatare che è mancata al grande romanziere russo, o per eccesso di controllo critico o per prevenzioni d'altro genere, la facoltà di lasciarsi rapire dalla poesia, di lasciarsi trasportare come un fanciullo nel regno dei sogni. E qui ancora una volta occorre insistere su la necessità di questo abbandono di chi affronta per goderla (non per studiarla) un'opera d'arte. Beati coloro che sanno sognare ad occhi aperti, che sanno tornare fanciulli ed astrarsi fino a fondere il fittizio col reale e, se è necessario, andare al di là nel regno dello spirito puro; proprio come un fanciullo trasforma un lurido fantoccio di stracci in una fata meravigliosa, un cavallino di legno in un vero puledro puro sangue, una commedia di burattini in una vicenda reale, pochi fili d'erba in un incantevole giardino fiorito.

Ma tutto questo non passò per la mente di Tolstoi, e meno che meno per quella di Mario Pilo, pel quale l'emozione artistica non è un fatto dello spirito: «è nei visceri - dice egli - che ha sede il fenomeno emozionale» (p. 123). Il Pilo è su la scia di quei materialisti i quali, come il Patrizi, vedono nell'estetica tre aspetti: estetica sensoria, estetica intellettuale, estetica emotiva, e che, in origine, si collegano alla teoria di Carlo Darwin, secondo la quale la musica nasce dall'istinto di seduzione amorosa con tutte le sue conseguenze, dalla gelosia alla gioia del trionfo, che si verifica in ogni animale, e che dagli animali è trasmesso per ereditarietà all'uomo. Il fisiologo L. Mariano Patrizi affermava che «L'emozione estetica si rivela tanto più nobile quanto più differisce nell'intimo meccanismo fisio-psicologico dalle emozioni quotidiane, che sono patrimonio di ogni animale»[05]. È chiaro che avrebbe dovuto dire che le emozioni estetiche si rivelano tali solo quando differiscono da quelle animalesche. Ma egli invece confuse, come tutti i materialisti, l'emozione fisica del suono con l'emozione estetica della forma musicale, per concludere che la Musica è arte inferiore decadente, o «di cuore», interpretando questa indicazione non in senso affettivo spirituale, ma come l'insieme dei «moti del muscolo cardiaco e de' suoi condotti, del respiro e di altri apparati vegetativi». Essa ricerca «oltre e più che la psiche, le viscere umane». È vero purtroppo che moltissimi si lasciano commuovere più dai fenomeni sensoriali del suono che non dalle immagini musicali (motivi, armonie) e dalle forme (sviluppi, architetture); ed è questa appunto una delle maggiori difficoltà che incontra chi vuol ascoltare musica: saper superare l'elemento puramente fisico-sonoro e astrarre da ogni emozione corporea per elevarsi verso l'emozione estetica; saper interpretare anche l'elemento sensoriale in funzione artistica; in una parola, trasfigurare ogni elemento fisico in elemento spirituale. Ecco perché tante persone, anche tra quelle che si illudono di sentire o capire la musica, ne restano in realtà lontanissimi. Che l'opera d'arte penetri in noi attraverso i sensi e che dalla commozione sensoriale noi dobbiamo risalire all'emozione estetica, è fuori dubbio; ma il semplice godimento dei sensi è tanto lontano dall'emozione estetica quanto lo sono i pensieri logici morali sociali e i ricordi storici o personali che l'opera d'arte può far scaturire dalla nostra intelligenza. Con che crediamo di avere a sufficienza precisata la nostra posizione nei rapporti dell'indirizzo estetico materialista[06].

Una certa affinità con le teorie suesposte hanno anche le opinioni musicali di Erberto Spencer, il quale, ad esempio, afferma che la Musica nasce dal discorso commosso, e che la melodia è l'ultima manifestazione di una lunga evoluzione. Ma anche il linguaggio commosso nasce dalla commozione. Appena essa raggiunge un certo grado di intensità, il canto sgorga naturalmente, fors'anche prima della parola. Tuttavia, egli afferma, «sembra impossibile spiegare perché certi gruppi di note sono adatti o no a uno scopo o a un altro»[07].

Quanto a Leone Tolstoi egli concepisce l'Arte in funzione della Morale, perciò egli se la prende con la Musica in quanto, specialmente quella strumentale, incita l'uomo «a godere la vita». La Musica è per Tolstoi «il mezzo più raffinato di voluttà» e su tale affermazione impernia il suo famoso romanzo «La Sonata a Kreutzer», in quanto questa, e in particolar modo il 1° tempo, secondo l'opinione del terribile russo, eccita alla libidine e all'adulterio. Il melodramma è da lui condannato per le inutili sofferenze e l'abbrutimento morale e intellettuale in cui, a parer suo, è gettata tutta la folla degli esecutori. E si chiede disgustato: «Perché in tutti i giorni, in tutte le città, da un capo all'altro del mondo civile, si ripetono queste sciocchezze?» Severo con Beethoven, cita Wagner come tipico esempio della contraffazione dell'arte. Nega alla Musica ogni capacità di esprimere sentimenti religiosi e ogni possibilità di fusione tra essa e la poesia.

L'opinione tolstoiana che poesia e musica non possano fondersi contrasta con quella di un esteta francese, Lionel Dauriac, il quale invece pensa che la musica privata delle parole, sia l'arte più inespressiva che esista. Senza il significato che le conferiscono i versi su cui fu composta - dice egli - la musica non avrà più nulla da dire né al cervello, né al cuore, come (e qui il Dauriac dà nelle affermazioni più strabilianti) non l'ha una fuga di Bach o una Sonata di Beethoven. E paragona le «sensazioni» date dalla musica pura alle sensazioni tattili e gustative! Strana mescolanza di oggettivismo e di sensualismo.

Di arte musicale antiespressiva, nel senso di antisentimentale e antiromantica, ci parla invece Edoardo Hanslick nel suo celebre saggio, «Del Bello nella Musica»[08]. Infatti i cardini fondamentali su cui poggia la teoria estetica dell'Hanslick sono i due seguenti:

  1. la musica non contiene nessuna espressione di sentimenti;
  2. l'essenza artistica della musica coincide con la sua tecnica. Era questa la naturale reazione a quelle teorie della musica-sentimento che presumevano di individuare in ogni melodia, in ogni frase, in ogni inciso musicale, uno stato d'animo ben definito, e che condussero, ad esempio Giovanni Mattheson (sec. XVIII) a formulare queste specie di norme: «La passione che deve esprimersi in una Corrente è la speranza... La Sarabanda non ha da esprimere altra passione che l'ambizione... Nel concerto grosso dovrà dominare la voluttà... La Ciaccona deve esprimere la sazietà, l'ouverture la magnanimità» !

Non confuteremo la concezione estetica dell'Hanslick, la quale ebbe numerosi e cospicui oppositori, ed anche recentemente trovò una precisa ed esauriente confutazione nel volume di Alfredo Parente «La Musica e le Arti» (cap. VII: Il Formalismo puro). Osserviamo però che l'Hanslick nelle sue negazioni contro la musica sentimentale non giunse mai fino al punto di fare della Musica un'arte totalmente inespressiva, un puro decorativismo sonoro: affermazione per lo meno esagerata di qualche interprete dell'Hanslick, quale, ad esempio, Enrico Panzacchi. Questi infatti pensava, portando le teorie dell'Hanslick al di là del limite loro assegnato dal musicologo di Praga, che la musica non avesse altro significato che la bellezza del proprio disegno, come un arabesco sonoro. Il Panzacchi a sostegno di ciò citava il fatto di poter dire se è bella o brutta una musica di cui si ignora la natura, se cioè sia d'opera, di concerto o d'altra forma musicale. «Quella musica - esclama il Panzacchi - mi piace molto o poco così come io la sento, nel suo mero prestigio di modulazioni, di accordi, di ritmi, astrazione fatta da ogni idea e da ogni sentimento»[09]. Come, con simile concezione, potesse essere entusiasta di Wagner resta un mistero!

Partendo da una posizione più arretrata, e cioè dal naturalismo spenceriano, Luigi Alberto Villanis, nel suo «Saggio di psicologia musicale», arriva alla concezione della Musica come espressione del moto. Se - dice il Villanis - «la vita si riassume in un adattarsi continuo di rapporti interni a rapporti esterni: se l'azione esterna giunge a noi per effetto di eccitazione sensoriale: se questa sensazione, alla sua volta, risulta da una quantità di moto vibratorio comunicato ai nostri nervi terminali, che costituiscono quasi le sentinelle avanzate dello spirito negli organi del senso: in ultima analisi tutto si verrà riducendo ad una questione di movimento; ed il filosofo [Bern. de Saint-Pierre] potrà con ragione concludere che «Le mouvement est l'expression de la vie»[10]. L'Hanslick accenna pure a questa concezione là dove afferma che la Musica «può imitare il moto d'un processo psichico secondo le fasi: rapido, lento, forte, debole, crescendo, morendo... L'idea del movimento è stata finora sensibilmente negletta nello studio dell'essenza e degli effetti della musica; essa ci pare la più importante e la più feconda»[11]. Il Villanis riprende e sviluppa questo spunto attribuendo al solo movimento, da quello puramente vibratorio dei suoni, al ritmo al tempo al disegno della frase e al moto dell'accompagnamento, al colore, ogni facoltà espressiva della Musica.

Queste teorie sono agli antipodi di quelle dei sentimentali, per esempio di Hugo Riemann, il quale, riprendendo il concetto di Giovanni Herder che la Musica sia espressione di sentimenti umani, afferma che essa è «un moyen d'exprimer les mouvements les plus intimes de l'àme humaine, et de les communiquer à nos semblables»[12]. Distingue poi forma da contenuto: «l'elemento formale - egli dice - non è che il mezzo per trasmettere il contenuto»[13].

Ben altra cosa è la Musica per Arturo Schopenhauer[14]. Essa si indirizza alla sensibilità direttamente, senza l'intermediario delle facoltà rappresentative, parla un linguaggio suo proprio la cui comprensione non richiede il soccorso di concetti ed è di intelligibilità immediata. Schopenhauer scopre nella Musica un'idea del mondo, inesplicabile in concetti verbali. Essa ha per oggetto i moti della volontà trasportati nel dominio della pura rappresentazione; e ci parla dell'essenza, mentre le altre arti ci parlano solo dell'apparenza. I sentimenti (gioia, dolore, ecc.) sono espressi in astratto nella loro essenza, astraendo da ogni causa e da ogni accessorio.

La Musica, avendo per oggetto la volontà, è dunque un'arte metafisica, poiché la metafisica è per Schopenhauer la scienza della realtà, e la realtà è la volontà. Schopenhauer condanna poi il melodramma in quanto accumulazione di mezzi e simultaneità di impressioni differenti; condanna le sonorità di grandi masse vocali e strumentali, e vuole che la Musica non si allontani dalla melodia nella sua forma più semplice, nella sua purità nativa.

Su un terreno storico e sociale muove invece Jules Combarieu[15], pel quale ogni forma della Musica nasce da adattamenti alla vita sociale e alle sue costumanze. Ogni sua evoluzione è determinata dall'evoluzione sociale. Anch'egli, come i naturalisti, si sforza di dimostrare un parallelismo, in realtà soltanto cerebrale, fra i fenomeni della natura organica e la creazione musicale. Finisce per affermare che non è possibile comprendere, ad esempio, Beethoven se non si ammette per definizione che «la Musica è l'arte di pensare con dei suoni», fatto inaccettabile per la nessuna esattezza concettuale di quello che il Combarieu chiama «pensiero musicale», mentre la parola pensare suppone concretezza di idee esprimibili verbalmente. Inoltre il Combarieu scarta dalla sua deinizione della Musica l'emozione estetica che è il fatto principale.

Il concetto dell'unità di contenuto e forma, negato, come s'è detto, dal Riemann, è affermato invece da Gustavo Flaubert.

Teofilo Gautier, il quale non capiva la Musica e non sentiva neppure la differenza tra una nota e l'altra, esponendo una teorica generale dell'Arte afferma l'indipendenza di essa da ogni scopo pratico, morale, politico, religioso, educativo: «tout artiste qui se propose autre chose que le beau - scrive - n'est pas un artiste». L'argomento per lui non ha importanza, e l'artista si rivela tanto più grande, quanto più riesce ad esprimere soggetti tenui. Verdi dirà poi: «Può essere opera d'arte tanto una canzonetta quanto un gran finale d'opera», prevenendo di qualche decennio il concetto del Croce: «Una piccola poesia è esteticamente pari ad un poema».

Il Gautier è ugualmente ostile alle regole che tarpano ogni libertà d'espressione, come alla faciloneria che è sinonimo di sciattezza e conduce all'approssimativo anziché al compiuto. È dunque, come sarà poi pel Croce, la forma che importa.

Agli antipodi del Gautier, fu Giuseppe Mazzini, il quale, nella sua Filosofia della Musica poneva questa non solo come «vincolo tra gli uomini e il cielo», ma le prefiggeva «un alto intento sociale ponendola a sacerdote di morale rigenerazione». Con Benedetto Croce il problema estetico non è più esclusivamente musicale, o pittorico, o poetico, ma è un problema generale, unitario: non vi sono tante estetiche quante sono le arti:

ve n'è una sola i cui principi sono comuni a tutte.

Pel Croce l'arte è intuizione; non è un fatto fisico né utilitario, non si identifica col piacere ma vi si accompagna; non è un atto morale, e neppure è conoscenza concettuale. L'opera d'arte è «un sentimento gagliardo, che si è fatto rappresentazione nitidissima»[16]. «Ciò che ammiriamo nelle genuine opere d'arte è la perfetta forma fantastica che assume uno stato d'animo» (pag. 42). Inoltre il Croce afferma la perfetta identità fra contenuto e forma e nega ogni possibilità di distinzione dei generi d'arte (per la Musica: sacro, drammatico, lirico, da camera, ecc.).

Entro l'orbita del Croce, Alfredo Parente[17] fa nascere la Musica dal «bisogno dell'uomo primitivo di realizzare il proprio mondo interiore» (pag. 6); nega che essa sia espressione di sentimento in generale: «i sentimenti espressi dai musicisti non sono fluttuanti ed inafferrabili, ma concreti come la loro vita stessa» (pag. 76); e afferma che nell'unità fondamentale che lega tutte le arti, la Musica è «antiverista e antirealista per eccellenza» (pag. 116).

Col Parente siamo giunti alla concezione estetica più moderna della Musica.

Resta ben fermo, dunque, che l'opera d'arte non ha per scopo il piacere sensoriale, benché esista anche questo. Se il piacere fosse lo scopo dell'Arte, la morbidezza d'un velluto, dei suoni molli, dei colori vivaci, un manicaretto dolce, sarebbero già di per sé dei fatti artistici. Non ha scopo didattico: una lezione, una guida turistica o geografica, un testo di fìsica, se non sono animati da un linguaggio poetico, in quanto erudiscono non sono arte, come non lo è il concetto che due cose uguali ad una terza sono uguali fra di loro, poiché l'Arte non deve dare concetti, ma emozioni liriche: poesia; e quanto a poesia fino dal 1604 Orazio Vecchi affermava che «tanto è poesia la musica, quanto l'istessa poesia», ponendo con questa affermazione le due arti su uno stesso piano. La musica non ha scopo morale: la lettera di un padre che raccomanda al figlio di non sperperare il denaro, una qualsiasi enumerazione di verità morali, non sono arte, mentre arte può farsi anche con un soggetto immorale, quando tocchi la fantasia, la quale è la più alta facoltà dello spirito.

L'Arte non deve neppure divertire, «parola odiosa per un artista», come diceva Verdi, se il divertimento è sensuale. L'Arte non è imitazione della Natura; se si ammettesse questo concetto veristico-materialista dell'Arte si arriverebbe logicamente alla conclusione assurda che, siccome la realtà è sempre più esatta di ogni imitazione, il vero è la più bella opera d'arte; mentre è noto che l'opera d'arte può anche essere inverosimile. La verosimiglianza dell'azione drammatica è inutile all'opera d'arte. Non è verosimile, ad esempio, che si muoia cantando, ma la morte d'Otello nell'opera di Verdi è altissima forma d'arte. Perché? Perché è trasfigurazione della realtà, sollevamento di un fatto reale in un'atmosfera di poesia e di suono: spiritualizzazione; e lo spirito è la realtà più alta della vita.

Capitolo III: Gli elementi del linguaggio musicale [Indice]

I. - Il ritmo

Per gustare la musica non è strettamente necessario conoscere la grammatica musicale, tuttavia crediamo che qualche cenno di taluni elementi possa giovare ed anche soddisfare la curiosità. Per esempio: che cosa fa un direttore d'orchestra, di coro o di banda con quei movimenti del braccio, la cui mano è armata quasi sempre di una bacchetta per rendere più precisi e meglio visibili tali movimenti? Egli batte il tempo, divide cioè dei brevi periodi musicali (che sul rigo risultano chiusi fra due sbarrette verticali, e che sono detti battute) in un certo numero di misure pari o dispari che noi chiamiamo quarti ( 4/4 3/4 ecc. ) o ottavi ( 6/8 9/8 ecc.). Tali valori costituiscono appunto il tempo. Il direttore, coi suoi movimenti, indica per tal modo agli esecutori un elemento fondamentale della Musica, e uno dei costituenti essenziali del ritmo.

Naturalmente non è solo questo il compito del «Maestro Direttore»; egli esplica un'attività ben più vasta. Infatti, non solo tutti gli esecutori debbono obbedire esattamente al tempo da lui segnato, ma debbono seguirne le intenzioni interpretative, che si esplicano con particolari movimenti e segni, anche dell'altra mano libera, e talvolta perfino della testa e degli occhi. Tali movimenti sintetizzano schematicamente i consigli e gli schiarimenti dati a voce durante le prove.

Il direttore deve poi dare l'entrata agli esecutori, cantanti, coristi, strumentisti, momentaneamente in riposo, cioè deve loro indicare il momento preciso dell'attacco; deve curare l'esecuzione degli accenti e dei coloriti; l'equilibrio, la fusione e l'armonia non solo fra i vari elementi dell'orchestra, ma, nell'esecuzione di composizioni strumentali e vocali, anche fra l'orchestra, i solisti e le masse corali; e in ciò sta appunto la sua funzione di concertatore. Ma la responsabilità maggiore è quella dell'interpretazione dell'opera che si eseguisce, interpretazione che esige che gli esecutori non solo facciano con esattezza tutto quello che l'autore ha scritto, ma lo vivifichino secondo lo spirito. Il che implica nei singoli interpreti, e soprattutto nel direttore, la conoscenza perfetta dell'opera nel suo carattere generale e in ogni suo dettaglio particolare, e la conoscenza dello stile dell'autore, ciò che richiede la conoscenza della sua nazionalità, dell'epoca storica in cui l'opera fu scritta, del gusto in essa dominante, delle eventuali intenzioni del compositore o della scuola a cui egli appartenne. Cosicché il direttore deve in certo modo rivivere in sé e ricreare l'opera d'arte momento per momento, palpitando di tutte le emozioni che attraversarono l'animo dell'autore durante la creazione. Se si tratta di opera teatrale, in quest'attività egli è coadiuvato su la scena dai maestri sostituti, dal maestro del coro, dal regista o direttore di scena pel movimento delle masse, dagli attrezzisti, dai meccanici, dai vestiaristi, dagli scenografi, dagli elettricisti, e perfino dall'umile e tanto utile suggeritore, il quale, dentro la sua buca o dietro a una quinta, fa da anello di congiunzione (delicatissimo anello) tra il direttore sul podio orchestrale e gli esecutori su la scena. Il direttore e concertatore d'orchestra deve dunque farsi obbedire da tutti con quell'autorità che gli proviene in parte dalla responsabilità dell'ufficio che adempie, e in gran parte dal fascino che emana dalla sua personalità artistica. Gli esecutori debbono sentire in lui una guida sapiente e sicura, animata dal più grande fervore per l'opera d'arte che si eseguisce; debbono sentirsi trascinati da questo fervore che si esprime con la esattezza energica del gesto e con la parola chiara e persuasiva. È tutto questo che ha formato la grandezza di un Arturo Toscanini! Di solito, dopo pochi minuti i professori d'orchestra sanno già con chi hanno a che fare; e se il direttore non ha saputo stabilire subito la corrente magnetica che deve avvincerli a lui come un sol uomo, sicché tutti gli istrumenti rispondano pronti come le diverse canne di un organo al tocco della tastiera, l'orchestra non sarà che una macchina bruta. Quando noi assistiamo, come purtroppo spesso avviene, ad un'esecuzione fredda, scolorita e scucita, in cui palcoscenico e orchestra vanno ciascuno per proprio conto, dove i cantanti prendono la mano al direttore sovrapponendo al suo i propri gusti interpretativi o i propri capricci, in maniera che vengono a mancare la linea, l'unità organica di stile e l'affiatamento materiale, la colpa (a parte la scarsità di prove) è sempre nella debolezza della «bacchetta». In questi casi il direttore si limita a battere il tempo solamente e non interpreta.

Orbene, è appunto dalla frase «battere il tempo» che è venuta la parola battuta. Per esempio, volendo battere il tempo della frase seguente

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occorre fare quattro movimenti: due in battere e due in levare, poiché la battura è in tempo pari, e precisamente divisibile in quattro quarti. Tali movimenti si possono indicare schematicamente col seguente disegno:

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I numeri dispari indicano i tempi forti sui quali cade l'accento, e i pari i tempi deboli. Se invece si batte il tempo della cabaletta «Di quella pira», dovremo fare tre movimenti, due in battere e uno in levare, per ogni battuta, poiché essa è in tempo dispari, e precisamente di tre quarti:

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Tali movimenti potranno essere rappresentati dal seguente disegno schematico:

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dove il numero 1 rappresenta il tempo forte.

Non sempre le melodie incominciano in tempo forte; esse possono iniziare anche su un tempo debole, generalmente l'ultimo della battuta precedente, come nel caso di «Va pensiero», il che vien detto anacrusi:

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Ognuna delle melodie dianzi citate, come qualunque altra che potremmo pensare, è sorretta da un ritmo, e non è concepibile disegno alcuno privo di esso. Il ritmo è costituito da una successione di suoni o rumori, di durata uguale o diversa, distribuiti in periodi regolari, alternati o no a pause.

Ne consegue una scrittura musicale (come s'è già visto negli esempi precedenti) a note e pause di diverso valore: note della durata di quattro quarti pag032_04 dette semibrevi, di due quarti pag032_05 dette minime, di un quarto pag032_06 dette semiminime, di mezzo quarto (un ottavo) pag033_01 dette crome, di un sedicesimo pag033_02 dette semicrome, di un trentaduesimo pag033_03 dette biscrome, e di un sessantaquattresimo pag033_04 dette semibiscrome. E evidente che per formare il valore di durata di una semibreve, occorreranno due minime, o quattro semiminime, o otto crome, o sedici semicrome, o trentadue biscrome, o sessantaquattro semibiscrome. A cui corrispondono i segni di pause:

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Per i valori dispari si aggiunge alla nota un punto, il quale ne aumenta la durata della metà:

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(1/4 e mezzo, come se fosse scritto pag033_07, dove la legatura indica che le due note valgono come una nota sola, tenuta per la durata dei valori indicati), e così via.

Se indichiamo le note brevi e le lunghe con i segni caratteristici della prosodia ( pag033_08 breve; pag033_09 lunga ) e le pause con uno o più virgole aventi ciascuna valore uguale a una lunga, noi schematizzeremo così, a mo' d'esempio, qualche ritmo:

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Pensate a un portico ad archi tutti uguali, dove il segno pag033_11 rappresenta la colonna, e la pausa il vuoto dell'arco: esso è un ritmo del tipo ora schematizzato. I ritmi architettonici sono i più facili da percepire, e per questo forse la musica viene tanto spesso paragonata all'architettura; ma in realtà nessun'arte può fare a meno dell'elemento «ritmo». Ecco altri schemi di ritmi musicali fra i più comuni:

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Se indichiamo col segno pag034_02 un valore di durata metà di quello segnato pag034_03, e se a quest'ultimo aggiungiamo un punto accrescendone la durata di un valore pari a metà della sua durata normale, potremo ottenere altri schemi ritmici, come, ad esempio, quello della romanza «Spirto gentil»:

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(la legatura pag034_05 posta su le due lunghe fa di esse una nota sola di valore doppio: due quarti); o quello del coro «Va pensiero»:

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il segno pag034_07 posto sopra le tre brevi indica una terzina, cioè un gruppo di tre note (diverse di suono nell'esempio citato) aventi complessivamente il valore di una lunga: di un quarto.

È ovvio che si possono ottenere combinazioni ritmiche pressoché infinite.

Quanto agli accenti forti e deboli, la loro posizione modifica il carattere del ritmo e perciò del disegno melodico. Nell'esempio seguente:

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l'accento cade sul 2° quarto, tempo debole. È un ritmo incerto. Ma basta spostare la sbarretta divisoria della battuta, senza cambiare il valore delle note, per avere un ritmo diverso, sincopato, ansimante, come il seguente:

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Se invece dividiamo la battuta come nel seguente esempio:

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avremo un ritmo normale, con accento nel tempo forte: un ritmo energico.

Dobbiamo poi tener presente che i movimenti fatti dal direttore d'orchestra per segnare il tempo possono essere lenti o rapidi, pur rimanendo costante il tempo. Questo ci porta di fronte a un altro elemento fra i più importanti della musica: il movimento. Esso viene segnato con le parole: Largo, Adagio, Lento, Moderato, Andante, Allegro, Vivace, Presto, e simili, non esclusi i diminutivi, i vezzeggiativi, i superlativi (Andantino, Allegretto, Prestissimo) per precisare movimenti intermedi o estremi; e con altre indicazioni caratteristiche varie (animato, agitato, mosso, maestoso, marziale, con grazia, con brio, ecc.) nonché con le gradazioni di velocità: accelerando, incalzando, stentato, ritardando, morendo).

Ora, vi sono compositori nei quali l'elemento ritmo ha un valore massimo. Tali sono, ad esempio, Domenico Scarlatti, Rossini, Beethoven, Strawinski. Pensate a una sonata di Scarlatti: la sua vita risiede per tre quarti nella scorrevolezza del ritmo. Ciò che in una sinfonia di Rossini ci pervade e ci domina fino all'ebbrezza è la sua ritmica indiavolata. Ricordate la V Sinfonia di Beethoven: il tema ritmico così energicamente martellante, ci afferra fino dalla sua prima presentazione e ci trasporta di colpo in un mondo trascendentale ove (ci abbia o no pensato l'autore) il destino sembra veramente battere tremendi richiami al nostro cuore. Pari forza di ebbrezza gioiosa ha il ritmo nel 1° tempo della VII Sinfonia dello stesso Beethoven, che è appunto ciò per cui Wagner chiamò questa composizione «l'apoteosi del ritmo». Ma in Wagner il ritmo del martellare nella fucina dei Nibelunghi dà invece la sensazione di una indefessa operosità che ha qualcosa di assillante, quasi un incubo. Se ascoltiamo il Petruska strawinskiano, la ridda dei ritmi di danza, pesanti, violenti, anche brutali, ci ossessiona come una frenesia. Né meno ossessionante è nel Bolero di Ravel l'insistenza del ritmo, che unito alla snervante melodia e al crescendo, in una atmosfera strumentale sempre più arroventata e maliarda, porta la nostra sensibilità allo spasimo. Citiamo ancora come esempi di potenza ritmica il III Concerto Brandeburghese di Bach e il 1° tempo del Concerto in re min. di Vivaldi.

Cito delle composizioni fra le più note, ma tutto Bach e Vivaldi si impongono, oltre che per la luminosità delle idee, per la forza che si sprigiona dall'intima vita ritmica. Quando il ritmo, pure nel variare delle figurazioni melodiche, si mantiene rapido e uniforme, la composizione dà allora l'impressione di un inesauribile fluire, di un correre veloce senza sosta e senza fine che, per analogia di richiamo, le meritò la denominazione di Moto perpetuo. Tale è, per esempio, quello celebre di Paganini che non è solo virtuosismo, in quanto attraverso alla bravura meccanica raggiunge un indiscutibile effetto dinamico spirituale. Ricordiamo infine come, unitamente al colore strumentale, il ritmo sia tanta parte della rappresentazione della tinta ambientale nell'opera Carmen di Bizet. Si ripensi specialmente al motivo d'apertura del preludio (poi tante volte ripetuto nel corso dell'ultimo atto), al coro dei monelli, all'Habanera «È l'amor uno strano augello», alla Seguidilla «Presso il bastion di Siviglia», alla «Canzone boema» con cui si apre il 2° atto, al marcatissimo «Toreador, attento», alla canzone-danza, al motivo dei contrabbandieri nel 3° atto, e agli intermezzi al 2° e al 4° atto.

Fra gli effetti ritmici più patetici e affannosi è da tener presente il sincopato, del quale oggi si abusa tanto in canzonette, fox-trott e jazz che acquistano per esso un carattere stupidamente singhiozzante ed epilettoide. Il sincopato si ottiene iniziando la nota sul tempo debole, o su la parte debole di una nota (seconda metà) e prolungandola sul tempo forte successivo. Ne risulta perciò un contrattempo. Nei compositori moderni, a parte l'abuso dianzi segnalato, la sincope è adoperata di frequente per accentuare il carattere di ansia e di turbamento di una melodia. Il motivo d'amore con cui si apre la Fedora di Giordano è accompagnato da un ansimante sincopato che ci introduce subito nello stato di pathos idoneo ad ambientare il dramma. Parimenti Puccini nella Tosca, dopo le prime tre batture a tutta forza in cui gli ottoni annunciano il tema imperioso e prepotente di Scarpia, l'orchestra prorompe in un sincopato «vivacissimo con violenza» destinato a raffigurarci la trepidazione paurosa di Angelotti che, fuggiasco dal carcere, entra ansante in chiesa per nascondersi alle ricerche della polizia. Verdi nell'Aida (atto I, parte 1ª) pone in sincopato il canto della schiava etiope sopra le parole «per chi piango? per chi prego?» a descrivere l'intimo contrasto affannoso in cui essa si dibatte tra l'amore per la patria e l'amore per Radames. E i sincopati sottolineano in orchestra quasi tutto il doloroso monologo di Aida «L'insana parola», per non placarsi che all'invocazione: «Numi pietà». Ben nota è pure l'efficacia straziante del sincopato sotto lo sconsolato pianto di Aida dopo che Amonasro l'ha gettata a terra, mentre essa implora dal padre di non maledirla. Alla fine della descrizione del terremoto che segue l'annunzio della morte di Gesù nella 1ª parte de La risurrezione di Cristo, Perosi usa con drammatica efficacia lunghe insistenti sincopi su la stessa nota, in un ritmo continuamente oscillante ora pari 2/4, ora dispari 3/4 determinando una sensazione di orrore e di stupore dolorosa. Dopo l'esempio sacro, ancora un grande esempio profano, di natura diversa. Nel 3° atto del Tristano e Isotta di Wagner, allorché si inizia il solenne e fremente inno alla notte, gli archi in sordina accompagnano con un sincopato assai prolungato, costruito su un ritmo pure vacillante, giacché ogni battuta è per due quarti in movimento dispari (due terzine) e per l'ultimo quarto pari. Anche in questo caso si determina un senso di dolce affanno (sincopi) e insieme di turbamento (squilibrio del ritmo) fortemente passionali, e che diventeranno vertigine e rapimento nelle sincopi e nelle oscillazioni ritmiche del motivo che conclude la scena, e che formerà poi il motivo della chiusa travolgente dell'opera. Ascoltate il Warum? di Schumann: la romantica frase interrogativa che non trova pace nelle risposte malinconiche del contraccanto, è tutta sostenuta da un ansioso accompagnamento sincopato che ne accresce il pathos. Nell'Appassionata di Beethoven, dopo l'esposizione dell'intero motivo e la breve cadenza, il motivo stesso ricompare spezzato e solcato da tempestose ascese di accordi sincopati che sono come pennellate tragiche, come improvvisi sussulti di un cuore in tumulto.

Un contrattempo anche più ansioso si può ottenere lasciando in pausa i tempi forti: è il caso dei «pizzicati» del violino nella 4ª variazione del secondo tempo della celebre Sonata a Kreutzer di Beethoven che gettano su lo scorrevole movimento del pianoforte dei palpiti irregolari. Anche le quartine di biscrome amputate della prima nota che udiamo nel sublime «Largo e Mesto» della Sonata n. 7 (op. 10 n. 3) per pianoforte di Beethoven costituiscono delle sincopi ansiosamente grevi d'affanno e di turbamento. E sincopi precedute da pausa sul tempo forte sono usate con veemente senso d'angoscia da Pizzetti, nel 3° atto del Fra Gherardo, allorché questi riconosce il Podestà ed il Vescovo.

Analoghi effetti di turbamento sono stati ottenuti associando simultaneamente ritmi e tempi diversi (poliritmia). Nel temporale della Sinfonia Pastorale Beethoven a un movimento pari dei violini, delle viole e dei contrabbassi ne associa uno dispari dei violoncelli (5 note di questi contro 4 di quelli). Berlioz ne La dannazione di Faust sovrappone due cori: uno di studenti che cantano in tempo 2/4, uno di soldati in tempo 6/8; ma i due movimenti bene si armonizzano, e in ciò consiste appunto la bellezza di questa scena in cui due stati d'animo diversamente gioiosi, l'uno spensierato, l'altro marziale, si fondono in unità d'effetto.

La poliritmia è diventata uno dei tanti mezzi tecnici dei compositori novecentisti, i quali così consacrano (specie nel jazz) come regola il senso di disagio e di contrasto spirituale insito in essa.

S'è accennato dianzi alle «terzine»: gruppi di tre note al posto di due, cioè senso di squilibrio, sia esso determinato da vaga ansietà o da forte agitazione o da allegrezza. Dovunque il movimento a terzine compare, ivi è un intensificarsi di passione. Quando nell'ultima scena di Carmen all'interrogazione di Don Josè «Più non m'ama il tuo cor?» la donna risponde «No, non t'amo più», un rapido movimento di terzine esprime lo scatenarsi della tempesta che sconvolge l'animo di lui. È il momento culminante della scena; dopo di che il delitto finale è una conseguenza di già preparata fin da questo istante. Nella tragica Sonata in si b. minore op. 35 di Chopin (quella con la Marcia funebre), il turbinoso ultimo tempo è tutto un movimento di terzine. Ma anche in situazioni tranquille, come nella serenità lunare del 1° tempo della Sonata per piano op. 27 n. 2 di Beethoven, appunto detta Chiaro di luna, le terzine dell'accompagnamento, per quanto calme, uguali, fluenti, portano un lieve romantico pathos, un sensibile stato di trepidazione nell'apparente quiete. Basta pensare a quello che sarebbe questa pagina senza le terzine, cioè con un accompagnamento a ritmo pari, per persuadersene.

Ora dobbiamo mettere in guardia tutti coloro che sentono parlare di musica aritmica come di una realtà. Essa non esiste. Ciò che passa per aritmico non è altro che musica a ritmo continuamente mutevole, ma se la si analizza frammento per frammento, si osserverà che il ritmo non manca. Il ritmo è un elemento fondamentale di qualunque arte; esso corrisponde nel campo dell'arte a quello che è nella vita il polso, il respiro, il moto ondoso, e - se vogliamo scendere fino all'atomo - il moto vibratorio.

Il Larghetto della 1ª Sonata in do min. op. 4 per pianoforte di Chopin è in tempo 5/4, misura che è di sua natura incerta e vacillante e perciò di tendenza aritmica perché costituita da una successione di misure minori 3/4 2/4 (od anche, in altri casi, 2/4 3/4. Ma alle battute 23-26 la tendenza aritmica si accentua per la fluttuazione della melodia in gruppi ritmici continuamente mutevoli, ora pari ora dispari in varia maniera, su un basso costantemente pari. L'impressione che se ne riceve è quella di un vero e proprio smarrimento, di un mancamento come se il cuore diventasse a un tratto irregolare nei suoi battiti e fossimo colti da improvvisa vertigine. Eppure, anche in questo caso, l'analisi ci rivela la struttura intimamente e perfettamente ritmica di ogni singolo frammento costitutivo.

Su questa via nei compositori novecentisti la frattura del ritmo giunge all'inverosimile, e per eccessivo desiderio di sganciarsi dal passato l'aritmia diviene la regola, conferendo alle loro musiche un carattere di inquietudine e di anormalità che, per la sua insistenza, tocca la cardiopatia e la nevrosi. Ciò si avverte in modo più sensibile in quegli autori i quali, come Strawinski, fanno marcare fortemente il ritmo dagli istrumenti a percussione (punto?)

Anche il canto gregoriano è solo in apparenza aritmico. La mancanza di una divisione del periodo in battute con le relative stanghette divisorie non ha nessuna importanza. Il canto gregoriano ha anch'esso un suo ritmo interiore fluttuante, e in ciò sta la sua non partecipazione agli affetti umani, la sua espressione ultraterrena ed extratemporale. Da questa mancanza di periodetti chiusi deriva quel carattere impersonale, lontano dal pathos proprio dei periodi ritmici esatti e ripetuti, che lo fa sembrare uscito dalle profondità più remote dell'universo, quasi voce dell'al di là che ammonisce, richiama e conforta i viventi, quasi preghiera che salga dalle tombe o che discenda dal cielo. Da ciò quell'atmosfera spirituale sacra che noi vi sentiamo. Quando Verdi, nel 4° atto dell'Aida, ha voluto dare all'invocazione dei Sacerdoti «Spirto del Nume, sovra noi discendi» un'espressione altamente religiosa, non ha fatto altro che imitare la cantilena gregoriana a ritmo libero. Respighi nell'ultimo atto de La Fiamma ha fatto intonare ai cori un inno sacro, ma dovendo sostenerlo con l'orchestra sia per la sua lunghezza, sia per ottenere effetti di più imponente sonorità, ha dovuto dividere il canto in periodi ritmici esatti. Però ha scelto la battuta più ampia: quella segnata 4/2, che comprende ben otto quarti. In tal modo ha potuto disporre di quella maggiore libertà ritmica che gli consentiva di dare alle frasi un andamento imitante quello libero dei canti della chiesa.

Non si insisterà mai abbastanza su l'importanza essenziale del ritmo e del tempo. Sono il ritmo e il tempo che imprimono il carattere a una composizione. Pensate a una melodia ben nota; per esempio «Un bel dì vedremo» della pucciniana Butterfly: essa è in 3/4. Ora proviamoci a trasformare la battuta in 4/4 allungando la prima nota di un quarto, lasciando intatta la melodia, e acceleriamo il movimento, da Andante molto calmo (come ha segnato l'autore) a Tempo di Marcia un po' svelto. Voi otterrete un risultato assai buffo: quella ch'era una melodia sognante e tenera diventa grottescamente sciatta e balorda. Possiamo fare un'altra esperienza (barbaramente profanatrice fin che si vuole, ma utile al nostro scopo): senza cambiare né la melodia né il movimento della romanza «Celeste Aida»:

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cambiamone il ritmo:

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oppure cambiamone anche il tempo e il movimento

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Se non sapete leggere la musica fatevi suonare o cantare questi due frammenti di frase (inutile svolgerla tutta) e vi accorgerete subito come ci sia qualcosa che non va, qualcosa di stranamente zoppicante nella prima deformazione, e di scioccamente gaio nella seconda; la frase ha perduto quella distensione intima che la rendeva così profondamente patetica, ed ha parimenti perduto tutto il suo profumo di poesia.

Ma non sempre cambiare ritmo e movimento ad una frase vuol dire peggiorarne l'espressione. Talvolta le mutazioni di ritmo possono migliorarla o anche semplicemente arricchirla. Eccone un esempio. Ricordate il valzerino intonato dai minatori nel 1° atto de La fanciulla del West di Puccini, allorché Minnie e Johnson s'avviano con gli altri alla danza? È un motivetto modesto, quasi volgaruccio. Ebbene noi lo risentiamo all'inizio del duetto che chiude l'atto, disteso in un Andante sostenuto, cantato vagamente dall'oboe sopra un dolce oscillare di terzine, e l'impressione che ne riceviamo è quella di un sognante abbandono: l'eco della danza trasfigurata crea ora l'atmosfera amorosa in cui si svolge il dialogo, per assumere una tinta più vivamente passionale allorché la melodia passerà alla voce del tenore su le parole «Quello che tacete me l'ha detto il cor». Nell'Arianna e Barbableue di Paul Dukas, alla dodicesima battuta dell'introduzione appare il tema della protagonista. Arianna è la datrice di luce, colei che apre le porte del mistero. Al primo apparire del suo tema, esso è ancora opaco e in penombra, ma come Arianna spalanca le sei porte da cui prorompono cascate di ametiste, di zaffiri, di perle, di smeraldi, di rubini e di diamanti, il tema balza agli acuti, e con mutazioni continue di ritmo sprigiona barbagli di luce sempre più vividi e abbacinanti. E anche queste sono pagine in cui il ritmo, accompagnato da uno strumentale di splendente luminosità, genera miracolose trasfigurazioni.

Infine, su le mutazioni ritmiche di un tema è basata gran parte della tecnica delle «Variazioni». Quello ch'era un motivo sereno può diventare di volta in volta gioioso, funebre, meditativo, marziale, affannoso, tenero, grandioso, originando un vero caleidoscopio musicale. Ricordiamo, ad esempio, le 32 variazioni in do min. di Beethoven, quelle del 2° tempo della Sonata a Kreutzer dello stesso Beethoven, le Variazioni sinfoniche di Frank, le Variazioni su un tema di Haydn di Brahms, e simili. Va però tenuto presente che in queste composizioni non è solo il ritmo che varia, ma anche la linea melodica, l'armonizzazione e (nelle composizioni con o per orchestra) anche lo strumentale.

Capitolo IV: Gli elementi del linguaggio musicale [Indice]

2. - Il tono e la melodia

Ogni composizione musicale è imperniata su una tonalità che ne forma come la base statica. Ogni deviazione da essa è necessariamente transitoria, ma alla fine la tonalità fondamentale prevale, e in essa la composizione normalmente conclude. Ecco perché si parla di Sonata, Trio, Quartetto, Sinfonia e simili in fa maggiore, in re minore e via dicendo. Se noi facciamo risuonare simultaneamente su la tastiera del pianoforte le note, do, mi, sol, do

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noi abbiamo toccato l'accordo della tonalità di do maggiore.

Ciascuna tonalità trova la sua origine in una scala che comprende sette note successive. L'ottava nota non fa che ripetere più in alto (o più in basso se si retrocede) la nota di partenza (tonica):

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Quando nell'intervallo fra l'una e l'altra di queste note vi è posto per una nota intermedia:

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(quelle segnate in nero nell'esempio), tale intervallo viene detto di un tono intero. Si osserverà che tale nota intermedia manca fra il mi e il fa, come tra il si e il do, intervalli che vengono perciò detti di semitono. E semitoni sono pure gli intervalli fra una nota naturale e quella con accidenti (diesis nel salire, bemolli nello scendere). Quella che noi abbiamo indicata con le note chiare è la scala della tonalità di do maggiore. Se incominciamo la scala anziché dal do dalla nota sol, per conservare la stessa disposizione relativa dei toni e dei semitoni, noi saremo costretti ad aumentare di un semitono il fa, ciò che potremo fare trasformandolo in un fa diesis indicato col segno pag044_02

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Per maggiore comodità nello scrivere si preferisce mettere l'accidente dopo la chiave di violino pag044_04 o di basso pag044_05 a seconda che la scala è costituita con note del registro acuto o di quello grave. È questa la scala di sol maggiore. È ovvio che noi possiamo partire da qualunque nota della scala, e, conservando la stessa disposizione reciproca degli intervalli, aumentando il numero dei diesis, potremo costituire altre scale, tutte del modo maggiore: re maggiore con due diesis, la con tre, mi con quattro, si con cinque, fa diesis con sei, do diesis con sette.

Se ora partiamo dal fa, per conservare il semitono ancora al terzo intervallo, noi siamo costretti a fare indietreggiare la nota si di un semitono, indicando la nota arretrata di semitono col segno b detto bemolle:

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E potremo, partendo da altre note della scala, costruire altre scale bemollate, tutte nel modo maggiore: si bemolle con due bemolli, mi bemolle con tre, la bemolle con quattro, re bemolle con cinque, sol bemolle con sei, do bemolle con sette.

Se ora noi, cominciando la scala dalla nota la, spostiamo il primo semitono al secondo intervallo

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otterremo la scala di la minore. E da osservare che le note sol e fa che abbiamo diesate per conservare gli intervalli di toni interi e l'ultimo semitono al medesimo posto, nel retrocedere ritornano naturali:

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cosicché anche il semitono più alto retrocede di due intervalli.

Operando analogamente su le altre note della scala sempre coll'avvertenza di conservare la stessa disposizione relativa degli intervalli, otterremo le seguenti altre scale del modo minore: mi con un diesis, si con due, fa diesis con tre, do diesis con quattro, sol diesis con cinque, re diesis con sei, la diesis con sette; re con un bemolle, sol con due, do con tre, fa con quattro, si bemolle con cinque, mi bemolle con sei, la bemolle con sette. Tutti gli accidenti di queste tonalità si scrivono in chiave.

Abbiamo dunque in tutto 30 scale di tonalità diversa, delle quali 15 del modo maggiore, e 15 del modo minore. Ora è da notare che mentre le tonalità del modo maggiore hanno un carattere di serenità e di forza, quelle del modo minore hanno invece carattere malinconico e patetico. E, benché ciò possa sembrare strano perché tutte le tonalità maggiori come tutte le minori hanno rispettivamente la stessa disposizione degli intervalli, pure è un fatto che tra una tonalità e l'altra dello stesso modo si notano differenze espressive, un diverso ethos, per cui il compositore può preferire l'una o l'altra a seconda dell'effetto che desidera ottenere. È stato notato, ad esempio, che Mascagni, nei momenti di maggior tensione dolorosa del dramma, fu portato ad usare la tonalità di la bemolle minore, con sette bemolli: così nell'addio di Turiddu alla madre nella Cavalleria rusticana come nel duetto finale dell'Isabeau. L'ispirazione in questi casi gli indicò la tonalità più idonea ad esprimere i citati momenti drammatici, e ciò contribuì a rendere più intensa l'espressione di due fra le più belle pagine da lui composte. È la tonalità usata anche da Verdi nella desolata meditazione di Otello: «Dio, mi potevi scagliar tutti i mali»; da Beethoven nella «marcia funebre in morte di un eroe» della Sonata n. 12 op. 26 per piano, così solenne nel suo ritmo cadenzato, grondante di un dolore senza lacrime: e - nel modo maggiore di do bemolle - da Mussorgski nel tragico monologo di Boris «La mano implacabil di Dio».

Ma accade spesso che il ritmo o il movimento modifichino sensibilmente il carattere tonale di una melodia. Per esempio Rossini, nell'opera Il Signor Bruschino, per dar l'impressione comica della confusione e della paura di Bruschino figlio, che teme una solenne manesca lezione dal padre quale compenso meritato alle sue dissipazioni, lo fa entrare su un motivo a ritmo di marcia funebre e in tono minore, ma in movimento Allegro! E, naturalmente, il contrasto fra questo elemento cinematico e i precedenti, genera l'effetto comico voluto. Da ciò appare evidente come l'espressione di una composizione musicale sia determinata spesso da un complesso giuoco di elementi tecnici, e dal più o meno sapiente uso fattone dall'autore.

A volte anche il semplice passaggio dal modo minore al maggiore può creare potenti effetti espressivi. Ci limitiamo a ricordare tre superbi esempi: il primo è dato dal motivo in maggiore che si trova al centro della «marcia funebre» nella Sinfonia Eroica di Beethoven, e che introduce un senso così puro e alto di serenità e di forza per cui venne detto «il tema della consolazione». Il secondo esempio è nella «Preghiera» del Mosè di Rossini; quando all'ultima strofa appare, improvvisamente e inatteso, il modo maggiore, esso sembra proiettare dal cielo una gran luce sulle turbe oranti e far nascere in ogni cuore la fede nel miracolo. Il terzo è il finale della Norma di Bellini, allorché il padre ha concesso alla figlia colpevole il suo perdono, e allora una nuova melodia, l'estrema, si apre nel modo maggiore e s'inciela con volo liberatore, annullando ogni altro affanno, ogni dolore terreno, superando lo stesso orrore del rogo e la maledizione del popolo.

In questo secolo due nuovi sistemi si sono sviluppati e diffusi: quello politonale e quello atonale. Il primo, che parte da alcune rare esperienze del passato (per es.: il citato doppio coro degli studenti e dei soldati nella Dannazione di Faust di Berlioz, in cui gli studenti cantano in re minore e i soldati in si bem. maggiore), consiste nel far risuonare simultaneamente più tonalità; e questo non in via eccezionale, per determinate ragioni espressive, ma in via affatto normale e costante (es. Milhaud). Il risultato è quanto mai sconcertante, non solo per i continui urti dissonanti di note che non hanno nessun rapporto fra loro, ma per lo stato di disagio che proviene dall'udire simultaneamente più canti che mancano di una base comune. Nel caso dei sopracitati cori della Dannazione di Faust va notato che Berlioz ha saputo armonizzarli per modo che nessun attrito sgradevole risulti (e in ciò sta l'abilità artistica del Maestro); ma negli odierni politonalisti non appare nessuna volontà di eliminare il dissidio, anzi è evidente l'intenzione di crearlo nel modo più aspro, per un'affermazione di libertà che diventa semplicemente anarchia. Cosicché chi ascolta si trova nella necessità, non facile da risolvere, di fare la sintesi di cose inconciliabili, come se dovesse ascoltare e sforzarsi di capire due o più persone che simultaneamente gli parlano di argomenti diversi od opposti.

L'atonalismo, che si vuol far nascere (ma è affermazione arbitraria) dall'estrema instabilità tonale del cromatismo (procedimento per semitoni delle melodie e delle armonie) wagneriano, ha trovato invece la sua espressione dogmatica nella dodecafonia di Arnold Schönberg (egli, per verità, chiamava il suo sistema pan-tonalismo). In tale sistema le dodici note comprese nell'intervallo di una settima (do-si) debbono essere usate senza che alcuna di esse diventi un centro di attrazione tonale e modale. Naturalmente ciò distrugge anche ogni distinzione tra consonanza e dissonanza: tutto è dissonanza. Nel costruire una melodia (a ritmo libero) si predispongono sequenze di note (serie, da cui la denominazione di tecnica seriale data al sistema), ed altre derivate per inversioni della prima, tuttavia in modo che nessuna nota e nessun rapporto fra esse suggerisca la sensazione che esse appartengono a una determinata tonalità. Tali serie debbono figurare tanto in senso orizzontale (melodie) che verticale (accordi). Nessuna delle dodici note può essere ripetuta, fino a che non siano state usate le altre undici. Questo è sufficiente a dirci l'illogicità e l'arbitrarietà assurda e cerebrale di un sistema che impone limiti e pastoie alla libertà dell'invenzione fantastica. I motivi nascono acefali, organismi con formule al posto del cuore, vaniloqui insensati, facce senza connotati, mondi privi della forza di gravità, sentieri arzigogolati che non hanno mèta né riposo. I compositori dodecafonici sanno benissimo quale fatto artisticamente disumano sia l'atonalismo, e perciò rifiutano questa definizione, che suonerebbe come una condanna. Ciò non toglie che il risultato della dodecafonia sia il medesimo: assenza totale di tonalità. Ora, il tono e il modo sono basi su le quali poggia tutto l'edificio sonoro. Togliere queste basi e pretendere che la costruzione musicale si regga, è come dire a una persona che stia dritta e cammini dopo averle tagliato le gambe.

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I. La lezione di pianoforte. (Quadro di Matisse).

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II. Toscanini. (Disegno di Tabet).

Naturalmente il sistema «seriale» non è che una tecnica; l'arte è altra cosa. Ma sta di fatto che il sistema porta l'arte su un binario falso che non ha dato, né può dare, che musiche sommamente sgradevoli. Ad ogni modo, nulla che abbia a che fare con lo spirito della nostra razza e con le tradizioni della nostra civiltà. Ma se qualcuno, diffondendo le regole e il gusto delle forme politonali e atonali si è proposto di distruggere i valori più nostri dello spirito, questa è la strada giusta; e può darsi che ciò serva anche a certa politica sovversiva!

Se il pubblico dimostra insofferenza per questa musica, si suole rispondere che ciò significa solo che non vi si è ancora assuefatto, e che deve ascoltarla di più (un simile consiglio di sopportazione lo dava un tale a chi si lamentava di un grosso male di denti!). Ma sono ormai quasi quarant'anni che il pubblico si assoggetta all'abbrutimento di tali esperienze! Ora, nessuno nega l'utilità delle esperienze come tali, ma le esperienze sono fatti scientifici, e non artistici. L'opera d'arte è un superamento dell'esperienza tecnica; in essa la tecnica è come arsa e trasfigurata. Se questa musica, dopo quasi mezzo secolo d'esperienze (spazio di tempo più che sufficiente a qualsiasi assuefazione) suona ancora come insopportabilmente ostica e odiosamente dissonante, possiamo tranquillamente concludere che essa va contro natura. Non è che ne abbiamo ascoltata troppo poca e per troppo breve tempo; al contrario! Ne abbiamo ascoltata troppa e con troppo lunga pazienza; il risultato è sempre il medesimo: è musica repellente! Occorre ormai uscire dal carcere verso valori sociali, e soprattutto umani.

Questa musica rispecchia lo stato di squilibrio anormale in cui vive la società d'oggi, e la follia d'evasione dall'ottocento che ha preso tutti gli artisti del novecento. Ma la normalità e la salute si impongono. La musica deve sgorgare da uno stato lirico, non da un sistema tecnico, che ne è soltanto un sottinteso, un presupposto che non deve essere avvertito neppure da chi scrive, allo stesso modo che nessun scrittore pensa, scrivendo, alla grammatica e alla sintassi. La musica, come ogni arte, deve suscitare un piacere estetico, non ripugnanza e nausea; deve ridurre anche il caos a ordine, non l'ordine in caos! Ecco perché si deve reagire a questo, come ad ogni estremismo; anche a quello di chi ci vorrebbe far tornare primitivi, o almeno risospingerci al recitativo della «camerata fiorentina» o alle salmodie gregoriane.

* * *

Scrivendo, come abbiamo fatto ormai più volte, la parola «melodia» noi veniamo ad indicare un altro dei maggiori elementi della musica, certo il più popolare in quanto l'elemento melodico è di sua natura orecchiabile e cantabile. La melodia è una successione ritmica di note aventi una comune base tonale e costituenti un disegno espressivo. Solo eccezionalmente essa comporta salti di intervalli superiori all'ottava (10ª, 12ª, 14ª). Essa è poi suddivisibile in frammenti minori: periodi, frasi, incisi. È da aggiungere che i disegni ascendenti esprimono accrescimento d'energia e di gioia, senso di liberazione; i discendenti abbandono, languore, affievolimento d'energia; i salti bruschi senso di sovreccitazione e turbamento. Noi troviamo la melodia in espressioni strofiche, quindi come disegno ritmico cantabile conchiuso in sé, nelle antiche forme vocali e generalmente operistiche della canzonetta, della canzone, dell'arietta, dell'aria, della cavatina e della romanza. Le prime tre parole indicano un'espressione lieve, tenera, festosa; le tre ultime un'espressione più patetica, grave e anche drammatica.

Il periodo melodico consta in generale di 8 o 16 battute. Esaminiamo, ad esempio, un'arietta assai semplice e nota:

«Caro mio ben» del settecentista Giuseppe Giordani. La melodia comincia con un'anacrusi e si stende per otto battute comprendenti l'intera prima strofetta di quattro versi:

«Caro mio ben,
«credimi almen,
«senza di te
«languisce il cor;»

ed è costituita da tanti incisi digradanti con espressione di languore crescente. La prima frase è di quattro battute e rimane in sospeso; poi essa vien ripetuta su le stesse parole per altre quattro battute, e nella penultima il disegno assume un andamento conclusivo, benché ondeggiante per una intensa emozione. L'ultima sillaba cade su la nota fondamentale del tono, quella che comunemente vien detta la tonica.

La melodia vera e propria a questo punto è finita, ma non Varia. Vi è un'altra strofa che aspetta la sua interpretazione musicale:

«Il tuo fedel
«sospira ognor.
«Cessa, crudel,
«tanto rigor !»

Il compositore inizia qui un altro periodo melodico più irregolare, di sette battute (escludendo sempre dalla numerazione la mezza battuta anacrusica). Il disegno ha questa volta nella prima parte incisi ascendenti, come per affermare l'intensità di un'aspirazione, quasi una volontà di vincere la crudeltà della bella. Ma nella seconda parte, dopo un altro ondeggiamento commosso, il disegno riprende a discendere con deciso senso di sconfitta e di abbandono. A questo punto la voce che si era elevata di tono si affievolisce e dolcissimamente, a metà della settima battura, riprende la prima melodia, su le medesime parole della prima strofa (Da capo), allungando il periodo a nove battute, per un breve indugio finale.

Esaminiamo un'altra melodia assai semplice perché costruita per metà su una scala discendente di quattro sole note. Si tratta della romanza di Fernando nella Favorita di Donizetti: «Spirto gentil». Per quattro battute intere il disegno discende, fino alla frase «ma ti perdei»; poi il motivo è ripreso uguale per due battute; ma al verso «larve d'amor» la frase musicale risale come a fatica per semitoni, e si prolunga come uno spasimo portando l'intera melodia a chiudersi dopo dieci battute. Qui incomincia la seconda parte della romanza, con anacrusi su le parole «A te d'accanto», e si protrae per nove battute (ma l'ultima battuta serve di collegamento per la ripresa della prima melodia). Il sentimento di dolore in questa seconda parte si è fatto più intenso (il disegno più mosso) e si afferma nello straziante e ripetuto «ahimè !» che non conclude il pensiero ma apre la via alla ripresa melodica iniziale con una discesa cromatica (cioè per semitoni) dolente. La ripresa è uguale, però nelle ultime due battute il disegno vibra e scatta con più acuto spasimo per legarsi ad una breve coda di altre cinque battute, che serve di conclusione. È a questo punto che i «divi» aggiungono purtroppo una specie di svolazzo (una cadenza, come si dice in termine tecnico) che Donizetti non ha mai pensato e che è di pessimo gusto; ma che permettendo al cantante di squillare e filare qualche acuto gli offre la facile ricompensa degli applausi di quella parte di pubblico che ama più la ginnastica (anche se vocale) che non la musica pura. È un argomento su cui dovremo ritornare.

Un periodo di 16 battute ha invece ne La Traviata di Verdi la melodia della strofa «Parigi, o cara», giungendo fino al verso «la tua salute rifiorirà», ma le ultime otto battute sono la ripetizione integrale delle prime otto. A questa si aggiunge poi un altro periodo conclusivo di otto battute, più accentuatamente patetico su le parole «Sospiro e luce» e seguenti, a contrasto con le precedenti 16, soavemente carezzevoli.

Sedici battute (esclusa l'anacrusi iniziale) sono anche quelle costituenti la seducente melodia che il Duca di Mantova, nel 3° atto del Rigoletto, canta a Maddalena su le parole «Bella figlia dell'amore».

Invece un bel periodo di 31 battute, tutte soffiate in un sol getto, è quello che forma la melodia del duetto d'amore nel 1° atto della Lucia di Donizetti, «Verranno a te sull'aure», per quanto vi siano incisi ripetuti o derivati per variante da incisi precedenti. A questo primo fiotto di melodia appassionata fa seguito, senza interruzione, una breve coda di altre 12 battute con sincopi che sembrano accentuare i palpiti dei cuori traboccanti d'affetto e di dolore, effetto caro al primo romanticismo dell'Ottocento.

Ma la melodia assume talora struttura assai più complessa, come può dimostrare qualche altra osservazione.

Esaminiamo, ad esempio, la melodia del coro «Va pensiero». È una melodia che ha una linea assai mossa e di una grande nobiltà di espressione.

Essa comincia in anacrusi, su l'ultimo quarto di una battuta, cui seguono quattro battute su le parole:

pag053_01«Va pen - siero, sull'ali dorate;
«Va, ti posa sui clivi, sui colli,

poi il motivo viene ripetuto su le parole:

«Ove olezzano tepide e molli
«L'aure

dopo di che su le parole che completano il pensiero poetico

«... dolci del suono natal,

il disegno melodico prende un andamento conclusivo, ricadendo su la tonica: (altre quattro battute che con le precedenti fanno appunto un periodo normale di otto battute). A questo punto la melodia è finita. Il disegno, su le parole

«Del Giordano le rive saluta,
«Di Sionne le torri atterrate,

costituisce un pensiero nuovo; ma subito dopo, con i versi:

«Oh mia patria sì bella e perduta!
«Oh membranza sì cara e fatal!

si ripete l'inciso conclusivo della melodia principale. Ed ecco, ora, sui versi:

«Arpa d'or dei fatidici vati,
«Perché mu|ta | dal sa|li|ce pendi?

presentarsi un altro disegno melodico totalmente differente, e in un tono diverso; disegno più drammatico, specie per le pause fra le sillabe del secondo verso (dove abbiamo segnato delle sbarrette di separazione); pause che generano un senso di pauroso stupore. Sono altre quattro battute, che si ripetono uguali sui versi

«Le memorie nel petto riaccendi,
«Ci favel| la | del tem | po che fu!

salvo la variante finale conclusiva. È sempre un periodo di otto battute, cui succedono altre due battute di un inciso ancora differente sul verso

«O simile di Solima ai fati

ripetuto in modo identico, per altre due battute, sul verso successivo:

«Traggi un suono di crudo lamento,

destinato a ricondurre al motivo primo (parte conclusiva) e alla primitiva tonalità con altre quattro battute sopra i versi:

«O t'ispiri il Signore un concento «
Che ne infonda al patire virtù !

Ora l'ultimo verso viene ripetuto altre due volte in una specie di coda che conclude il coro.

Come si vede, il canto ha un disegno largo, uno sviluppo ampio; quello che comunemente si dice «un ampio respiro», ed è costruito con unità di ritmo dal principio alla fine: un ritmo triste e desolato nel movimento Largo in cui è segnato, quasi funebre, che accresce dolorosità all'espressione, specialmente per la sua insistenza immutata. Le ampie ondate vocali che si dibattono entro la ferrea legge di questo ritmo martellante producono lo sgomento che dà un'anima imprigionata dalla crudeltà di un destino inesorabile e ingiusto, mentre l'austerità della linea ci rappresenta al vivo la nobiltà pensosa della vittima.

Una linea melodica più ampia in un disegno ritmico sempre mutevole ha la «Casta diva» della Norma di Bellini. La prima frase, su le parole

«Casta diva, che inargenti»,

comprende quattro battute; è un disegno di una grande morbidezza e fluidità, tutto vibrante di intima commozione nelle lievissime fioriture, che non sono un ornamento sovrapposto, ma parte integrante del disegno stesso che ne risulta come inebriato. Sul verso successivo:

«queste sacre antiche piante»

il disegno è ripreso ma con qualche variante. Le parole «queste sacre» sono ripetute tre volte, ma quasi non ci se ne accorge, tanto la forza del disegno melodico prevale su tutto assorbendo e annullando anche il suono e il significato delle parole nella sua luminosità crescente. Siamo già all'ottava battuta, ma la melodia non accenna a concludersi, e i versi

«a noi volgi il bel sembiante
«senza nube e senza vel

servono al musicista per allargare il respiro del canto aumentandone la luce col portarlo sempre più in alto con una rapida ascesa e con una sosta affannata (quattro la acuti fortissimi e sincopati) per ridiscendere a brevi voli successivi, oscillare ampiamente come chi è vinto da suprema estasi, per aver pace infine su la nota e la sillaba finale, nella tonica. Ampiezza totale della melodia: 15 battute; melodia che, salvo la breve ripresa osservata, ci presenta disegni e ritmi continuamente variati, e pur fusi in un solo vasto respiro che ci lascia come trasognati. Sembra un unico fiato ispirato, uscito, si direbbe, tutto di getto; ed è costato invece al suo creatore una lunga e penosa elaborazione, poiché, come abbiamo detto, questa melodia fu rifatta ben otto volte prima di assumere la sua forma definitiva.

Ma non appena la voce di Norma si è fermata concludendo il grande periodo melodico, il coro ne apre un altro che è quasi lo sviluppo naturale del primo: è un canto dolce, sommesso, cullante, come di chi si abbandona beato, nel terso candore lunare, in una specie di ondeggiamento e di rapimento dei sensi e dell'anima, mentre al di sopra di tutto, la voce di Norma fiorisce l'aria di melodiosi ricami tutti imbevuti di luce sovrannaturale. In questo canto, scriveva il Pizzetti, «ha parlato un Uomo con la voce di Dio»[18].

Ora, vi domanderete: è sempre necessario, affinchè l'espressione raggiunga quest'altezza, che il periodo si allarghi tanto? No: possiamo trovare melodie anche più brevi che tuttavia racchiudono una profondità d'espressione eccezionale. Apriamo la Sonata op. 13 di Beethoven, quella detta «Patetica», al secondo tempo: Adagio cantabile. La melodia è di otto battute solamente: ma quale intensità d'espressione! Questo motivo grave e dolce insieme, veramente patetico, che si eleva gradatamente fino a metà del periodo, per ridiscendere con serena calma nell'ultima battuta alla tonica, sembra evocare anch'esso il mistero solenne della notte per il senso di profonda pace che ne emana, e nello stesso tempo sembra elevare nel cielo il sospiro e l'aspirazione sublime di un'anima eroica. È da notare che dopo le prime quattro battute il disegno iniziale è ripreso, come nelle melodie precedentemente esaminate, ma varia. Ciò serve, nella brevità del disegno, a dargli un più largo respiro.

Se insistiamo su questi calcoli circa il numero delle battute di cui si compone una melodia si è perché il numero 8 e quello dei suoi multipli e sottomultipli, ritornano spesso, e sembrano perciò rispondere a una necessità, a una legge della nostra psiche. Il che non ha impedito, come s'è visto, che siano state composte meravigliose melodie allontanandosi, almeno nella seconda parte di esse, dalle cifre su le quali si imperniano quasi tutte le melodie strofiche del passato.

Se ora ascoltiamo la «Canzone alla primavera» nel 1° atto de La Walkiria di Wagner, troveremo invece una melodia di venti battute, liberamente costruita, eppure senza quella felicità d'invenzione varia che dà vita alla «Casta diva» belliniana. Nel «Canto alla primavera» già la sesta battura è la ripetizione identica della quinta; poi le battute nona, decima e undecima ripetono senza mutamento le battute quinta, sesta e settima, per concludere a una nota più alta che lascia il periodo sospeso, in quanto essa è la dominante del tono (cioè la quinta nota della scala tonale, la quale ha tendenza a far ricadere la melodia sulla tonica).

Ma che succederà con questo richiamo? Il tema della melodia è ripreso per quattro battute tale e quale, poi ripreso ancora e con qualche variante condotto finalmente alla conclusione tonale, e in quest'ultimo periodo ricompare il famoso limite delle otto battute. E tuttavia, non ostante questi ritorni e queste ripetizioni, che denotano una fantasia meno liberamente ispirata (dal punto di vista della melodia) di quello che non fosse la fantasia del Catanese, il respiro è unico dal principio alla fine, e il disegno racchiude un senso di poesia tenera e veramente primaverile. Dopo di che incomincia una seconda parte della melodia, che, condotta per altre otto battute, rimane sospesa allacciandosi al tema orchestrale dell'amore.

Certo Wagner mostra un maggior senso della melodia quando abbandona la forma strofica (la quale evidentemente lo impaccia), dando al disegno una mutevolezza continua, senza legarsi al numero fisso delle battute, e alla necessità di condurre subito la melodia alla sua base tonale. Perciò la sua ispirazione spazia maggiormente e si leva più alta nel «racconto» di Lohengrin. Esso è ormai un recitativo melodico o un canto drammatico piuttosto che una melodia, il cui disegno cantabile non tanto si adatta all'intonazione delle parole o alla cadenza del periodo quanto al senso di mistica ed eroica elevazione che scaturisce dal testo e che il commento orchestrale colorisce e approfondisce maggiormente. Questa aderenza del canto allo spirito della poesia piuttosto che a leggi strofiche dona all'ispirazione una scioltezza nuova e permette al canto e all'orchestra di procedere strettamente congiunte verso un alto vertice espressivo. È nata così una delle più grandi pagine della letteratura musicale d'ogni tempo.

Non è una novità del tutto wagneriana il recitativo melodico. Nell'Orfeo di Gluck è un recitativo melodico quello del 2° atto «Che puro ciel! Che chiaro sol!» che l'autore denominò aria.

Nel Barbiere di Siviglia, l'entrata di Figaro, che Rossini chiamò cavatina, denominazione che un tempo equivaleva a quella posteriore di aria, non è altro che un ampio recitativo melodico inframezzato da piccole melodie. Per esempio la strofetta allegrissima che incomincia con le parole «Pronto a far tutto la notte e il giorno» è una melodia regolare di otto battute, formata di due periodi, 4-4, uguali. E così l'episodio mattacchione «Ah bravo Figaro, bravo bravissimo»: altre otto battute, ripetute tali e quali sul gaudioso «là la ran là la ran». Ed anche in questo caso la libertà della forma ha consentito al compositore di dar sfogo ad una vena fra le più effervescenti e sgargianti per luminosità di brio e potenza di rappresentazione che mai siano esplose da cervello umano.

Passando dal comico al tragico, tutto il disperato pianto di Otello nell'ultimo atto dell'opera verdiana, dalle parole «Niun mi tema» alla fine, non è che un canto scioltissimo e profondamente tragico. È anzi una delle maggiori glorie di Verdi quella di avere sviluppato il recitativo drammatico snodandolo dalla rigidezza dei recitativi usati dai compositori precedenti (fatte poche eccezioni, fra le quali mirabilissima quella del monologo di Norma «Dormono entrambi» al secondo atto dell'opera) e donandogli un'impronta largamente e variamente melodica. Nelle ultime opere di Verdi, e poi nelle moderne, la melodia strofica si va sempre più risolvendo nel recitativo melodico. Già nel Falstaff di strofico (regolarmente strofico: 16 battute più otto di ripresa conclusiva) c'è lo scintillante zampillo del «Quando ero paggio», l'aerea canzone delle Fate «Sul fil d'un soffio etesio», con un disegno più di recitativo che veramente di canzone, e il delizioso sonetto di Fenton «Dal labbro il canto estasiato vola», che però è regolarmente strofico nella prima quartina (otto battute), meno regolare nella seconda (nove battute) ormai disciolto in recitativo nelle terzine.

Se ora passiamo a considerare un'opera di composizione relativamente più recente, com'è il Fra Gherardo di Pizzetti, troveremo la melodia sempre più frantumata in frasi e in frammenti melodici sparsi nel recitativo. Strofica vi appare nel 1° atto la narrazione di Gherardo «Un giorno Gesù stava a mensa» che conserva anche la misura classica delle otto battute nella prima parte, fino alle parole «chiamata Maria Maddalena», anche con la rituale ripresa del motivo iniziale dopo la fine del primo periodo che si chiude regolarmente alla quarta battuta. Ma nella seconda parte del racconto, dalle parole «Gli sparge sul capo» fino a «i piedi gli asciuga e li bacia» le battute diventano nove per una sosta della melodia prima della frase «e li bacia». Poi il disegno prende l'andamento irregolare del recitativo. Questo lo schema, però il disegno musicale ha una tersa spiritualità e un ondeggiamento tra l'incanto e il sogno. Andamento largamente melodico, ma senza nessuno schema strofico, ha pure nella stessa opera il recitativo melodico così penetrante, così denso di intima umiltà e devozione in ogni inciso e in ogni frase che si svolge dalle parole «Vorrei che Dio mi concedesse», nel 2° atto: ed è una delle pagine più alte di tutta la lirica moderna.

Ma nei compositori novecentisti (il Pizzetti come il Respighi per le intenzioni e l'ispirazione stanno a sé fra l'Ottocento e il Novecento, un po' isolati dalla loro stessa originalità), nei novecentisti - dicevamo - la melodia si fraziona sempre più e svapora per lasciare il campo ad altri valori in quanto il legame fra canto e parole si è fatto più stretto. Comunque, anche prendendo dal linguaggio parlato maggior numero di elementi ritmici e sonori, il musicista li trasforma, idealizzandoli per la forza dell'emozione interiore, li solleva al di sopra della realtà in un mondo puramente musicale, cioè trasportandoli dalla verità contingente alla verità dell'Arte.

Dopo aver parlato del disegno melodico, occorre dire che di esso fanno parte anche le pause, le quali hanno spesso una non indifferente importanza. Quando la pausa cade alla fine di un inciso, di una frase, di un periodo melodico, allora essa ha il valore d'un segno d'interpunzione, come sarebbero nel discorso letterario la virgola, il punto e virgola, il punto fermo; e questo in omaggio al fatto che anche il periodo melodico ha la sua logica. Ma vi son anche pause che hanno valore espressivo, e sono quelle che creano zone d'ombra in contrasto con il suono-luce; quelle che determinano una sospensione nello stato d'animo di chi ascolta, un momento di attesa più o meno ansiosa, come sono certe pause beethoveniane cariche di mistero e di angoscia, per esempio le battute vuote rispettivamente dopo i due accenni introduttivi al «finale» della VII Sinfonia, o quelle dopo gli accenni tematici iniziali dello «Scherzo» della IXª e le altre disseminate qua e là lungo lo stesso Scherzo.

Attesa stupefatta e curiosa determinano le pause dopo l'invocazione magica dell'Apprenti Sorcier di Dukas; mentre colme di pauroso orrore sono le pause che ne L'oro del Reno di Wagner seguono l'uccisione di Fasolt da parte del fratello, e quelle che nel 3° atto del Crepuscolo degli Dei, dopo la morte di Sigfrido, spezzano le frasi musicali come se respiro e pensiero non sapessero più riprendersi dentro di noi, quasi come se la Natura atterrita e turbata volesse sospendere la vita universa. In questi casi le pause hanno valore drammatico quanto il suono, il quale anzi sarebbe esteticamente assurdo e stolto se privato delle pause. Si potrebbe anzi dire che in tali momenti la pausa ha valore di suono: il suono zero, il suono negativo, come in pittura e in architettura l'ombra e il vuoto fanno parte del colore luminoso e del disegno; e sarebbe assurdo concepire pitture e architetture senza ombre e senza vuoti. Rembrandt che metteva ombre così fonde in certi suoi quadri conosceva il valore tragico di queste pause che isolano le figure essenziali e ne approfondiscono l'espressione esaltandone i valori in luce.

Ma non solo tra nota e nota, o tra frase e frase la pausa ha un valore musicale, ma anche prima dell'inizio della frase. Il primo accordo ff strappato da tutta l'orchestra con cui incomincia il Falstaff cade nel secondo quarto della battuta (tempo debole), ed è sensibile l'effetto del suono mancato sul tempo forte. Questa pausa sul primo quarto, questo valore negativo del suono sul tempo forte finisce per acquistare una espressione positiva, energetica. Non è, in fondo, un silenzio inerte, poiché da questa breve attesa, da quel suono mancalo, si sprigiona un'energia muta e ansiosa, una tacita affermazione di volontà ritmica e sonora.

Capitolo V: Gli elementi del linguaggio musicale [Indice]

3. - L'armonia

Ogni disegno musicale suppone l'esistenza di un basso fondamentale al quale si appoggia insieme ad altre note intermedie, o trasferite al di sopra del canto, che costituiscono gli accordi dell'armonia. Una melodia priva di base armonica non è concepibile, almeno per la nostra sensibilità attuale, se non, con illogicità, dagli atonalisti. In un canto senza accompagnamento il basso è sempre sottinteso. Il basso, oltre a precisare la tonalità in cui si muove la composizione, ne indica le fluttuazioni armoniche e gli eventuali cambiamenti di tono e di modo. L'Armonia riguarda dunque gli accordi, la loro concatenazione e le modulazioni, cioè gli accordi che servono di passaggio da un tono ad un altro. Gli accordi sono unioni simultanee di due o più suoni. Mentre la melodia, successione di suoni, si svolge per linee orizzontali, l'armonia, sovrapposizione di suoni, si svolge per linee verticali. È l'armonia che costituisce quello che comunemente si chiama l'accompagnamento di una musica; e tale accompagnamento può essere ritmico, cioè tale da marcare in modo prevalente il tempo e le sue frazioni, oppure contrappuntistico, cioè tale da contrapporre al disegno della melodia principale altri disegni secondari che, nel loro insieme si accordino col canto principale. Ma può anche limitarsi esclusivamente a semplici note tenute, cioè ad un vero e proprio accompagnamento armonico, indicando il tono e le sue variazioni. La canzone «La donna è mobile», per esempio, è sorretta da un accompagnamento ritmico: gli accordi battono il tempo e, naturalmente chiariscono anche, con le note di cui sono formati, il tono. Nell'aria «O sommo Carlo» dell'Ernani l'accompagnamento è pure ritmico, ma le note degli accordi, anziché risuonare simultaneamente, risuonano una dopo l'altra ora ascendendo, ora dicendendo, originando cioè quel modo di accompagnamento che vien detto arpeggiato, e dando all'accompagnamento, e per riflesso anche alla melodia, un senso di maggiore ampiezza spaziale.

Ma si possono arpeggiare anche interi blocchi di accordi, come avviene su la fine dell'inno «Amore! misterio» nel «Sabba classico» del Mefistofele di Boito, ciò che dà all'accompagnamento una maggior pienezza di sonorità. Si può anche ondulare lentamente le note degli accordi, come nella Serenata di Schubert, il che dà alla melodia un'impronta più tenera e molle. Si possono infine combinare insieme varie delle forme di accompagnamento accennate, introducendovi anche varianti, e si possono pure creare accompagnamenti caratteristici a seconda dell'effetto che si vuol raggiungere. Ricordiamo il tipico ritmo di tamburo che accompagna il Bolero di Ravel, ritmo che poi è ripreso dall'orchestra la quale vi modula sopra i propri accordi insistendovi fino alla fine del pezzo con una nota di colore sempre più accesa e ossessionante.

Un esempio invece di accompagnamento contrappuntistico possiamo indicarlo, per rimanere in pagine ben note, all'inizio della prima scena de La Dannazione di Faust di Berlioz, dove la meditazione di Faust «Al vecchio inverno subentrò l'april» è delicatamente commentata da morbide lineature degli archi lievemente increspate come una brezza, e che si trasformano in più floridi ricami dopo il verso: «Natura s'è ringiovanita». Un accompagnamento di questo genere applicato, supponiamo, a «La donna è mobile», ne avrebbe annientata la leggerezza leggiadra. Si pensi anche ai disegni sempre diversi e sempre più turbinosi che servono di commento alla canzone di Varlaam «Quando io ero a Kazan» nel Boris Godunoff di Mussorgski. Qui c'è una specie di crescente esaltazione che varia di continuo l'espressione della melodia (la quale invece si ripete sempre uguale) portandola a uno stato di esuberante vigoria euforica.

Se invece ascoltiamo la lettura della lettera di Golaud che Géneviève fa nel 1° atto, 2° quadro, del Pelléas et Mélisande di Debussy, di questo recitativo così semplice, quasi uniforme, eppure così toccante, noi udremo l'accompagnamento ridotto a puri accordi tenuti dagli archi, e questa nudità dà un senso di lontananza e di stupore immenso al recitativo già di per sé così trasognato per quel qualche cosa di arcaicamente schematico che è nella sua stessa stesura. Un recitativo, dice l'Hanslick[19], «non ha di per sé nessun valore musicale». L'Hanslick intende riferirsi al cosidetto «recitativo secco», cioè a quel recitativo uniforme, senza partecipazione dell'orchestra se non con accordi tenuti o strappati, che si trova nelle opere del Settecento e del primo Ottocento. Ma il recitativo acquista valore in quanto faccia parte di un tutto dal quale non possiamo separarlo, e cioè da un contesto orchestrale animato che con lui si immedesima formando una cosa sola. Nulla vieta che in altri casi gli accordi siano fatti vibrare in un tremolo lieve quando si tratta di rendere uno stato di meraviglia commossa. È il caso della celebre aria de L'Africana di Meyerbeer «O paradiso», in cui sopra il canto, rinforzato dalla voce malinconica di un corno inglese, i violini tengono ferme note acute di accordi aerei, mentre i flauti su gli stessi accordi oscillano in un movimento rapido come una vibrazione luminosa, creando un'atmosfera incantesimale.

Tutti questi generi d'accompagnamenti possono subire numerosissime variazioni dovute alla fantasia creatrice del compositore. Cosicché praticamente essi danno origine a un numero pressoché infinito di forme; tanto più se si pensa che una stessa frase melodica può essere armonizzata con accordi diversi e che inoltre le note di uno stesso accordo possono essere distribuite verticalmente in posizioni differenti.

Gli accordi possono poi essere consonanti o dissonanti. Se abbassiamo due tasti vicini del pianoforte, per esempio il do e il re bemolle, oppure il re naturale (seconda minore o maggiore) noi proveremo una sensazione di urto, poiché abbiamo prodotta un'aspra dissonanza, e sentiremo il bisogno di risolvere questa impressione di disagio mutando una delle due note toccate con altra più lontana, tale da ridarci una sensazione di calma ripristinando l'equilibrio rotto. Se uniamo al do la settima nota della scala: il si (intervallo di settima), oppure la prima nota al di là dell'ottava: il re (intervallo di nona) noi proveremo analoghe sensazioni di disagio e il bisogno di passare ad altro intervallo più calmo. Perciò gli accordi dissonanti sono detti di moto, mentre i consonanti sono detti di posa.

Ma che ci hanno a fare con la musica, potrà chiedere alcuno, le alleanze urtanti? Eppure è ovvio che una composizione assolutamente priva di dissonanze è altrettanto impossibile o insopportabile, come impossibile o insopportabile sarebbe uno stato d'animo perfettamente e costantemente tranquillo, un'architettura che non alternasse i vuoti ai pieni, l'ombra alle luci, una vita coniugale simile a quella di Taddeo e Veneranda, secondo il quadretto lasciatoci dal Giusti. La vita emotiva dello spirito richiede, per la sua stessa denominazione, di quando in quando l'intervento delle dissonanze, anche se poi non si possono tollerare a lungo, e si sente anzi imperioso il bisogno del ritorno alla consonanza. Ho detto «imperioso»: si racconta che Mozart non potesse prender sonno una certa sera perché poco prima un tale aveva posato sul pianoforte la mano facendo risuonare un accordo di settima di dominante (accordo di settima che ha per basso la quinta del tono, cioè il quinto suono della scala) il quale richiama come una necessità imprescindibile l'accordo di tonica (che ha per basso la prima nota della scala). Per chi sappia leggere o possa farselo eseguire da alcuno, ecco l'esempio:

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Provatevi a eseguire il solo primo accordo, e sentirete com'esso resti sospeso e come ci lasci in attesa di una conclusione. Ora, per concludere, per passare cioè dal moto alla quiete, dal disagio alla calma occorre far seguire al primo accordo il secondo. E il buon Mozart se volle prender sonno dovette alzarsi ad eseguire l'accordo di tonica. Puccini lascia così in sospeso l'ultimo accordo della Butterfly: il pubblico ci si è abituato e non ci fa caso, ma un amico mio, sensibile quanto Mozart, rincasando da teatro ripeteva al pianoforte il finale (accordo di chiusa sol-si-re-sol con basso il si)[20] e vi aggiungeva un bell'accordo: si-re-fadiesis-si, e andava beato a dormire. Naturalmente Puccini che non andava alla ricerca della stramberia per la stramberia e non faceva niente a caso avrà avuta la sua ragione; probabilmente col disagio che dà questo accordo sospeso ha voluto accentuare l'orrore della morte di Butterfly. Oggi il metodo ha fatto scuola, e tutte le più innocenti canzonette fox-trott e simili evitano la banale cadenza di tonica lasciando l'ascoltatore con tanto di naso su un accordo sospeso, senza pensare che diventando questo modo di finire (o meglio di non finire) d'uso comune, cessa di essere una stravaganza (in questi casi senza ragione) e passa ormai anch'esso nel rango delle cose pecorilmente banali, quanto stupide.

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III. Bach. (Quadro di ignoto).

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IV. Violista. (Particolare del «Convito di Erode» di Giotto - S. Croce, Firenze).

La dissonanza può essere utile anche per accentuare espressioni drammatiche violente. Quando nel 2° atto della Francesca da Rimini di Zandonai, viene portato in scena Malatestino con un occhio spaccato, l'atrocità della ferita e l'asprezza dello spasimo trova in orchestra la sua espressione in un accordo di re maggiore (re-fadiesis-la-re) contro il quale battono con secca durezza dei do diesis. Ma la dissonanza può essere usata anche per effetti comici, com'è nel graziosissimo organetto stonato del Tabarro pucciniano, dove la caricatura del vecchio strumento, così genialmente indovinata, è divertentissima e crea il riso.

Altrettanto umoristiche e spassose sono le dissonanze che commentano nel Gianni Schicchi dello stesso Puccini la frase «Com'è bello l'amore fra i parenti», i quali parenti si mangerebbero l'un l'altro per l'eredità di Buoso Donati. Nella Salomè di Strauss la disputa fra Ebrei, Nazzareni, Sadducei e Farisei è pure commentata da dissonanze, però il motivo è meno parodistico ma più pedante e cocciuto nella sua insistenza, come cocciute e pedanti sono le teste dei contendenti. Pure umoristiche con tinta più grottesca e un vago senso di esotismo (dato anche dai gong e dallo xilofono in orchestra) sono le dissonanze che nella Turandot pucciniana sottolineano la lettura della legge da parte del Mandarino all'inizio dell'opera, e umoristici sono vari momenti del terzetto Ping-Pang-Pong e dello svolgersi del corteo imperiale nel 2° atto. Ma Puccini sapeva «piegare la nota», come diceva Verdi, secondo il proprio estro, ed ecco alla frase «Ho una casa nell'Honan» le dissonanze assumere in quel loro blando ondeggiamento un colore nostalgico vagamente poetico, diventare sentore d'arcani profumi nell'invocazione al silenzio (atto 1°), e alla comparsa dei fantasmi dei morti per Turandot farsi evanescenti e sfumare in una strana penombra di mistero.

Oggi gli accordi dissonanti costituiscono la base di molta musica novecentista, soprattutto di quella atonale dodecafonica e politonale. E fra gli effetti più orripilanti c'è quello di sovrapporre simultaneamente i dodici suoni della scala. Dall'accusa di abuso delle dissonanze c'è chi si difende col dire che anche nel passato i più audaci musicisti facevano largo uso delle dissonanze; ma far «largo uso» non è far «uso continuo» e la Toccata di durezze del Frescobaldi o quella del Trabaci, come le dissonanze che troviamo in qualche Sonata di Domenico Scarlatti, e più frequentemente nei madrigali di Carlo Gesualdo di Venosa, rimangono sempre un fatto d'eccezione. E d'altra parte sono dissonanze fatte con gusto e genialità e sempre risolte. C'è anche chi vorrebbe far credere che la dissonanza non esiste perché oggi noi chiamiamo consonanze associazioni di suoni che un tempo erano considerate dissonanze, e che quindi tutto sta nell'abituare l'orecchio. Ma questa giustificazione non può persuadere chi sa che la dissonanza prima di essere un fatto musicale è un fenomeno di fisica acustica ben preciso. Ora, se l'abuso della consonanza rende la musica stucchevole e monotona per mancanza di moto, l'abuso delle dissonanze la rende altrettanto monotona ed irritante per mancanza di posa. L'una è pesante per eccesso di staticità, l'altra ci stanca per eccesso di squilibrio.

«Le soverchie consonanze - dice Pascal dispiacciono in musica», ma è altrettanto vero che dispiacciono, ed anche più, le soverchie dissonanze (al tempo di Pascal erano rare, perciò non se ne occupò), perché l'uomo è più avido di calma, di fede, di riposo, che non di disagio, di dubbio, di agitazione. E ciò non è un sentire «da borghese» come a taluno è parso, ma da uomo che vede nella pace la più alta aspirazione, al di qua come al di là, e malgrado gli inevitabili turbamenti, le ansie e le sfiducie della vita terrena, non vi rinuncia.

Si può ammirare, anche se per ora non soddisfi, ed anzi urti parecchio, lo sforzo compiuto dai novecentisti per rompere il cerchio morto della consuetudine, nell'aspirazione di scoprir nuovo mondo: che Apollo li aiuti ! Quando verrà il miracolo, cioè l'uomo di genio (che miracolo è sempre stato, e perciò raro) farà forse suo tesoro di tante esperienze (non tutte dunque inutili), e ci darà finalmente la poesia, nella quale ogni elemento tecnico vecchio e nuovo si fonderà in una sintesi compiuta. E questo diciamo anche per orientare coloro che desiderano accostarsi alla musica, affinchè abbiano la sopportazione necessaria e compiano il non piccolo sforzo, ma non inutile, di sceverare ciò che è puro tecnicismo, e cioè grammatica e sintassi nuove - strumenti aridi e gelidi - da ciò che è veramente ispirazione sincera di sensibilità d'eccezione.

Ma, come s'è già detto, le dissonanze non sempre danno sensazioni sgradevoli. La mano sapiente di un artista può addomesticarle e renderle anche piacevoli. L' «Ave Maria» con cui si apre la Suor Angelica di Puccini è tutta armonizzata con seconde e none, ma il Maestro ha saputo distribuirle con tale abilità e buon gusto da ottenerne, anziché un'impressione urtante, un senso di morbidezza deliziosa e da creare attorno alla preghiera un alone di poesia. Sono quasi gli stessi accordi che nell'ultimo atto di Tosca accompagnano le strofe di Cavaradossi: «Amaro sol per te m'era il morire», e sono gli accordi che sollevano la melodia in una atmosfera di sogno.

Ci sono poi delle successioni di accordi che ai teorici sono sembrate particolarmente dure o vuote, cosicché i trattati d'armonia le proibiscono. Tali sono, ad esempio, le successioni di quinte parallele; ma, neppure a farlo apposta, ecco di nuovo Giacomo Puccini, che d'ogni piccola cosa sapeva far poesia e trasformare lo sgradevole in gradito, il vuoto in espressivo, il proibito in lecito, perché aveva, come tutti i veri artisti, la capacità di trasfigurare, eccolo darci nell'introduzione al 3° quadro de La Bohème, una successione di 5° parallele. Urtanti? Affatto: solo un tecnico se ne accorge, ma il pubblico non solo non ne prova disgusto, ma si sente l'anima penetrata da quel senso di tristezza e di freddo che emana dal nevoso paesaggio invernale che l'orchestra rievoca. Nello stesso tempo c'è nell'indefinibile lieve brusìo di queste pennellate qualcosa di nostalgico e di soave che ci prepara come non si potrebbe meglio alla delicata malinconia della separazione degli amanti.

Fra gli accordi quello di 5ª (per es.: do-sol) ha un'effetto specialissimo, perché essendo accordo di posa per eccellenza, allarga il respiro inducendo nell'ascoltatore una emozione di calma profonda, di serenità sconfinata. È per questo che l'accordo di 5a è di effetto così immediato nelle descrizioni campestri, poiché dona allo spirito il senso di benessere dell'aperta campagna. Beethoven inizia appunto per ciò la sua Sinfonia pastorale facendo tenere ai bassi una 5ª che è come una grande apertura d'orizzonte campestre su cui disegna il motivo villereccio. E così nell'ultimo tempo della stessa sinfonia, come sfondo al «canto del pastore». E troviamo le 5a frequentemente usate, sempre per effetti campestri, in varie composizioni di Grieg; per esempio nella Melodia norvegese, nella Marcia Nuziale norvegese, nel Canto popolare, nella Springtanz, con ritmo balzante che dà appunto alle 5e il carattere di danza campestre. All'inizio del 1° atto del Guglielmo Tell, Rossini, che pure aveva adoperato accordi pieni sotto il «ranz» della Sinfonia, prepara l'uditore all'ambiente pittoresco della montagna Svizzera con degli accordi di 5ª. E così pure all'arrivo del corteo di fidanzati alpigiani. Anche Meyerbeer nel Profeta ci introduce nell'ambiente della fattoria olandese con un motivo campestre di cornamusa appoggiato su accordi di 5a a ritmo dispari.

Mascagni, la cui vena è sempre stata felicemente eccitata dalle emozioni idilliche campestri, inizia la prima scena della Cavalleria rusticana su un gaio scampanìo che scandisce in note alterne la 5ª la-mi, cosicché fino dalle prime battute il colore rustico ambientale rimane suggestivamente impostato. Altrettanto dicasi per il poetico «duetto delle ciliege» nell'Amico Fritz. Nelle ultime pagine del 2° atto del Guglielmo Ratcliff un motivo agreste di oboe (imitazione d'una melodia scozzese) impiantato su delle 5e del basso, porta sulla scena, nell'atmosfera chiusa e viziata della taverna, dalla quale stanno uscendo ladri e squilibrati, un soffio d'aria pura e fresca che produce una sensazione piacevole di benessere e di ritorno alla vita sana. E 5e ritroviamo nella villotta che nell'Isabeau accompagna il ritorno della Reginetta dal pellegrinaggio. Ma nell'Iris le 5e affrettatamente ribattute descrivono l'arrivo dei burattini: una specie di compagnia zingaresca nomade, perciò siamo sempre in carattere, con l'aggiunta di qualche pennellata esotica. Del resto anche Thomas nella Mignon fa entrare gli zingari su un «Loure» (antica aria francese) accompagnato da 5e in un ritmo caratteristico. Ma nel 3° atto del Faust di Gounod, all'arrivo di Margherita poco prima della «Canzone del Re di Thulè», le 5e or lente or ribattute acquistano un sapore nuovo, fra l'inquieto e l'ingenuo. E ci sono altri esempi più sorprendenti, nei quali vediamo la 5ª prendere carattere drammatico. Eccone uno: Otello di Verdi, atto 4°; un corno inglese eseguisce un motivo di una tristezza immensa, su l'ultima nota del quale un flauto traccia un brevissimo tema nelle note più basse, dando a questa malinconia una tinta cupa ed ombrata. E subito due clarinetti emettono, lenti, tre successive 5e basse accentate. Queste 5e, a parte lo stato d'animo di profonda tristezza preparato dal motivo precedente, anche per il timbro velato e vuoto dei clarinetti nel registro basso, non hanno più niente di pastorale: sono tetre, desolate, tragiche.

Ed ecco un altro esempio; si tratta di una scena del Boris di Mussorgski che generalmente alle rappresentazioni viene tagliata; quella tra Marina e il gesuita Rangoni. Marina folleggia e si vede già sposa del falso Dimitri e zarina di Russia, e chiude la sua gioiosa meditazione con una lunga risata. Improvvisamente due 5e sovrapposte, forti e fredde ci portano in una tonalità lontanissima: su la soglia è comparso il gesuita, l'implacabile dominatore spirituale e politico della volontà di Marina. L'effetto di questo balzo di tonalità e delle 5e presentate così duramente, è quello di un brusco urto drammatico, direi quasi mefistofelico, che fa l'effetto di una dissonanza. Del resto Boito nel Mefistofele, inconsapevole certo di questo passo del Boris, fa entrare il protagonista in scena su una specie di cachinno di 5e dei fagotti. Aveva dunque intuito l'espressione demoniaca che questo bicordo può assumere solo che si dia al ritmo un andamento agitato, irregolare, pesantemente ballonzolante, tale da annullare ogni senso di quiete e di spazialità. Vi contribuisce anche l'incertezza sul modo, poiché una 5ª non è né maggioreminore, e produce perciò un effetto conturbante. Se ne è servito con la stessa espressione anche in diversi punti del «Sabba romantico», specie là dove streghe e stregoni irrompono su la scena gridando «Siam salvi in tutta l'eternità!». Mentre invece all'inizio della preghiera «Ave Signor degli angeli e dei santi» nel prologo, come al principio della scena del giardino nel 2° atto, le quinte sono impiegate con senso di calma serena.

Anche Catalani impiega diverse volte le 5e nella Lorely con intenzione fantastica, specialmente facendole squillare forte negli istrumenti d'ottone o nelle voci del coro: coro delle Ninfe del Reno e degli Spiriti dell'aria nel 1° atto, e durante le allucinazioni di Walter (atto 3°) prima della danza delle Ondine. Ma ne La Wally, il famoso preludio dell'atto 3° («A sera») incomincia e si chiude con l'oscillazione delle note di una 5ª che è nuovamente sentita come un accordo foriero di calma serena. Poi, alla fine dell'opera, all'invocazione di Wally alla neve, ancora l'interpretazione fantastica delle 5e come nella Lorely.

Un altro interessante effetto armonico è quello del pedale. Nel Manuale d'armonia del Codazzi e Andreoli il pedale è così esattamente definito: «è un suono tenuto da una voce o da una parte strumentale, per lo più nel basso, ma talvolta pure nelle parti medie od acute dell'armonia, durante la successione di parecchi accordi, sebbene col fondamentale di qualcuno di questi quel suono possa trovarsi in rapporto di settima o di undicesima, e qualche volta anche di nona o di tredicesima»[21].

Il che, in parole povere, vuol dire che mentre un suono, generalmente basso, sta fermo, su di esso (talvolta attorno od anche sotto, se il pedale è medio o acuto) accade uno svariare di accordi, i quali possono anche trovarsi in più o meno aspra dissonanza col pedale stesso. L'interesse dell'effetto deriva tutto dal contrasto tra l'immobilità di un suono e la mobilità di tutto il resto, tra qualche cosa che sembra simboleggiare la eternità impassibile e statica, e il fluire labile, effimero, d'ogni cosa, la volontà di divenire, anche a costo di trovarsi in urto con ciò che è immanente. È un elemento sfruttato specialmente nella chiusa delle fughe (costruzione polifonica di cui parleremo in seguito) e di cui si trovano esempi stupendi in Bach.

Un lungo pedale nella parte acuta si trova alla fine della 3ª scena della Salomè di Strauss: è un momento di penosa fissità nell'animo di Salomè dopo il rifiuto opposto al suo amore da Jokanaan. Un altro bellissimo esempio, nel basso, si trova alla fine del 1° atto de La Walkiria di Wagner, dove il pedale produce un eccitante contrasto col frenetico esuberante turbinare nelle parti superiori del tema della «vita d'amore» per cui questa vita sembra centuplicarsi. Altro pittoresco effetto per la delicatezza, in questo caso calma e tranquillizzante, si ascolta nella Berceuse di Chopin; ed ancora, con suggestiva espressione di spazialità infinita e desolata, nel poemetto di Borodine Nelle steppe dell'Asia centrale. Le citate 5e parallele con cui si apre il 3° quadro de La Bohème di Puccini si svolgono sopra un pedale doppio (re-la): una quinta in tremolo pianissimo che dà una sensazione di grigiore uniforme e immutabile, contribuendo alla pittura malinconica della scena. Parimenti su un pedale di 5e oscillanti, anche qui con effetto spaziale e calmo, si svolge l'episodio poetico delle campane di Pasqua nella Siberia di Giordano. Un intero accordo forma il pedale sotto le voci lontane che annunziano la sera, fra qualche rintocco di campana, nel 3° atto dell'Isabeau di Mascagni, ed è anch'esso un episodio nel quale un senso di pace intima e riposante si diffonde dalla trasparenza lieve del disegno tutto penombra. Analogo, ma più triste per l'effetto delle voci languenti del coro, è l'episodio delle campane fra lunghi pedali di accordi bassi e acuti nel 1° atto del Piccolo Marat dello stesso Mascagni.

Ma un elemento assai più importante per la forza di vita che sprigiona è la modulazione, cioè il passaggio da una tonalità ad un'altra mediante opportuni accordi atti a spostare il senso della tonalità da quella precedente alla nuova. Cambiar tono vuol dire portare l'emozione su altri piani. Quando le modulazioni sono frequenti, vuol dire non solo varietà, ma spesso anche irrequietezza, ansia, animazione. Basta variare gli accordi dell'accompagnamento, o anche semplicemente passare dal maggiore al minore, e viceversa, per variare interamente l'espressione di una melodia. Talvolta il mutamento di tono avviene ex abrupto, senza modulazione, cioè senza preparazione. Ciò può produrre un senso di sorpresa e, di conseguenza, un richiamo di attenzione. È il caso già osservato dell'entrata del gesuita Rangoni nella scena del Boris di Mussorgski, dove allo stupore generato dalla 5ª si aggiunge la sorpresa dell'improvvisa tonalità nuova che si affaccia coll'apparire del frate. Claudio Monteverdi intuì forse per primo l'efficacia di questo repentino mutamento di tono, e quando nell'Orfeo la Messaggera interrompe inattesa la gioia di Orfeo recando l'annunzio della morte di Euridice, al suo apparire la musica scatta in una tonalità del tutto inaspettata con un accordo grave che produce come una stretta al cuore e la precisa sensazione di una sciagura. Anche nell'ultimo atto dell'Otello di Verdi, allorché il moro appare armato su la soglia della stanza per uccidere Desdemona, il Maestro non solo fa saltare l'orchestra dal la bemolle sovracuto dei violini al mi naturale profondo dei contrabassi con un balzo pauroso che già da solo fa correre un brivido di orrore nell'anima di chi ode, ma, senza cambiare la tonalità segnata in chiave, passa effettivamente all'improvviso dal tono di la bemolle a quello di mi maggiore. E la sorpresa di questo passaggio, unita al balzo di cinque ottave e mezzo, ci piomba dal cielo all'inferno, dalla serenità angelica della preghiera allo spavento di una morte atroce, dal più etereo lirismo al tragico più tenebroso.

In senso burlesco il salto improvviso di tono è usato da Rossini nel Barbiere, allorché nel 2° atto Don Basilio entra all'improvviso, guastafeste inatteso e non desiderato, a scompigliare i piani di Almaviva. Un semplice accordo ff ci trasporta d'un tratto dalla tonalità di do maggiore a quella di mi bemolle maggiore, nel quale salto è contenuto un senso di sorpresa sbalorditivo.

Mentre le musiche del Settecento sono prevalentemente unitonali, specialmente le operistiche, e perciò spesso uniformi e monotone (parola questa che deriva appunto dalla monotonalità), quelle romantiche dell'Ottocento, e più ancora quelle del Novecento, presentano una grande, talvolta eccessiva, mobilità di tono. L'elemento psicologico «sorpresa», «meraviglia», e fatto giocare non tanto con scatti bruschi da una tonalità ad un'altra, quanto con una preparazione armonica che sembra condurre ad un tono determinato, per eludere poi l'aspettativa e presentarne uno diverso. Non è qui il caso di studiare i mezzi tecnici che possono servire allo scopo, ma piuttosto di insistere su l'impressione di rapimento che questi passaggi a toni lontani da quello di partenza possono arrecare. La musica di Chopin è ricca di modulazioni vaghissime che tengono desta e vibrante l'emozione portandoci in un mondo indefinibile di poesia. E diciamo a bella posta «indefinibile» perché non tutte le emozioni suscitate in noi dalla musica si possono chiarire a parole: la maggior parte di esse sfuggono ad un'analisi concreta. Si potrebbe anzi dire che per questa sua essenza antianalitica la Musica è l'espressione dell'inesprimibile. Le nostre spiegazioni saranno sempre relative e grosso modo approssimative perché ciò che è valore estetico musicale (come, del resto, pittorico, architettonico e simili) non può essere sostituito da un discorso logico verbale, altrimenti cesserebbe ogni sua ragione d'essere. Ci resta la parola, e lo spirito fugge.

Fra le composizioni di Chopin si ascoltino, per esempio, le Mazurke op. 50 n. 3 e op. 56 n. 3, specie verso la fine, ove la modulazione serve a ritornare alla tonalità di partenza, per un'affermazione conclusiva. La ricerca di questa tonalità è compiuta con un'ansietà come di chi voglia liberarsi da una passione per cercare la pace. Continue e ricche di pathos sono pure le modulazioni in quello sconsolato dialogo che è lo Studio op. 25 n. 7, nel quale pare che due infelici versino l'uno nel cuore dell'altro i loro profondi affanni e le ricordanze nostalgiche più soavi. Le modulazioni qui hanno il carattere di un perpetuo errare di memoria in memoria, di dolore in dolore, fino a che il canto naufraga dolcissimamente nell'infinito.

Naturalmente le modulazioni sono un elemento assai frequente in un romantico com'è lo Schumann. Il suo stile, sempre inquieto come la sua anima tormentata e incostante, ha necessità delle modulazioni come un assetato dell'acqua. Anche in composizioni brevi (e il suo spirito senza pace ama appunto la brevità impressionista delle immagini, ama lo schizzo: finito, perfetto, ma schizzo) egli sente il bisogno di cambiare spesso tonalità. Si osservino, per esempio, l'Eusebius, l'Estrella e specialmente la Marcia dei Davidsbündler nel Carnaval e le Novellette. Ma sembra superfluo nei riguardi di Schumann fare indicazioni particolari, data la perenne instabilità tonale che forma una delle caratteristiche precipue che, assieme alla vivezza delle idee, distingue di colpo questo autore da ogni altro. Anzi questa frequente mutevolezza di tono toglie alla modulazione ogni carattere di sorpresa, il che non accade invece con Liszt, nel quale la variazione di tono nasce improvvisa dopo lunghi periodi di monotonalità, quasi un'insofferenza insorta ad un tratto e che gli fa cercare un'altra luce; generalmente, più luce. Nel 3° Notturno «Songes d'amour» il periodo melodico rimane per tutta la sua esposizione fermo nella tonalità di partenza; poi comincia ansiosamente ad agitarsi come in cerca d'aria. Una cadenza, che pare virtuosistica, fa parte di questo fervore di ricerca; infatti essa si placa in un mormorio dopo il quale il canto sgorga più alto e splendente. Ma non è ancora la pace, tanto che la frase riesce a trovare una via per chiudere a un semitono più alto; e l'inattesa soluzione apre l'anima a un palpito nuovo. Un altro movimento agitato porta la melodia ancora due toni interi più in su, sempre più verso la luce: nel sogno l'amore appare veramente ora in un'aureola di trionfo. A questo punto, per uno di quei procedimenti che i tecnici chiamano enarmonici (un sol diesis cambiato in la bemolle: il tasto del pianoforte è lo stesso ma la tonalità è diversa), la melodia vien ricondotta al tono iniziale senza perdere di luminosità. Ora sì, la cadenza è uno svolazzo virtuosistico, ma serve a ricondurre la melodia nella penombra morbida del sogno appena incominciato per spegnersi lentamente.

Non insisteremo su altre composizioni dello stesso autore, nelle quali la condotta armonica è press'a poco la stessa e si vale spesso del procedimento enarmonico teste accennato, che reca sempre una sorpresa simile a un incantamento subito attraverso a un'emozione piacevole.

Modulazioni frequenti e nuove troviamo nelle composizioni di Brahms. Ancor più frequenti e direi quasi morbose in quelle di Riccardo Strauss; basta ascoltare il poema sinfonico Don Giovanni, che è uno dei più popolari assieme a Morte e Trasfigurazione e a Till Eulenspiegel, per persuadersene. Sono modulazioni di una sensualità che tocca lo spasimo, nel primo di questi poemi; più logiche e ariose nel secondo; più argute e capricciose nell'ultimo, tanto da sembrare scambietti e capriole. In Cesar Franck le modulazioni, tutte personali, suscitano emozioni spirituali e sembrano uniformarsi a un'alta visione mistica del sentimento: così nella Sinfonia in re minore, come nell'oratorio Le Beatitudini; così nel Preludio Corale e Fuga come nella Sonata per violino e pianoforte. Sono in generale modulazioni appoggiate a mutazioni enarmoniche e a movimenti cromatici, cioè a disegni che salgono e scendono per semitoni, chiamando cromatismo l'alterazione di semitono che si apporta in qualche nota di accordi normali (es.: do-mi-sol diesis-do, invece di do-mi-sol-do). Inutile chiederci quale sviluppo e importanza acquistino le modulazioni nelle opere di Claudio Debussy, se pensiamo che di tutti gli elementi della musica l'armonia è in esse la dominatrice sovrana. Il suono acquista importanza per sé, indipendentemente dal disegno melodico, ma la ricerca dei suoni è sorretta dall'istinto armonico che guida l'autore di tonalità in tonalità alla ricerca di preziose combinazioni, di «combinazioni armoniche inebrianti, ma anche snervanti, d'una dolcezza inaudita»[22]. Tutto diventa evanescente e indefinito, spirituale e sensuale insieme, in un'onda di armonie vaganti come trame lievi e iridescenti di vapori aerei. Inutile dare esempi: tutta la musica di Debussy è così: ma più sensibile è il mondo delle modulazioni armoniche in Pélléas et Mélisande, specialmente negli intermezzi, nella scena (Devant le chateau) del 1° atto, nella 1ª scena del 3° atto e nell'ultima scena del 4° atto (il grande duetto d'amore, tutto chiaroscuri e impressioni fuggevoli e cangianti); e quasi ad ogni passo nel Prelude a l'après-midi d'un faune. Ma vogliamo ancora indicare i Cinq Poëmes su liriche di Baudelaire, dove le modulazioni sono sospirosamente sfumate come le volute che salgono da un incensiere, e si ispirano a un sentimento di poesia di una delicatezza estatica.

L'elemento modulazione è di tale natura che può concentrare in se tutto l'interesse e la vita di una composizione. Si pensi al 1° Preludio in do maggiore di Bach: quello sul quale Gounod stese la melodia della popolare Ave Maria. Non è che una successione di modulazioni i cui accordi sono arpeggiati; ma Bach non ha pensato affatto di adattarvi alcuna melodia. La bellezza di questo preludio sta tutta nel fluttuare, leggero come una trina, di queste armonie, le quali non hanno bisogno di alcun rivestimento melodico.

di Gounod, per quanto sia una melodia piacevole, abbassa il tono della composizione di Bach al rango di accompagnamento di secondaria importanza. Ed ecco perché taluno può sentirsi urtato che una così pura bellezza artistica qual'è il 1° Preludio di Bach possa essere velata e umiliata da tale sovrapposizione. Infatti la melodia di Gounod, se anche non ha propriamente carattere utilitario ed è rispettosissima di ogni più piccola sfumatura della creazione bachiana, dalla quale sembra scaturire naturalmente, tuttavia pone in primo piano un disegno che con la sua concretezza sentimentale, ed anche con qualche accento enfatico, dimostra la sua origine da una sfera inferiore della fantasia.

Nelle composizioni novecentiste gli accordi più semplici sono di continuo alterati da note estranee alla tonalità, in maniera non solo da annullare la primitiva espressione elementare, ma da creare un succedersi perenne di squilibri espressivi. Quando tale musica non rispecchi lo squilibrio psichico che purtroppo oggi turba tanta parte dell'umanità, quando non vi sia una ragione specifica, oseremmo dire che il congegno è studiatamente voluto, e perciò costituisce un'abile gherminella per mascherare la povertà della fantasia.

Capitolo VI: Gli elementi del linguaggio musicale [Indice]

4. - Il colore

Ad ogni composizione musicale si accompagnano elementi dinamici e timbrici che ne costituiscono il colore. Noi possiamo, ad esempio, eseguire le note forte o piano, secondo varie gradazioni dell'uno e dell'altro; e possiamo passare dall'uno all'altro di scatto oppure mediante progressivi aumenti (crescendo, rinforzando) o diminuzioni (diminuendo, smorzando, morendo) d'intensità sonora. Inoltre nella scrittura musicale vengono sovrapposti alle note dei segni particolari che l'esecutore interpreta come indicazioni riguardanti il diverso rilievo che si vuol dare loro. Noi potremo eseguire le note legate, cioè in modo che non si avverta un sensibile distacco tra l'una e l'altra, oppure sciolte, staccate, picchettate, saltellate, martellate, marcate. Crediamo inutile insistere sul fatto che il piano corrisponde a emozioni di delicatezza, di mistero, di ombra, e il forte a emozioni di forza, di audacia, di luce. Così tra le note legate e le marcate vi è tutto un graduale passaggio dalle espressioni serene a quelle più violente. Ne La Forza del Destino di Verdi i frati intonano la preghiera «La Vergine degli angeli» pianissimo e sottovoce, a note legate il più possibile. Quando invece ne L'Oro del Reno di Wagner appaiono i giganti Fafner e Fasolt, l'orchestra fa sentire il loro tema, che esprime la loro natura primitiva rozza e violenta, con note fortissime e aspramente accentate. Incorporei, estremamente piano, sono gli accordi con cui incomincia La Traviata di Verdi, poiché la donna è già più spirito che carne, votata all'amore e alla morte. Del pari eterei, pianissimo, sono le note che ci aprono la visione miracolosa del San Gral nel Preludio del Lohengrin di Wagner. Ma, all'opposto, sfolgorante nella pienezza del fortissimo di tutta l'orchestra è il finale del Prologo del Mefistofele di Boito che vuole inebriarci della gloria divina; e in sonorità fortissima sono i finali della V e della IX Sinfonia di Beethoven, entrambi ebbri della conquistata «gioia» e della vittoria sul destino. Nell' «Inno del Sole» dell'Iris di Mascagni si passa dalla «Notte» al «Giorno» per gradazioni di forza sempre crescenti, dalle prime note profonde e legate dei contrabassi, alle robuste sonorità finali dell'intera orchestra e del coro associati con note marcatissime.

A volte i compositori alternano rapidamente il forte e il piano, le note sciolte o legate e quelle accentate o no per effetti descrittivi, come fa il Cimarosa nel 3° atto del Matrimonio Segreto, allorché Paolino dice «I cavalli di galoppo senza posa caccerà», e l'accompagnamento a terzine presenta su la prima nota di ciascuna di esse un accento forte per imitare - molto alla lontana, cioè trasfigurandolo in dinamica musicale (stilizzandolo) - l'urto degli zoccoli dei cavalli sul terreno. Nelle opere del Sei-Settecento era frequente la consuetudine di ricercare, ripetendo una stessa frase prima forte poi pianissimo, effetti d'eco a volte assai poetici. È da ricordare a questo proposito la scena del 1° atto dell'Orfeo di Gluck in cui Orfeo chiama disperato Euridice, e l'orchestra ripete come un'eco il suono delle ultime sue parole. Il vecchio giuoco qui si spiritualizza, quasi la voce della Natura riecheggiasse concorde e dolorosamente stupita il dolore di Orfeo. Di effetto drammaticissimo è invece il la bemolle fortissimo dei bassi che segue ad un'altra nota uguale ma acuta e pianissima nella «Marcia funebre» della III Sinfonia (Eroica) di Beethoven, e che sembra piombarci di colpo dalla contemplazione celeste della morte alla sua atroce realtà terrena. E altrettanto drammatico è, nella Sonata per pianoforte op. 57 (l'Appassionata) dello stesso Beethoven, quell'alternarsi di frammenti del tema cupamente arcano pianissimo, come un fantasma enorme, con le ondate di sincopi salienti fortissime, quasi che la sola ombra o il ricordo di questo pensiero destasse un tumulto di spavento e di palpiti nell'anima e nel cuore. E in tutta la musica di Beethoven gli scatti improvvisi dal piano al forte sono frequenti e sempre drammaticissimi.

Non dobbiamo poi dimenticare, tra gli effetti di gradazione di colore, i famosi crescendo rossiniani, nei quali un breve motivo ritmico viene ripetuto tre volte consecutive, aumentando sempre di intensità fino a raggiungere col fortissimo un'espressione di entusiastica festosità sonora, di folle gioiosità trascinante.

Il colore è l'anima stessa della musica, tanto che quando una esecuzione ci lascia freddi noi diciamo che è scolorita. Una tale esecuzione, in cui domina il grigiore uniforme del mezzoforte, è inconcepibile; eppure essa è purtroppo frequente. Troppo spesso, infatti, accenti e legature, forte e piano, rimangono solo su la carta, e i crescendi e i diminuendi non sono graduati con sufficiente progressività. Altrettanto si dica del distacco dei tempi, dei movimenti, degli accelerando e rallentando, i quali sono anch'essi tanta parte della rivelazione di una composizione musicale. Tutto ciò corrisponde alla messa in luce di un quadro: se movimenti e colori non sono giustamente a posto è come aver messo Un quadro al buio o in penombra. Ma è parimenti pericoloso il metterlo in luce falsa, cioè l'interpretare con soverchia arbitrarietà movimenti e colori e l'aggiungervene di non segnati col pretesto di interpretare «lo spirito» della composizione.

Questo è, di solito, il difetto di quegli interpreti, strumentisti, cantanti, direttori, che vogliono fare gli «originali», correggere pretesi difetti, e comunque anteporre la propria personalità a quella dell'autore. A questa ambizioncella personale non sfuggono talvolta neppure i maggiori interpreti. Ecco, per esempio, Verdi rimproverare ai famosi direttori Angelo Mariani e Michele Costa di affrettare tutti i tempi; e al Mariani in particolare di far entrare gli ottoni con un fortissimo nella sinfonia de La Forza del Destino, effetto che svisava le sue intenzioni. «Io disapprovo quest'effetto - scriveva Verdi a Giulio Ricordi -. Quelli ottoni a mezza voce nel mio concetto dovevano, e non potevano esprimere altro che il canto religioso del Frate. Il fortissimo di Mariani altera completamente il carattere, e quello squarcio diventa una fanfara guerriera... Ed eccoci su la strada del barocco e del falso»[23]. Dalle quali parole impariamo che un motivo non ha in sé un'espressione definita, e che il modo col quale viene eseguito è quello che la determina. Preghiera di frate o fanfara guerriera sono due espressioni antitetiche dello stesso disegno musicale e strumentale, che può essere l'una o l'altra cosa a seconda del colore datogli dall'interprete. Essere rispettosi e fedeli richiede da parte degli interpreti un grande senso di umiltà e di responsabilità artistica.

E se i direttori d'orchestra, artisti generalmente di maggiore cultura, possono commettere arbitrii, non parliamo poi di quello che son capaci di fare certi cantanti di teatro, i quali, appoggiati dal banditismo della claque, ammazzerebbero senza esitare il Padre Eterno per conquistare l'applauso popolare. I cantanti, ed anche i virtuosi strumentisti, fino dai tempi più antichi, hanno presa l'abitudine di aggiungere di propria iniziativa abbellimenti e passi d'agilità virtuosistica non segnati dall'autore: tutte cose che fanno andare in visibilio i profani, i quali scambiano spesso l'arte con le gare di resistenza e gli esercizi sportivi. Negli strumentisti il pericolo s'annida generalmente nella cosidetta cadenza, momento concesso alla «bravura» dell'artista su la fine del 1° e talvolta anche dell'ultimo tempo di una Sonata o di un Concerto. Tale cadenza costituisce una sosta nello svolgimento logico ed estetico della composizione, e consiste di solito in una serie di passaggi brillanti sviluppati su elementi tematici della composizione medesima. Se la cadenza è stata scritta dall'autore o da un artista di buon gusto ne può uscire qualcosa che, pur richiedendo da parte dell'esecutore una certa dose di abilità tecnica, non deturperà la composizione ed avrà l'effetto di una «variazione» o di un «capriccio» inseriti in essa. Ma il pericolo maggiore sopravviene quando la cadenza è scritta da persona di cattivo gusto, o quando l'esecutore vi aggiunge di suo quanto di più acrobatico gli passa per il cervello. Allora si casca dall'arte al tecnicismo scolastico puro, alla ginnastica funambolistica, con il risultato di portare in primo piano un episodio assolutamente secondario e di sviare il pubblico, il quale nel suo sbalordimento per l'agilità del virtuoso crede in buona fede che questo sia il meglio della composizione, e frattanto l'opera d'arte viene svisata, deformata e profanata.

Per ciò che riguarda i cantanti, quante volte non udiamo acrobazie aggiunte a mo' di cadenza alla fine di una romanza, o acuti lungamente tenuti fino a spolmonarsi? Tutte cose a cui l'autore, novantanove volte su cento, non ha mai pensato! Dio ci liberi poi se il personaggio, come accade di Lucia nel 3° atto dell'opera donizettiana, figura impazzito! Allora le cateratte usignolesche del divo o della diva si spalancano fino a soffocare ogni più lontana idea di arte in un artificio che sa di pirotecnica; e il pubblico va in solluchero. Tutto ciò non significa che nel virtuosismo non vi sia un fondo di poesia di cui il compositore si può valere. Già Rossini aveva fatto sfoggio di gorgheggi vocali, trattando le voci come strumenti; ma lo scopo ch'egli si prefiggeva era quello di frenare le licenze arbitrarie dei cantanti, e dare a questi sfoghi decorativi una linea d'arte che li rendesse tollerabili. E spesso il genio di Rossini riuscì a dominare anche questo aspetto dell'arte, e il buon gusto dei gorgheggi di Rosina, così in carattere con lo spirito agile, furbo, giovanilmente espansivo, meridionalmente esuberante del personaggio ne fanno fede. In molta musica clavicembalistica del Settecento gli «abbellimenti» musicali (acciaccature, mordenti, costituiti rispettivamente da una o due note brevissime scattanti su note di una melodia; gruppetti, formanti un piccolo ricciolo, una breve graziosa voluta di note; trilli, rapida ripetizione di due note vicine alterne) erano frequenti e servivano a riempire il vuoto tra una nota e l'altra derivante dalla scarsa capacità del clavicembalo a prolungare i suoni. Ma l'artista di genio sapeva piegare anche questi mezzi a fini artistici: Couperin e Domenico Scarlatti informino. Chi ascolta, per esempio, L'usignuolo in amore di Couperin, il Capriccio di Scarlatti, sa quanta grazia, quanta poesia un musicista ispirato possa ricavare da questi «abbellimenti». Essi non formano più un particolare aggiunto, ma sono l'essenza stessa della composizione e fanno parte integrante della medesima. Talune di queste vivono quasi esclusivamente di elementi decorativi. Qualche volta sono tali le «variazioni».

Ma non si creda che pel fatto di essere decorativa un'opera d'arte rappresenti sempre qualcosa di inferiore. Anche l'elemento decorativo e l'elemento virtuosistico, hanno nell'anima umana profonde rispondenze poetiche, le quali coincidono con un nostro bisogno spirituale di sogno stupito, fantastico e meraviglioso. Le trine che il gelo mette sui rami ci rendono ammirati; ma l'artista può trasfigurare quest'opera di natura e fare di questa trama brillante e candida un capolavoro, sia pure decorativo, di poesia. Il senso decorativo risponde, oltre che a un bisogno della fantasia, a una coscienza naturale del ritmo, dello sviluppo e del ritorno ciclico di avvenimenti misteriosi dello spirito, e a un senso del nesso organico fra particolare e universale che ha lontanissime origini, forse nella nostra preistoria. Quanto poi al virtuosismo esso implica spesso la forza di un «superamento», che non è solo d'indole materiale, ma anche (soprattutto per i valori di ritmo, di timbro, e per le loro combinazioni) estetica. Ci sono aspetti altissimi della vita dello spirito, visioni di bellezza e di potenza che non si possono esprimere se non attraverso a una perfetta tecnica virtuosistica. Non solo alcune Sonate, ma più ancora i Concerti e gli Studi di Chopin, di Liszt, di Beethoven, di Brahms, astri di prima grandezza nel mondo dell'arte per lo splendore della forma, la elevatezza del pensiero, la smagliante coloritura, la costruzione robusta, richiedono da parte dell'esecutore doti di virtuosismo trascendentale. E nondimeno si tratta di poesia della più pura ed alta; cosicché il virtuoso dev'essere anche un interprete.

La pura tecnica non può sostituire l'arte, né va confusa con questa; ma essa può reagire su la fantasia creatrice e suggerirle atteggiamenti artistici e stilistici. Se, ad esempio, lo stile pianistico di un concerto è diverso da quello violinistico, ciò accade perché differenti sono la tecnica oltre che il suono e le possibilità di esecuzione dei due istrumenti. E, allo stesso modo che la tecnica reagisce su la fantasia di un compositore, tanto che nessuno potrebbe immaginare l'Appassionata di Beethoven composta all'epoca del gracile clavicembalo, così sull'esecutore tecnico reagisce l'elemento artistico suggerendogli il modo migliore per esprimere lo spirito di una composizione. L'esecutore non ha dunque solamente un compito materiale (riproduzione esatta delle note e dei segni scritti) ma ne ha uno anche artistico che è l'interpretazione, cioè l'atto di rivivere e far rivivere negli ascoltatori l'opera d'arte.

Se l'esecuzione di un Busch, di un Busoni, di un Toscanini ci avvinsero più di quella di tanti altri artisti, ciò non fu solo per l'esattezza tecnica scrupolosa della riproduzione, ma per il carattere artistico da essi impresso a tale esecuzione. Se così non fosse, qualunque altra esecuzione, purché ugualmente esatta, ci accontenterebbe allo stesso modo. C'è qualche cosa - ed è il meglio - che sfugge ad ogni scrittura musicale e che dev'essere intuito per poter essere riprodotto. I segni scritti non dicono che troppo poco: c'è scritto piano, ma qual gradazione di piano? C'è scritto crescendo, ma quale sfumatura di crescendo? Ci sono segnati degli accenti, ma con quale forza vanno essi martellati? C'è scritto rallentando, ma quale ne sarà la proporzione, il procedimento? Sono tutti problemi di dinamica e di colore che prima di essere tecnici sono artistici. Nell'intuizione dell'essenza vera di questi problemi sta appunto il valore artistico dell'esecutore. Non basta dunque ch'egli faccia un piano, un crescendo, un rallentando, un'accentuazione qualsiasi, ma occorre che egli riviva in sé l'opera d'arte fino ad intuire l'esatta qualità del colore che i segni della scrittura appena accennano in maniera imperfetta. L'esecutore, insomma, deve sentire ed aggiungere quel certo quid che è l'anima stessa e il profumo della musica, la sua intimità inscrittibile. Solo così egli potrà risuscitare dai morti segni della scrittura con piena vitalità lo spirito dell'opera d'arte in essi celato. Questa è non solo opera meccanica di tecnico, ma opera di trasfigurazione d'artista.

Quanto agli abbellimenti e a tutti gli altri elementi decorativi e virtuosistici, naturalmente non sempre l'arte ha bisogno di questa complessità di forme; talvolta la linea nuda di una melodia senza accompagnamento, un suono isolato, una pausa, possono far vivere entro di noi un intero mondo di emozioni e di poesia. Il canto del marinaio con cui si apre il 1° atto del Tristano e Isotta di Wagner, la nenia del corno inglese all'inizio del 3°, la fanfara del corno che nel 2° atto del Sigfrido il giovane eroe intona nella speranza di chiamare a sé un amico, tutte queste melopee e melodie (melopea è una melodia dal ritmo e dalla forma sciolti e liberi) bastano a caratterizzare ambiente e situazione, a creare un'atmosfera estetica.

Del resto anche nelle prime opere di Verdi, fino a Un ballo in maschera, molto spesso la melodia è isolata così, e concentra solamente in sé ogni virtù espressiva (e questa forza di accentramento è in moltissimi casi prodigiosa), mentre tutto il resto non serve che a scandire il ritmo e a fissare la tonalità. Solo da Un Ballo in maschera in poi Verdi sentì, di opera in opera sempre più, il bisogno di rendere più complessa l'espressione, più vasto il campo delle risonanze spirituali, variando, approfondendo e intensificando l'espressione orchestrale. Ma l'aver concentrata tutta l'espressione nel puro canto non deve far credere a povertà di forma, come taluno ha affermato. Quella del Verdi delle prime opere non è povertà, ma semplicità di forma, il che è ben diverso. La sua emozione artistica, schietta e rude, lo porta ad intuire forme semplici, nude, puramente vocali, senza orpelli, e non ne comporta altre. Nelle ultime opere, fattesi più dense di significati le sue intenzioni, si fa più densa e complessa la forma. Ma non è che egli abbia finalmente capito l'importanza della forma; ha soltanto dovuto cambiar forma non essendo più in grado di esprimere il più ricco mondo delle sue emozioni con l'antica semplicità dei mezzi, quasi esclusivamente vocali. È quindi errato l'affermare ch'egli fosse contenutista prima, e sia divenuto formalista poi. Se la maggior ricchezza della forma costituisse una superiorità nei confronti di forme musicali più semplici, si arriverebbe a dover ammettere questo assurdo: che la Butterfly sia superiore a La Traviata.

Anche un suono isolato può produrre un'emozione estetica. In generale i suoni acuti ci danno espressioni o lievi, o intense, o tese, od alte, o eccitate, o gaie, ed anche disperate. I suoni medi esprimono piuttosto forza o serenità, o grazia, o calma; i gravi hanno espressioni cupe, opache, tetre, di mistero, di abbattimento, e simili. Ma non bisogna prendere troppo alla lettera queste distinzioni, poiché, al solito, l'artista può alterarne i caratteri. Certo, per dare un esempio, noi non possiamo sottrarci all'impressione di etereo che ci viene dalle prime note sovracute dei violini, con le quali incomincia il preludio del Lohengrin, e che ci trasportano immediatamente in un mondo superiore. E similmente il mi bemolle dei contrabassi con cui si apre il preludio de L'Oro del Reno ci piomba tosto nelle profondità abissali e buie del principio primordiale. È bastato a Verdi l'oscillare di una nota dei violini negli acuti all'inizio del 3° atto di Aida per immergerci nella poesia di una notte esotica e donarci l'emozione dell'eterno fluire delle acque del Nilo. Di questa prontezza del suono a tuffarci nel mondo dei sogni e a predisporci all'estasi estetica approfittano gli impressionisti, i quali creano spesso le loro atmosfere con elementi primitivi: Debussy in particolare.

Ma un suono non è mai scompagnato dal timbro, cioè da quel particolare carattere per cui lo stesso suono fatto, per esempio, da un violino o da una tromba è così diverso; e appunto il timbro completa le caratteristiche estetiche del suono. Anzi, ogni motivo musicale nasce con un suo carattere strumentale. «Il pensiero - diceva Verdi - mi si affaccia completo e soprattutto sento se la nota deve essere di flauto o di violino».

Il tema dello «scherzo» della IX Sinfonia di Beethoven (Molto vivace) ha un carattere tale da poter essere eseguito anche dai soli timpani, come infatti avviene alla 5ª battuta; e ciò perché tale suo carattere è soprattutto ritmico. Ma provatevi a pensare alla Casta Diva per timpani, o per trombone, poiché la realizzazione per timpani è materialmente impossibile; ognuno sentirà subito la sciocchezza enorme di una simile idea. Il timbro di questa melodia è, e non poteva essere, che quello del flauto.

Alle volte il timbro è tutto, e la conoscenza delle qualità timbriche ed anche meccaniche dell'istrumento pel quale una data musica è stata scritta, ci illumina su le caratteristiche espressive di essa. Noi non possiamo ascoltare, ad esempio, una composizione di Couperin senza pensare alla delicata gracile ed elegante sonorità del clavicembalo. Se Couperin avesse avuto sotto mano un pianoforte, dalla sonorità tanto più brillante e intensa, voluminosa e drammatica, la sua arte avrebbe dovuto mirare ad altro; allo stesso modo che una composizione pianistica di Liszt, una Sonata di Beethoven non sono pensabili adattate al clavicembalo senza una alterazione così profonda da svisarle totalmente. Pensate, ad esempio, al citato «Songes d'Amour»: sul clavicembalo tutta la sua poetica spiritualità scomparirebbe per ridursi ad una elegante canzoncina; senza contare che l'effetto di certe lunghe note tenute si perderebbe del tutto, essendo la durata dei suoni del clavicembalo assai breve. Non parliamo poi dell' «Appassionata» o della Sonata op. 110 di Beethoven eseguite sul clavicembalo: i motivi più gravemente e violentemente drammatici diverrebbero esili filigrane aggraziate, i recitativi desolati si trasformerebbero in una caricatura del dolore, la grande fuga dell'op. 110 non sarebbe più che un freddo giuoco tecnico. Provatevi a pensare alla breve cantilena dell'oboe che precede l'aria dell'Aida «O cicli azzurri» suonata invece da una tromba, e vi accorgerete come il senso nostalgico che doveva emanarne sia scomparso, e ci rimanga un motivetto senza carattere o meglio con un carattere quasi gaio e, comunque, fatuo. La ragione si è che, in generale, i timbri metallici squillanti, esprimono gaiezza, energia, impeto, marzialità eroica; i timbri limpidi e sericei sono espressivi di dolcezza, di vaghezza, di serenità, di grazia; i timbri nasali e velati ci danno invece un senso di malinconia, di nostalgia, senso pastorale, ed anche, nelle note gravi, qualcosa di ironico e di grottesco. Lo strumentatore deve tener conto di tutto ciò, e inoltre delle diversità di carattere che un medesimo strumento presenta nei diversi registri, e delle modificazioni che si possono apportare al timbro con mezzi speciali: sordine, note degli archi sul ponticello o sul capotasto, pizzicati, campane dei corni più o meno otturate con la mano, note forzate, note flautate (suoni armonici), e simili.

Da queste sensazioni fisiche noi non possiamo prescindere, perché solo attraverso ad esse possiamo risvegliare in noi l'emozione estetica. È ben vero che si può suscitare tale emozione anche senza sentire i suoni, alla sola lettura di una partitura d'orchestra, ed è altrettanto vero che Beethoven scrisse la IX Sinfonia essendo completamente sordo. Ma quando scriveva, supponiamo, per corno, egli evocava dentro di sé il ricordo di una sensazione fisica alla quale va legata una determinata emozione artistica; e lo stesso lavorìo mnemonico deve compiere chi evoca le sonorità e i timbri d'un'orchestra leggendo la sola partitura: lavorìo molto difficile se la partitura è, come quasi sempre le partiture moderne, piuttosto complessa.

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Un'orchestra offre una grandissima varietà di timbri che un compositore può non solo isolare dalle varie famiglie di istrumenti, ma combinare e impastare fra loro in maniere diversissime.

Il principale fondamento di una partitura orchestrale è il cosidetto «quartetto d'archi»: violini, viole, violoncelli e contrabassi. La ricca tecnica del Violino permette di ottenere numerosi effetti sonori e una grande agilità e rapidità di movimenti e di passaggi. Inoltre il violino ha una estensione maggiore di qualunque altro istrumento, e le sue quattro corde possiedono caratteri espressivi ben differenziati. Perciò nell'orchestra il violino è il principe degli strumenti. Nulla uguaglia per la forza di rapimento una grande ondata di melodia che sale da una massa compatta di violini: basterà pensare all'intermezzo de La Traviata per convincersene. Il suono della corda è particolarmente grave e robusto, profondamente patetico; è perciò che Wilhelmy nel trascrivere la celebre «Aria» di Bach per il violino, l'affidò alla 4ª corda; e che Meyerbeer ha affidato a questa corda le notissime «sedici battute» del 5° atto de L'Africana. I suoni flautati hanno una dolcezza che attinge al celestiale. Per questo li usò Wagner all'inizio e alla chiusa del preludio del Lohengrin, e Verdi nel finale dell'Aida, volendo entrambi gli autori dare con questi suoni aerei e incorporei il senso del distacco dalla terra. Misteriosissimo è l'effetto del suono dei violini con la sordina; si pensi alla delicatezza incantesimale dell'accompagnamento del «Sogno» nel 2° atto della Manon di Massenet, ove l'ondeggiare del movimento rende il fluttuare delle immagini nel sogno, e le sordine vi aggiungono il fascino come di una lontananza evanescente. I pizzicati possono avere caratteri differenti, a seconda dell'uso fattone dal compositore. Per esempio: i pizzicati dei bassi sotto la melodia dell'intermezzo de La Traviata hanno carattere di palpitazioni che assumono nel tortissimo una forza drammatica; ma in altri casi possono avere anche espressione gioconda e perfino capricciosa. I pizzicati che accompagnano pianissimo nel 2° atto della Butterfly di Puccini il canto interno lontano, gli conferiscono una più sentita leggerezza. Nel ballo Silvia di Delibes vi è invece un esempio di melodia tutta pizzicata, anche negli accompagnamenti, con effetto vivace e leggiadrissimo.

Per la ricchezza e abbondanza degli effetti sonori e per lo sviluppo tecnico il violino ha assunto importanza enorme anche quale istrumento solista, cosicché le Sonate e i Concerti scritti da grandi autori per tale istrumento costituiscono una letteratura numerosa e di superba bellezza. Basterà citare fra gli autori massimi: Corelli nel Seicento; Tartini, Nardini, Veracini, Vivaldi, Bach, Mozart nel Settecento; Paganini (il quale portò la tecnica dell'istrumento ai limiti estremi del più arduo virtuosismo), Beethoven, Mendelssohn, Brahms, Bruch, Grieg, Frank nell'Ottocento. E nell'ambito del melodramma non v'è chi non conosca l' «a solo» che precede il famoso terzetto dell'atto 3° de I Lombardi alla prima crociata, di Verdi, l'estrosa zingaresca nel 1° atto de L'Amico Fritz di Mascagni, e la «Meditazione» della Thaïs di Massenet.

L'arte violinistica, nelle sue migliori affermazioni, sia dal lato composizione che da quello esecuzione, va oltre l'atmosfera del'estetica e tocca la nostra stessa umanità. Superata la meraviglia che da una così piccola cassetta di legno e da quattro cordicciuole tese si possa ottenere tanta magìa di suoni, da sprigionare e diffondere su ogni cuore così grande suggestione d'arte, da riempire l'aria di tante e sì varie e stupende costellazioni armoniche, come di stelle si riempie un cielo notturno, resta l'altra meraviglia, non minore, di quattro dita orgiasticamente balzanti come invase da una divina demenza, e della sapiente mobilità di un polso che guida l'arco a carezze e sussulti, a fremebondi legami con le corde, a volubili flessuosità serpentine, a vertiginosi saltellamenti, ottenendone brividi di risa ed estasi di sogno, fuga di scintille e ondate di passione, fantastici sgocciolii di acque entro vasche d'alabastro e impeti di vita transumanata. Nulla è più orrido di un violino suonato mediocremente, nulla è più sublime di questo istrumento se lo tocca un artista esperto. In questo caso la gracile voce femminea e miagolante diventa possente nei bassi, calda nel centro, squillante o eterea negli acuti; essa può ridirci l'inno dei cieli, e lo stesso virtuosismo cessa di essere un freddo giuoco tecnico per acquistare il significato di un linguaggio spirituale, e l'arabesco sonoro sembra il disegno aereo di una mente che tracci una via per congiungerci alla divinità. Ma dove finisce il virtuoso e dove incomincia l'artista? L'uno e l'altro debbono essere, come s'è detto, una sola cosa, poiché la grande interpretazione non e possibile senza un'eccezionale virtuosità, e questa medesima padronanza di tecnica trascendentale difficilmente è attuabile senza un intelletto d'arte superiore.

Meno ricca la letteratura per Viola e per Violoncello, perché l'espressione più uniforme e troppo costantemente patetica di questi istrumenti nuoce alla varietà delle composizioni. In orchestra però essi hanno spesso una parte di somma importanza. Per la Viola ricorderemo che Berlioz scrisse nell'Aroldo in Italia un poema sinfonico per orchestra e viola solista, e affidò ne La dannazione di Faust a questo istrumento l'accompagnamento della canzone di Margherita «C'era una volta in Thule un re». Ricordiamo pure Va solo piangente nella scena della morte di Fedora, nell'opera omonima di Giordano; mentre Meyerbeer nell'accompagnamento della romanza «Bianca al par di neve alpina» nel 1° atto de Gli Ugonotti adopera la Viola d'amore che ha una particolare dolcezza di suono dovuta alla risonanza di sette corde poste al di sotto di altre sette che corrono sul ponticello. Al Violoncello sono spesso affidati a soli; ricordiamo, per esempio, quello accorato nel 2° atto dell'Andrea Chénier di Giordano, precedente il racconto di Maddalena «La mamma morta», e più largamente e serenamente quello nel finale del 1° atto della Francesca da Rimini di Zandonai. I violoncelli sono anche usati in masse all'unisono, come nel doloroso preludio del 2° atto della Norma di Bellini, e nel passionale cantabile della Sinfonia de I Vespri Siciliani di Verdi; oppure divisi, come nell'«Adagio» della Sinfonia del Guglielmo Tell di Rossini, nell'accompagnamento della preghiera di Zaccaria «Tu sul labbro dei veggenti», nel Nabucco di Verdi, nell'estatico incontro di Sigmondo e Siglinda nel 1° atto de La Walkiria di Wagner, nel dialogo fra Ramfis e Radamès al principio del 1° atto dell'Aida, all'inizio del duetto d'amore del 1° atto dell'Otello di Verdi, e nell'ultimo atto della Tosca di Puccini prima della romanza «E lucevan le stelle»; in ogni caso con effetti patetici di grande intensità.

La letteratura concertistica per violoncello comprende composizioni del Gabrielli nel Seicento; dell'Ariosti, di Giovanni Bononcini, del Boccherini nel Settecento; di Beethoven, di Dvôrak, di Riccardo Strauss nell'Ottocento. Dello Zandonai è l'elegiaca «Serenata medioevale» per violoncello solista, 2 corni, arpa ed archi e il «Concerto andaluso» per violoncello e orchestra.

Il Contrabasso è istrumento quasi esclusivamente orchestrale; rarissimi pertanto ne sono i virtuosi ed assai scarsa la letteratura, la quale si limita per lo più a pezzi di bravura e a trascrizioni nelle quali l'istrumento è generalmente costretto a fare il galante su le note acute. Nell'orchestra invece la sua funzione è essenziale dovendo indicare il basso d'armonia e spesso marcare il tempo. Ma di quando in quando assurge a maggior interesse ed emerge con disegni espressivi. È il caso di ricordare ancora l'entrata di Otello nell'ultimo atto dell'opera verdiana; i ruggiti temporaleschi che emette, insieme ai violoncelli, nella VI Sinfonia (Pastorale) di Beethoven; la grandiosità possente nell' «Invocazione alla Natura» nella Dannazione di Faust di Berlioz; e la espressione tetra e sorda dei contrabassi con sordina all'entrata dei sacerdoti che s'accingono a giudicare Radamès nel 4° atto di Aida.

Della famiglia degli istrumenti a fiato in legno, il Flauto può concorrere a diversi effetti espressivi a seconda del registro in cui viene usato e della maggiore o minore rapidità dei passaggi. Espressioni gaie e umoristiche del flauto in passi rapidi nell'acuto possiamo riscontrare in molte sinfonie di Rossini. Altre volte, come nel contrappunto alla melodia del corno inglese nella Sinfonia del Guglielmo Tell, assume carattere idillico, quasi voce d'usignolo. Con effetto di una trasparenza eterea è usato da Gluck nella «Danza degli spiriti beati» nel 2° atto dell'Orfeo, e in arpeggi lievissimi da Verdi nell'ultima scena del Rigoletto su le ultime parole di Gilda. Ma nello stesso Rigoletto, durante il temporale, il flauto coi suoi rapidi e striduli disegni serve come elemento descrittivo a rammentarci il guizzare dei lampi. Ma non mancano esempi patetici nel registro grave, come nel 2° atto del Profeta di Meyerbeer, all'inizio del coro «Ecco già il Re Profeta»; nella frase di Aida (atto 2°) «Pietà ti prenda del mio dolor»; e, in registro più acuto, ma sempre con espressione altamente commossa, nel cantabile a metà del preludio del 3° atto di Un Ballo in maschera di Verdi. Nessun istrumento poteva diffondere meglio del flauto il sereno candore lunare preannunciando il motivo della «Casta diva» nella grande scena della Norma; né con più poetica dolcezza cantare l'ardore amoroso d'Isotta come nel preludio al 2° atto dell'opera wagneriana. Forse Verdi si è ricordato di questa serena soavità affidando al tremolo dei flauti l'accompagnamento dell'aria «O cieli azzurri» nel 3° atto d'Aida, e al principio dello stesso atto il canto di sapore esotico nel disegno insolito che evoca la serenità lunare della notte sul Nilo.

L'Oboe ha carattere più pastorale e malinconico per il suo timbro gracile e un po' nasale. Si ascoltino i molti passi di deliziosa gaiezza affidati ora al flauto, ora all'oboe, ora al fagotto, nella Sinfonia Pastorale di Beethoven. Con espressione agreste, malinconica e nostalgica ad un tempo l'adopera Verdi nel preludio dell'aria «O cieli azzurri», e a commento dell'invito di Aida «Fuggiam gli ardori inospiti»; e con più profonda tristezza e nostalgia nel breve preludio all'aria «Addio, del passato» nell'ultimo atto de La Traviata. Altrettanto malinconico il commento dell'oboe alle parole di Butterfly (atto 2°) «Pigri ed obesi, son gli dei giapponesi». Non mancano tuttavia le espressioni burlesche, come nei tratti pettegoli affidati all'oboe nella sinfonia de Le donne curiose di Wolf-Ferrari, e in altri momenti delle sue opere goldoniane, a commento spassoso di qualche discorso fatuo dei personaggi. Ed anche nelle sinfonie di Rossini l'oboe gioca spesso gherminelle beffarde interloquendo fra gli altri strumenti con motivetti e commenti allegrissimi.

Difficilmente ciò capita al Corno inglese per il suo timbro carico d'intensa malinconia. Noi lo udiamo nella Sinfonia del Guglielmo Tell in dialogo col flauto, dipingerci la campestre malinconia di una Svizzera schiava; lo udiamo cantare l'estrema sconfinata tristezza di Desdemona nell'ultimo atto dell'Otello verdiano, lo udiamo nel 3° atto del Tristano e Isotta piangere su la solitudine del mare; e quando, all'arrivo di una nave, tenta accenti più vivaci, non cessa dall'avere una nota di malinconia. E malinconia nostalgica il corno inglese piove da ogni accento nel Largo della Sinfonia op. 59 Dal Nuovo Mondo di Dvôrak, e nell'aria di Margherita «Perduta ho la mia pace» ne La dannazione di Faust di Berlioz. Quando nel 1° atto del Lohengrin Elsa si presenta al Re umiliata sotto il peso di un'accusa infamante, oboe e corno inglese insieme ci fanno intendere coi loro timbri velati e dolenti l'accoramento dell'infelice.

Soltanto Verdi è riuscito nel 1° atto del Falstaff (parte 2a) a dargli una tinta comico-sentimentale allorché il suo canto commenta la lettura della lettera d'amore del tronfio eroe, ma è un effetto di riflesso in quanto sappiamo a quale buffo personaggio attribuire questo sdilinquimento. Assai più vario è il Fagotto. Mentre nelle note acute e lente ha un'espressione penosa (ed è per questo che Donizetti gli affidò il preludio alla romanza «Una furtiva lacrima» nel 2° atto de L'elisir d'amore), nelle centrali, nota il Berlioz nel suo Trattato di Strumentazione, ha «una sonorità pallida, fredda, cadaverica», e perciò Meyerbeer l'usò in questo registro nella scena della risurrezione delle monache nel 3° atto del Roberto il diavolo. Franchetti nel 1° atto dell'Asrael e Boito nel prologo del Mefistofele, affidarono ai fagotti disegni d'espressione diabolica, mentre Mascagni nella scena dei cenciaiuoli nell'ultimo atto dell'Iris fa uscire dalle voci di questi istrumenti cachinni grotteschi.

Ma il fagotto è anche il più burlone degli istrumenti, e non a caso fu detto il clown dell'orchestra. Potrete ascoltarlo bofonchiare allegramente dietro i borbottamenti dei «quattro rusteghi» nell'opera di Wolf-Ferrari; e quando uno di essi, nell'ultimo atto, fa il gesto di tirare il collo a un pollo, volendolo mentalmente tirare a sua moglie, è ancora il fagotto che sottolinea goffamente il gentile desiderio, con relativo starnazzamento Nel Falstaff di Verdi questo istrumento ha una parte larghissima, direi anzi prevalente, nel caricaturare ad ogni passo le parole e i gesti del pancione borioso e gaudente. Indimenticabile, per esempio, la pomposa ironia dei fagotti che commentano le parole di Falstaff ad Alice «T'immagino fregiata nel mio stemma». Anche indovinato nel 1° atto della Butterfly l'effetto caricaturale del motivo cantato dai fagotti allorché si inizia la cerimonia nuziale mentre i parenti osservano il fidanzato commentando in vario modo.

Il Clarinetto ha timbro che può prestarsi così alla espressione dell'elegiaco quanto a quella dell'estatico. Verdi usa molto spesso il clarinetto per introduzioni malinconiche a romanze. Basterà qui ricordare il noto a solo del clarinetto che precede la romanza «Oh tu che in seno agli angeli» nel 3° atto de La forza del destino, e l'altro a solo tristissimo che accompagna i pensieri di Violetta mentre s'accinge a scrivere la lettera di addio ad Alfredo nel 2° atto de La Traviata. E Puccini nel 3° atto della Tosca accompagna col clarinetto la meditazione di Cavaradossi «E lucevan le stelle»; passano per la memoria estatica del morituro i momenti felici del suo amore, e frattanto la voce vaga, un po' sensuale e intinta di mestizia dell'istrumento gli canta, come voce della sua stessa memoria, la melodia dei «dolci baci e languide carezze». Nella sinfonia del Freischütz, Weber affida al clarinetto una larga frase patetica, e in quella del Tannhäuser di Wagner il clarinetto, sui brividi dei violini, canta pure la malia del rapimento dei sensi. L'accento gaio, anzi umoristico-caricaturale, lo troviamo nel ballo popolare del 2° atto del Campiello di Wolf-Ferrari. Nel 1° atto de I Maestri Cantori di Wagner sono clarinetti e fagotti insieme che esprimono il malumore di Beckmesser per dover giudicare Walther.

Il Clarinetto basso o Clarone ha carattere più cupo e di una mestizia più profonda. Il grave dolore di Re Marke, per il tradimento del suo vassallo più fido, è espresso nel 2° atto del Tristano e Isotta dalla voce del clarinetto basso; ed è sempre lo stesso istrumento che disegna nell'ultimo atto i primi accenti del «canto di morte». In certe note basse può avere qualche cosa di demoniaco, di funereo e di magico, e questo giustifica l'impiego che Verdi ne ha fatto nella scena dell'apparizione dei Re nel 3° atto del Macbeth, insieme a oboi e a fagotti, e nella scena della fattucchiera Ulrica nel 3° atto di Un ballo in maschera, in cui le note basse del clarone si accompagnano a note gravi delle trombe e a movimenti strascicati dei fagotti determinando un'impressione di fantastico e di fatale vivamente suggestiva.

Quanto agli istrumenti d'ottone, è troppo noto come Trombe e Tromboni abbiano un timbro guerriero ed eroico, riconosciuto fino dai più lontani e antichi popoli della terra. Inutile dunque insistere sul loro impiego in tutti i casi in cui marzialità ed eroismo sono in giuoco. Nell'Anello del Nibelungo di Wagner i temi della spada, di Sigfrido, dei Welsunghi, del Walhalla, del patto di Wotan, sono tutti affidati a trombe, tromboni e corni. Ma quest'ultimo istrumento ha carattere più vario, come fra poco diremo.

Trombe, tromboni e corni, sono anche impiegati insieme ad altri istrumenti per dare maggior rilievo e vigore a qualche frase particolare. Interessa invece vedere come la Tromba ha avuto impiego differente da quello eroico, per la dolcezza speciale e penetrante delle sue note medie. Ed ecco Donizetti servirsene al principio del 2° atto del Don Pasquale per preludiare con accorata dolcezza alla romanza di Ernesto «Cercherò lontana terra». Verdi adopera squilli di tromba sottovoce per dare l'impressione di qualche cosa di fatale che sta per compiersi nella scena del 3° atto di Un ballo in maschera, quando i congiurati si accingono ad estrarre dall'urna il nome di colui che dovrà uccidere Riccardo. E da ricordare anche l'effetto poetico che nel 2° atto del Lohengrin Wagner ottiene dalle fanfare di trombe che, disposte a diverse distanze, suonano la sveglia. Ben altra sveglia, quella dei defunti, squillano le trombe nel Requiem di Verdi e nel Giudizio universale di Perosi, con alto clangore. Con senso mistico invece nel Parsifal le trombe intonano il «tema della fede».

Perosi usa spesso una tromba più acuta di quella comune d'orchestra, la cornetta in si bemolle, con effetti estatici. Nel preludio alla 2ª parte de La risurrezione di Cristo le cornette interne lontane intonano sul tremolo degli archi un canto che sembra venire dall'al di là, e che, nella sua arcana sonorità, prepara l'animo al miracolo divino. La gravità solenne dei Tromboni li rese fino dal Cinquecento preferiti nelle espressioni sacre. Per effetti di grottesco in talune composizioni di novecentisti è stato usato anche qualche suono strisciato di tromboni. Strumenti d'ottone, di registro molto basso quali le Tube, sono pure adoperati talvolta con effetti drammatici, come nell'intermezzo della Germania di Franchetti in accordi dall'espressione tetra. Wagner ne L'Oro del Reno e nel Sigfrido le usa anche per descrivere lo strisciare pauroso del drago.

Il Corno è istrumento capace dei più straordinari e svariati effetti. Lo udiamo nel Guglielmo Tell (fanfara di Gessler), e nella 1ª scena del 1° atto del Don Carlo (edizione in 5 atti) come fanfara da caccia. Allo stesso scopo sono usati i corni anche da Wagner all'inizio del 2° atto del Tristano e Isotta, con effetto poeticissimo di lontananza. Wagner intona pure sul corno il richiamo caratteristico di Sigfrido, pieno di baldanza eroica; mentre incomincia L'Oro del Reno con un lento moto ondoso di otto corni il cui suono grave e pieno ci dice la serena calma di un mondo buio al suo primo risveglio. Nel 2° atto del Don Carlo (edizione in 5 atti, 1° nell'edizione in 4) quattro corni svolgono un motivo austero e solenne ispirato al pensiero di Carlo V, la cui tomba è in prossimità della scena, e che sarà il deus ex machina nell'arcana soluzione del dramma. Ma nel 3° atto del Falstaff Verdi fa intonare ad un corno interno uno dei più fantastici e poetici motivi che mente umana abbia immaginato. Esso si ispira alla solennità della selva, alla serenità della notte e al senso di leggenda e di tregenda inerenti all'ambiente che la scena raffigura, e ci rapisce nel mondo della poesia, della fiaba e del sogno. Fantastica ed entusiastica è invece la fanfara dei quattro corni all'unisono con cui si apre il 3° atto della Tosca. Essa però non lascia prevedere la sottile poesia dell'alba che seguirà, se non forse nelle ultime note, né sembra adeguata alla situazione tragica che si prepara. Di una fantasiosità fiabesca sono invece gli squilli alti di corno nelle Fontane di Roma di Respighi, allorché egli evoca lo squillo di buccina del Tritone, cui segue l'irrompere dello zampillo sonoro delle acque.

Ma il corno è suscettibile anche di espressioni patetiche per la sua voce calda nelle note centro-acute. Lo ha impiegato Bellini nel preludio a solo che precede il duetto finale del 2° atto de I Puritani: «Il rival salvar tu puoi»; Rossini varie volte, e con particolare tenerezza nel 1° atto de L'Italiana in Algeri, come preludio alla romanza di Lindoro «Languir per una bella». Il passo a solo per corno della Sinfonia de Le Maschere di Mascagni è una vera filigrana sonora e insieme una parentesi sentimentale. Con senso umoristico Riccardo Strauss adopera il corno nel poema sinfonico Till Eulenspiegel, mentre con un tema lirico slanciato i corni aprono l'opera Il Cavaliere della rosa.

Nell'orchestrazione moderna è di uso frequente anche l'Arpa, ma le sue risorse come varietà di timbro non sono molte, e quindi essa si limita per lo più ad accompagnamenti arpeggiati o ad accentuare talune frasi melodiche e qualche basso con alcune note più squillanti. Nel finale de L'Oro del Reno Wagner adopera sei arpe, e il loro movimento arpeggiato, sotto il «tema dell'arcobaleno» intonato da clarone, corni, fagotti e violoncelli, insieme al tremolo dei violini (divisi in otto parti) e alle terzine ribattute dai flauti oboi e clarinetti, produce l'effetto di un'immensa vibrazione luminosa, di uno scintillìo iridescente meraviglioso. Di effetto etereo sono specialmente le note acute dell'arpa e i suoi armonici, corrispondenti ai flautati degli istrumenti ad arco, che sembrano perdere ogni materialità fisica. Nelle Fontane di Roma di Respighi all'arpa sono affidati effetti di sgocciolìo e scintillìo suggestivi. Un effetto che nel Mefistofele vorrebbe rievocare l'uso ellenico di cetre e lire è dato dagli arpeggi che accompagnano la melodia «La luna immobile» e l'entrata di Faust nel «Sabba classico». E non mancano a soli d'arpa, come quello che nel 1° atto della Lucia di Donizetti preludia alla cavatina «Regnava nel silenzio».

Rarissimo l'impiego del Pianoforte nelle orchestre di opera se non lo richiede l'azione, come nel 2° atto della Vedova di Giordano, dove peraltro i tempi e i disegni della Sonata pianistica armonizzano e drammatizzano il dialogo agitato che frattanto ha luogo tra Federa e Loris. Puccini usa due pianoforti a coda dietro le scene nel finale della Suor Angelica per ottenere dai loro vasti arpeggi una sonorità più morbida di quella delle arpe.

Il pianoforte domina invece come strumento solista, con una vastissima letteratura che si estende fino ai Concerti per pianoforte e orchestra. Tutti i maggiori compositori, dal Settecento ai nostri giorni, hanno scritto per il pianoforte; sul quale istrumento inoltre vengono oggi eseguite tutte le composizioni scritte in precedenza per il clavicembalo, anche se talvolta l'adattamento attenua o fa perdere a tali composizioni alcune caratteristiche, e ne svisa in parte gli effetti.

Anche l'Organo ha una letteratura sua importantissima, soprattutto sacra, che risale ai nostri cinquecentisti. Nel teatro, se non lo richiede l'azione in scene religiose, difficilmente vi ha parte, come ha invece spesso nelle composizioni sinfoniche per la varietà dei suoi «registri» che gli permettono effetti assolutamente diversi da quelli di qualunque altro istrumento, e per le sue sonorità dominatrici. Quando nella quarta parte delle Vetrate di chiesa di Respighi, che ritrae l'incoronazione di San Gregorio Magno, improvvisamente l'orchestra si arresta e l'organo subentra in piena sonorità, l'effetto è di una solenne grandiosità, cosicché a noi sembra veramente di vedere il sommo pontefice levarsi, la mano alta, nel gesto della benedizione.

Noi qui, naturalmente, dobbiamo limitarci a dare appena qualche cenno informativo su quelli che sono gli strumenti più in uso nell'orchestra moderna e i loro più importanti effetti, scegliendo gli esempi, come abbiamo fatto di proposito, fra i più caratteristici, i più noti o i più facili da udire. Ma non s'è finito: agli istrumenti citati bisogna aggiungere ancora: l'ottavino, l'albisiphon, l'heckelphon, i saxofoni, il contrafagotto, vari tipi di clarinetti, di trombe e di tromboni, il basstuba, la celeste, le campane, i campanelli, lo xilofono, i gong, i sistri, la fonica, il mandolino, la mandòla, la chitarra, l'armonium, i timpani, e tutta la serie degli istrumenti a percussione senza suono determinato: cassa, piatti, triangolo, tam-tam, tamburi e, se occorre, anche colpi di cannone, come nel finale del 1° atto della Tosca.

Tutti strumenti che aggiungono varietà a varietà, colore a colore, e dei quali sarebbe fuor di luogo trattare qui partitamente. Osserviamo poi che ogni istrumento ha risorse estetiche assai più varie delle poche accennate, risorse che la fantasia e l'esperienza del compositore possono sfruttare in maniere differentissime insieme a tutti gli effetti di impasto dei vari istrumenti fra loro, il che ci porta di fronte a risorse coloristiche strumentali pressoché illimitate.

Nelle composizioni novecentiste, specialmente in quelle di natura o di derivazione jazzistica, gli istrumenti a fiato sono spinti verso le regioni estreme, con forzature della sonorità e del timbro e strascicati portamenti, con risultati effettistici sguaiati, o svenevolmente sentimentali o parossisticamente striduli; ciò particolarmente per i clarinetti, le trombe e il saxofono. Per reagire poi al cosidetto abuso degli istrumenti cantanti, e specialmente dei violini, nelle musiche contemporanee si tende a sostituirli con batterie di istrumenti a percussione i più svariati, secondo un insegnamento di origine strawinskiana, e in accordo con i gusti delle razze negre e primitive.

Questi facili quanto arbitrari rovesciamenti di consuetudini consacrate da vari secoli di capolavori insigni della storia musicale, servono anch'essi ai compositori contemporanei a darsi l'aria di novatori a buon mercato, e a una altrettanto facile mascheratura della loro povertà inventiva, mentre obbediscono a un diffuso abbassamento del gusto rispondente alla più banale volgarità.

Capitolo VII: Gli elementi del linguaggio musicale [Indice]

5. - Il contrappunto

Quando a un disegno musicale se ne sovrappone un altro, noi abbiamo a che fare con un contrappunto (nota contro nota - punctum contra punctum, da cui il nome; od anche due o più note contro ciascuna del canto). Il motivo dell'amore con cui i 1i violini iniziano il preludio dell'Aida è così contrappuntato da un altro disegno sottostante dei 2i violini. Nel preludio del 1° atto de La Traviata la calda frase dell' «Amami Alfredo» cantata dai violoncelli, è contrappuntata da un ricamo gaiamente scherzoso, e questi due disegni insieme congiunti scolpiscono mirabilmente i due fondamentali aspetti dell'anima di Violetta: la passione amorosa che la redimerà e il suo desiderio di gioia sensuale. Lo stesso Verdi nel finale del 2° atto dell'Aida per rendere simultaneamente i vari stati d'animo dei personaggi e della folla, sovrappone una serie di disegni contrappuntistici diversi, fra cui tre melodie ampie: una affidata alle voci di Radamès, di Aida e dell'orchestra, di carattere passionale; una di carattere ieratico cantata dai Sacerdoti; ed una, intonata dal coro e dalla banda, di espressione innica, mentre il Re e Amonasro hanno disegni propri, e Amneris contrappunta con volate piene d'ebbrezza gioiosa. Nel quartetto famoso del Rigoletto le quattro voci si armonizzano fra loro con disegni diversi sovrapposti, ciascuno dei quali è potente espressione dell'interna passione che agita il personaggio. Questa simultaneità d'espressioni differenti, tutte distintamente percepibili, è una delle più alte possibilità estetiche della musica, ed è una conseguenza di quel procedimento tecnico che vien detto contrappunto. L'importante per chi ascolta è di cogliere distintamente i singoli canti e sentirne nel medesimo tempo il nesso unitario, allo stesso modo che in un quadro o in un gruppo statuario si colgono i diversi atteggiamenti delle figure e l'armonia che li lega l'uno all'altro, o come in un'architettura si scorgono archetti minori e pilastri, e simultaneamente si vedono le arcate e le linee maggiori che li compongono in unità. Più persone che parlano simultaneamente generano confusione, se cantano possono generare armonia.

Passiamo ora dalla musica teatrale a quella da camera, e apriamo lo Studio op. 10 n. 12 di Chopin, quello che si ritiene composto nel 1831 sotto l'impressione della caduta di Varsavia. Il contrappunto permise all'autore di esprimere in maniera simultanea, con il disegno affidato alla mano sinistra un tempestoso tumulto dell'animo, mentre la mano destra fa scaturire dalla tastiera del pianoforte grida violente d'impeto e di orgoglioso sdegno.

Negli esempi dianzi citati le melodie sovrapposte sono fra loro differenti, non hanno nulla di comune nell'accento, nessuna somiglianza nel disegno. Ma nel contrappunto «classico» uno degli artifici fondamentali è l'imitazione. Ciò si ha quando una parte propone una melodia che le altre parti imitano, anche talora per frammenti, o rovesciandone o comunque variandone il disegno e il valore delle note. Queste ripercussioni di un canto da una voce all'altra, generano spesso effetti di grande potenza dinamica. È come se la mente elaborasse un'idea ripetendosela sotto diverse luci, osservandola sotto differenti aspetti, allontanandola, avvicinandola, ridestandone infinite risonanze, ingigantendola, trasfigurandola. In tal modo il contrappunto può acquistare un carattere meditativo, e nelle sue costruzioni più grandiose, qual'è la «fuga», addirittura cosmico e trascendentale.

Il contrappunto è uno stile architettonico, e i rapporti fra le due forme d'arte, musica e architettura, sono tali che hanno indotto qualche critico d'arte a interpretare questa con la terminologia di quella. Leggiamo, per esempio, la descrizione che del fianco del Duomo di Modena ci dà in un suo pregevole libriccino Mario Martinozzi: «Gli archetti romanici ci sono, ma non appaiono evidenti perché intorno a loro c'è di più: essi non coronano le pareti lisce, perché sulle muraglie arcate cieche si susseguono da un capo all'altro, poggiate sulla sporgenza di semicolonne che arrivano sino a terra, con un motivo ampio e leggero, che interessa tutta la superficie della costruzione. Sull'alto delle pareti (dove cercheremo gli archetti) corre invece, più ricco decoro, la loggia romanica, una serie cioè di archi che hanno brevi colonnine per sostegno, e formano come una galleria di ben scarsa profondità, che tuttavia nereggia, incavata, sulla muraglia marmorea.

«Ogni arco di quei prima accennati contiene tre archetti della loggia: un armonia nuova, con ritmo ternario, di rilievo più intenso, si aggiunge all' «andante» calmo e grave della decorazione prima indicata. Curve d'archi più grandi e più leggeri, racchiudon curve d'archi più piccoli ma più profondi, accordo perfetto secondo legge di contrappunto.

«Gli archetti romanici si stendono lungo la cornice inferiore della loggia: ripetono ancor essi, con la loro voce leggera, il motivo delle due altre decorazioni: direi anzi che son essi che lo hanno intonato, ma lasciano dominare nel coro le sonorità maggiori.

«Ma vi è di più: abbassando lo sguardo verso la linea di terra ci vengono incontro i protiri dei due portali. L'uno, a sinistra, più piccolo, con una curva inferiore (che riprende quella dell'arco della porta) ed una curva più in alto, che termina il ripiano superiore. L'altro, verso destra, più alto, di maggiore sporgenza, concorda con il primo, se non che la curva del ripiano superiore racchiude tre arcate interne nel proprio arco, quasi accordo vibrante, più imperioso, del motivo della loggia romanica, che corre lungo la parete retrostante.

«Concludendo, la " Règia di piazza " raccoglie ed esprime con la massima intensità di rilievo e di chiaroscuro il tema armonico proposto dall'ornamentazione del muro ( dai timidi archetti, prima, dalle arcate cieche poi, indi dalla loggia), la "Porta Principe" viene a rincalzo, ma con tono minore: sono due voci che spiccano sul coro.

«Il resto è accompagnamento d'orchestra: in sordina.

«. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

«L'espressione della nobile chiesa è melodiosa; una dolcezza di canto gregoriano emana dai suoi marmi grigi e rosei»[24].

In questa succosa analisi c'è solo da osservare che il canto gregoriano è un canto monodico, cioè a una voce sola, e perciò non ha a che fare col contrappunto dianzi descritto, che forma realmente il fondamento estetico della chiesa romanica; e solo l'austera semplicità e ieraticità del disegno può richiamare la nuda severità del canto gregoriano. Dunque piuttosto contrappunto di canti gregoriani, uno dei quali per aumentazione (valori più ampi) contiene l'altro eseguito per diminuzione (valori più brevi): archi maggiori che contengono gli archetti minori.

È ovvio che se si può commentare una architettura usando terminologie musicali, è altrettanto possibile commentare una composizione musicale a più voci, cioè una polifonia vocale o strumentale, con termini di raffronto presi dall'architettura.

Per ciò che riguarda l'imitazione, essa costituisce il meccanismo tecnico che ha servito a creare musica per due secoli buoni in modo quasi esclusivo; intendo riferirmi al '400 e al '500. L'imitazione di un motivo proposto da una delle voci cantanti entra nelle villotte e nei madrigali; come, nelle forme strumentali, è parte essenziale delle canzoni francesi, delle fantasie e di molte danze, quali gagliarde, pass' e mezzi, saltarelli, passacaglie e simili.

Prendiamo, ad esempio, il Ballo detto del Conte Orlando dell'estroso liutista genovese Simone Molinaro, trascritto con tanto gusto per orchestra da Ottorino Respighi, e vi troveremo esempi di imitazione. La Gagliarda di Vincenzo Galilei, pure trascritta dal Respighi, ne offre altri esempi. Nelle trascrizioni in notazione moderna delle composizioni di Simone Molinaro fatte da Giuseppe Gullino se ne vedranno svariatissime forme, specialmente nelle ariose Fantasie; e altrettanto dicasi per quelle compiute da Oscar Chilesotti da una raccolta di vari liutisti del cinquecento. Apriamo poi il 3° volume dell'Arte musicale in Italia di Luigi Torchi, e nei Ricercari e nelle Canzoni per organo o cembalo di Gerolamo Cavazzoni o di Andrea Gabrieli, nelle Toccate di Claudio Merulo come nelle composizioni di Gerolamo Frescobaldi, e degli altri compresi nel citato volume, osserveremo sempre che l'imitazione è alla base del sistema costruttivo di ciascun autore. In ogni caso l'imitazione non è solo un procedimento scolastico o un mezzo decorativo elegante, ma anche un giuoco prospettico, che col presentare la proposta immagine sonora più in acuto o più in basso, cioè in piani diversi, più lenta (aumentazione) o più rapida (diminuzione), ne allarga l'orizzonte, ne dilata il senso spaziale. Se poi l'imitazione modifica il disegno del tema proposto, essa acquista valore di vera e propria elaborazione, di sviluppo, di ricerca meditativa.

In simili casi la fantasia fa nascere un'idea nuova da una precedente, e si ha un vero processo di trasfigurazione che conduce ad una forma nuova: la variazione. Quando poi l'imitazione è fatta per aumentazione o per diminuzione, cioè come si è detto, accrescendo nel primo caso e abbreviando nel secondo i valori delle note del motivo, ci troviamo di fronte a cambiamenti di stato d'animo in quanto il motivo può diventare così più grave o più agile e trovarsi in contrasto drammatico o almeno dinamico con la proposta.

Tutta la musica polifonica, sia vocale che strumentale, quando non sia omofona, o come altri ha detto omoritmica (cioè tale che le note delle parti hanno in comune lo stesso ritmo) non può fare a meno dell'imitazione, la quale ne costituisce il fondamento.

Chi vuol sapere quali possibilità racchiude l'imitazione, si accosti alla musica sacra di Giovanni Pierluigi da Palestrina. In lui l'artificio diviene mistico incantamento, contemplazione spirituale. Apriamo una sua Messa, per esempio quella detta ( Aeterna Christi munera»: i tenori iniziano un tema sulla parola «Kyrie», i contralti accettano il tema e lo ripetono, i soprani subito dopo lo portano più in alto, infine i bassi lo ampliano in profondità. L'atmosfera è piena di questa medesima vibrazione, che si ripercuote da voce a voce, creando un alone sacro che sembra irradiarsi tutt'attorno con un senso di elevazione indicibile. Le imitazioni in questa musica appaiono come tanti cerchi concentrici splendenti di luce, e ad ogni loro ripresa è un senso di beatitudine nuovo che ci rapisce. È questo fluttuare delle imitazioni che, insieme al carattere serafico delle melodie, ci dà il senso dell'infinito e dell'eterno. Altre volte le imitazioni ci penetrano con un fresco movimento gioioso, come in certi «Hosanna in excelsis» in cui le ripetizioni della frase melodica moltiplicano l'entusiasmo lirico fino all'ebbrezza.

L'altro suo grande contemporaneo, Orazio Vecchi, raggiunge invece con la polifonia effetti di alto lirismo umano e di iperbolica comicità. Fra le pagine più altamente liriche, in cui le imitazioni producono echi di una emotività che acuisce lo spasimo, è il lamento di Isabella «Ecco che più non resta speranza» nell'Amfiparnaso; mentre la comicità più ridanciana trionfa nella satira degli Ebrei che pregano, dove le imitazioni strette e le sovrapposizioni cacofoniche dello strano linguaggio a loro prestato dal Vecchi creano una buffissima confusione babelica di suoni e di sillabe.

Ma se noi vogliamo vedere l'imitazione in tutto il suo splendore, dobbiamo prendere le Invenzioni a due e a tre voci di Bach, ed anche certi preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato o della Messa in si minore. In Bach il giuoco delle proposte e delle risposte passa per tutti i gradi dell'espressione, or concitata or gaia, ora meditativa ora estrosa, ora burlesca ora pomposa, con infinite sfumature, e con un senso di vita ampio e vigoroso che nasce da una concezione profondamente poetico-architettonica dei suoni e dei loro rapporti di ombra e di luce, di vuoto e di pieno, di orizzontalità dei disegni melodici e di verticalità delle ripercussioni acute o gravi.

Mozart e Beethoven si valgono spesso del medesimo sistema, il primo con effetti di grande purezza e di grazia; il secondo con profonde vibrazioni drammatiche. Di Beethoven basterà citare, come una delle pagine più note, la struttura del 1° tempo della V Sinfonia, in cui il sistema delle imitazioni assume l'aspetto di una lotta fra elementi tragicamente contrastanti, specialmente per il rovesciamento del disegno dell''imitazione.

Nel Requiem tedesco di Brahms, l'ultima parte (n. 7) «Beati i morti» («Selig sind die Toten»), è sostenuta da un movimento ad imitazioni, ora legate ora spezzate, che produce uno stato di turbamento, specie dove si oppongono fra loro gruppi strumentali diversi; turbamento che si accentua per il contrasto fra questo movimento orchestrale, che sembra oscillare fra il cielo e l'abisso, e la maestosa e dolce calma della melodia affidata al canto. Ma verso la fine sono le voci stesse che si rincorrono imitandosi e sostano in una zona calma centrale, mentre vasti arpeggi orchestrali si snodano verso l'alto ove regna il sereno di note acute dei legni: è una corsa alla conquista della pace, un'ascesa al regno dei cieli.

Su la tecnica delle imitazioni è costruita la sinfonia de La Favorita di Donizetti; ciò che dona all'introduzione di essa (Larghetto) un carattere grave e sacro, mentre nell'Allegretto i disegni imitativi ne accrescono il fervore e la concitazione drammatica.

Anche le prime sei battute con cui si inizia La Bohème di Puccini e che costituiscono un motivo che vuol esprimere la spensieratezza dei bohèmiens, motivo che si ripeterà poi varie volte durante l'opera, non sono che un tema a imitazioni rovesciate: a un primo brevissimo disegno discendente se ne contrappone un altro ascendente, e così per tre volte consecutive sempre più in alto fino a che il motivo ascendente si sviluppa ampio e libero in un'ondata estrosa e gioviale.

Ma per il carattere meditativo e per l'uso che, appunto in grazia di tale carattere, si è fatto della imitazione nella musica sacra, essa è largamente impiegata da Wagner nel Parsifal, principalmente nel preludio e nell'introduzione al 1° atto («tema della fede»), nel viaggio di Parsifal e Gurnemanz verso il Gral («tema delle campane») e nel finale dello stesso 1° atto (gli stessi due temi); nel preludio al 3° atto («tema della solitudine») e nell'Incantesimo del Venerdì Santo («tema del prato fiorito»).

Polifonia e imitazioni hanno spesso un'importanza preponderante nelle composizioni di Riccardo Strauss, e particolarmente nei suoi poemi sinfonici. Gli effetti contrastanti fra i diversi motivi che si intrecciano, per esempio, nel Don Giovanni, provocano reazioni dello spirito in differenti direzioni mantenendo l'uditore in uno stato di fortissima tensione. Talvolta il polifonismo strumentale è così denso da produrre un senso di turbamento, mentre altre volte per l'eccesso di colorismo e la complessità dei viluppi tematici vien fatto di pensare a una pesante, anche se sfarzosa, architettura barocca.

Quando poi un ampio motivo è ripetuto per intero come un'eco, a breve intervallo dal suo inizio, da un'altra parte (talvolta anche da più) accavallandosi fra loro con effetto armonico gradevole, si ha allora la forma detta cànone. Non è il caso di indicarne tutte le modalità, ma ci limiteremo a ricordarne un esempio abbastanza noto nell'ultimo tempo della Sonata per violino e pianoforte di Cesare Franck. L'effetto è fresco e festosamente sereno. Altrettanto fresca e gaia è l'espressione del cànone che forma le due prime parti del Minuetto nel Quartetto op. 76 n. 2 di Haydn. Sembra il giuoco di due fanciulli che si rincorrano per pigliarsi, sfuggendo sempre alla presa. La forma cànone si appropria bene al giocherellare di Mefistofele col mondo, nella strofetta «Ecco il mondo vuoto e tondo» (atto 2°, parte 2ª dell'opera omonima). Il cànone però è in questo caso brevissimo perché ben presto i due movimenti si accordano, pure ballonzolando in direzioni contrarie con buffa ed ironica danza. Con un cànone dal motivo violento, Wagner descrive nel Lohengrin il duello fra il messo del San Gral e Telramondo; e il rincorrersi aderente delle due parti del cànone raffigura in una forma espressiva il duellare dei due campioni.

Ma vi sono anche cànoni, e sono il maggior numero, di forma austera. In questo caso l'inseguimento delle parti ricorda non due fanciulli che giochino o due combattenti che duellino, ma due monaci, uno dei quali ripete com'eco la preghiera intonata dall'altro studiandosi di armonizzare il suo sentimento con quello del compagno. È questo il caso di certi cànoni di Bach e di Händel. Ma, in generale, l'espressione del soggetto del cànone è accentuata dall'eco seguace, dalla voce imitante.

Un bell'esempio di cànone a quattro parti per pianoforte si trova nel «Gradus ad Parnassum» di Muzio Clementi: l'intreccio delle parti che ripetono, sfasate di una battuta l'una dall'altra, lo stesso discorso con lo stesso preciso disegno, ha la scorrevolezza di una costruzione spontanea e facile (ed è in realtà assai difficile) e fa pensare ad una meditazione di più persone su lo stesso soggetto, intorno al quale si trovano tutte d'accordo. L'architettura di esso ha qualcosa di logico, di ferreo, e pure, per l'arte del compositore, di elegante e decorativo com'è di certi fregi intrecciatissimi di Leonardo da Vinci dove la bravura del disegnatore scompare nell'apparente facilità dell'ideazione, e nell'armoniosa fastosità dell'insieme.

Un altro cànone elegantissimo a due voci è nell'Allegro (parte in minore) della Sonata in re minore e maggiore op. 40 n. 3, dello stesso Clementi, che in questo genere di contrappunto era maestro. E un altro breve esempio, pure del Clementi, ma questa volta con espressione drammatica, è nell' Allegro agitato e con disperazione della Sonata «Didone abbandonata», ove l'intreccio di due motivi uguali e agitatissimi accentua il senso di sconvolgimento dell'animo di Didone che il Maestro volle esprimere.

E non manca neppure un breve esempio comico di cànone, quello dell'Amen di Bardolfo e Pistola alle spalle dello scornato Dottor Cajus nel 1° atto del Falstaff verdiano.

Ma la forma in cui tutti gli artifizi contrappuntistici sono contenuti, e attraverso i quali la fantasia dell'artista ha modo di creare architetture sonore monumentali è la fuga. Essa consiste nell'esposizione integrale di un tema o soggetto fatta da una parte vocale o strumentale. Tale soggetto viene ripetuto, uguale o modificato (risposta), da un'altra parte, mentre la prima contrappunta con un altro disegno detto contrassoggetto; e così di seguito quante sono le parti vocali o strumentali. Fra una ripresa e l'altra del soggetto questo può venire melodicamente sviluppato e variamente imitato, talora anche a frammenti e con progressioni armoniche (successione regolare di accordi sopra un basso che sale o scende a intervalli di tono costanti): tutto ciò costituisce il divertimento. Dopo un'altra ripresa del soggetto segue lo stretto, che consiste nell'avvicinare il più che sia possibile il soggetto e la risposta, e magari nel sovrapporli e svilupparli simultaneamente. Questa parte serve generalmente di chiusa alla fuga, spesso dopo un lungo pedale su cui si svolgono progressioni.

La composizione può assumere carattere ancor più complesso se consta di più soggetti. Non è qui il caso di addentrarci in maggiori particolari tecnici che fanno parte di trattati speciali ad uso dei compositori. Sarà invece utile osservare come questo ripercuotersi del soggetto da una parte ad un'altra, ad altezze, con timbri e in tonalità differenti, esalta e moltiplica smisuratamente la forza insita nel soggetto medesimo; mentre il contrassoggetto e le imitazioni del divertimento aumentano le risonanze del soggetto sotto molteplici aspetti spirituali e generano continue trasfigurazioni dell'idea madre. È come se assistessimo ad una discussione interiore intorno ad un argomento che ci si presenta ogni volta sotto luci e colori diversi, e che, con il suo insistente ripresentarsi, s'impadronisce della nostra volontà e la domina con la forza dell'assoluto, dell'ineluttabile, mentre lo stretto dà a questa imperiosità dell'idea l'eccitamento più violento ed esaltante, talora quasi la vigoria d'un'ossessione, la cui conclusione ha la potenza di una conquista abbacinante, di una distensione vittoriosa, trionfale.

Anche in questo caso, come s'è detto in generale per qualsiasi composizione contrappuntistica, è necessario che chi ascolta sappia afferrare ogni ritorno, anche frammentario, invertito, variato, del soggetto, del contrassoggetto e delle risposte, allo stesso modo che (se è lecito paragonare una costruzione artistica a un divertimento sportivo, il che facciamo con le dovute riserve) in una partita di calcio giova tener dietro, pur senza perder di vista l'insieme della mischia e l'unità del giuoco, i movimenti dei principali attori del gioco stesso.

Quando una composizione inizia con il tipico aspetto d'una fuga, ma in seguito mancano di essa lo svolgimento e la complessa struttura, allora noi diciamo che abbiamo a che fare con un fugato. Forma questa usatissima anche oggi, quando l'autore voglia dar l'impressione di un concitato movimento dello spirito o di un'azione drammatica. Con un fugato si apre, ad esempio, il 1° atto della Butterfly di Puccini. Il tema proposto dai 1i violini, passa successivamente ai violini 2i e alle viole, poi ai violoncelli, e finalmente a questi in unione ai contrabbassi, con un crescendo di animazione che prepara alla vivace descrizione della casetta a pareti scorrevoli. Anche Giordano descrive efficacemente con un nervoso movimento fugato l'affannosa ricerca di una lettera nel 1° atto della Fedora. Con un fugato di andamento calmo e di espressione malinconica (data specialmente dallo strumentale: prima corno inglese e fagotto, poi clarinetto e corno, indi clarinetto e fagotto, e infine violoncelli, contrabassi e fagotti) si apre il Boris Godunoff di Mussorgski, e nulla poteva darci meglio il colore ambientale nostalgico pensoso e doloroso insieme, di questo susseguirsi della stessa nenia per tinte pallide ed opache.

All'inizio del 3° atto del Falstaff, con un breve fugato, che diviene sempre più rabbioso nella crescente sonorità, Verdi rievoca, con fine umorismo, al pensiero dello scornato pancione, la caccia di Ford. L'idea della beffa giocatagli ballonzola fastidiosa nella mente di Falstaff attraverso all'insistenza del tema che, ripetendosi (come una brutta idea che non si riesce a cacciare e si impadronisce nostro malgrado sempre più di noi), sale dalla penombra del pianissimo al clamore del fortissimo con irritante dispetto.

La fuga vera e propria, composizione di più vaste proporzioni e di più ampio respiro, può stare a sé, preceduta o no da un preludio o da una Toccata (sorta di preludio per strumenti a tasto). E quando si parla di preludi e fughe, non si può non pensare a quell'opera monumentale che è il Clavicembalo ben temperato di Giovanni Sebastiano Bach. La solidità armoniosa della costruzione nelle fughe di Bach è un prodigio, mentre la espressione va dal mistico al burlesco. I soggetti ci afferrano per lo scultorio rilievo, e il loro riapparire aggiunge ogni volta un palpito nuovo di vita. Specialmente alcune di queste fughe, come la «Fuga cromatica», così calma nel suo quasi dolente procedere; quella così misteriosa nell'ondeggiamento dolce del suo tema, che segue la «Toccata in re minore» per organo; l'altra dal disegno scherzosamente umoristico successiva alla «Toccata in do maggiore» pure per organo (per citare tre delle maggiori), oltre all'emozione estetica derivante dalla forma perfetta, presentano una ricchezza inventiva, una tale altezza luminosa di fantasia da far pensare a canti di un poema ariostesco.

In Händel, specialmente nel Messia e nell'Israel in Egitto, le fughe acquistano un andamento più solenne e grandioso, sia pel carattere dei soggetti, come per il frequente uso dei movimenti larghi o moderati. Fughe alle quali le frequenti ampie volute vocali conferiscono un senso decorativo come di fregi aurei splendenti e fastosi. Nel Beethoven della Messa solenne in re maggiore le fughe danno l'impressione di un orgiastico tripudio sonoro, e s'avvicinano di più al tipo di fuga händeliana che a quello bachiano. Ma i vocalizzi sono meno austeri che in Händel e nei loro intrecci meravigliosi sono ripieni d'un più impetuoso senso di esultanza, e rendono talora l'immagine della «gloriosa rota» che Dante vide girare a torno cantando nel quarto cielo del Paradiso. Ma nella Sonata in la bemolle op. 110 per pianoforte la fuga acquista un carattere eroicamente drammatico. «Sforzo della volontà per abbattere la sofferenza» la disse il D'Indy, e non a torto, in quanto v'è nell'incisività possente del tema e negli sviluppi di questa fuga qualche cosa di veramente titanico.

Anche il Brahms del Requiem tedesco oscilla, con tinte più romantiche, fra Händel e il Beethoven della Messa, con un senso di grandiosità più denso e massiccio per il dovizioso contrappunto e il più carico colorito dell'orchestra. Mozart invece, che nel Requiem seppe essere robusto con varietà e fresca fioritura di vocalizzi, nella Sinfonia del Flauto magico ci lasciò l'esempio di una fuga di somma levità e leggiadria.

Anche nel teatro la fuga ha portato il suo intimo fervore di vita e la sua animazione strutturale. Nei Maestri Cantori di Wagner è appunto una fuga, sia pure concepita e condotta con libertà stilistica così da apparire piuttosto un colossale fugato che una fuga regolare, che con i continui assalti di un tema balordamente pedante serve a descrivere la baruffa con cui si chiude il 2° atto. Contribuisce a rendere più babelica la baraonda di questo finale il ritorno sonoro di un altro frammento tematico irritante: quello della goffa serenata di Beckmesser.

Boito nella chiusa del «Sabba romantico» del Mefistofele ha affidato a una fuga dal soggetto fieramente marcato il compito di descrivere una ridda infernale, ed ha scritto indubbiamente una pagina di pittoresca efficacia. Verdi si è servito nel Macbeth di una breve fuga per descrivere la battaglia in cui il protagonista viene ucciso. «Il corrersi dietro che fanno i soggetti e controsoggetti - scriveva il Maestro - e l'urto delle dissonanze possono esprimere abbastanza bene una battaglia». E realmente il tema energico guerresco, che squilla negli ottoni, evoca con viva suggestione negli avvolgimenti della fuga il cozzo di due eserciti e l'inseguimento dei vinti.

Ne La dannazione di Faust di Berlioz la fuga che i beoni intonano nella Cantina d'Auerbach parodiando gli «Amen» fugati della musica sacra, vuol essere umoristica, e come tale la sua pedantesca regolarità scolastica è pienamente appropriata. Decisamente burlesca, nel soggetto e negli sviluppi, o invece la grande fuga «Tutto nel mondo è burla» con cui si chiude il Falstaff verdiano. L'idea beffarda rimbalza con scintillante vivezza da una voce all'altra dei personaggi, dei cori e dell'orchestra con l'effetto di una risata che si propaga fragorosa e incontenibile.

Ma negli oratori di Lorenzo Perosi la fuga ritorna alle sue origini sacre, risale verso Bach, pure con una espressione più intensamente patetica, e con coloriti orchestrali che attingono le tinte alla tavolozza di Wagner. Poiché infatti è in orchestra che si svolge la fuga perosiana, mentre il Maestro non si cura molto della polifonia vocale, usando egli del coro più come un personaggio attivo del dramma sacro che come elemento musicale per creare architetture sonore (salvo alcuni momenti d'estasi giubilante, come l'Alleluja finale de La Risurrezione di Cristo, del resto più omofono che polifonico).

Per ciò che riguarda il pathos, mentre in Bach e in Händel sono la ricchezza e la grandiosità della costruzione sonora che si impongono, in quanto soggetti, risposte, contrassoggetti, divertimenti, ecc. sono in funzione di puri elementi architettonici e decorativi, in Perosi il fatto espressivo dei temi giuoca una parte preponderante, specialmente nelle fughe strumentali. Si pensi al carattere misteriosamente ansioso del tema della fuga che descrive appunto la fuga in Egitto di Giuseppe e Maria ne La strage degli Innocenti, a quello grave di pietosa malinconia della fuga che nella 1ª parte de La Risurrezione di Cristo si svolge sotto le parole dello Storico «Cum autem sero factum esset» (forse la più bella delle fughe perosiane), a quello dolorosamente piangente del fugato che descrive la malattia di Lazzaro ne La risurrezione di Lazzaro, a quello così sereno che descrive la risurrezione dei giusti nel Giudizio Universale. Inoltre su le fughe strumentali Perosi innesta recitativi e dialoghi vocali, trasformando con tale fusione la fuga orchestrale in un commento drammatico del testo e dell'azione. Così l'antica forma polifonica acquista un indirizzo nuovo.

Capitolo VIII: Il teatro musicale nei secoli XVII e XVIII [Indice]

Sarà utile una premessa. A taluno è parso assurdo che si associ la parola alla musica, considerando questo fatto come una diminuzione di valore della musica stessa. A parte che tale unione è forse antica quanto l'uomo medesimo, tutti noi sappiamo che allorquando si vuole accentuare e dar peso al nostro discorso, lo facciamo intonandolo quasi musicalmente:

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Quante volte non usciamo in esclamazioni intonate come questa, anche se l'intonazione sarà solo approssimativa? E perché? Perché il suono dà valore al pensiero, e ancor più al sentimento da cui il pensiero prende vita ! Davanti a qualche cosa che ci entusiasma ed esalta viene istintivo di intonare in qualche modo musicalmente la nostra emozione, precisandone anche con la parola il significato.

Sono fatti incontrovertibili che datano forse da Adamo ed Eva. E perché dunque ciò che nasce con tanta spontaneità in noi per i più svariati stati emotivi della nostra esistenza e della nostra coscienza non potrebbe prendere veste d'arte? Taluno pensa, per esempio, che il raccontare i propri fatti cantando sia contro verità, ma la verità non è oggetto dell'arte, e, del resto, già l'Algarotti giustamente osservava che «se la musica fosse scritta come si conviene, non vi sarebbe maggior disconvenienza che uno morisse cantando che recitando dei versi»[25]. Occorre pure tener presente che se la musica non si limita a imitare il suono e l'accento esteriore della parola cantata (il che trasformerebbe il canto in una sonorizzazione più o meno veristica del discorso parlato) essa deve penetrarla e trascenderla. In altri termini, l'associazione parola-musica non è un' «applicazione» di quest'ultima al testo. Se così fosse sarebbe una cosa sciocca! È una creazione ex novo, ispirata a una personale intuizione poetica del testo, in una trascendenza della parola, in qualche cosa cioè che va al di là del suo suono parlato e del suo significato logico. L'Otello di Verdi non è né L'Otello di Shakespeare né quello di Boito; è esclusivamente «L'Otello di Verdi». La «Casta Diva» di Bellini, un lieder di Schubert, la morte di Otello nell'opera verdiana (per limitarmi a pochi esempi insigni) non sono imitazioni della parola, ma trasfigurazioni di essa. In questi casi la musica operistica o liederistica, anche se suppone un'origine drammatica o lirica da un testo verbale, è «musica pura» tanto quanto la musica strumentale da camera e sinfonica. I negatori del melodramma sono perciò in errore considerandola musica «inferiore». La musica, dove ha raggiunto una compiuta rappresentazione, non è mai «inferiore». Inferiore è solo quella che dice poco o nulla, e la musica «brutta».

Si fa risalire comunemente, anche se ciò non è interamente esatto, l'origine del melodramma agli esperimenti della «Camerata fiorentina» (sec. XVI). Il tentativo dei cameratisti fiorentini di dar vita musicale a una favola pastorale, tentativo in gran parte non riuscito per l'aridità del recitativo musicale adottato da Jacopo Peri e da Giulio Caccini nella loro Euridice (1600 e 1602), doveva di lì a pochi anni sboccare per il genio di Claudio Monteverdi in una creazione nuova: il melodramma. Il monotono recitativo dei cameratisti trovava la propria morte nella teoria stessa da cui nasceva, in quanto il Peri e il Caccini partivano da un'ottusa reazione al polifonismo vocale del Cinquecento, anelavano a un'impossibile risurrezione della tragedia greca (di cui poco o nulla sapevano), e volevano attuare un «cantar senza canto», come scrisse Padre Angelo Grillo, «imitar col canto chi parla» secondo l'espressione del Peri, e cioè trovare qualche cosa «che pigliasse forma di cosa mezzana» tra il cantare e il parlare, facendo «ragionare un solo cantando et non tanti nell'istesso tempo come oggi contro ogni dovere si costuma» a quanto afferma Vincenzo Galilei che della Camerata fu il teorico; monodia contro polifonia: ecco la molla che li fa agire. Oltre ai brevi madrigali polifonici introdotti per varietà dello spettacolo, e ai ritornelli strumentali, solamente in pochi momenti il recitativo dei maestri fiorentini si lascia prender la mano da una più sentita ispirazione lirica, mentre nella maggior parte dei casi il senso di grigiore e di freddezza che noi proviamo di fronte a queste forme è dovuto all'atmosfera soffocante del teoricismo che sopraffà ogni libera ispirazione.

Emilio de' Cavalieri informa la propria attività agli stessi criteri, ma nella sua Rappresentazione di Anima et di Corpo (1600) lascia al recitativo un maggior movimento melodico; e usa più sensibilmente di qualche elemento descrittivo.

Il vero creatore di quello che in seguito fu detto il melodramma, è Claudio Monteverdi, il quale riprendendo nel 1607 il mito favoloso di Orfeo scioglie le rigide pastoie in cui era costretto il recitativo fiorentino e ne allarga il respiro, cercando non più l'intonazione musicale del linguaggio parlato, che abbassa la musica a una pura imitazione meccanico-sonora, ma, ispirandosi al principio che la musica deve «muovere li affetti», trova un linguaggio musicale nuovo che esprime l'emozione di chi parla «a similitudine delle passioni dell'oratione».

La musica non si ferma dunque all'esteriorità del linguaggio più o meno commosso, ma scende addirittura all'origine della commozione stessa da cui le parole scaturiscono per trasfigurarla in canto. Ciò ch'egli fa è quindi arte come espressione di vita spirituale; in una parola: poesia.

Ora, si noti bene che tutte le volte che nella storia del teatro musicale qualche cosa di grande è stato compiuto, il principio al quale il compositore si ispirò è sempre lo stesso al quale si informò l'arte di Monteverdi.

Egli perciò non rifiuta il coro polifonico, ma anche questo anima con più vigorosa linfa di melodia; e analogamente agisce pei ritornelli strumentali, ampliandoli dove occorra, e aggiungendo preludi e sinfonie che preparano l'animo agli avvenimenti o all'ambiente in cui si svolgono. Dà al recitativo intonazione altamente lirica e drammatica, e si serve anche di «canzoni a ballo» e di arie stronche, per le quali attinge l'ispirazione alle forme popolari. E procedendo di scoperta in scoperta, specialmente dopo quella grande esperienza che fu per lui la creazione dei Madrigali guerrieri et amorosi (1638) ov'è la bellissima scena drammatica del Combattimento di Clorinda e Tancredi nella poesia del Tasso, inventa nuovi mezzi espressivi, quali lo stile concitato, il tremolo e il pizzicato degli archi; aumenta, ove l'ambiente glielo permette, il numero degli istrumenti nell'orchestra (che viene mantenuta, secondo le intenzioni dei cameratisti, dietro le scene), usa ritmi nuovi, armonie e (quando sia opportuno) dissonanze audaci. E porta tutto questo alla perfezione nell'ultimo capolavoro L'incoronazione di Poppea composto nel 1642, un anno prima della morte.

Il «racconto della Messaggera» e l' «addio di Orfeo alla Terra» nell'Orfeo; il «lamento d'Arianna» (unico frammento rimastoci dell'Arianna); il dialogo fra i due militi romani, il duetto fra il paggio e la damigella, la morte di Seneca, alcuni duetti fra Poppea e Nerone, l'addio a Roma di Ottavia, la canzone di Arnalta per addormentare Poppea nell'Incoronazione di Poppea; il personaggio di Iro il pitocco nell'opera Il ritorno d'Ulisse (1641), ci danno intera la misura di un genio che attraverso specialmente al recitativo melodico penetra nel cuore della situazione e dei caratteri e ne trae la melodiche proprie delle polifonie cinquecentesche poesia musicale con accenti indimenticabili.

Naturalmente chi ascolta oggi questi canti non li può confrontare con i recitativi e le arie moderne; non perché quelli del Monteverdi siano più primitivi, che un tal giudizio sarebbe un errore, in quanto ciò che a noi oggi può sembrare primitivo rappresenta (come nelle arti figurative) l'espressione spirituale del suo tempo (tanto lontano dal nostro !), ma perché l'ispirazione monteverdiana non può non essere in qualche modo legata non solo all'arte sua contemporanea ma anche a tutta l'arte precedente. Perciò noi vi sentiamo ancora qua e là l'eco di espressioni e di un mondo di emozioni sgorgate da basi di pensiero umane e sociali ben diverse. Ciò che invece importa notare è lo spirito nuovo che vivifica queste espressioni attraverso l'arte e il genio rinnovatore di Claudio Monteverdi. Se terremo a mente questo, noi potremo essere presi e profondamente commossi da accenti che, in una forma che non è più la nostra, ci ripetono parole e ritmi eterni dello spirito.

Quadri, dunque, di bellezza immortale, anche se la patina è antica, sono queste opere del Monteverdi. Quando, ad esempio, ascoltiamo nel 2° atto dell'Orfeo, il racconto che la Messaggera fa della morte d'Euridice, fino dal suo apparire improvviso, su un inatteso accordo che interrompe la festività fresca della scena precedente e ci getta in una tonalità nuova, noi avvertiamo i segni inconfondibili di una verità tragica potente. I suoni sono gravi, oscuri, il discorso lento, sbigottito. Poi la narrazione si fa concitata, tocca lo spasimo al ricordo dei vani richiami di Euridice allo sposo assente, e infine acquista le tinte e il ritmo di un accasciamento mortale alla rievocazione della fine miseranda. Orfeo non ha sulle prime che frasi tronche per lo smarrimento angoscioso. Poi a poco a poco l'animo riprende lena, una volontà nuova e audace si afferma: quella di rapire la sposa all'Averno. Ed ecco salire da questa volontà il saluto alla Terra e alla luce che forse non vedrà più, con un senso di sublimità in cui vibra la più intensa forza eroica.

Tutto ciò è raggiunto con quella schietta semplicità di mezzi che nessuna patina di tempo può velare; siamo nel campo più puro e alto dell'arte: quello della trasfigurazione della vita.

Il Lamento d'Arianna (1608) ha la stessa intima verità poetica nell'espressione del dolore; quella verità che fece esclamare a D'Annunzio: «Quale dolore su la terra ha mai pianto così?».

Drammatico e comico, liricità di pianto e di gioia si intrecciano con pari verità ne L'incoronazione di Poppea. Sono le mormorazioni pavide dei due militi stanchi e annoiati di fare la guardia a Nerone e a Poppea, che maledicono il loro imperatore e la sua amante, l'amore e Roma e la milizia !; sono le sottili civetterie della damigella che con levità frivola di accenti insegna il bacio al paggetto; è la sensualità di Nerone che si abbandona a un canto melodioso nel salutare la sua ambiziosa amante; è il lamento cromatico degli amici di Seneca in contrasto drammatico col suo recitativo calmo e sereno; è il fastoso e fatuo cantare degli adulatori ed amici di Nerone per la morte del filosofo; è il rotto pianto di Ottavia e il suo doloroso e austero saluto a Roma; è la blanda nenia, solcata da lunghe note riposanti su un movimento cullante dei bassi, che Arnalta canta mentre Poppea si assopisce; è il trionfale squillare di fanfare e il solenne coro dei tribuni e dei consoli che salutano la nuova imperatrice. Tutto ciò fa de L'incoronazione di Poppea la più alta parola che nell'arte drammatica sia stata detta dal secolo XVII.

Un esperimento di riesumazione delle migliori opere di Francesco Cavalli, il più drammatico dei compositori del Seicento italiano dopo Monteverdi, sarebbe interessante. Le arie che si conoscono sono più liricamente espansive delle composizioni monteverdiane, ma vi appare anche un minore controllo critico. Tuttavia pittura di stati d'animo, vigoria nei quadri d'assieme non mancano.

Nell'aria di Mandané «Deh, sia l'ultimo del mio vivere questo die» nell'opera Ciro (1655) il sentimento drammatico di chi invoca la morte è raggiunto mettendo le ondate delle progressioni strumentali che salgono sospirose a contrasto simultaneo con la melodia del canto che scende, sostando con dolore tra un inciso e l'altro della frase, accentuando tale senso del dolore nelle esclamazioni «Cieli, pietà» (note forzate) e con sincopi frequenti che accrescono l'ansia. Nell'aria di Sesto «Cieche tenebre, apprestatemi denso vel» nell'opera Pompeo Magno (1666), il senso drammatico è dato dall'insistere grave del periodo musicale prima su una stessa nota, poi dal risalire disperato del disegno, per ricadere affranto su le ultime note. Altro carattere ha l'invocazione di Medea «Dell'antro magico» nell'opera Giasone (1649), ove gli accordi massicci hanno qualcosa di fatale che pienamente si sposa alla declamazione violenta e cupa: e il recitativo che la precede è esso pure nervoso e pieno di movimento.

Di tutt'altro tipo ancora è nell'opera Serse (1654) l'aria del Re «Beato chi può», in cui la vita semplice, lontano dal fasto e dalla falsità della Corte, è evocata con uno stile cantabile che oscilla contemplativo fra l'idillio e il sogno nostalgico, perfino nei vocalizzi che hanno valore di melodiosi sospiri.

Ma questi non sono che felici frammenti, ed è possibile che nella loro interezza le opere del Cavalli, e più ancora quelle dei suoi successori migliori, non possano reggersi per la scarsa robustezza dei recitativi, la troppo debole coerenza organica dell'insieme, e la non felice struttura dei libretti.

Anche di Marc'Antonio Cesti, che portò alla lirica musicale il contributo di una sensibilità assai fine e patetica, e che ha pure il merito d'avere resa più sciolta la forma dell'aria, nessun'opera può oggi reggersi intera. Non rimangono che, stupendi frammenti, diverse di queste arie, nelle quali ci è facile riscontrare un sentimento della melodia più distintamente affettivo, ma limitato a un più ristretto orizzonte d'affetti. Così è nella nota aria, pur bellissima per eleganza snodata di forma, dell'opera Orontea (1649): «Intorno all'idol mio», che ondeggia in un'atmosfera di sognante sensualità quasi romantica. Più ampia frase e maggior libertà di sviluppo presenta l'aria di Polemone nell'opera Tito (1666): «Berenice, ove sei?»; in cui le ripetute invocazioni del nome amato si prolungano con desolato stupore e sembrano sperdersi in una solitudine silenziosa.

Giovanni Legrenzi porta nelle sue arie un contenuto di grazia e di brio nuovi, e una finitezza formale preziosa. Ma il recitativo si smarrisce sempre più. Coi compositori minori, specialmente dopo l'apertura dei teatri al pubblico, il melodramma diverrà un'infilata poco coerente di arie e di duetti mal collegati da recitativi che (per il disinteresse che il pubblico dimostrava per queste parti dell'opera) s'avviano sempre più verso il recitativo secco. Si tratta di quel recitativo uniforme, a cadenze convenzionali (dominante-tonica) accompagnato da accordi tenuti del cembalo, recitativo usato poi quasi continuamente nel secolo XVIII, perfino dai maggiori, perfino da Mozart, ed anche, già nei primi decenni dell'Ottocento, da Rossini.

La decadenza del melodramma si estende anche alle arie che vengono infiorate di inutili vocalizzi, spesso contrastanti con le parole del testo e coll'azione, affinchè il cantante possa far pompa del suo virtuosismo. Il testo medesimo non è più che un pretesto per scrivere delle melodie, nelle quali, per non alterarne la linea, una stessa parola viene più volte ripetuta senza ragione. Per fortuna molti dei vocalizzi non venivano scritti, ma improvvisati dal cantante, cosicché i manoscritti di queste opere ci danno ancora nella loro purezza le ispirazioni melodiche del compositore prive di ogni aggiunta estranea e parassitaria. Ma l'influenza dannosa del virtuoso si estendeva anche all'azione e quindi alla compilazione del libretto che si rimpinzava di arie di vario tipo affinché tutti i cantanti potessero a un certo momento mostrare la loro bravura sotto ogni aspetto della tecnica canora. Ciò diluisce e spesso arresta l'azione, cosicché il dramma, come opera d'arte sia letteraria sia musicale, perde ogni organicità ed ogni unità, mentre i caratteri vengono falsati da una tendenza generale del gusto sei-settecentesco. Infatti mentre nel Seicento l'eloquio è ampolloso e vacuo, nel Settecento diventa frivolo e sdolcinato.

La conseguenza di tutto ciò è che dopo Monteverdi e per tutto il Settecento non troveremo che rarissimamente melodrammi abbastanza vitali. Citiamo fra questi come esempi più cospicui: l'Olimpiade (1735) di Giovan Battista Pergolesi, l'Arianna (1727) di Benedetto Marcello e soprattutto le ultime opere, vitalissime, di Cristoforo Gluk.

Non cercheremo nell'Olimpiade e nell'Arianna accenti di spasimo nell'espressione del dolore e del pianto. Il Settecento non vuol cessare d'essere melodioso neppure nei momenti più gravi e agitati della vita. L'aria si è ormai stereotipata in una forma che solo rarissime volte subisce cambiamenti. Lo schema dell'aria settecentesca, specialmente italiana, è il seguente: 1ª parte: a) motivo dell'aria proposto dall'orchestra; b) motivo esposto dal canto e spesso ripetuto con qualche variante dopo un breve intermezzo orchestrale. 2ª parte: a) nuovo breve intermezzo e secondo motivo (generalmente in tono minore, d'espressione più patetica); b) Da Capo, cioè ripresa del motivo vocale della 1ª parte.

Non ostante lo schema, di cui per tutto il Settecento si abusa, molte sono le arie veramente ispirate, perché numerosi furono i compositori geniali. Il senso della melodia, nella sua forma equilibrata e simmetrica, domina il Settecento con la sua serenità calma, con la sua grazia elegante, che non si scompone neppure di fronte ai più atroci casi della tragedia. È perciò con audacia che Pergolesi spezza questo schematismo formale nella celebre aria di Megacle «Se cerca, se dice, l'amico dov'è?». La frase musicale si rompe come per interno affanno, e la richiesta «dov'è?» è insistentemente ripetuta; poi la voce ha uno scatto di passione alla frase: «Ah no ! sì gran duolo non darle per me». Poco prima della seconda parte, la frase di nuovo si spezza in esclamazioni dolenti: «Ah..., no !... no !... senti... Amico... senti» con effetto di viva ansietà. Insomma, la forma stereotipa dell'aria è superata, e al suo posto c'è la verità artistica. Se l'esempio precorritore del Pergolesi fosse stato compreso e seguito (l'opera invece cadde clamorosamente!) la storia del melodramma in Italia sarebbe stata ben diversa.

L'Arianna di Marcello presenta ben altre audacie: disegni melodici con salti vocali enormi nella parte di Bacco, recitativi spesso abbastanza sciolti e qua e là efficacemente drammatici, cori pieni» d'ebbrietà dionisiaca» (come D'Annunzio definì quello che chiude il 1° atto) in cui l'autore alterna procedimenti omoritmici a procedimenti polifonici con varietà nuova, e arie che toccano aspetti nuovi della sensibilità melodica, o rinfrescano espressioni antiche con nuova ispirazione, com'è del lamento d'Arianna, «Come mai puoi vedermi piangere», in cui vibra un'amarezza sconsolata. Ma forse il lato più originale è dato dalle mille voci della Natura divenute, per opera del musicista, poesia pura; e sono canti d'uccelletti, mormorî d'onde, visioni campestri idilliche, danze di satiretti, e mormorio di fronde. C'è in germe, in questi spunti, molto Wagner ed anche molto impressionismo moderno.

Ma queste nobili prove del Pergolesi e del Marcello, non valsero a risollevare il melodramma italiano, come non valsero allo stesso scopo le opere a indirizzo più o meno riformatore di Nicolò Jommelli e di Tommaso Traetta. Il melodramma ristagnava nella palude del cattivo gusto del pubblico, avvinghiato dalla piovra soffocante del virtuosismo che la vanità dei cantanti e la speculazione di impresari scriteriati alimentava. Occorreva un terreno vergine e libero da preconcetti in cui il melodramma potesse rifarsi alle sue origini. Questo terreno fu Parigi.

Giovan Battista Lulli impiantò su la signorile eleganza del gusto francese lo stile operistico italiano; studiò la declamazione dei grandi interpreti tragici, e dette alla Francia le prime opere nazionali. Il suo recitativo, per quanto talora uniforme, è però impetuoso; mentre le arie e i balletti hanno un andamento galante e si svolgono spesso su bassi pieni di un movimento assai vario. L'eleganza è ancora il pregio principale della musica di Giovanni Filippo Rameau. Manca, comunque, nell'uno e nell'altro un sentimento drammatico vivo, il quale non ritorna su la scena se non con le opere di Cristoforo Gluck. Però non è nelle arie che dobbiamo cercarlo. La melodia delle arie di Gluck spesso procede da stati lirici non molto dissimili da quelli di tutti i suoi contemporanei. Ascoltiamo, per esempio, l'aria di Orfeo nel 3° atto: «Che farò senz'Euridice?»; il dolore non vi è molto forte: vi è una grande purezza di disegno, dalla quale si effonde una tenera melodiosità che (fu già notato) potrebbe ugualmente bene adattarsi alle parole «Che farò con Euridice?».

È invece nel recitativo e nei cori che noi potremo riconoscere la grandezza di Gluck. Il dramma, il dolore, scaturiscono intensi, per esempio, dal recitativo del 1° atto «Euridice, ombra cara, ove sei tu?». Le frasi hanno una toccante espressione di pianto sbigottito nella loro flessione, e l'orchestra ripetendone com'eco le ultime note sembra portarci a contatto coll'al di là; il vecchio giuoco madrigalesco dell'eco acquista una spiritualità nuova, come se una voce arcana ripeta sommessamente il dolore d'Orfeo, quasi una risonanza della Natura circostante angosciosamente smarrita. Qui Gluck realizza coi suoni una verità artistica trascendentale.

Questa capacità di rendere la Natura partecipe degli affetti umani Gluck dimostra di possedere in molti altri casi. Segnaliamo soprattutto la tempesta con cui si apre L'Ifigenia in Tauride (1779), tempesta alla quale si mescono le grida, le invocazioni e le preghiere delle terrorizzate Sacerdotesse di Diana, formando un insieme pauroso, un incubo, quasi risuonasse nella voce del cielo irato la voce del Fato.

A volte il trapasso dal recitativo all'aria è così stretto, la trasformazione dell'uno nell'altra avviene senza arresto, con tale progressione graduale di toni, e con tale omogeneità di stile che si stenta a separare le due forme. È il caso, ad esempio, della scena dell'Alceste (1776) in cui, dopo che l'oracolo ha annunziato che per salvare Admeto altri dovrà morire per lui, e che il popolo è fuggito terrorizzato, Alceste rimasta sola col suo immenso dolore, delibera di sacrificarsi per la vita dello sposo.

Melodia bellissima per la divina leggerezza è nell'Orfeo (1774) quella del flauto nel balletto del 2° atto che vien detto «degli spiriti beati». Il timbro aereo del flauto che canta dolce e un po' malinconico (malinconia quasi sospirosa della vita perduta, eppure ebbra di una luminosità celestiale) sopra la leggera trama oscillante dei violini in sordina, crea una pagina densa di trasognata poesia. La quale ci prepara alla successiva aria di Orfeo «Che puro ciel! che chiaro sol!». «Aria» è l'indicazione segnata sullo spartito, ma in realtà si tratta di un recitativo, o meglio, secondo la definizione del Pizzetti, di un canto drammatico. Sotto questo canto a frasi lente, spaziate, come rispondenti a successive intime emozioni dell'anima di Orfeo, l'orchestra svolge un delicatissimo ricamo: sono sussurri d'acque, gorgheggi di uccelletti, mormorii di fronde, e accenni vaghissimi di melodie, che ci tuffano in un mondo soprareale, tutto luce e serenità,

Fra i più potenti recitativi gluckiani vanno segnalati nell'Alceste l'invocazione del Sacerdote fra le grida di terrore del popolo, sopra un disegno dei violini che è come un ripercuotersi di frenetiche grida; e nell'Ifigenia in Tauride quello del racconto del sogno fatto da Ifigenia, di una semplicità e nello stesso tempo di un'efficacia classiche.

Un'altra grande forza drammatica di Gluck sta nei cori, specialmente in quelli di intonazione severamente funerea, come i primi cori dell'Orfeo; i primi dell'Alceste e quelli statuari delle Sacerdotesse nel 1° atto dell'Ifigenia in Tauride. Tremendo per energia il coro delle furie nel 2° atto dell'Orfeo, come impressionanti sono i violenti «no» che il coro oppone duramente alle implorazioni di Orfeo. Altrettanto efficace per colore barbarico è il coro degli Sciti nell'Ifigenia in Tauride.

Senza proseguire in citazioni di scene ed arie, di recitativi e cori (il che ci porterebbe a dilungarci troppo e ad entrare in troppi particolari) insistiamo su questo aspetto grave, austero, solenne dell'arte gluckiana; sia nella rappresentazione di un dolore che è sempre eroicamente contenuto anche se fortemente sentito, sia nel raffigurarci una serenità che partecipa della maestà olimpica, sia nell'accomunare la tragedia umana agli aspetti più svariati della Natura in un sentimento cosmico che ingigantisce e trasfigura gli effetti espressi. L'orchestra partecipa al dramma, come vi partecipano i cori; ma la semplicità dei mezzi e la sostenutezza dell'espressione, la sobrietà dei disegni, tutto ci riporta colla mente alla statuaria dell'arte greca, alla semplice e profonda verità artistica dei bassorilievi del Partenone.

Finalmente con Gluck, e per i suggerimenti intelligenti del suo librettista Raniero de' Calzabigi, si attua quella concezione ellenica che era nei desideri della Camerata Fiorentina. L'opera di Gluck, fra la grazia elegante e il molto barocco dell'opera settecentesca, rappresenta un superbo tempio dorico: unico e solo.

* * *

Ma un grande miracolo nuovo sorge nel secolo XVIII fra il decadere dell'opera seria, e in parte come reazione ad essa: la cosidetta opera buffa. Vedremo in breve come questo termine, che ripeteremo perché ormai d'uso troppo radicato per cambiarlo, risponda male alla realtà.

Sembra che la prima opera di soggetto interamente comico sia stata «Il Trespolo tutore balordo» di Alessandro Stradella (fine del '600), ma l'impulso allo sviluppo di questo genere venne certamente dal successo di un intermezzo, cioè di una di quelle brevi rappresentazioni musicali che si inserivano fra un atto e l'altro di tragedie o di melodrammi per sollevare e riposare l'attenzione del pubblico. L'intermezzo fortunato è La Serva Padrona di Giovan Battista Pergolesi, datasi a Napoli nel 1733. Tre personaggi: la serva Serpina, il padrone Uberto, e un servo che non parla: Vespone; niente cori, quindi niente concertati. Essendo due soli i personaggi cantanti la minuscola operina si riduce a recitativi secchi, arie e duetti; orchestra pure minuscola: il quartetto d'archi, due trombe solo nel finale, il cembalo per i recitativi. Che cosa poteva fare il Pergolesi con sì pochi mezzi? Ha fatto semplicemente un capolavoro! Ascoltandola noi siamo presi dallo spirito e dalla grazia di questa musica, e dal rilievo che l'autore ha saputo dare ai due protagonisti della semplice e arguta vicenda, la quale già si indovina: il vecchio (ma non troppo, né rimbambito) è innamorato, senza averne coscienza (se non verso la fine) della servetta giovane graziosa e spigliata, che la fa da padroncina. Lui brontolone e un po' bisbetico, ma in fondo di ottimo cuore e solo bisognoso di affetto; lei vispa e birichina, maliziosetta e furba, che sa come il padrone va preso e sa accomodare al proprio interesse un'affezione sincera facendosi sposare. Quindi caratteri entrambi simpatici anche nei loro difetti. Fra questi due, servo un po' stolido, ma non malvagio, e a un certo punto deus ex machina, Vespone, è chiamato dalla furba servetta a far da finto Capitan Tempesta suo fidanzato per impaurire e decidere il padrone.

La musica segue la vicenda con aderenza spirituale incantevole. Quando diciamo «aderenza» guardiamoci dal credere che fra musica e testo vi sia il rapporto che esiste fra originale e traduzione da una ad altra lingua. Il musicista non traduce; accanto al testo poetico, o alla trama drammatica o alle sagome dei personaggi egli crea della poesia musicale, una commedia musicale, dei personaggi musicali. Diciamo «crea», cioè ci dà qualche cosa di nuovo e di vivo che ha avuto la sua prima origine dal suggerimento scaturito dalla lettura del testo. Ed è per questo che alle volte da un testo povero può uscire un capolavoro (come per certe opere di Rossini e di Verdi), poiché quando si dice che un musicista si è servito di un brutto libretto, ciò non significa ch'egli si disinteressi del soggetto, ma gli basta ch'esso gli «suggerisca» degli stati emotivi da cui scaturirà l'ispirazione. Non dunque traduzione, ma trasfigurazione; ripetiamo per l'ennesima volta questa parola indispensabile a capire il rapporto parola-musica, vita-musica. Se il musicista si limitasse ad una «traduzione», da un testo povero uscirebbe sempre una povera musica.

Ora, per tornare al Pergolesi, il libretto de La Serva padrona è in verità grazioso, ma ben lontano dall'essere un capolavoro; lo è invece la musica perché trasfigura i suggerimenti librettistici in creature vive ed eterne. Il carattere un po' noioso (perché annoiato dalla solitudine) di Uberto appare subito nell'introduzione «Aspettare e non venire», nelle note dapprima un po' lunghe come d'uomo che ha l'uggia, poi nelle frasi ripetute su note affrettate di persona irritata. Ed eccolo rimbrottare la serva: «Sempre in contrasti con te si sta», e il tono è da padrone che non ne può più d'essere (a suo parere) mal servito. La ragazza ha la lingua pronta e rimbecca «Stizzoso, mio stizzoso», non lo lascia più parlare, gli si impone: «Serpina vuol così !»: la musica saltella con una vivacità quale nella musica solistica non s'era mai udita. È imperiosa e bizzarra quanto lo è la servetta che vuol pure persuadere il padrone che se anche dice no, i suoi occhi dicono . Uberto si prova a resistere, ma finisce per imbrogliarsi e prendersela persa. Le dice che per liberarsi di lei prenderà moglie; e allora Serpina si licenzia: anch'essa vuoi sposarsi. Alla notizia inattesa Uberto si commuove. L'addio di Serpina è il capolavoro dell'intermezzo. «A Serpina penserete», gli dice la furba mariuola, e il vecchio s'intenerisce: Serpina se ne accorge. L'aria, tutta moine e vezzi nel canto come nell'orchestra, è di una finezza inaudita. È la prima volta che l'arte musicale esprime con tanta profondità, per semplici lineamenti melodici, un carattere umano così complesso e mutevole, e lo fa con penetrante senso di verità e sicurezza di tratti. La confusione di Uberto è espressa prima in un recitativo obbligato (cioè strumentato) dove le scorribande dei violini hanno l'ufficio di raffigurarci il caos che va formandosi nella sua testa e nel suo cuore, che ormai diventa consapevole del nuovo sentimento che vi si celava. Un'aria agitata esprime l'imbroglio in cui si trova, mentre la frase «Uberto pensa a te» si stende meditabonda su note lunghe e profonde. L'ultima lotta vi è resa con alta maestria e con pari fantasia. L'arrivo del finto Capitan Tempesta decide il vecchio; l'ultimo duetto è pieno di frasi liete e gioiose.

È l'alba di un mondo nuovo che attraverso a Piccinni, a Cimarosa, a Paisiello, a Rossini e a Donizetti ci condurrà al Falstaffdi Verdi.

Ora bisogna avvertire subito che in quest'opera, come in tutte le altre che vennero dette buffe, c'è del comico, del semiserio, del patetico, anche, se si vuole, del satirico e del caricaturale, ma non c'è la buffonata. Furono i lazzi introdotti dagli esecutori che meritarono al genere nuovo il nome di opera buffa, e fu appunto in Francia che i nostri artisti per il loro modo di recitare furono detti buffonisti. Ma la denominazione, ripetiamo, è sbagliata. In realtà sono sbagliate tutte le terminologie che tendono a catalogare generi che, in senso assoluto, non esistono in arte; ma nel nostro caso il termine buffo è sbagliato anche in senso generico.

Livietta e Tracollo e Il Maestro di Musica dello stesso Pergolesi, confermano le sue stupende qualità di artista psicologo, per quanto in tono minore.

Nel Filosofo di campagna (1754) di Baldassarre Galuppi troveremo invece eleganza semplice, brio e galanteria, ma non più tanto spirito e tanta profondità. Con La buona figliuola (1760), e più con La molinarella (1766) di Niccolò Piccinni la vena melodica si fa delicatamente gentile ed anche umoristica, ma il sentimento affettuoso vi si insinua con maggior vivezza di tinte, e in alcuni momenti sembra preannunziare, a distanza, Donizetti. Con Giovanni Paisiello la comicità si trasforma in lieve arguzia. In realtà le opere di Paisiello composte su i due libretti più comicamente spassosi, Il Socrate immaginario (1775) e Il Barbiere di Siviglia (1782), non sono fra le opere più vive di lui, anche se ebbero, ai loro tempi, grande successo. Mentre invece le effusioni liriche sentimentali di queste e di altre opere di Paisiello, e ancora meglio le pagine patetiche de La bella molinara (1788) e de La Nina o la pazza per amore (1789) hanno trovato una forma artistica più sentita. Ma pagine argute e maliziose nelle flessioni vocali del disegno melodico, nella freschezza di qualche preludio o di qualche commento orchestrale, non mancano anche in altre opere paisielliane, specialmente ne La serva padrona (1781) ove Serpina è presentata con una maggior dose di seducente civetteria, e ne Gli zingari in fiera (1789) ove Lucrezia e Stellidaura sono dipinte con franca e spigliata birichineria. Quando invece sentiremo la Nina chiedere smarrita e dolente «Il mio ben, quando verrà?» in un canto rotto da pause ansiose, con accenti di melodia così sospirosi, con l'insistenza vana e quasi lamentosa di certe ripetizioni, noi riconosceremo già in questi tratti lo stile che sarà sviluppato e ampliato da Donizetti e da Bellini, nelle scene della follia di Lucia e di Elvira.

Ancor più vicino a noi per sensibilità aggraziata, per vivacità gaia e giovanile di spirito, per allegria schietta, se pure garbata, è Domenico Cimarosa. La sua comicità è bonaria e non ha nulla di mordace; il brio è arguto, il sorriso sereno, il disegno melodico snello e scorrevole. È un artista che ha un'eterna festa nel cuore; è una fiumana di buon umore meridionale, ma non soverchiamente esuberante. È contemporaneo di Mozart, ma non è lui a imparare da Mozart, bensì questi (se mai) ad apprenderne la tersa fluidità. Eppure anche in Cimarosa passano talvolta sospiri di malinconia, ma non si tratta che di accenni fugaci subito seguiti da un sorriso fiducioso; e la tenerezza si ingentilisce ancor più che nei suoi predecessori diventando mollemente leggiadra. L'orchestra è colorita, ma non raggiunge l'elaborazione stilistica di Mozart.

Così ci si presenta Cimarosa nelle sue migliori opere, quali Le astuzie femminili (1794), Giannina e Bernardone (1785), e specialmente in quello che è il più grande capolavoro comico del Settecento italiano, l'unico vero capolavoro nostro dopo La serva padrona di Pergolesi, e cioè Il matrimonio segreto (1793). È quest'opera che, insieme a quelle di Mozart, spiana la via a Rossini. Cimarosa vi ride senza umore satirico, per il puro piacere dell'allegria. L'interminabile parlantina del cerimonioso Conte Robinson, come le patetiche angustie ed ansie di Paolino e di Carolina, la stizzosità dispettosa di Elisetta come la svenevolezza senile di Fidalma e la fatua e goffa ambizione di Geronimo, tutto ciò ch'è spassoso trova eco senza malizia nel suo estro melodioso e fecondo.

Nell'orchestra passano commenti allegri e gustosi, con qualche accenno prerossiniano. Preludietti, ritornelli gai e tratti bonariamente caricaturali vi sono frequenti. Ma anche nel Matrimonio segreto la «buffonata» manca: è una commedia musicale burlevole e di forme perfettamente adeguate al divertente libretto, che non cade mai nel grossolano e nel volgare.

Wolfango Mozart, pure su la scia dell'arte italiana, ci dà una forma operistica diversa; più complessa e densa orchestralmente, mentre dal lato vocale si mantiene sempre in una espressione settecentescamente ricca di grazia. Noi dobbiamo tuttavia ascoltare le opere di Mozart con un'attenzione diversa da quella che porremmo ascoltando Cimarosa. La grazia e la serenità delle melodie di Mozart sgorgano da un fondo di sognante malinconia che qua e là affiora, specialmente negli accenti in tono minore, e che non può sfuggire a chi le ascolti più con l'animo che con l'orecchio. Allo stesso modo non può sfuggire la perfezione della forma, sia per ciò che riguarda il disegno vocale come per quanto concerne l'elaborazione dei particolari orchestrali, i quali assumono spesso importanza maggiore del canto medesimo nella penetrante pittura dei caratteri e delle situazioni. Perciò in Mozart non c'è mai un accento sciatto, mai una trascuratezza formale, e meno ancora un tratto volgare: tutto è concepito in un'atmosfera di superiore signorilità, con la mira a un godimento fine ed aristocratico. Quanto passa per l'anima di questo artista, che seppe conservare fino all'ultimo giorno lo sguardo ingenuo di un fanciullo, si illeggiadrisce e si spiritualizza per una facoltà di trascendenza la quale più che spontanea è miracolosa.

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V. Beethoven. (Quadro di Lenbach).

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VI. Concerto Medievale. (Miniatura in chiaroscuro del XV secolo).

Ascoltando Mozart non bisogna fissare l'attenzione solamente sul canto: occorre seguire la melodia nella sua circolazione dalle voci all'orchestra, ed anche fra i diversi strumenti dell'orchestra medesima. Talvolta anzi le stesse voci dei cantanti non sono che istrumenti anch'essi di un'unica sinfonia.

Il senso di gioia col quale il compositore vede i suoi personaggi fa sì che (salvo rare eccezioni) anche nei momenti più drammatici la musica avvolga le più difficili situazioni in un'onda di serenità, poiché il dramma è come contemplato da uno sguardo olimpico, rivissuto in un sentimento superiore che annulla il dolore. Vi sono situazioni che un moderno avrebbe aspreggiate secondo il facile e comodo sistema dissonantistico contemporaneo. Mozart si guarda bene dal farlo, e se pure qualche asprezza armonica gli sfugge, subito la risolve e la placa in un accordo calmo, subito spiana la fronte e rasserena l'orizzonte.

Con queste avvertenze e con questo animo noi dobbiamo ascoltare Mozart. Quando, ad esempio, noi ascoltiamo il famoso quartetto del Ratto del Serraglio (1782) in cui Belmonte e Pedrillo vorrebbero indagare fino a che punto sono giunte le galanterie del turco Osmino nei riguardi delle loro rispettive amanti Costanza e Biondina, e queste rispondono, secondo la loro differente educazione, la prima con parole sdegnate e la seconda con un ceffone, tutto ciò passa nella musica, che pure delinea bene i quattro diversi tipi, senza urti violenti né gemiti, in una folata di buon umore che investe nella stessa luce di commedia ogni gesto e parola.

Vediamo ancora come ne Le nozze di Figaro (1786) Mozart sa armonizzare, legati in uno stesso motivo, sul filo di una stessa melodia, sentimenti contrastanti, come nella discussione dell'atto 1° tra Figaro e Susanna a proposito della vicinanza della camera del Conte alla loro stanza nuziale. Piccoli tocchi, quasi inezie, ma in realtà essenziali, bastano a dare al disegno una od altra espressione. I passaggi tra gli stati d'animo e le vicende più in opposizione tra loro avvengono senza scosse e senza urti: tutto è morbido, composto, sereno. In ciò Mozart afferma una maestria superiore. I colpi di scena e gli scompigli più scombussolanti non arrestano il fluire della melodia mozartiana, ed è molto se appena ne increspano la superficie. Se Susanna sviene o il Conte scopre il paggio nascosto sotto un tavolino; se Almaviva sospetta che la moglie abbia nascosto in camera un amante, e se ella tremi di ben altri possibili gravi casi; se Figaro sospetta di infedeltà Susanna, se ad ogni momento Cherubino incappa in qualche incidente che gli minaccia seri guai, tutto ciò scorre fra un perenne riso esilarante cui partecipa colorita ed agile l'orchestra, la cui trama, più ricca di quella delle opere dei contemporanei, dona qualche maggior vezzo. Di mezzo a questo vivace scintillio sonoro lo spregiudicato e pur sospettoso Almaviva, la furba e saggia Susanna, la dignitosa Rosina, il geloso e scaltro Figaro, il subdolo Don Basilio, e specialmente il vezzoso e trepidante Cherubino, tutto inebriato dalle prime esperienze amorose, in cerca di una ignota voluttà che sempre gli sfugge, escono vivi e palpitanti nella luce di una superiore verità d'arte.

Più complesso il Don Giovanni (1787). Già nella sinfonia è compendiato quel misto di tragedia e di commedia che si alternano e si fondono sulla scena come nella vita. L'elemento giocoso è personificato specialmente nel servo Leporello, e, fino a un certo punto, in Masetto e Zerlina, mentre Donna Elvira e Ottavio rappresentano l'elemento patetico, e Donna Anna e suo padre quello tragico. Tra il cozzare degli affetti e degli interessi contrastanti o concorrenti, a seconda dell'azione di questi personaggi, si profila la galante e audace spavalderia di Don Giovanni. Se dalle arie tenere e dolenti delle donne e di Ottavio emerge un fascino romantico che la musica dipinge con delicata poesia, la gaiezza pericolosamente civettuola di Zerlina, gli spasimi ridicoli di Masetto, le prudenti ritirate e le sciocche paure di Leporello gettano fra una scena e l'altra della commedia un'allegria che la musica esprime con splendore di ritmi. Su tutto questo vasto quadro di vita umana si diffonde con tinte e bagliori strani la spensierata sensualità del protagonista, e pesa come un'ombra minacciosa la tragica fine del Commendatore. Nelle ultime scene l'al di là porta nella musica non solo i suoi elementi fantastici, ma una forza che solleva i suoni in una sfera d'espressione superiore. Il «fugato» che chiude l'opera tenta per la prima volta il concertato in una forma polifonica classica, e mantiene nella musica un'animazione che, molto probabilmente, se Mozart avesse usata una forma differente e consueta sarebbe andata perduta dopo la scena demoniaca finale.

Una «fuga» invece costituisce, dopo un breve «Adagio», l' «Allegro» della Sinfonia del Flauto Magico (1791), portando subito, con i ritorni, i rimbalzi e gli sviluppi del tema, lo spirito dell'ascoltatore in uno stato di eccitazione viva, quasi magica, che si intona col dramma fiabesco-allegorico che forma il soggetto dell'opera. In questa le parti più vive sono date dall'elemento demoniaco della Regina della Notte Astrifiammante, in cui (vedasi, ad esempio, l'aria del 2° atto «Angui d'inferno») anche i vocalizzi fanno parte del disegno melodico ad espressione magica e violenta; dalle effusioni liriche di Tamino e Pamina, e dalla natura ingenua e semplice di Papageno e Papagena con le loro canzoni di carattere popolaresco. Soltanto da questi due personaggi prorompe l'elemento comico, ma la concezione serena della commedia umana (per quanto turbata in quest'opera dalle magie e dalle allegorie) stende su quasi tutta la musica delle altre scene il suo colore dominante, con la consueta fluida scorrevolezza propria dello stile mozartiano.

Noi udiamo, per esempio, nel terzetto del 1° atto, questo dialogo:

Pamina: «Che mostro rio ! che crudeltà.

Monastro: «Morir, morir dovete.

Pamina: «La morte io non pavento
 «ma d'una madre il fier tormento!
 «ahi! che la pena l'ucciderà!

Monastro: «Ehi! schiavi, una catena
 «La mia rabbia hai da provar.

Pamina: «Deh, la mia morte affretta
 «se non sai sentir pietà! (sviene).

Ma la musica non si scompone e, salvo una lieve inflessione patetica dell'inciso melodico al ricordo della madre, vuol ricordarci sempre che siamo in commedia.

Forse in questo amore di serenità ad ogni costo che, tollerabile in un soggetto comico, giocoso, ed anche «eroicomico» (come vien detto Il Flauto Magico), non lo è più in un dramma serio, è da ricercare la ragione prima per cui nell'Idomeneo e ne La clemenza di Tito Mozart non raggiunse l'altezza a cui era salito nelle Nozze di Figaro e nel tragicomico-fantasioso Don Giovanni.

Fa eccezione all'intonazione generalmente serena della musica del Flauto Magico la gravità quasi händeliana dell'aria di Sarastro «Possenti Numi», cui accresce venustà il ritornello armonioso dei sacerdoti; poesia veramente imbevuta di sentimento religioso, quanto le arie di Papageno sono intinte di senso panico.

Riassumendo: l'opera comica, o «buffa» che si voglia dire, reagisce contro il virtuosismo canoro (che solamente più tardi vi penetrerà insieme ad altri vizi dell'opera seria) e tiene una finestra aperta dalla quale entra una ventata d'aria fresca e carica d'ossigeno: la finestra che guarda sul mondo reale, i suoi affetti e i suoi drammi interiori, e vi guarda con spirito sereno ed umoristico, od anche (con Rossini) con vivacità satirica. Ma ciò ha significato appunto far respirare un organismo che stava morendo di intossicazione donchisciottesca in quanto voleva far vivere un mondo di maschere rettoricamente cavalleresche e falsamente eroiche, pieno d'inverosimiglianza e senza contenuto. E c'è forse nell'opera comica anche una reazione popolana, democratica, contro la troppo aristocratica opera seria; aristocratica per l'origine, in quanto uscita dalle sale delle Corti principesche, e per l'erudizione dei soggetti storici e mitico-eroici.

Capitolo IX: Il teatro musicale nel secolo XIX fino a Wagner [Indice]

Al momento in cui nella storia del melodramma appare Gioacchino Rossini, i vizi dell'opera seria erano già penetrati in quella buffa, e soprattutto, con lo spadroneggiare d'impresari e di cantanti, vi era penetrato il virtuosismo canoro, la bravura acrobatica vocale, che trasformava la schiettezza snella delle melodie in un viluppo di ramaglie foltamente e pesantemente fiorite. Nel campo del melodramma serio il tentativo di riportare alla semplicità ed efficacia gluckiana l'aria e il recitativo, sviluppando maggiormente la partecipazione dell'orchestra al dramma, era già stato fatto con nobiltà di intendimenti da Cherubini specialmente nella forte Medea e da Spontini soprattutto nella Vestale. E l'esperimento si era attuato in Francia, ambiente più idoneo, dove appunto questi due sommi compositori esplicarono la loro maggiore attività. Non altrimenti Mozart aveva agito in Austria nei riguardi dell'opera comica (e con risultati minori, in quelli dell'opera seria). Ma le opere di Mozart, come del resto quelle di Cherubini e di Spontini, non ebbero mai grande diffusione in Italia.

Rossini si trovò così a lottare nel suo paese contro vizi che non gli era possibile estirpare subito senza correre il rischio di vedersi condannato all'ostracismo dagli impresari. Prese dunque il partito di scrivere egli stesso i vocalizzi, per toglierli all'arbitrio e al cattivo gusto dei cantanti. Questo spiega l'abbondanza di gorgheggi che noi troviamo ad ogni passo disseminati nelle opere rossiniane, specialmente del periodo italiano. Era un modo di infrenare e incanalare su un binario artistico le licenze canore dei «divi» e delle «dive», prendendoli dal lato debole.

Ma ben presto Rossini s'accorse dell'importanza che il vocalizzo poteva avere non tanto come elemento decorativo e di bravura, quanto come mezzo espressivo. Nascono allora i gorgheggi di Rosina nel Barbiere e quelli di Isabella nell'Italiana in Algeri (1813), gorgheggi che fanno parte delle loro nature argute e vivacissime, capaci di far giocare «cento trappole»; o si innestano sui caratteri di Dandini nella Cenerentola (1817), o di Figaro, come espressione della loro esuberante vitalità e della loro astuzia (l' «Ah, bravo Figaro, bravo bravissimo» non è che un enorme gorgheggio sillabato anziché vocalizzato); o dipingono la goffa balordaggine di un Mustafà nell'Italiana, o la leziosità galante di un Ramiro nella Cenerentola, di un Almaviva e di un Conte Ory; e perfino acquistano un profumo esoticamente floreale nella Semiramide (1823).

Ma ciò che più si deve ascoltare nelle musiche di Rossini è la pulsante ed enorme vita ritmica dei suoi motivi, che da sola basta a caratterizzare momenti comici o drammatici, tipi, atmosfere, e a fare delle sue sinfonie dei veri poemi del ritmo, dei torrenti di gioia e d'energia. Lasciarsi permeare e trasportare dalla ritmica rossiniana, vuol dire liberarsi da ogni realtà contingente, superare il dolore, passare dall'umano all'universale. Anche il suo caratteristico «crescendo», che consiste nel ripetere per tre volte consecutive, sempre più acuto e sempre più forte, lo stesso motivo, con gradazione di sonorità progressiva, è una specie di ciclone d'entusiasmo lirico, un'esaltazione quasi orgiastica e travolgente.

Le sue sinfonie, salvo quella del Guglielmo Tell e, in parte, quella dell'Assedio di Corinto, non hanno un nesso col soggetto dell'opera. Sono spesso allegre o almeno festose (come quelle dell'Otello e della Semiramide) e valgono soltanto ad intonarci alla dinamica dello spirito in generale, ad affacciarci musicalmente allo spettacolo della vita come trasfigurazione di essa in gioia ritmico-sonora. La sua melodia è generalmente meno bella di quella di Mozart e costituita da periodi brevi più volte ripetuti. Essa non è mai sentimentale, non languida, ma è serena o gioiosa. Raramente acquista accenti fortemente patetici, com'è nell' «Aria del salice» dell'Otello (1816), nel celebre «Resta immobile» del Guglielmo Tell, e in qualche preghiera (Mosè, Assedio di Corinto). Nei momenti giocondi (e sono i più frequenti) il ritmo rapisce e fa della melodia qualche cosa di ariostesco capace di creare atmosfere incantesimali; e l'orchestra accresce vita al canto dialogando con esso o aggiungendo i suoi disegni colorati a quelli vocali.

Chi ascolta non dovrà pertanto fissare la propria attenzione solamente sul canto. Nel famoso finale del 1° atto del Barbiere di Siviglia (1816) «Mi par d'esser con la testa in un'orrida fucina» la forma descrittiva non consta solo delle ondate vocali, ma anche del mulinello strumentale che rende veramente l'emozione rumorosa di grossi mantici da fabbro in funzione. E diciamo appositamente «l'emozione» perché non si tratta di una imitazione veristica, ma di una rappresentazione artistica di quei disegni, movimenti e suoni che possono rievocare nel nostro spirito il funzionamento di un' «orrida fucina» (l'aggettivo ha anch'esso un suo valore che è stato raccolto con significato comico dal musicista).

Nelle opere buffe gli strumenti sono poi usati spesso con intenzioni parodianti (si ricordi, per esempio, lo squillo delle trombe allorché Figaro soffia nell'occhio di Bartolo dopo averlo insaponato, le scorribande dei violini «All'idea di quel metallo», e simili). Ma la parodia deriva talvolta anche da spiritosi contrasti tra la musica e le parole. Così, ad esempio, quando ne L'Italiana in Algeri il coro proclama su un ritmo marziale «Uno stupido, uno stolto - diventato è Mustafà», come si trattasse d'una solenne conquista.

Quanto alle opere serie, quali il Mosè (1827), L'Assedio di Corinto (1826), il Guglielmo Tell (1829), l'austerità dei disegni melodici e dei recitativi è il fatto più notevole, a cui va aggiunto il senso della preghiera alta (specie nelle due prime delle opere citate) e, nel Tell, l'uso grandioso delle masse corali, soprattutto nel 1° atto, il che sposta il centro di gravita verso la folla, i suoi riti, le sue usanze (canti, danze, preghiere, sposalizi, esultanze, ire), facendone il pernio e il vero protagonista dell'opera. Ma a proposito di quest'opera, nella quale la sinfonia nei suoi quattro movimenti assume un carattere evocativo ambientale, va ricordata pure la grande scena della congiura nel 2° atto, dove il parlottare sommesso e misterioso e il giuramento solenne ci allontanano le mille miglia dal falso eroismo del Settecento per assurgere a vera grandezza epica. E va ricordato ancora il finale dell'opera, nel quale la gioia per la liberazione e il sentimento della pace conquistata si profila in un breve disegno che passando da un istrumento all'altro sale come un grande arcobaleno diventando sempre più luminoso, fino a darci, coll'insistente ripetizione di un suo inciso a forma di breve gorgheggio l'impressione di una ebbrezza travolgente: punto di partenza di taluni finali strumentali wagneriani (Oro del Reno, Tristano ed Isotta).

Se anziché opere di Rossini ascolteremo opere di Vincenzo Bellini, la nostra attenzione dovrà spostarsi e concentrarsi su altri elementi, e principalmente su la melodia. E dovremmo dire canto, perché la melodia belliniana, come osservò il Pizzetti, è nettamente vocalistica, come non lo sono tante altre cose scritte per le voci umane. Se continuiamo invece a dire melodia si è perché il canto vocale è sempre melodico, e il termine è più usato. È infatti il disegno melodico vocale il mezzo principale dell'espressione belliniana, disegno di ampio sviluppo e perciò anche di vasto respiro; disegno anche più intenso di ogni altro precedente, ricco di penetrante umanità, che campeggia su un'armonizzazione e uno strumentale relativamente scarsi e scarni. È noto che Bizet volle tentare di arricchire l'accompagnamento armonico e l'orchestrazione della Norma; però dovette rinunziarvi poiché si accorse che la melodia di Bellini non comportava altra armonizzazione e strumentazione che quella datale dal suo autore. Infatti la melodia belliniana raggiunge una forma così perfetta e profonda che basta da sola alla più compiuta espressione del soggetto musicato. Constatazione, del resto, che Bellini medesimo aveva già fatta per conto proprio allorché, appunto a proposito della Norma, scriveva al Florimo: «la natura piana e corsiva delle cantilene non ammettono altra natura d'istrumentazione che quella che vi è»; fatto riconosciuto poi anche dal Cherubini. Ma perché? Risponderemo: per la stessa natura limpida della sua ispirazione, del suo canto in cui si concentra ogni potenza lirico-drammatica.

Ma che c'è in questo canto belliniano? C'è un senso di poesia dolorosa che invano cercheremmo in altri autori, prima e dopo di lui. C'è una divina malinconia che, senza essere così crudamente pessimistica come quella leopardiana, ci tuffa in un mare di sogni pieni di nostalgia, e appunto come il Leopardi sembra dirci: «e il naufragar m'è dolce in questo mare»: voluttà suprema dell'annientarsi nella dolcezza di un canto ove il dolore è trasumanato. Questo noi sentiamo nel dolente; «Ah non credea mirarti» de La Sonnambula (1831), come nella serena contemplazione della «Casta diva»; nel pianto liberatore del «Padre, tu piangi» della Norma (1831), come nella disperata invocazione di Elvira ne I Puritani (1835): «O rendetemi la speme o lasciatemi morir». E in tutte queste pagine dobbiamo ammirare, insieme all'espressione lirica, la purezza e l'eleganza del periodo. Ma non è tutto qui Bellini: c'è il Bellini soavemente idillico dell' «A te, o cara» de I Puritani e di varie pagine de La Sonnambula, quello austero e classicamente composto dell'introduzione della Norma, quello irruente dell' «O non tremare», e quello barbarico del «Guerra, guerra» della stessa opera. E perché non anche il Bellini eroico del «Suoni la tromba»? Ecco: il pezzo non è disprezzabile, il pubblico lo applaude e lo fa bissare quasi sicuramente ad ogni anche modesta esecuzione; ma ad ascoltarlo senza prevenzioni e senza feticismo, non si può sfuggire a un senso di enfasi esteriore che ne menoma un pochino l'altezza. Enfasi che i cantanti indubbiamente avvertono ed, ahimè, accentuano vociando e tonando (ed è proprio allora, purtroppo, che il pubblico applaude di più); il che ci fa pensare che il pezzo in parola abbia una sua tendenza naturale a essere intonato da una massa corale. E forse è per questa inconsapevole sensazione che i cantanti forzano la voce nell'eseguirlo; ma la sonorità di un coro è forza, e il vociamento di un solo è rettorica bolsa, che mette ancor più in evidenza la tendenza enfatica del canto. Non siamo dunque del parere che questo finale del 2° atto de I Puritani ci presenti il miglior Bellini, quale ci appare, e in maniera la più luminosa, nella «Casta Diva». Ora, tale è la potente nudità delle sue melodie che una più complessa armonizzazione e strumentazione la guasterebbe come una collanina d'oro sul seno della Venere di Milo.

Ma in Bellini c'è ben altro da ascoltare: c'è il recitativo. Questo recitativo che incomincia a riapparire, dopo Monteverdi e Gluck, nella sua importanza drammatica specialmente nel Mosè e nel Guglielmo Tell di Rossini, poi in Cherubini e in Spontini, acquista con Bellini una vita nuova. Si fa anch'esso nitidamente melodico-vocale e accentuatamente drammatico per la varietà continua dei ritmi aderenti ai vari momenti di concitazione che attraversano l'anima del personaggio. Valgano due soli esempi. Il primo è il recitativo che precede la «Casta diva»: «Sediziose voci, - voci di guerra - avvi chi alzar si attenta - presso l'ara del Dio?». La parole sono scandite con accenti imperiosi e con un disegno pieno di nobiltà. Prima di proseguire Norma ha una pausa minacciosa. L'orchestra non ha che brevissime energiche apostrofi. Oroveso interviene: «E fino a quando oppressi ne vorrai tu?» e il discorso prosegue con andamento sdegnoso sopra un sordo fremito d'archi. Il coro pure interviene breve e duro, ma Norma tronca di nuovo ogni protesta con energia e decisione di ritmo. Poi, dopo una lunga pausa meditativa (l'orchestra non ha che brevi tocchi risoluti) il recitativo si fa più pacato, però sempre vigoroso, indi a poco a poco profetico, fra pause misteriose (nei bassi un breve tema pure misterioso vien ripetuto più volte). Ascoltate come sprofondano fatali le ultime parole della frase «L'ora aspettate, l'ora fatal che compia il gran decreto». In fine il disegno si slarga e si placa, «Pace v'intimo», e fiorisce quasi di un mistico gesto all'ultima frase: «e il sacro vischio io mieto».

Ascoltiamo ora il recitativo di Norma allorché s'avvia deliberata di uccidere i figlioletti. Le frasi procedono staccate da lunghe pause piene di fato, che l'orchestra colma con disegni che ci svelano l'intimo dramma della madre disperata. «Dormono entrambi», dice ella sottovoce e a note basse, e dal profondo dei violoncelli si leva un lungo sospiro che si spegne in un tormentoso gemito. «Non vedran la mano che li percuote», soggiunge Norma; ma un disegno affannoso e singhiozzante dei violini in discesa cromatica ci narra l'ansia e il turbamento che la prende. Ora il pensiero assume un carattere più discorsivo, quasi logico, mentre la donna si ripete le ragioni che possono sostenerla nella tragica deliberazione: l'orchestra ha solo brividi rapidi. Poi riprendono gemiti rotti, dolorosi, sotto le parole: «Non posso avvicinarmi... un gel mi prende... e in fronte mi si solleva il crin» (a quest'ultime parole la voce si alza, le sillabe escono lente con un senso di smarrimento e di orrore). Finché prorompe il grido: «I figli uccido», e con esso il pianto si scioglie in una frase finalmente ampia e canora, pregna di una tenerezza materna appassionata e profonda. «E se a codesto punto - scrive il Pizzetti, il quale pure analizza finemente questa pagina - uno non si sente gli occhi pieni di lacrime, egli è un disgraziato e un miserabile»[26].

E potremmo dire altrettanto a proposito del recitativo di Amina ne La Sonnambula, prima dell'aria «Ah non credea mirarti». Anche qui frasi frante, intercalate da lunghe pause che rendono la sconnessione del pensiero nel sogno, lo stato di incubo doloroso e insieme lo smarrimento quasi di follia. L'esclamazione «Ah l'ho perduto» sale come un grido disperato. E quanta innocenza rassegnata nell'intonazione di quell' «e pur... rea non son io»; come s'inciela la frase e poscia precipita, nell'augurio: «felice ei sia»: egli al sommo, essa nel buio sconsolato dell'abbandono! E si noti poi la concitazione della frase «L'anello mio... l'anello... Ei me l'ha tolto...». E prima di questa, come dopo, frasi di una flessione melodiosa di una penetrante amarezza. L'orchestra non ha voce sotto le parole di lei, o tiene accordi stupiti: e nelle pause va rievocando frammenti di ricordi che si legano al mestissimo sonniloquio. Finché, da tanta tensione, da tanto spasimo angoscioso, nasce ancora una volta la consolazione del pianto, lo sfogo lirico in forma di un canto purissimo: «Ah non credea mirarti - sì presto estinto, o fiore», che solo un grido più alto e straziante rompe, quello del dolore e del rimorso di Elvino: «più non reggo a tanto duolo». E anche a questo punto noi saremmo tratti a dire a chi ascolta: «E se non piangi, di che pianger suoli?».

Tutto questo è nuovo e grande, di una grandezza che non teme i confronti con alcun'altra pagina, sia antica che moderna.

Lo schema generale del melodramma non cambia molto nell'opera di Gaetano Donizetti; ma il recitativo non ha più la forza drammatica né l'alta poesia del recitativo belliniano. Esso acquista in qualche momento un'espressione enfatica, in ciò aiutato dall'enfasi del verso (ricordate il «Suora non m'è colei !» gridato da Enrico nella Lucia); espressione che penetra anche nelle arie. Anche gli elementi convenzionali della struttura melodrammatica abbassano spesso il tono dell'ispirazione. Noi troveremo pertanto il vero Donizetti, il Donizetti sincero, nei vari momenti di ispirazione lirica, ove l'emozione supera ogni convenzionalismo di verso, di azione e di sceneggiatura: in moltissime parti della Lucia (1835), in alcune parti del 1° atto e in tutto il 4° de La Favorita (1840), in qualche zona fortunata della Lucrezia Borgia (1834), dell'Anna Bolena (1830), del Tasso (1833) e del Poliuto (1840), della Maria di Rohan (1843), e più di tutto nelle due grandi opere comiche L'elisir d'amore (1832) e il Don Pasquale (1843).

Nell'espressione dell'amore e del dolore Donizetti, pur conservando un diffuso senso elegiaco celestiale, si rivela più maschio di Bellini, come ad esempio nel «Tu che a Dio spiegasti l'ali» della Lucia e nello «Spirto gentil» de La Favorita. Ed anche l'abbandono ha minor languore, come si avverte in «Una furtiva lacrima» de L'elisir d'amore. Ma chi vuol rendersi conto della trasparenza eterea e dell'alta spiritualità ed eleganza da cui trae vita la melodia donizettiana, deve pensare soprattutto alla serenata del 3° atto del Don Pasquale: «Com'è gentil», in cui il senso dell'idillio campestre si fonde con la felicità dell'amore in una plenitudine di candore lunare.

Anche lo strumentale è più curato e vario mentre nei preludi e nelle sinfonie un moderato uso del contrappunto amplia e densifica il disegno. Ma nessuna pagina di Donizetti raggiunge la profondità di sentimento dell' «Ah non credea mirarti» de La Sonnambula, nessuna ha la tragicità del citato recitativo del 2° atto di Norma, né il senso di catarsi spirituale del finale della stessa opera belliniana. Egli invece sa sorridere con disinvolta gaiezza e con sottile umorismo, il che è completamente negato alla musa del Catanese; e lo sa fare senza la esuberante rumorosità rossiniana, ma con un garbo aristocratico nuovo. Così nell'Elisir, come nel Don Pasquale, c'è una comicità raffinata, che anche nei momenti più sbrigliati sa essere sempre signorile. Dulcamara è, sì, un fanfarone chiassoso, ma non ha più niente a che fare con Figaro, il quale non avrebbe mai saputo cantare strofette di sì perfetta grazia e di sì limpida melodicità come «Io son ricco e tu sei bella».

Perciò è nell'opera semiseria e più ancora in quella comica (particolarmente nell'Elisir, nel Don Pasquale, nel Campanello e nella Rita) che va cercato il miglior Donizetti, il quale seppe dare alla commedia un'allegria aristocratica nel gusto melodico e nello stile, lontana così dalla caricatura grottesca come dalla satira sferzante, e con una vena di malinconia che s'infiltra fra una risata e l'altra e illeggiadrisce tutto di un profumo di poesia.

Felice anche nella dipintura dei personaggi, un giro di poche frasi, una breve aria gli bastano a imprimere un carattere con un suggello inconfondibile. Basterà che Enrico nella Lucia canti «Cruda funesta smania» perché noi indoviniamo la sua indole torbida e violenta; basterà che Nemorino nell' Elisir intoni «Quanto è bella, quanto è cara» perché ci rendiamo conto della sua ingenuità e insieme della sua passione profonda; e se Don Pasquale scatta nella frase «Un foco insolito mi sento addosso», il disegno melodico ce lo scolpisce già babbeo e cotto fino al midollo, pronto a cascare nella trappola ch'egli stesso si apre ai piedi.

Con Giuseppe Verdi la drammaticità diventa il fuoco attorno a cui si concentra l'attività creatrice del musicista. Verdi accetta la struttura del melodramma tal quale l'avevano usata i suoi predecessori: una serie di arie, con l'inevitabile appendice della «cabaletta» allegra, duetti, terzetti, quartetti, cori, e concertati (questi ultimi specialmente alla fine degli atti); tutto ciò intercalato da recitativi. Le forme di questi «pezzi» egli modifica solo lentamente, e soprattutto da Un ballo in maschera (1859) in poi; ma in ognuno di essi egli introduce un impeto nuovo, una vis drammatica che ne rinnova lo spirito. Nelle prime opere, questa forza appare particolarmente violenta, talvolta rozza. La stessa cabaetta da gaia e gorgheggiante diventa irruente e travolgente; valga ad esempio il «Sì vendetta» del Rigoletto.

Numerosi gli slanci lirici («Celeste Aida», «La rivedrà nell'estasi», e simili), spesso avvolti in un'atmosfera di nostalgia e di malinconia profonde («Va pensiero», «Ai nostri monti», «O tu che in seno agli angeli», «O cieli azzurri», «Addio, del passato»); malinconia che si ammanta sovente di ombre cupe («Dormirò sol»). Ma l'elemento tragico («Eri tu», «Miserere», ecc.) prevale, come pure sono frequenti i contrasti di tinte, le grandi ombre accanto alle grandi luci, alla Rembrandt, talvolta in urto simultaneo come nel quartetto del Rigoletto (1851), nel terzetto finale de La forza del Destino (1862), e, in una vasta tessitura polifonica, nel finale del 2° atto di Aida (1871). Nell'espressione simultanea di sentimenti diversi (come nei quartetti e terzetti e nei pezzi d'insieme) egli dimostra una forza ed efficacia uniche nella storia del melodramma.

Vi è inoltre in Verdi una grande sensibilità del colore ambientale, non tanto nei riguardi del paesaggio, quanto dell'ambiente umano in cui si svolge il dramma. Basta pensare alla tinta guerresca e fiammeggiante del Trovatore (1853), a quel misto di spensierato e di spiritualmente doloroso che imbeve tante scene de La Traviata (1853), all'esotismo ieratico di Aida per convincersene. Un senso d'umanità profonda sta alla base della sua arte, e informa di sé i suoi maggiori capolavori: Rigoletto, Il Trovatore, La Traviata, Aida, Otello e la Messa di requiem. All'espressione più viva e penetrante dei sentimenti provvede soprattutto il canto vocale, e talora (come nel preludio al 3° atto della Traviata) strumentale, che di opera in opera perennemente si rinnova e si intensifica. E mentre Verdi rinnova se stesso, rinnova il teatro italiano, mantenendosi indipendente da ogni influsso esterno, e spirandovi un soffio tragico di estrema potenza, che fa di lui il più grande operista di ogni tempo.

È soprattutto il recitativo che nell'opera di Verdi acquista più drammatico rilievo. Denso di accenti scultori, esso scava a fondo nell'animo umano ed esplode spesso in larghe frasi ariose che trasportano il sentimento oltre ogni contingenza terrena. Gradatamente questo recitativo si intensifica sempre più, acquistando tinte sempre più tragiche. Il primo di questo tipo è il monologo di Machbeth «Mi si affaccia un pugnal?!». Nell'Otello (1887) esso dà luogo a un «parlato» sostenuto da un commento orchestrale di grande potenza espressiva («Dio mi potevi scagliar tutti i mali»), pronto a trasformarsi in cantabile lirico al primo risollevarsi del sentimento («Ma o pianto o duol»). Per questa formidabile capacità di scavare nell'animo umano Verdi ha creato figure che hanno la forza titanica di sculture michelangiolesche. Tali sono soprattutto Rigoletto, Azucena, Violetta, la Leonora de La Forza del destino, Boccanegra, Filippo II e l'Inquisitore, Aida e Amonasro, Otello e Jago, e Falstaff. Ma non queste soltanto; anche personaggi di secondo e terzo piano, quali Melitone e il Padre Guardiano, Sparafucile, Oscar, Fiesco, Ford e Quickly, hanno ricevuto dall'ispirazione verdiana e dalla sua potenza di introspezione e di sintesi un rilievo che li rende indimenticabili.

È da Un ballo in maschera in poi che l'orchestra assume un ruolo di commentatrice, analizzatrice psicologica e drammatica sempre più importante, cosicché nelle ultime opere (Don Carlo rifatto, Aida, Otello e Falstaff) la nostra attenzione dev'essere divisa fra la parte vocale (espressione lirico-drammatica soggettiva) e quella strumentale (espressione trasfiguratrice, che Verdi chiama «il mondo fittizio»).

Ma nel Falstaff (1893) il dramma si piega verso un umorismo fine, verso la commedia umana dove si intrecciano comico e drammatico (Falstaff e Ford), arguzia e tenerezza (le quattro comari e la coppia Fenton-Nannetta), il grottesco e il fiabesco (Caius-Bardolfo-Pistola, e la tregenda dell'ultimo quadro). In quest'opera la musica è diventata di una leggiadrìa ed eleganza estreme nell'intento di esprimere una comicità aristocratica anche nella burla grossolana. Inutile cercare la romanza e i pezzi finiti. Il «Quando ero paggio» e la «Canzone delle Fate» sono gli unici pezzi chiusi; ma l'ultimo si allaccia strettamente al seguito, così come il «sonetto» di Fenton perde la forma strofica e si dissolve in poesia musicale pura, che si connette, senza interruzione, col dialogo successivo. Pure la melodia cantabile non manca; il Falstaff è tutta melodia cantabile, ma è necessario seguirla nel suo frammentarsi in frasi che passano da una voce all'altra e nel suo perenne circolare dalle voci agli istrumenti; com'è necessario lasciarsi penetrare dalla sua ironia e dalla sua incisività che scolpisce caratteri, emozioni, gesti. Ne bisogna, ascoltando il Falstaff, dimenticare l'accrescimento di bellezza dato alle frasi del canto vocale o strumentale dal colore dei timbri e dalle sonorità dell'orchestra, ricchi di intenzioni umoristiche sottili.

Verdi è il primo compositore italiano a non accettare più passivamente i libretti offerti da impresari o editori. Sceglie da sé i soggetti, ne stende in prosa la trama, indica a chi dovrà versificarli situazioni, frasi e metri, e taglia, modifica, esige, incontentabile seguendo il proprio acuto senso del teatro. E questo fece anche con un poeta di valore quale Arrigo Boito.

Le principali tappe della sua ascensione nel rinnovamento sono da riconoscere nel Nabucco (la terza sua opera), nella celebre trilogia costituita dal Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata, legate fra loro dal sacrificio per amore di tre donne (Gilda, Leonora e Violetta), nei grandi quadri di Un Ballo in maschera, La Forza del destino, e Don Carlo, e infine dai vertici splendenti di Aida, Messa di requiem, Otello e Falstaff.

* * *

Tra i numerosi imitatori di Rossini, di Bellini e di Verdi, popolarissimo è rimasto Amilcare Ponchielli, particolarmente caro alle folle per la sua Gioconda (1876), della quale il pubblico è sempre entusiasta, mentre la critica si è mostrata, anche in occasione del cinquantenario dell'opera, estremamente ostile fino all'ingiustizia. Non diremo col Respighi che, pel fatto stesso d'aver superato i cinquant'anni, essa è ormai giudicata; ma è certo che si è esagerato da una parte e dall'altra, così nell'entusiasmo assoluto come nel disprezzo ottuso. Forse l'elemento peggiore dell'opera è il soggetto, costituito da un fattaccio da arena intessuto di casi e colpi di scena urtanti e inverosimili. Ora, tale sequela di assurdità e di goffaggini non poteva non inquinare l'ispirazione musicale, la quale infatti riesce in varie scene pletorica ed enfatica. Segnalo fra i punti peggiori alcuni che, per aberrato gusto del pubblico, sono più spesso applauditi: il monologo di Barnaba «O monumento», tronfio abbozzo di recitativo drammatico; il forsennato duetto del 2° atto fra Gioconda e Laura, pieno di immagini barocche (amare uno «siccome il leone ama il sangue» è peggio assai che sentir «l'orma dei passi spietati»); il rumoroso finale del 3° atto che si prolunga nell'assordante rombo del tamtam, quasi non sapesse più a che santo votarsi per imporre la convinzione del finimondo; e la rettorica esclamazione «Suicidio», come se per decidersi a questo passo occorresse gridarlo ben forte. Ma che cosa applaude il pubblico in tutte queste pagine pletoriche? Il sol finale acuto e prolungato di Barnaba, gli strilli di Gioconda e di Laura, il clamore rovinoso di solisti coro ed orchestra, ed ancora l'urlo della suicida. Anche per gli sternuti dei piatti nell'Andante poco mosso de «Le Ore della Notte», e per quel baraccone da fiera che è il finale della «Danza delle ore» certo pubblico va in visibilio. C'è poi un po' dovunque, e specialmente in questo finale della Danza, uno strumentale che ha spesso intonazioni bandistiche più che orchestrali, di gusto grossolano e paesano.

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VII. Concerto. (Quadro di Therburg).

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VIII. Scenario per la regina S. Orsola di Marco da Gagliano. (Firenze 1623).

Ma ci sono pagine e pagine illuminate dal dono di una melodia calda di passione, anche se non sempre del tutto personale, e da uno slancio lirico spontaneo, da costruzioni polifoniche solide e sobrie, e da colori strumentali indovinati. Citiamo il preludio dell'opera, la scena in cui sotto il dialogo Barnaba-Zuane si alternano le risa dei giocatori di «Zara» e la preghiera della cieca, fino alla purtroppo enfatica entrata di Enzo, la romanza «Voce di donna o d'angelo», la frase appassionata di Enzo «O grido di quest'anima», l'altra, così intensa, di Gioconda «O cuor! Dono funesto» nel finale 1°, la «Marinaresca» la «Barcarola» la romanza «Cielo e mar» che attinge una bella altezza di ispirazione lirica, e qualche momento della «Danza delle Ore» abbastanza leggero e garbatamente strumentato. Poi il duetto Barnaba-Gioconda nell'ultimo atto, pel quale si è alzata l'accusa già avventata stoltamente contro il Trovatore di Verdi: «è un valzer», come se il ritmo e il tempo e non lo spirito bastassero a creare un valzer! Del resto la finta gaiezza di Gioconda e la gioia vera del cantastorie possono bene accordarsi su un ritmo di valzer se da questo accordo ne nasce, come infatti avviene in questo caso, una maggiore forza di contrasto drammatico.

Ora, tutte queste pagine, in cui la melodia fluisce abbondante, chiara ed efficace, dotata di una sua particolare bellezza, anche dove non la sorregge una sufficiente forza drammatica, o dove lo strumentale appare scarsamente curato, giustificano pienamente la costante simpatia del pubblico e il permanente successo dell'opera. Soltanto preconcetti teorici possono contestare questi fatti.

Un altro artista che la critica ha ben ben tartassato, e alla cui opera si nega quasi ogni valore, è Arrigo Boito. Il Mefistofele doveva attuare una radicale riforma del melodramma. Ma è altrettanto certo che, uscito nel 1868, rifatto nel 1875, in confronto alle composizioni di Verdi dello stesso periodo (Don Carlos, Forza del Destino, Aida, Messa di Requiem) esso non dice gran che di nuovo, e il Verdi dell'Aida appare ben più audace e novatore. Il libretto è sceneggiato e verseggiato con un senso di poesia assai superiore a qualunque altro del suo tempo, ma la musica resta parecchio al di sotto, salvo che nel Prologo. Ne basta l'aver diviso il Prologo alla maniera sinfonica in «1° tempo: Preludio e coro; 2° tempo: Scherzo strumentale; Intermezzo drammatico; 3° tempo: Scherzo corale; 4° tempo: Salmodia finale» per atteggiarsi a riformatore, quando poi di sinfonico in tutta la partitura non vi è nulla, e sotto il canto si succedono accompagnamenti ad arpeggi, a strappate, ad accordi tenuti, di vecchio stampo.

La musica non appare soverchiamente originale; taluni degli spunti più belli sono tolti a composizioni di Beethoven, per quanto diversamente sviluppati; e, nel complesso, l'opera manca di unità stilistica. «Forte ingegno, più strano che originale» Verdi definì esattamente Boito in una lettera all'Arivabene. Affermava quindi che nel Mefistofele vi era più fuoco che nel Faust di Gounod, «ma - aggiungeva - alquanto fatuo». E in altra lettera precisava così il suo giudizio su Boito musicista: «Ha molto talento, aspira all'originalità, ma riesce piuttosto strano. Manca di spontaneità e gli manca il motivo: molte qualità musicali. Con queste tendenze si può riuscire più o meno bene in un soggetto così strano e così teatrale come il Mefistofele; più difficile nel Nerone!». Questi giudizi di Verdi colgono perfettamente nel segno. Non si può certamente parlare di originalità fantastica per quel misero disegnino progressivo con cui si inizia il 2° atto (scena del giardino), o per quelle altrettanto povere scalette con cui il musicista presume di descrivere l'irrompere delle Streghe e degli Stregoni su la scena nel «Sabba romantico».

Le forme chiuse esistono ancora in tutta l'opera, e alcune di queste appaiono banalmente operettistiche, come il duo Faust-Mefistofele «Fin da stanotte» che chiude il 1° atto, o di un lirismo enfatico, aggravato su la fine dall'entrata del coro, come nell' «Amore! mistero» con cui si chiude il «Sabba classico» (e pensare che quest'enfasi tronfia trascina ancora tanta gente!). E tralasciamo le brutte frasette sparse qua e là, come il «Qua il bicchier - Vogliam ber» del coro nel 1° atto, o la breve «Danza di Streghe» che precede l'ampolloso «Popoli ! e scettro e clamide» di Mefistofele («con ampollosità»: è un'indicazione di Boito medesimo, il quale non si è reso conto che tale interpretazione equivaleva a un'autocondanna), e simili. Infine, ed è forse il lato peggiore, l'orchestrazione è vuota e priva di carattere, e indica scarso senso strumentale. E questo difetto fu poi confermato dalla partitura del Nerone, il quale dovette essere ristrumentato da capo a fondo.

Ma dunque, tutto una rovina il Meftstofele? Niente di più falso. L'opera presenta facile il fianco alla critica, e questa - non tutta, ma una certa critica - ne ha approfittato per battere in breccia nella speranza di distogliere il pubblico, o parte di esso, dai suoi vecchi amori (e ciò vale anche per Ponchielli, come per Puccini ed altri) ed avviarlo verso più difficili approdi. Ma guardando al Mefìstofele con occhio imparziale, dobbiamo convenire, come per la Gioconda, che l'opera non si regge tutta pel solo cattivo gusto di certo pubblico, ma anche per virtù sue intrinseche. Pure fra le deficienze della istrumentazione e gli spunti non peregrini o beethoveniani, ci son parti vive e vitali; segnatamente: il Prologo, l' «Obertas», l'aria «Dai campi, dai prati», vari momenti della scena del giardino, la fuga finale del «Sabba romantico», l'atto 3° (morte di Margherita), la serenata «La luna immobile», il racconto della caduta di Troia, la «Chorèa», l' Andante amoroso «Forma ideal purissima» (specie la seconda parte «Dal tuo respiro pendo»), e l'ultima romanza di Faust «Giunto sul passo estremo» (naturalmente, senza l'acuto finale o il vocalizzo che qualche divo vi appiccica bestialmente). Né mancano intuizioni di felice poesia, come il trasvolante etereo «Siam nimbi volanti», o il vanire lontano nella sera delle voci che cantano «Il bel giovinetto». Nel complesso, anche senza una forte originalità, anche male strumentato, e senza aver rivoluzionato né riformato il melodramma (che, ripetiamo, all'avanguardia di quest'epoca erano ben altri: Verdi in Italia, Berlioz in Francia, Wagner in Germania, Mussorgski in Russia), il Mefìstofele ha sufficienti bellezze oltre all'attrattiva del poema e dell'elemento fantastico-coreografico, per reggersi e per esser goduto anche da persone di discreto buon gusto.

Quanto al Nerone (1924 postumo), vi si notano gli stessi difetti del Mefistofele. Non ci accorgiamo più del vuoto orchestrale, colmato dalla nuova strumentazione dell'opera compiuta dopo la morte dell'autore; ma ci colpisce sgradevolmente la scarsa originalità dei motivi, un troppo frequente e minuzioso descrittivismo materialistico di gesti, di movimenti, e perfino di passi e di rumori, e un frammentarismo che dà all'opera l'aspetto di un conglomerato in cui i vari frammenti ed episodi non sempre appaiono bene saldati, qualche accento melodrammatico (nel senso peggiorativo della parola) e l'incoerente alternativa di forme liberamente sciolte e stroficamente chiuse, non sempre giustificabile. Ma vi si nota indubbiamente una grande nobiltà di intendimenti (maggiore che nel Mefistofele), e vi sono figure ben disegnate (Nerone, Asteria, Rubria, Gobrias, Fanuel; poco rilevato invece Simon Mago, il più melodrammaticamente bolso dei personaggi). Notevoli anche un misto di umorismo, di sensuale e di incantesimale stupendi nell'atto 2° (Tempio di Simon Mago), e un'alta espressione dell'amore e della religione cristiana. Cosicché il «Pater Noster» di Rubria nel 1° atto, le «Beatitudini» e il finale del 3° e la morte di Rubria, sono fra le pagine più originali di Boito, e fra le più commosse e spirituali che vanti la musica italiana del secolo XIX. E si ha la sensazione che in queste pagine l'ispirazione del musicista sia salita più in alto che in qualunque delle migliori pagine del Mefistofele, e che l'opera intera tragga da tale respiro lirico un suo diritto alla vita.

Nel periodo che va da Rossini a Verdi molti in Italia e all'estero furono i compositori minori di melodrammi, ma non crediamo, che dopo quanto s'è detto circa lo stile e la forma dei maggiori, valga la pena di insistere su gli altri, in quanto essendo essi nella maggior parte dei casi (fatte poche eccezioni) degli imitatori con modeste risorse originali, non presentano difficoltà alla comprensione da parte del pubblico. Nessuno crediamo, può trovarsi imbarazzato di fronte, ad esempio, al Fra Diavolo (1830) di Daniele Auber, l'unica opera sua che ancora, talvolta, si eseguisce, mentre dei vari Hérold, Boïeldieu, Halévy, non rimangono che alcune vivaci e graziose sinfonie e qualche aria. Lo stesso dicasi dei minori italiani, come i fratelli Ricci, dei quali si potrebbe piacevolmente riudire Crispino e la Comare (1850), o del Cagnoni, che ebbe un buon momento sentimentale con Papà Martin (1871), o del Marchetti e del suo dimenticato Ruy Blas (1869) (imitazione peggiorata del Don Carlo verdiano); tutte opere che pure hanno pregi notevoli di facile melodia e di fattura elegante.

È dovere invece di mettere in guardia contro la troppo facile e piacevole orecchiabilità della Mignon (1866) di Ambrogio Thomas. Le forme convenzionali, la mancanza di ogni espressione drammatica, la debolezza dei recitativi (taluni grotteschi), la fatuità gorgheggiante di Filina, la volgarità dei cori e di certi disegni orchestrali, la poverissima struttura armonico-contrappuntistica, sono tutte deficienze che non appaiono colmate dalla affettuosa melodia di qualche romanza. Anzi il prevalere di queste su tutto il resto finisce per dare all'opera un sapore dolciastro di gusto nettamente inferiore. Non si contesta con ciò la bellezza singola dell' «Ah! non credevi tu», dell' «Addio Mignon», del «Non conosci il bel suol», del duetto Mignon-Lotario «Sofferto hai tu», della ninna-nanna «Del suo cor calmai le pene»: e di varie altre pagine: tutte ispirazioni sincere e gentili che spiegano il costante favore del pubblico verso quest'opera.

Soffermiamoci invece un momento su La dannazione di Faust (1846), che è l'opera più popolare, anzi l'unica relativamente popolare, di Ettore Berlioz. Composta originariamente come «opera da concerto» fu poi portata su la scena con fortunato adattamento. Più che l'elemento vocale, è l'orchestra che conta per la finezza dei disegni e per la tavolozza smagliante. Il disegno melodico tende all'indefinito, svaria attraverso armonie e modulazioni fra le meno consuete e talvolta asprigne. Il contrappunto ricerca ritmi insoliti; l'orchestra ci presenta una mutevolezza di tinte che ha dell'incantesimale, soprattutto suggestiva nella evocazione di fenomeni naturali e di elementi fantastici. La parte vocale non ha tanto valore come seguace dell'intonazione del linguaggio commosso, o come espressione di sentimenti, quanto come espressione della poesia del sentimento e del pensiero. Poesia che però è essa stessa imbevuta di passione e di drammaticità, e che non rifugge dalle forme chiuse. E così il commento orchestrale, in cui la poesia dell'ora, la poesia del paesaggio, la poesia del soprannaturale, la poesia del dramma, trovano la loro voce.

Con questa disposizione d'animo dev'essere ascoltata la Dannazione di Faust. Ci appariranno allora in tutta la loro bellezza la meditazione primaverile di Faust, nostalgica contemplazione del risveglio della Natura attraverso alla malinconia senza speranza di un vecchio che sente ormai la vanità della propria esistenza; la freschezza delle danze campestri; il pittoresco e marziale sfilare delle armate ungheresi; la solenne gioia del rito pasquale; la bacchica allegria della taverna con le sue balorde canzoni; la leggerezza delle danze di esseri fiabeschi e demoniaci; l'ardente amore dei sensi; la tristezza senza confine dell'amore e della verginità perdute; il contrasto poderoso dei canti goliardici e militari audacemente sovrapposti in tonalità e ritmi diversi fra loro armonizzati; la beffarda serenata di Mefistofele; la possente invocazione della Natura con quel profondo disegno dei contrabassi che sembra spalancarci l'abisso senza fondo del mistero; la paurosa cavalcata percorsa da voci sinistre e da gemiti disperati; l'infernale rumoroso pandemonium e l'eterea ascesa di Margherita al cielo. Non mancano tuttavia squilibri di forma e d'ispirazione che si ripetono più accentuati nelle altre opere di Berlioz (Benvenuto Cellini, I Troiani, Beatrice e Benedetto) nelle quali rifulge sempre, al di sopra di qualunque altro elemento, come nella Dannazione, la luminosità di uno strumentale estremamente ricco, vario ed efficace.

Fino ad un certo punto al teatro francese si ricollega l'opera del berlinese Giacomo Meyerbeer, in quanto la sua maggiore attività si svolse a Parigi, essendo egli il vero creatore di quella forma che fu detta «la grand-opéra», il supermelodrammone in 5 atti e molti ballabili. Ma l'aspetto peggiore dell'opera meyerbeeriana non consiste nella sua mole mastodontica, chè il Guglielmo Tell, quanto a mole, non è da meno. Ciò che ha fatto scomparire quasi completamente l'opera di Meyerbeer è il frequente frivolo rettoricume dell'ispirazione melodica, che si appaia ad altri momenti di altrettanto fatua truculenza. Scarsa poesia, inconsistenza e banalità espressive sono i difetti principali che hanno ucciso le opere di Meyerbeer, a parte la difficoltà di trovare cantanti (specialmente tenori) adatti ad eseguirle. E ciò, si noti, non ostante lo strumentale vivamente colorito e spesso elegante e finemente cesellato, l'interesse dei contrappunti che costituiscono vaste trame sinfonico-vocali, e le belle pagine sparse qua e là in tutte le opere sue. Potremmo citarne molte, e nella Dinorah (1859), e nel Roberto il Diavolo (1831), e nel Profeta (1849), e ne L'Africana (1865), postuma, e ne Gli Ugonotti (1836); la quale ultima resta, malgrado qualche pletora e molta superficialità, l'opera più significativa e più ricca di sincera passionalità: valga ad esempio il famoso tragico duetto del 4° atto fra Raoul e Valentina. Del resto la maestria della costruzione, la robustezza severa e anche pittoresca di certi cori (specie ne L'Africana) sono un altro elemento positivo delle opere meyerbeeriane, insieme all'affettuoso lirismo di certe arie («Sopra Berta, l'amor mio» nel Profeta, «Bianca al par di neve alpina» ne Gli Ugonotti, «O paradiso» ne L'Africana, per citarne alcune) e alla varietà degli atteggiamenti espressivi che vanno dal pastorale all'eroico, dal sacro all'amoroso, dal comico al drammatico e al fantastico.

L'ascoltazione del Fidelio (1814) di Ludwig van Beethoven non può preoccupare chi conosce già la forma dell'opera italiana ad arie, duetti, quartetti, recitativi, ecc. e lo stile melodico e sinfonico del grande di Bonn, non presentando l'opera nessuna novità stilistica o formale, spesso anzi essendo stesa in forme usuali convenzionali. Vi è dovunque diffusa l'alta sensibilità romantico-patetica e drammatica del compositore. Ma l'opera, musicalmente nobilissima, conferma tuttavia in qualche svagamento dal testo, in qualche prolissità e in varie sproporzioni la scarsa attitudine teatrale di Beethoven.

Anche Carlo Maria Weber non offre difficoltà. L'autore è soprattutto un vigoroso sinfonista, cosicché delle sue opere meno vitali le ouvertures, veri poemetti sinfonici, si salvano sempre per magìa di pennellature orchestrali, vigorosa limpida espressività di ispirazione, ed equilibratissima costruzione.

Nell'opera Il franco cacciatore (Der Freischütz, 1821) l'elemento psicologico-drammatico e soprattutto quello fantastico formano i nuclei fondamentali della creazione musicale, che tuttavia talora ondeggia verso altre forme stilistiche, specialmente verso Mozart e Rossini.

Con le opere più significative dei maestri russi prima di Mussorgski si entra in un altro indirizzo operistico, nel quale, accanto ad una spesso scarsa drammaticità, acquistano particolare interesse i canti popolari nazionali ed altri creati sul loro stampo dai compositori medesimi. Tali canti appaiono nell'opera non solo come elementi folkloristici pittoreschi, ma come elementi sentimentali, sia nella loro vibrante ritmica piena di vita, sia nella loro profonda nostalgica malinconia: entrambi caratteri essenziali dello spirito russo. Così è, ad esempio, ne La vita per lo Czar (1836) di Michele Glinka, ove le forme corali elevano già la collettività al rango di personaggio di importanza primaria, con espressioni svariatissime sacre e belliche, di gioia e di furore, d'amore patrio e di festività campestre. E nei cori si rinchiude quanto di più drammatico il musicista ha concepito. Tutto ciò in una veste orchestrale brillante e colorita.

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Colui che si accosta per la prima volta a Riccardo Wagner (intendiamo il Wagner del Tristano, dei Maestri Cantori, dei Nibelunghi e del Parsifal), deve compiere innegabilmente una nuova ambientazione. Non esistono più (o non si avvertono) le forme chiuse, e ciò costringe ad un'attenzione continua, senza soste, senza un attimo di riposo. Ma la difficoltà non si limita a questo. Vi è la durata degli atti che impone un non breve prolungamento dello sforzo. Per esempio, il prologo e il 1° atto del Crepuscolo degli Dei, che debbono essere eseguiti di seguito, hanno la durata complessiva di quasi due ore. L'oro del Reno, quando lo si eseguisce com'è stato concepito, e cioè in un solo atto, dura due ore e mezza. Il 2° atto de La Walkiria dura un'ora e trenta minuti: «Quest'atto è scritto solo per gli spiriti forti», diceva Wagner medesimo in una lettera a Liszt (e non si riferiva solo alla durata). Ci sono poi lunghe scene in cui i personaggi si mantengono in un'immobilità statuaria: così nel duetto Brunilde-Sigmondo nel 2° atto de La Walkiria, e nel duetto d'amore del 2° atto del Tristano e Isotta che dura quasi tre quarti d'ora! E c'è un'opera come il Sigfrido in cui non si vede comparire una donna se non nella seconda parte dell'ultimo atto e cioè dopo quasi tre ore di musica.

Ma queste non sono che difficoltà di carattere materiale; l'alta poesia che è sparsa dovunque compensa di ogni lunghezza e di ogni altro fatto d'eccezione. Le concezioni wagneriane sono troppo vaste per poter essere contenute in un breve spazio di tempo. Si può forse far colpa a Dante se la Divina Commedia è di 100 canti anziché, supponiamo, in 80 soli? E possiamo forse lamentarci che il Giudizio di Michelangelo occupi una parete troppo ampia? Chi potrebbe pensare di costringere tale apocalittica rappresentazione nelle ordinarie misure di un quadro di due metri per lato?

Ma, si può chiedere, non c'è proprio difetto di prolissità nell'esuberante lunghezza delle scene wagneriane? Ebbene, da prolissità il grande musicista di Lipsia non è immune, specie dove i personaggi si mettono a raccontare con tutti i più minuti particolari e relativi commenti gli antefatti dell'azione. Quando Gurnemanz, per esempio, nel Parsifal, si fa a narrare vecchie storie, e lo fa con pacata calma lasciando ristagnare per buona mezz'ora il dramma in una immobilità statica assoluta, l'equilibrio e l'economia dell'opera d'arte sono messi a dura prova, e talvolta, non ostante il luminoso commento orchestrale, anche la sopportazione dell'uditore. È questo un difetto dovuto alla razza teutonica dell'autore; un musicista latino, mettiamo Verdi, avrebbe dato di scorcio l'essenziale, e snellito e sveltito il racconto a vantaggio dell'azione drammatica.

Chi si reca ad ascoltare Wagner deve dunque armarsi di buona volontà e di pazienza; e non dovrà cercare nelle opere di Wagner, dopo il Lohengrin, né la «romanza», né qualsiasi altra forma chiusa. Già nel Lohengrin (1850) Wagner si studia «di porre la poesia e il dramma in intima e plastica relazione» (sono parole sue a Liszt); e nella parola «poesia» è compresa la veste musicale. Nulla più di edonistico; nessun virtuosismo canoro, neppure sotto forma di acuti studiatamente prolungati al solo scopo di creare un piacere sensoriale. La scena del Lohengrin in cui meglio Wagner attua i suoi principi è quella iniziale del 2° atto fra Telramondo e Ortruda. Con il Tristano e Isotta (1865) Wagner applica in pieno tutti i principi che danno vita ad una forma nuova: il dramma musicale. I fondamentali di essi sono i seguenti: concorso di tutte le arti, poesia musica pittura mimica, alla creazione del «dramma»; lo scopo dev'essere il dramma e non la musica; la melodia deve sorgere spontanea dalla parola declamata con intensità drammatica; nessuna interruzione deve arrestare il libero corso della melodia, e perciò nessun punto fermo, nessuna forma chiusa; abolita quindi la divisione in «pezzi» staccati alternati a recitativi secchi o strumentati. Da questo fluire continuo della melodia prende origine il concetto wagneriano della melodia infinita. Essa deve liberamente circolare nel canto e nell'orchestra. Quest'ultima, resa invisibile (golfo mistico), deve commentare il dramma svolgendo un tessuto di motivi o temi fondamentali o conduttori (grund-motiv, o leit-motiv) riferentisi alla natura psicologica, poetica e drammatica delle persone, delle cose, degli eventi. Fedele alla filosofia schopenhaueriana, i motivi (spada, fuoco, veleno, filtro d'amore e simili) non esprimono mai il fenomeno ma unicamente l'essenza intima, l' «in sé» d'ogni fenomeno (squillo eroico per la spada, mobilità perpetua per il fuoco, estasi incantesimale per il filtro, disegno tetro dei bassi per il veleno, ecc.). La tematica wagneriana è dunque antimaterialista, e spiritualizzante. Anche il motivo circolare dell'anello non ha intenzioni veristiche; l'espressione è quella di un cerchio magico, di qualcosa di tristemente fatale che s'aggira senza via d'uscita.

I principi dell'estetica wagneriana, molti dei quali già enunciati dagli artisti della Camerata Fiorentina, ripresi dall'Algarotti, dal Metastasio, dal Calzabigi, e in parte attuati dal Gluck, trovarono nei mezzi musicali usati da Wagner una grande potenza espressiva. La declamazione vocale segue con incisività e con senso poetico l'accentuazione commossa e concitata del linguaggio, aderendo più allo spirito che all'intonazione delle parole. Tale declamazione va ascoltata però insieme al tessuto sinfonico, col quale intimamente si fonde, e che è costituito dal concatenamento, dalla sovrapposizione e dallo sviluppo dei motivi tematici in istretta connessione con i versi del testo e con l'azione drammatica. Le esecuzioni in lingua tedesca che da qualche tempo si ripetono con frequenza fra noi, ci hanno persuaso della loro inutilità. Mentre rendono difficile a parte del pubblico il seguire dialogo e azione, la comprensione musicale dell'opera d'arte non ci guadagna. La ragione si è che non esiste quasi mai uno stretto nesso fra il suono della parola e la musica che la esprime, essendo questa rivolta principalmente ad esaltare lo spirito delle parole e delle cose, la loro interiorità e il loro significato simbolico e metafisico. Le opere di Wagner avrebbero bisogno soltanto di traduzioni che rendano fedelmente questo spirito. Il canto raramente ha valore per sé stante, ma solo come parte del sinfonismo orchestrale di cui costituisce una voce: la voce che conferisce al tessuto sinfonico medesimo un significato logico drammatico o lirico, e da cui la sinfonia ripete la sua origine e la sua elaborazione tematica.

Apriamo a caso il Sigfrido: Mime sta sciogliendo uno degli enigmi propostigli dal Viandante; dice che sulla Terra stanno i Giganti, e l'orchestra ne fa sentire il violento leit-motiv. Rammenta che fra essi s'accese rissa mortale per il possesso dell'anello, e l'orchestra sul ritmo cupo dei giganti disegna il tema aggirante dell'anello. Poi dice come Fafner, ucciso il fratello Fasolt, assunse le forme di un drago immane per proteggere il tesoro carpito, e nei bassi striscia bieco e pauroso il tema del mostro. Mime ha finito: ha sciolto l'enigma ottemperando al patto fissato col Viandante, e il tema del patto risuona possente negli ottoni. Ora è in attesa del terzo enigma, e nell'attesa il tema della fucina e quello della meditazione e insieme della paura di Mime si alternano, il primo saltellando gaio per la sperata vittoria, il secondo discendendo fioco per la temuta sconfitta.

Ogni pensiero, palese o sottinteso, ogni gesto significativo, ogni richiamo ad avvenimenti, cose, persone, fatti passati, attuali o futuri, scorrono così nel tessuto sinfonico con il colore timbrico più suggestivo ed evocativo di particolari strumenti o gruppi strumentali, nei brevi e scultori disegni dei motivi conduttori.

Tale sistema del tutto cerebrale sarebbe in realtà stucchevolmente convenzionale se l'alta fantasia del musicista non avesse saputo trame luci di poesia profonda, un senso di vita trasfigurata sempre vario e interessante cui il cromatismo e le frequenti vaghissime modulazioni armoniche e la smagliante e densa tavolozza orchestrale aggiungono un intenso fascino romantico.

Non che qua e là non appaiano ugualmente zone grigie in cui il sistema sembra soltanto un'arida convenzione; ma quando il Maestro se ne dimentica per abbandonarsi ad una più libera e lirica ispirazione, nascono allora pagine di un sinfonismo immaginoso di indimenticabile bellezza quali il finale del Tristano, la canzone della gara nei Maestri cantori, l'entrata degli Dei nel Walhalla ne L'oro del Reno, la scena finale del 1° atto e l'incantesimo del fuoco nel La Walkiria, la canzone della fucina e il mormorio della foresta nel Sigfrido, la marcia funebre del Crepuscolo degli Dei, il Venerdì Santo del Parsifal, e tante altre che sarebbe troppo lungo e superfluo enumerare.

Ora, la tessitura tematica del sinfonismo wagneriano costituisce un problema che allarma e rende diffidente il pubblico, e talora lo fa rifuggire tediato dalle opere del Maestro. Il problema presenta due aspetti: uno estetico e l'altro pratico. Quello estetico ricerca se questo continuo richiamo di leit-motiv sia o no una convenzione artificiosa e perciò di natura troppo logica per essere artistica. E allora, in questo caso, convenzione per convenzione, tanto vale seguire il vecchio sistema melodrammatico delle arie, romanze, duetti, quartetti, cori, concertati, e simili. Diciamo subito che ogni sistema è buono quando appunto la fantasia poetica del musicista sa impedire ch'esso diventi un espediente puramente meccanico; cosicché la Norma o la Traviata con l'alata ispirazione dei loro pezzi staccati e i loro profondi recitativi possono valere il Tristano o il Parsifal con la loro tessitura tematico-sinfonica. La grandezza di Wagner sta per l'appunto nell'aver saputo elevare un congegno tecnico a espressione d'arte spontanea che tocca spesso il sublime e che solo raramente scopre il meccanismo delle sue combinazioni, poiché nella natura complessa di Riccardo Wagner cerebralità e fantasia, tecnica e poesia, musica e dramma formano un unico plesso inscindibile, un unico blocco di lava incandescente.

Il problema pratico per l'ascoltatore si concreta in questa domanda: è necessario conoscere a memoria i leit-motiv wagneriani e il loro significato per gustare l'opera d'arte? Rispondiamo che può essere utile, ma non lo crediamo indispensabile. Aggiungiamo anzi che se si ascolta un'opera di Wagner preoccupandosi anzitutto di riconoscere i vari temi nella loro successione: «questo è il tema della spada, questo è quello del patto, questo è il tema dei Nibelunghi, questo quello del Walhalla, questo l'interrogazione al destino, questo la maledizione, quest'altro la rinuncia» e così via, si perde di vista il valore musicale dei temi stessi e del loro sviluppo sinfonico. Vale a dire che per analizzare le molle del congegno ci si allontana dall'opera d'arte e dalla sua potente unità poetico-musicale. I leit-motiv wagneriani sono di natura così fortemente scultoria, così fantasticamente suggestiva che la loro espressività, tutta interiore, tutta spirituale, si impone da sé alla pura audizione: le parole del testo, l'azione e i gesti dei personaggi ne suggeriscono il significato, più o meno nettamente, senza bisogno di un particolare sforzo mnemonico. Il conoscere in precedenza il significato dei temi può facilitare la penetrazione nel congegno dell'opera d'arte; ma ascoltando l'opera è necessario un totale abbandono, è necessario seguire l'onda sonora che sale dal golfo mistico e afferrarne più la forza drammatica e lirica che non le varie significazioni logiche, è necessario godere il sinfonismo indipendentemente da quello che vogliono dire questo o quel motivo. Ascoltando la marcia funebre del Crepuscolo noi vi sentiremo l'eccelsa sublimità di uno spirito eroico, l'immensità e l'infinita malinconia del crollo di un mondo, anche se non ci rendiamo conto che sfilano dinanzi a noi i temi dei Welsunghi, della spada, di Sigfrido e simili; e sapendolo non aggiungeremo nulla alla coscienza della meravigliosa bellezza di questa pagina wagneriana.

Ogni preoccupazione, dunque, di riconoscere questo o quel tema non fa che disturbare la nostra audizione, ci affatica e ci distrae dalla contemplazione puramente estetica della musica di Wagner all'infuori di ogni substrato intellettuale. Crediamo che le guide tematiche e le esegesi minuziosamente analitiche dei Wolzogen e compagni, abbiano allontanato più che avvicinato all'opera wagneriana per il naturale timore e la diffidenza che incuteva la complicazione di un sistema, che, in ultima analisi, interessava soprattutto il compositore, come può interessare il critico-tecnico, ma non deve preoccupare menomamente chi ascolta. Precisiamo anzi che per gustare Wagner non solo poco giova la conoscenza dei temi, ma è d'impaccio anche la complicata e spesso barocca soprastruttura pseudofilosofica e metafisica, della quale, nei momenti migliori, il poeta drammatico e il musicista si ridono. Davanti a un quadro di un grande pittore ha poca importanza per chi lo contempla il sapere quali tinte egli abbia mescolato per ottenere quel determinato colore in quella speciale tonalità e quale valore simbolico abbia voluto attribuire ai colori stessi e ai singoli frammenti della composizione pittorica. Importante è invece soltanto di lasciarsi permeare dalla forza poetica che se ne sprigiona.

È noto che Wagner legò strettamente ouvertures e preludi al dramma, svolgendovi i temi più significativi dell'opera, non in successione, come fa Verdi, ma in sovrapposizione, in intrecci e con sviluppi del tutto propri dello stile sinfonico. Perciò, anche a prescindere dal significato preciso dei motivi (il cui spirito tuttavia ci si impone subito per la forza insita nella loro stessa essenza artistica), tali preludi e sinfonie sono ammirevoli come veri e propri poemi lirico-drammatici a sé. Il contrasto fra il tema sacro (canto di pellegrini) e quelli profani (motivi del Venusberg e inno a Venere) nella sinfonia del Tannhäuser si imprime nella nostra fantasia anche non sapendo di quali motivi esattamente si tratti; il loro sviluppo, la loro potenza espressiva, il senso di poesia, di frenesia orgiastica, di altitudine sacra in cui trasportano il nostro spirito, lo splendore dei colori orchestrali, non hanno bisogno di alcun cartellino indicatore per rapirci nel fascino prodigioso che da essi emana. Che cosa importa sapere che i temi adoperati nel preludio del Tristano e Isotta sono quelli del filtro, dello sguardo, del veleno? Pel modo come sono sviluppati questi temi, per il loro svariare di tinte e di chiaroscuri nella magia dell'orchestrazione, per il crescendo spasmodico e il precipitare rovinoso nell'annientamento, noi subiamo un fascino ineffabile di natura puramente musicale che trascina il nostro animo in un mondo di sogni, di ebbrezze, di disperazione sconfinato ! E questo ci basta per contemplare la bellezza e l'alta liricità di tale pagina smisuratamente grande !

Ma perché fermarci al preludio? In verità è questa l'opera in cui il poeta e il musicista attingono i più alti valori con la perfezione di uno stile lontano da ogni altro precedente, con una fusione totale della musica e della poesia, e con un fiume di melodia infinita sublimatrice, davanti a cui la lingua del critico «divien tremando muta». La passione travolgente dei due amanti non troverà via di scampo se non nella morte, e di questo incantamento folle, di questo senso della morte liberatrice è imbevuta ogni nota della partitura. Durante il grande duetto d'amore del 2° atto, ai richiami di Brangania lo spasimo della separazione e il pericolo stesso accentuano in Tristano e in Isotta il desiderio fino al delirio. L'arrivo di Re Marke non è quasi più una sorpresa, poiché essi nell'oblìo volontario di tutto, negando il giorno e invocando la notte «eterna», perduti nel dolce orrore della loro colpa, sono rimasti per incontrare la morte. Tutti i sensi e tutta l'anima sono tesi in una febbre ansiosa verso la liberazione. La tonalità cambia senza posa sotto l'onda crescente dell'emozione indomabile; le note scivolano di semitono in semitono, scendono e salgono come respiri ansimanti, la melodia ha smarrimenti improvvisi e vorticosi di ebrietà sensuale e di aspirazione mistica insieme. E questa è infatti anche la musica del finale, ove Amore e Morte trionfano in un abbraccio supremo.

Più umana, ma ugualmente percorsa da un torrente di melodie luminose, penetranti e colorite, le quali talvolta si condensano in forme chiuse (canzoni, cori e perfino un quintetto) è l'opera I Maestri Cantori di Norimberga (1868), la più vocalmente melodiosa delle opere di Wagner dopo il Lohengrin. In essa la libertà dell'arte (Walter) trionfa sul convenzionalismo pedante e su la grettezza delle regole (personificate nei Maestri e più di tutto poste in satira mordente nella figura di Beckmesser). Nella vicenda il poeta calzolaio Hans Sachs rappresenta la superiorità dello spirito che concilia il passato all'avvenire, e che sa rinunziare a un proprio sogno di amore per la felicità dei due giovani amanti, Walter ed Eva.

L'Olandese volante (1843), Tannhäuser (1845), Lohengrin, Tristano e Isotta, I Nibelunghi, Parsifal: in tutte queste opere alla musica si associa la poesia di antichissime leggende e miti, che infonde in essa un senso religioso il quale porta la nostra emozione estetica in una sfera superiore. Ma, mentre Weber si era immerso nell'elemento favoloso perdendo in umanità, Wagner approfondisce l'umanità dei suoi personaggi avvolgendone l'esistenza nel misticismo di un mondo spirituale primitivo e fantasioso.

Che cosa v'è, ad esempio, di più poetico del Sigfrido wagneriano, di questo eroe giovinetto che ignora il terrore, che combatte i mostri e attraversa le fiamme con l'ingenuità serena con cui si compirebbe un giuoco; che ha in orrore la falsità malvagia di un Mime; che intende le voci della natura, mormorio di fronde o canto d'uccelletti; che nella propria baldanza spezza la lancia del vecchio Dio; che trema alla vista della prima donna apparsagli dormiente, chiusa nell'armi, al sommo della montagna entro il recinto di fuoco? Questa è figura fra le più vive ed eterne create dalla fantasia di un poeta.

E del pari profondamente poetico è quel puro desiderio di redenzione che è in fondo al cuore degli eroi wagneriani dell'Anello, invano lottanti contro un Fato che li travolge insieme agli Dei con tragica inesorabilità. Ma - e in ciò Wagner si allontana dal pessimismo schopenhaueriano per accostarsi all'idealismo hegeliano - contro l'invincibilità del Fato si erge, forza liberatrice, la Morte. Soltanto in essa l'eroe wagneriano trova la possibilità di una redenzione. La musica - e la «melodia infinita» di Wagner in particolare - espressione di moto per eccellenza, rappresentazione di un aspirare che non raggiunge mai la pienezza dell'essere e si smarrisce nell'abisso della Morte, da cui si risale per nuove vie alla vita, realizza l'idea dell'eterno divenire.

Il poema massimo in cui Wagner attuò le sue più alte aspirazioni d'arte e il suo grande sogno di redenzione fu L'anello del Nibelungo[27] che, per la vastità della sua tela, comprende una «vigilia»: L'oro del Reno (1854) e tre «giornate»; La Walkiria (1856), Sigfrido (1871) e Il crepuscolo degli Dei (1872). Le mitiche vicende rinnovate e fatte rivivere da Wagner in queste opere hanno per centro la maledizione portata dalla potenza dell'oro su la Terra (l'anello foggiato con l'oro rapito alle figlie del Reno dal nano Alberico maledicendo l'amore; carpito poi a questi dal dio Wotan; ceduto ai giganti in pagamento della costruzione del Walhalla; custodito dal gigante Fafner, trasformato in drago, entro una grotta, dopo l'assassinio del fratello Fasolt; preso a Fafner da Sigfrido dopo averlo ucciso in combattimento; restituito al Reno dalla Walkiria Brunilde dopo che Sigfrido fu a sua volta abbattuto a tradimento da Hagen che voleva impadronirsene), e la redenzione del mondo per mezzo dell'amore (il sacrificio di Brunilde che si getta sul rogo dello spento Sigfrido).

Nei Nibelunghi dunque l'oro è riconosciuto quale causa prima di ogni male terreno. Gli Dei sono tentati di possederlo e periscono. Il mondo degli eroi è travolto presto anch'esso dalla medesima forza distruggitrice, dal contatto corruttore dell'oro. Nel finale della Tetralogia alla nuova umanità sorta dallo sfacelo di questi due mondi il poeta addita la felicità nell'amore puro e nella privazione dell'oro fatale, nell'annientamento di ogni potenza terrestre. Il mondo spirituale prende il sopravvento sul materiale, e per questa via l'uomo si ricongiunge non più «agli dei» ma «a Dio».

Parsifal (1882) accentua in forma cristiana questo concetto. Il «puro folle», l'ingenuo inconsapevole che sale alla conoscenza del male attraverso a un'esperienza interiore redimerà dalla colpa Amfortas e Kundry, il primo col tocco della sacra lancia ritolta al perverso Klingsor, la seconda con l'amore spirituale che va oltre la morte, e rinnova il rito che fa scendere su la terra la grazia divina (miracolo del San Gral). L'amore peccaminoso (Kundry), la potenza del male che ha le sue radici nella magia infernale (Klingsor) sono rinnegate. L'annientamento di Klingsor porta come conseguenza immediata alla coscienza di Dio, alla redenzione dell'amore (battesimo di Kundry) e alla fine del dolore (guarigione di Amfortas).

Capitolo X: Il teatro musicale dopo Wagner [Indice]

A Wagner si collegano strettamente altri due insigni operisti tedeschi: Engelberto Humperdinck e Riccardo Strauss.

Nell'opera Hänsel e Gretel (1893) di Humperdinck il musicista rivela un delicato sentimento fiabesco attraverso alla finezza dei colori orchestrali vaghissimi e alla poesia del paesaggio. Specialmente suggestiva è la descrizione della notte nel bosco col canto del cucù, gli echi e le mille voci misteriose che si diffondono nella oscurità notturna. La leggera ampollosità di qualche discorso musicale della Madre è gustosamente caricaturale; e la poesia ingenua e fantasiosa che si diffonde sul sogno dei fanciulli e nella pantomima, a parte la splendente orchestrazione, fa perdonare qualche difetto di proporzione. Per contro vivacemente schizzate sono le figure dei due bimbi nell'evocazione felice di canzoncine popolari; e quella della Strega Marzapane nei suoi ritmi di tregenda e nei suoi salti vocali.

Ho visto una volta un pubblico ridere e fischiare indignato quando all'ultima scena dell'opera la Strega, che era stata gettata nel forno dai bimbi, ne veniva estratta trasformata in marzapane. Era un pubblico evidentemente viziato dai finali a coltellate o, comunque, un pubblico che non sapeva ridere, che non sapeva rendersi conto della levità infantilmente fiabesca del soggetto; un pubblico che non era capace di scendere dal coturno per godere la graziosa storiella di due bimbi disubbidienti e della comica trasformazione di una strega. Avendo presa troppo sul serio la morte di costei, secondo il vecchio gusto melodrammatico, non sapeva poi capacitarsi della sua presentazione sotto forma di marzapane, e gli sfuggiva il lato umoristico dell'avvenimento. Eppure il non saper essere spiritualmente fanciulli può chiudere a un pubblico la porta non solo della piccola favoletta, ma spesso anche quella della grande poesia. Anche per gustare il 2° atto di Sigfrido ad esempio, c'è bisogno di guardare a questo personaggio e alle sue imprese con un'anima di fanciullo. Un grande artista preso da preconcetto moralistico-sociale, come Leone Tolstoi, non ci riuscì, come s'è già detto, urtato anche dalle visibili finzioni della messa in scena.

Se Humperdinck usa il sinfonismo orchestrale di Wagner per dipingere una leggera favoletta per bimbi, Riccardo Strauss lo sviluppa e lo porta all'esasperazione per ben altri eroi. Basterà, per convincersene, ascoltare solamente la più popolare delle sue opere: Salomè (1909), composta sul poema drammatico di Oscar Wilde. Le voci e i disegni affidati ai cantanti non hanno quasi più nessuna importanza, se non come recitazione musicalmente intonata in ritmi e salti vocali di estrema concitazione; e Strauss sfrutta l'espressione drammatica soprattutto dell'orchestra, un'orchestra ricchissima di timbri e di impasti nuovi, audaci, sgargianti, facendo dell'opera un vero «poema sinfonico». Egli attua le sovrapposizioni tematiche e le modulazioni più azzardose, creando dissonanze che, al pianoforte, appaiono asprissime, ma che nell'orchestra, pei diversi timbri strumentali si risolvono senza soverchio urto, e lasciandoci stupiti più per l'abilità del musicista che per la musica in sé. Fra le pagine in cui le sovrapposizioni tematiche più dissonanti raggiungono un effetto di comicità babelica inaudita per verità e potenza è la disputa degli ebrei. Qui l'asprezza degli urti, la pedantesca ostinata ripetizione dei brevi temi, le grida dei contendenti, formano una polifonia di un grottesco monumentale. Chi se ne scandalizza non ha capito. L'originalità tematica (non soverchia) s'impone specialmente per le frequenti e profonde modificazioni di ritmo che i temi stessi subiscono ad ogni svolta dei sentimenti, e per le sempre nuove, inattese e violente coloriture orchestrali. Molte volte più che di veri e propri temi, si tratta di brevissimi disegni, di accenti tematici che esprimono gesti o impulsi improvvisi fuggevoli dello spirito: scatti d'ira, incubi sinistri, brividi di terrore, attimi d'ansia, qualcosa di minaccioso o di aspro che insorge dal fondo della coscienza, una sensazione indefinita, un grido inespresso della voce, o un rapido moto imperioso della volontà.

Ascoltando Salomè, come del resto Il Cavaliere della rosa, Elettra, o qualsiasi altra opera straussiana, noi siamo immersi in un'orgia di sonorità accese, in un prodigioso accavallamento di motivi e di contrappunti, in uno scintillìo timbrico magico. Tutto è pervaso da una esasperazione espressiva paradossale, come se ogni gesto ogni parola facessero scoppiare degli astri sfolgoranti. L'orchestrazione di Strauss è così sovraccarica da toccare il barocco e il puro decorativo, la violenza così forte da parere aggressiva, il descrittivismo così spinto da divenire brutalmente verista (es. i suoni con cui imita il rumore della sega su le vertebre del collo di Johanaan). Un altro aspetto della musica di Strauss è la grande sensorialità ed anche sensualità delle sue impressioni. Perciò in un soggetto come quello di Salomè egli è riuscito particolarmente vivo. Non c'è neppur più l'ombra del misticismo wagneriano. Ma la musica di questa, come delle altre opere sue, riflette il mondo esteriore e quello dei sensi e scarseggia di intimità spirituale. Lo stesso Johanaan è irrigidito in un suo motivo robustamente eroico, forse ieratico, ma non religioso. Un solo momento religiosamente sentito fiorisce all'evocazione di Cristo che «sopra una barca erra pel mar di Galilea predicando a' suoi discepoli»; ma è un attimo fuggevole. Invece la perversità corrotta e morbosa di Salomè è incisa in ogni tema, lumeggiata in ogni armonia, colorita in ogni trovata orchestrale con una potenza libidinosa fortemente suggestiva. E si condensa e prorompe con accenti che dalla più languida sensualità salgono al più folle e procace erotismo nella «danza dei sette veli», nucleo drammatico e musicale dell'opera.

Alla magniloquenza orchestrale fa riscontro la relativa povertà di motivi veramente originali e talvolta la banalità di alcuni di essi, taluni dei quali valzereggianti a sproposito e nel peggiore dei sensi immaginabili. Ma la costruzione è salda ed organica; ogni elemento è condotto ad unità di stile, dominato da una personalità imperiosa. I temi, anche i più brevi, hanno carattere cantabile, se pur talora resi contorti e sinuosi da un'ebbrezza convulsa. La loro successione come il loro sovrapporsi forma una vasta tela melodica, percorsa spesso da parossismi di sonorità frenetiche e dagli spasimi morbosi delle dissonanze dovute non soltanto alla specie degli accordi usati, ma alla sovrapposizione dei temi stessi disposti in tonalità differenti. Del resto, nel soffio musicale che, dalla prima nota all'ultima, non ha mai una sosta, le dissonanze passano come particolari più accesi di questa o quella situazione, di questo o quel carattere, e prontamente risolti.

In Francia più che nelle opere di Thomas, lo stile appare raffinato e nobile in quelle di Gounod, di Saint-Saëns, di Massenet, e particolarmente di Bizet. Per la melodia affettuosa, signorile, e per la chiara e classica struttura armonico-contrappuntistica il Faust (1859) di Carlo Gounod ha diritto alla popolarità di cui gode. Ma come appare delicato nell'esprimere sentimenti intimi (es. scena dei gioielli, duetto d'amore) appare esteriore nel fantastico (strofe di Mefistofele: «Dio dell'or») per quanto sempre elegante e colorito. Più vivo nelle parti sacre, come nella scena della prigione e in particolare, nella scena della chiesa. In quest'ultima i corali sacri, il desiderio e l'incapacità di pregare di Margherita e il suo rimorso affannoso, la suggestione malefica di Mefistofele che le ricorda con la più dolce cantilena un passato che non potrà far più ritorno, e in cui ella si sente colpevole, creano effettivamente col loro contrasto un'atmosfera drammatica di incubo terrificante. L'ultima preghiera di Margherita «O del ciel, angeli immortali», seguita dal solenne coro «Cristo risuscitò», corrisponde invece a una catarsi liberatrice. Ma l'opera, impostata come dramma di Faust, si sviluppa e finisce come romanzo di Margherita, e per ciò viene a mancare al soggetto un'unità di indirizzo, che esiste invece, e robusta, nello stile musicale.

Ancor più melodicamente e orchestralmente raffinato, già tendente al sentimentalismo, e scarso di drammaticità, è Giulio Massenet. Nell'opera Manon (1884) la protagonista è indubbiamente disegnata e colorita stupendamente in ogni sfumatura dei suoi sentimenti di istintiva frivolezza e di civetteria, a cui fa riscontro una passionalità più profonda che raggiunge il massimo rilievo nella scena di seduzione al parlatorio di San Sulpizio. Carattere miniato, accarezzato in ogni movenza, in ogni frase con acuta sensibilità di questa complessa anima femminile, con un'eleganza e una leggerezza di motivi emananti talora un sottile profumo settecentesco. Meno precisi e profondi gli altri personaggi, specie Lescaut che risulta solo una macchietta del soldato bravaccio e giocatore. Nobilissima invece, nei suoi recitativi e nei cantabili, la figura del padre di Des Grieux, mentre il figlio è troppo insistentemente delineato col motivo del suo affetto figliale (il primo con cui si presenta sulla scena) e ondeggia troppo tra la poesia di un'impossibile vita d'amore (il delizioso aereo «sogno» del 2° atto), la falsa vocazione religiosa (atto del chiostro) e gli scatti violenti (casa di giuoco).

Anche il Werther (1892) conferma le magnifiche qualità di fine melodista e di cesellatore orchestrale di Massenet. Il Maestro ha saputo circondare i due innamorati di un alone musicale romantico, il quale trova una particolarmente indovinata espressione nelle «strofe di Ossian» e più ancora nella descrizione poeticissima della sera con cui si chiude il 1° atto. Opaco e tetro il carattere di Alberto, con un tema che non lo rende simpatico fino dal primo apparire. Assolutamente fatua e superflua è Sofia, che sgraziatamente (malgrado i ricami gentili di cui l'infiora la musa di Massenet) non sa essere né bimba né donna.

Nella Thaïs (1894) la vena è minore, nonostante alcune belle pagine, quali la scena della seduzione (finale atto 1°), l'idillio nell'oasi (atto 3°, 1° quadro) che è la cosa più fine e delicata dell'opera, e la «meditazione» (atto 2°, quadro 2°), del cui motivo peraltro il Musicista fa soverchio abuso, specie nell'ultimo quadro dell'opera.

Forte, classico nella forma, patetico nell'ispirazione è Camillo Saint-Saëns, di cui appare ancor viva e robusta l'opera Sansone e Dalila (1877), ove i cori sono portati ad alta dignità di stile. Da notare specialmente l'efficace contrasto fra gli austeri recitativi corali e le disperate implorazioni di Sansone a Dio nel 1° quadro del 3° atto. Le altre scene più belle, fra cui l'affascinante duetto di seduzione del 2° atto, non abbisognano di commenti.

Possiamo dolerci che in Italia non venga quasi mai rappresentata l'opera I racconti di Hoffmann (1881) di Giacomo Offenbach, per la squisita penetrazione e l'intima vitalità con cui sono raffigurati musicalmente Olimpia, Giulietta, Antonia, Stella da un lato, Lindorf, Copelio, Dapertutto, Miracolo dall'altro, e per la leggiadria e la robustezza drammatica di certe scene: fra le più leggiadre è la canzone e la danza di Olimpia, la bambola meccanica (2° atto), e fra le più drammatiche l'ultimo duetto fra Hoffmann e Antonia (1° quadro del 4° atto).

Popolarissima, per contro, è la Carmen (1875) di Giorgio Bizet. Poche volte è capitato ad un artista di indovinare con tanta vigoria di ritmi e di tavolozza orchestrale il «colore locale», senza far uso di spunti folkloristici, ma creando motivi che sembrano propriamente nati in Spagna, come seppe fare Bizet in quest'opera. Il colore caldo, acceso, meridionale, scoppia già dal ritmo giocoso del primo motivo con cui sì apre il preludio dell'opera, ma più di tutto ci affascina nell'Habanera «È l'amor uno strano augello», nel ritmo di danza con cui Carmen risponde all'interrogatorio di Zuniga, nella Seguidilla, «Presso il bastion di Siviglia», nella Canzone boema, che è anch'essa invece di gusto spagnolissimo, «All'udir del sistro il suon», nella Canzone di Josè «Alto là», che forma il motivo dell'intermezzo al 2° atto, nella Romalis danzata da Carmen per divertire Don Josè e nell'intermezzo al 4° atto; mentre quello al 3° è un poemetto di finissimo sentimento lirico, scritto con una cesellatura strumentale preziosa per delicatezza di toni e di contrappunti. In mezzo a queste tinte accese, su questi ritmi procaci si muove ed agisce la civetteria sensuale, incostante e sfrontata di Carmen, che la musica ha fissato in un rilievo scultorio per l'eternità.

Quanto alle strofe di Escamillo «Con voi ber», concluse col celebre ritornello «Toreador attento», esse sono in verità della musica piuttosto banale, giudicata come tale (anzi peggio, poiché usò la parola «lordura») dall'autore medesimo. È una concessione fatta al gusto del pubblico meno fine, approfittando della volgarità vanesia e tronfia del personaggio sportivo che glie lo consentiva. Il pubblico che applaude Escamillo passa invece sotto silenzio tante pagine fini, come, ad esempio, gli intermezzi, o non presta attenzione allo strumentale e all'armonizzazione ardita del coro degli zingari all'inizio del 3° atto, e allo stesso ritorno del motivo del Toreador nobilitato e immalinconito dalle armonie e dal contrappunto misteriosi alla partenza di Escamillo, pure nel 3° atto.

Inutile insistere su la stupenda «romanza del fiore» e su le altre pagine più note. A proposito della qual romanza, il pubblico è trascinato all'applauso dalla nota tenuta finale: un do centrale, su la parola «t'amo»; (- perché non fa un acuto? - mi chiese una volta un tizio che non qualificheremo), e quasi nessuno ascolta la successione di accordi in tonalità diverse da quelle che lascierebbe sospettare il do del tenore, e che danno una così viva ansietà, togliendo il senso di riposo della cadenza, riposo che sarebbe stato in verità fuor di luogo.

Sarà utile invece richiamare l'attenzione sul commento al coretto delle Sigaraie nel 1° atto: «Bello è seguir nell'aere lieve fumo» per la vaghezza del disegno, il giuoco delle parti a imitazione e a proposta e risposta, il vaporoso brusìo degli archi, e in genere il delizioso orchestrale, e le modulazioni armoniche che sembrano aprirci visioni inattese.

Carmen è una bella prova di come si può scrivere un capolavoro di gusto moderno anche in forme chiuse. Che poi segni l'inizio del melodramma «verista», questo può anche essere ignorato, ed ha minore importanza. Domandiamo: cosa c'è di veristico (parola che suppone una espressione materialista e perciò antipoetica, antiartistica) nella musica di Carmen? Queste definizioni in arte sono barattoli da museo di Storia naturale o da farmacia assolutamente fuor di luogo.

Bizet credeva di esser nato per l'opera comica, e invece il quintetto comico del 2° atto «Noi s'ha in vista un bell'affar» è operettistico e banaluccio. In realtà egli era un poeta, e le situazioni più ricche di poesia sono quelle in cui la musica si solleva, fino a raggiungere la più efficace e concisa tragicità nell'ultima scena dell'opera ove il tema della fatalità si contorce furibondo e minaccioso nei bassi, mentre si svolge un dialogo recitativo di estrema veemenza, e dal circo fanfare e grida inneggianti al Toreador suonano richiamo imperioso all'amore per Carmen e odio mortale per Don Josè, accecando entrambi.

Ascoltando Carmen bisogna prestare attenzione ai dettagli strumentali, i quali contengono sempre un nucleo vivo di poesia; e ciò va detto anche per I pescatori di perle, e più ancora per l'opera Dyamileh, che è deplorevole non venga mai rappresentata, mentre è uno squisito gioiello poetico.

Nella scia del teatro cosidetto verista è anche la Luisa (1900) di Gustavo Charpentier; se non che per i multiformi e pittoreschi quadri di vita parigina che vi si svolgono, e per la liricità che la pervade, essa più che un semplice «romanzo musicale», come la chiamò il suo autore, è un vero «Poema di Parigi». E la voce tentatricc di Parigi, con le sue miserie e le sue gioie, diventa il simbolo dell'aspirazione alla libertà individuale nel senso più largo, non solo per la presenza allegorica e transitoria del personaggio del «Nottambulo» che incarna appunto «Il piacere», ma per la sua presenza reale o sottintesa quasi in ogni scena dell'opera, specialmente attraverso alla musica, e specialmente attraverso all'inno che alla città elevano i due amanti nel 3° atto. Inoltre la descrizione poetica del risveglio di Parigi, con le voci dei venditori che iniziano la giornata di lavoro lanciando i loro richiami, gridando la loro merce; la festa a Montmartre per l' «Incoronazione della Musa» alla presenza del «Papa dei Pazzi», nuova incarnazione del «Piacere»; e infine l'organetto di strada e l'ultimo valzer che strappa Luisa alla sua casa per riportarla nella vita del piacere, sono tutte manifestazioni della grande città seduttrice, «la città tentacolare» come la chiama Charpentier, che la musica colorisce con vivezza spesso cruda ma piena di suggestione.

Luisa ha la costruzione tematica delle opere wagneriane; e talvolta anche la sostanza medesima dei leitmotiv, quando non risente della dolcezza massenetiana, ha sapore wagneriano. Ma vi è tuttavia nei temi una grande plasticità, un grande slancio passionale, e li sostiene il fascino d'una tavolozza orchestrale smagliante. La virtù della musica trasferisce in un'atmosfera di poesia un dramma di concezione verista e a tesi. sociale. Più che le bravate libertine di Giuliano, la musica ha investito della sua luce trasfiguratrice l'ebbro incontenibile desiderio di piacere e d'amore di Luisa, attratta dai mille richiami seduttori della grande città, e, specie nel 4° atto, la tenerezza profonda e disperata del padre.

La riforma più audace del melodramma, accanto anzi contro la wagneriana, fu quella attuata in Francia da Claudio Debussy col Pelléas et Mélisande (1902). Debussy è un maestro dell' «impressionismo», cioè della tendenza artistica a fissare tutte le emozioni che appena si percepiscono e che rapide sfumano, «quell'armonia della scena che è al di là dei colori e delle linee»[28].

Ciò che domina nella musica impressionistica non è più la plasticità del disegno melodico, ma il disegno sfumato, che si sostiene soprattutto su l'emozione armonica e strumentale. Sensazioni tattili, olfattive, immagini evanescenti, richiami imprecisi a stati d'animo in penombra, evocazioni di sogno, armonie fuggevoli delle cose, l' «incognito indistinto», tutto ciò forma l'oggetto dell'arte impressionistica. L'impressionismo perciò è di sua natura frammentario e dissolvente d'ogni forma.

Nel Pelléas et Mélisande il Musicista crea atmosfere musicali più con la successione degli accordi e con la magìa dei timbri che non con la tematica, che manca della concretezza plastica wagneriana per poter esercitare una funzione direttamente drammatica. I pochi temi veri e propri, hanno l'ufficio di contribuire alla creazione di un'atmosfera sonora poetica che avviluppa i personaggi, le loro azioni, e il paesaggio. L'esafonia (scala diatonica di sei toni interi) è il tipo di armonia più usato da Debussy, su cui si regge tutto l'edificio armonico del Maestro. Ascoltando Pelléas, come del resto qualunque altra composizione di Debussy, bisogna pensare che il colore ha più importanza del disegno, la «nuance» più del rilievo, il fluttuare delle armonie più della consistenza tonale.

Inutile, naturalmente, cercarvi forme chiuse, anche sotto l'aspetto di frasi finite, morbidamente o plasticamente modellate, squillanti nella limpidezza prepotente dell'acuto. Il linguaggio musicale dei personaggi è il parlare sommesso, spesso apparentemente uniforme, regolato soltanto da moti intimi e da emozioni puramente estetiche. Si consideri, per esempio, la lettera di Goulaud che nel 1° atto Geneviève legge ad Arkel: la più grande semplicità di recitazione, appena intonata musicalmente, e le variazioni di intensità e di «colore» della voce a seconda degli incisi, bastano a renderne la poesia e il senso di mistero che gli accordi tenuti avvolgono in una atmosfera trasognata. Per dare l'espressione giusta a un simile linguaggio (e ciò vale anche per il più commosso duetto dei due amanti nel 4° atto) non è tanto necessario un «cantante» quanto un «artista»; un artista che dalle intonazioni vocali sappia far capire tutto il mondo recondito di sogni, di poesia, di mistero, che le parole appena sfiorano e la musica circoscrive di aloni sonori suggestivi. Abbiamo detto «il duetto dei due amanti», ma forse queste parole non sono esatte. In realtà esso è piuttosto un dialogo che un «duetto» nel senso melodrammatico del termine. Nel duetto del melodramma sette-ottocentesco il motivo esposto da uno dei personaggi è ripetuto nella risposta dell'altro; oppure alla strofa melodica d'un personaggio segue, a risposta, un'altra melodia dell'altro personaggio; poi finalmente (sia che i personaggi si trovino in contrasto o in accordo fra loro) le due voci si uniscono in un «a due». In Debussy nulla di tutto questo, ma recitativi e frasi melodiche fluttuanti dei personaggi, sostenute da uno svariare di armonie sfumate e di timbri incantesimali.

Quanto agli «amanti», sì, Pelléas e Mélisande si amano, ma non osano credervi. Puniranno per confessarselo a bassa voce, tremando, e nel momento del pericolo mortale, quando Goulaud sta per avventarsi armato contro di essi, e allora si getteranno anche uno nelle braccia dell'altra. E tutta la musica del dialogo che la morte interrompe, è piena di questo tremito, di questo trepidante mistero, che Goulaud non riuscirà mai a penetrare. - «Vi siete amati?» - chiederà a Mélisande morente. - «Amati?... Sì...» - «D'un amore colpevole?» - Mélisande non risponde; essa appartiene già ad un altro mondo; forse non conosce neppure il significato della parola «colpevole». I servitori entrano silenziosi nella stanza e s'inginocchiano: due campane remote mandano fiochi rintocchi. - «Che c'è?» - chiede Arkel. Il medico si china su la donna ed esclama sottovoce: «Essi hanno ragione». E ancora una volta la musica ha saputo creare un'atmosfera di stupore, di lontananza, di poesia, con una delicatezza sobria di tocchi così profondamente commoventi da rendere superflua ogni sovrapposizione melodica vocale.

Siamo agli antipodi di Bellini e di Verdi: in essi il canto concentrava in sé tanta potenza lirica da rendere superfluo ogni commento orchestrale. Qui, il solo colore armonico-timbrico dell'orchestra è così intimamente imbevuto di liricità da rendere superflua ogni espressione vocale che non sia il recitativo più semplice, quasi nudo, come quello dei Cameratisti Fiorentini, ma ricco di un pathos ignoto a quei maestri.

Ancora con un ordito tematico come quello wagneriano, ma con intenzioni nettamente «simboliste» è composta L' Arianna e Barbableue (1907) di Paolo Dukas. Egli però assoggetta i temi a numerosissime variazioni ritmiche (il che non fa Wagner) che li rendono atti alle più differenti espressioni. Per esempio: Arianna è presentata a metà circa del preludio con un motivo largo e solenne; essa è la datrice di luce di libertà e di bellezza. Ora, come essa apre le sei porte contenenti gioielli, è lo stesso motivo che serve a dipingere i rubini, gli smeraldi, le ametiste, balzando negli acuti con ritmi sempre differenti e vivacissimi e con sempre nuovi colori strumentali diversamente splendenti. E sono ancora frammenti di questo tema, variamente atteggiati, che sottolineano le parole, a quando a quando piene di promesse ridenti, di fulgide speranze, vibranti di gioia e d'amore, che ella, nel 2° atto, dice alle prigioniere per far rinascere in loro il senso della vita.

Di ampie forme chiuse non è il caso di parlare; anche la canzone delle «Figlie d'Orlamonda», benché abbia forma stronca, non conclude. Ma le frasi vocali hanno tutte sempre un disegno chiaro, melodicamente cantabile.

Certo, l'uso esclusivo delle voci femminili (sei donne; la settima è una mima; Barbableue è un basso e ha pochissima parte; poche parole dicono tre contadini) ingenera uniformità e monotonia, specie nel 2° atto in cui Barbableue e i contadini, non hanno parte, e dove si aggiunge l'oscurità che domina la scena fino all'ultimo episodio dell'uscita dal carcere delle prigioniere. Ma non si può negare che l'arte di costruttore e di orchestratore del Dukas ha saputo dar vita a un poema sinfonico di stupenda bellezza, specialmente nel 1° atto che è il più equilibrato e vario, e raggiunge l'altezza del capolavoro.

De La sposa venduta (1866) del compositore boemo Federico Smetana, opera comica costruita nelle consuete forme chiuse dell'opera italiana, ricca di ispirazione spontanea, melodiosamente piacevole, spiritosa così nel canto come nella pittoresca orchestra, specialmente attraente per la vivacità colorita dei ritmi di danza e delle canzoni nazionali, non c'è che da rammaricarsi che non venga più spesso eseguita.

Un posto a sé ha nella storia del melodramma il russo Modesto Mussorgski, specialmente per l'opera Boris Godunoff (1874), composta sul poema di Puskin. Ho sempre sentito lamentare da coloro che udivano il Boris per la prima volta, la frammentarietà dell'opera; ma essa deriva soltanto dalla costruzione episodica del dramma di Puskin. Del resto, ciò dal punto di vista musicale, non significa nulla. Non ostante l'uso di qualche motivo tematico, con lo stile di Wagner non ha niente a che vedere. Si stacca pure dal melodramma tradizionale, malgrado l'esistenza di forme chiuse: queste consistenti più spesso in canzoni, a volte folkloristiche, a volte create da Mussorgski stesso su lo stampo o alla maniera delle canzoni popolari russe. E nonostante la sua linfa innegabilmente russa, il Boris è opera universale in quanto rivela ciò che di universale vi è nei sogni, nelle passioni e nella fantasia di una razza; così come per la stessa ragione universali sono le opere dell'italiano Verdi e del tedesco Wagner.

Forse è giusto dire che l'impressionismo francese ha le sue radici nel Boris, per quanto quest'opera non sia che parzialmente impressionista. Impressionista è, ad esempio, la scena del convento, ove il dialogo dei due monaci si svolge su un disegno degli archi che sembra l'immagine musicale dell'eterno fluire del tempo, in una atmosfera sonora calma, solcata da sereni cantici lontani, e solo accesa qua e là dalle vampe che a tratti erompono dal cuore torbido di Grigori. Ma improntata al più audace realismo è invece la scena tremenda dell'allucinazione di Boris che crede vedere ergerglisi contro in atto di accusa lo czarèvic fanciullo da lui fatto assassinare («episodio della pendola»).

Da un realismo altrettanto colorito nascono i cori e le danze popolari che fanno assurgere la folla a personaggio fondamentale del dramma (e questo anche nell'opera Kovàncina). Eppure questi diversi modi di procedere non turbano affatto l'unità stilistica, che è grandissima sempre, per la forza e l'altezza raggiunta in ogni momento dal compositore, il quale sa imporre su tutto i segni di una propria potente personalità.

La vita nella sua realtà intima, allucinazioni, ambizioni, finzioni, malinconie, ire, suggestioni, ingenuità, tutto si rispecchia nei disegni di un'orchestra sempre colorita, spesso sinfoniale, e nel canto schietto dei personaggi. Dal sovrano, terrorizzato dai propri delitti, alle trame del subdolo principe Sciuisky, dall'austera vita di religioso e di cronachista del monaco Pimmen alla falsa religiosità del beone Varlaam, dall'ambizione tortuosa di frate Grigori alla semplicità inconsapevole e profetica dell' «Innocente», dalla malinconia di Xenia alla fanciullezza ingenua dello Czarèvic Teodoro, dalla folla variopinta dei personaggi minori: la Nutrice, l'Ostessa, il vagabondo Missail, il gesuita Rangoni, Marina, il Boiardo, l'Ufficiale di Polizia, fino alla seduta della Duma (che in qualche ingenua discussione sfiora l'umorismo) e alla rappresentazione delle folle anonime prone od esaltate, credule o feroci, sia che preghino genuflesse lo Czar sotto il bastone dei poliziotti, o che irridano ai Boardi o ardano i Gesuiti; tutti gli aspetti della vita russa passano nella musica di Mussorgski in una robusta e densa e soprattutto russa espressione vocale e sinfonica, dove i contrappunti danno all'elemento nazionale dei canti più ricca vigoria e dignità.

E poiché la tragedia si svolge attorno a una tremenda crisi di coscienza su cui sembra imperare l'antico Fato dei Greci, non a caso l'opera si apre, si svolge e si chiude su lo sfondo di cantici religiosi. Il drammatico e largo arioso «La mano implacabil di Dio» è il pernio attorno al quale gira questa tragedia del rimorso. E il rimorso afferra con tragicità senza pari lo Czar colpevole, nell'episodio della pendola. I suoni dell'orologio si amplificano in una palpitazione dei bassi smisurata e sinistra. Vi si intrecciano un bieco brusio, lugubri accordi dissonanti, acute stridule risa, un insieme musicale simile a uno spaventoso brulichio di fantasmi sonori, fino al momento in cui Boris cade smarrito in ginocchio invocando Dio.

Il lamento querulo e rassegnato dell'Innocente, con cui si chiude il quadro violento della foresta, nel quale ha dominato la folla furente superstiziosa, credula ed esaltata, raggiunge nella sua estrema semplicità e malinconia la stessa intensità drammatica e sacra, ed è voce profonda e sconsolata degli umili.

* * *

Tutt'altro indirizzo ebbe il melodramma in Italia dopo Verdi. Alfredo Catalani tentò la leggenda nordica (Edmea, Loreley, Wally). Senza applicare il sistema wagneriano dei leit-motiv, si accostò nell'ispirazione melodica e nella tecnica armonico-orchestrale al Wagner lohengriniano, pure con una chiarezza e una plasticità di linea ed anche un pathos totalmente italiani. E raggiunse, specialmente nella Wally (1892), bellezza di forme e verità d'espressione umane e toccanti soprattutto per la tristezza delle tinte poetiche imbevute di romanticismo. «Ebben ne andrò lontana» rappresenta il tipo di questa musica dalla bellezza un po' malata. Più delicato e fine è il preludio del 3° atto di Wally, mentre quello del 4° ci afferra per il senso di solitudine desolata che ne emana, e per la poesia alpestre così sentita, e del resto diffusa e presente in ogni atto, quasi come un personaggio, e in taluni momenti si direbbe come un fato tragico.

Vena lirica delicata e artistocratica, ma non ricca di drammaticità, ci mostra Francesco Cilea nell'Adriana Lecouvreur (1902) ed anche nell'Arlesiana; mentre Ermanno Wolf-Ferrari si volse alla commedia goldoniana (Le donne curiose, I quattro rusteghi. Il Campiello) sviluppando una comicità arguta e signorile. Egli seppe sfruttare abilmente gli elementi musicali del dialetto veneziano e anche la poesia di talune canzoni popolari venete, facendo rivivere con gusto moderno, attraverso a un'orchestrazione piena di colore, solcata da vivaci trovate umoristiche, il nostro Settecento nelle sue espressioni liriche e comiche più pittoresche ed eleganti. In questo genere I quattro rusteghi (1906) rappresentano il capolavoro, raggiunto con semplicità di mezzi di un'adeguatezza imediata. Ciò, si noti bene, senza imitare lo stile e le forme operistiche del Settecento, ma creando atmosfere di commedia settecentesca con uno stile melodico e una raffinatezza orchestrale del tutto nuovi. Rare evocazioni di spunti di canzoni originalmente settecentesche completano il colore ambientale cullandoci nel sogno di un piccolo mondo caro e scomparso, i cui moti dell'anima sono vivi ancora oggi.

Con i Pagliacci (1892) di Ruggero Leoncavallo siamo al dramma veristico di derivazione bizetiana. Ma non è già per la coltellata finale o per le frasi bassamente plateali, piuttosto che veristiche, come «sgualdrina», «mi fai schifo», «pria di lordar nel tuo fetido sangue, o svergognata, codesta lama», «o turpe donna» e simili, che quest'opera merita qualche rispetto. A queste frasi l'autore non seppe dare una qualsiasi patina che le trasfigurasse in un soffio di drammaticità potente, neppure là dove Canio melodizza in modo ridicolo e con relativo stentoreo si bemolle, le parole «o meretrice abbietta». E neppure per il pletorico «prologo» annunciato in tono così tronfio, continuato con un'enfasi vocale sproporzionata alle «povere gabbane d'istrioni» di cui parla Tonio, e terminato con un sol acuto su la penultima sillaba di «incominciate»; acuto, per verità, non scritto dall'autore, ma atteso da quel pubblico che non fa differenza fra arte e sport, e che anzi ama l'arte tanto più quanto più allo sport si avvicina. Un sol per un baritono richiede uno sforzo fisico polmonare, tanto maggiore se la nota è tenuta più del dovere; e anche questo piace al pubblico di cui sopra.

Altrettanto melodrammaticamente falso è l'intermezzo; e del tutto superficiale l'uso di temi conduttori. Ma ci sono altre cose invece degne di ammirazione: il disegno ritmico vivace dell'introduzione, e i suoi modesti ma eleganti sviluppi sinfonici; il movimento orchestrale a forma di «scherzo» che incomincia dove Canio da un ceffone a Tonio il quale s'accingeva a prendere fra le braccia Nedda per farla scendere dal carretto; certe eleganze di disegno del dialogo Colombina-Arlecchino, ed anche Colombina-Pagliaccio, dove la donna cerca di ridurre a commedia l'ira vera del marito; ed anche il «Vesti la giubba» in cui vibra uno spasimo di dolore sentito, anche se verso la fine su «l'amore infranto» fa capolino la consueta enfasi melodrammatica, che i divi, al solito, peggiorano allargando la frase e tenendo qualche nota. Bello pure, benché sia un semplice episodio decorativo che nulla ha che fare coll'azione, il coro «Don din don» col grazioso contrappunto pastorale di oboe, e notevoli varie simpatiche modulazioni, qui e altrove.

Le opere di Mascagni, Puccini e Giordano proseguono nell'indirizzo veristico e borghese dei soggetti, anche se il soggetto è portato in maniera fittizia nel lontano Giappone, come nell'Iris, o in Madama Butterfly, o nel remoto medioevo come in Isabeau . A proposito dei quali soggetti veristici o borghesi, si obbietta che la vita quotidiana e borghese non ha risonanze liriche, e perciò la sua espressione musicale è falsa. Ma ciò non è vero, o è per lo meno esagerato: anche questa vita, anche questi personaggi, possono essere visti in un alone lirico che li trasfigura. Si osservi, ad esempio, il 1° atto de La Bohème. Ma occorre la forza liberatrice e sublimatrice dell'artista. Se il pubblico si commuove e piange per il fatto di cronaca esposto nel dramma, non siamo ancora nell'arte. Ma se è la musica che eleva il fatto di cronaca a fatto artistico, allora la commozione si sposta su un piano superiore che ci porta oltre la realtà contingente, in una vita più alta e reale della vita comune. In tal caso tanto vale chiamarsi Mimì come Cleopatra.

In Mascagni, come in Puccini e Giordano non sono frequenti i momenti di vera forza drammatica. Questi compositori sono invece spesso degli squisiti lirici: più espansivo il Mascagni, più sapiente nell'eleganza della forma il Giordano, più patetico e raffinato nelle armonie e nei colori orchestrali il Puccini.

Escludiamo dalla nostra ammirazione certe pagine in cui Pietro Mascagni fa la voce grossa senza aver nulla da dire. Ciò gli accade specialmente nei recitativi delle ultime opere, soprattutto nel Nerone e nella bravata del Soldato nel 3° atto del Piccolo Marat; ma da tale difetto non vanno esenti neppure le prime opere. Per esempio, l'inno pasquale della Cavalleria rusticana (1890) «Inneggiamo, il Signor non è morto», si gonfia su la fine in maniera enfatica perché l'autore si è dimenticata l'azione e la folla per «il pezzo». Ora, che l'azione sosti, che la folla inneggi (anche senza dirlo, che sarebbe stato meglio), benché sia stato criticato, non sarebbe poi un gran male, se la voglia di imporsi al pubblico con un crescendo e con un'esplosione sonora finale non facesse deviare l'arte e l'ispirazione nel puro effetto sensoriale esteriore del tortissimo clamoroso. E questo è un difetto ereditato da Ponchielli (vedi finale del 3° atto di Gioconda). È evidente che Mascagni ha visto soltanto il pretesto per costruire un bel pezzo, sonoro e melodico, ha visto l'effetto musicale, e si è dimenticato di ogni verosimiglianza drammatica; perché, in realtà, è ben strano che la folla, all'udire suonar l'organo in chiesa, invece di entrarvi, resti fuori a inneggiare a Cristo risorto, in una forma così classicamente strofica e chiusa!

Escludiamo anche certe espressioni rozze, com'è l'entrata di Alfio e il duo Alfio-Santuzza «Ad essi non perdono», benché, in fondo, Alfio sia un carrettiere, e da lui non ci si possano aspettare finezze. Ma che cosa interessa all'arte che un carrettiere sia rozzo, cosa che tutti si possono facilmente figurare? Era il dramma intimo di Alfio che doveva essere espresso dal musicista, e questo c'è poco.

Il miglior Mascagni lo troveremo invece nelle effusioni liriche: nell'addio di Turiddu alla madre, e nell'Intermezzo della Cavalleria rusticana; nel pianto del Cieco che implora una carezza dalla figlia (finale atto 1° dell'Iris [1898]); nel «Sogno», e nel racconto del 2° atto del Guglielmo Ratcliff (1895), e in quel misto di brio, di passione e di malinconia che troviamo nella Sinfonia de Le Maschere; nel duetto finale dell'Isabeau e nel duetto del 2° atto del Piccolo Marat. Oppure nelle canzoni: «Siciliana» della Cavalleria e stornello di Lola, Serenata di Jor nell'Iris, «Barcarola» del Silvano. In alcune scene, cori e danze caratteristiche: Intermezzo atto 4° del Ratcliff, violinata dell'Amico Fritz, coro delle lavandaie, scena dei burattini, danze del 1° atto e scena dei cenciaiuoli nell'Iris; coro di lavandaie de I Rantzau, Pavana e Furlana de Le Maschere, «Serenata delle Fate» e coro delle olandesine («All'alba di novembre») della Lodoletta, «Monferrina»[29] dell'Amica, ronda dei «diavoli neri» nel Marat. Nelle pagine idilliche, nelle quali la sua arte appare più sincera e la sua ispirazione più commossa e penetrante. Perciò amiamo l'Amico Fritz, specialmente il 2° atto, il coro d'introduzione della Cavalleria, il finale del 2° atto del Ratcliff, il breve episodio del passaggio del pastore nel 1° atto del Nerone. Qualche pagina in cui le melodie svariano con felici modulazioni: l'entrata di Folco e della madre nel 1° atto dell'Isabeau, l' «Ohimè» della Verde nel 1° atto di Parisina. Qualche raro momento drammatico: racconto della pazza Margherita nel 4° atto del Ratcliff, entrata di Nicolò nel 3° atto di Parisina, duetto Egloge-Atte nel 3° atto del Nerone.

Il difetto maggiore della musica mascagnana è l'enfasi, difetto riconoscibile in molte opere sue, il cui stile appare perciò disuguale da una scena all'altra. Nel duetto Santuzza-Turiddu, ad esempio, allorché questi grida «Bada Santuzza, schiavo non sono, di questa vana tua gelosia», ed ella risponde «Battimi insultami, t'amo e perdono» frasi che suppongono irritazione e rancore violenti da parte di Turiddu, e l'umile fedeltà del cane battuto da parte di lei, la musica mantiene un ampio disegno canoro di espressione appunto enfatica. E il difetto è ancor più palese nel lungo e vacuo monologo di Folco nel 2° atto di Isabeau, allorché getta fiori su la Reginetta; e, aiutato dal poeta, in quasi tutta la parte di Ugo nella Parisina. È ben vero che Ugo dichiara: «bevuto ho il miel selvaggio», ma non è men vero che su la musica l'effetto è piuttosto dannoso.

L'ineguaglianza dello stile genera anche spesso frammentarietà, e ciò si nota anche nelle cose migliori di Mascagni, come nel 2° atto di Iris, dove si direbbe che egli abbia voluto far uso di un sistema tematico, che poi manca di coesione, perché è un'applicazione esteriore che nulla ha a che vedere con la sensibilità artistica di Mascagni.

Probabilmente la critica ha sbagliato nel giudicare troppo severamente la musica de Le Maschere (1901). All'insuccesso contribuì l'automontatura (l'esecuzione in sette città contemporaneamente[30], qualche notizia di cronaca forse ad arte inventata (come l'autodedica in segno di stima), e l'enorme mole dell'opera. Vi contribuì pure la troppo lunga parte di Tartaglia, stucchevole pel suo troppo uniforme intaccarsi senza che la musica riesca a dare al difetto un carattere umoristico, e il fatto che l'opera avrebbe dovuto resuscitare non si sa quale meravigliosa vita comica e simbolica delle maschere italiane, mentre in realtà esse servirono solo di pretesto ad una graziosa commedia. Ma la musa di Mascagni, la quale quando tocca le corde dell'elegia amorosa, della passione sensuale e dell'idillio campestre va ben alta, è scarsamente comica. Le figure che dovrebbero portare la nota comica nelle sue opere sono piuttosto smorte, o tutt'al più grottesche; tali l'oste del Ratcliff, Kyoto dell'Iris, Menecrate e Babilio del Nerone.

Sveltite, Le Maschere hanno avuto di recente qualche buona ripresa; la grazia di molte scene le raccomanda come un grazioso esempio di commedia arguta e sentimentale.

Le opere di Umberto Giordano appaiono più organiche anche se l'ispirazione non raggiunge l'altezza di certe pagine delle pur ineguali opere di Mascagni. La più felice è certamente l'Andrea Chénier (1896), ma probabilmente qualche lettore si stupirà che le nostre simpatie non vadano in primo luogo al celebre «Improvviso» del 1° atto. Esso incomincia con un fare da racconto lohengriniano e con idee poco nuove, ma adeguate: fin qui poco male. Il male incomincia invece dalla seconda parte, e cioè dal predicozzo da comizio «Varcai d'una chiesa la soglia», ed è, naturalmente, la parte che piace di più alle plebi, appunto in grazia di quel suo sapore comiziale e dell'atteso urlo su le parole «le lacrime dei figli!». Sembra rimettersi in carreggiata alla frase «O giovinetta bella», ma la chiusa cade nuovamente in un'enfasi che gli esecutori esagerano ancor più marcando il concettino, già di per sé enfatico: «Del mondo anima e vita o l'amor!».

Né ci piace di più il monologo di Gerard al 3° atto: «Nemico della patria», per lo stesso difetto d'enfasi che lo ha reso popolare. E anche in questo caso il male incomincia proprio in quella parte che dovrebbe avere espressione più intima, in quanto meditazione sui propri sogni umanitari distrutti dalla realtà sanguinosa e sanguinaria della rivoluzione. Ora, le parole «La coscienza nei cuori» e seguenti hanno trovato nel musicista un'espressione che mira tutta all'effetto esteriore, tanto più che l'arioso va gonfiandosi sempre più verso la chiusa, così da costringere il compositore a ripetere più volte le stesse parole perché il periodo melodico gli ha preso la mano, ed egli non ha saputo trovarne uno più breve e meno rimbombante.

Ci sono invece moltissime altre belle pagine e per eleganza di disegni, e per effusione lirica, negli altri quadri, e una graziosa macchietta schizzata in pochi tratti: il sanculotto Mathieu.

Così noi ci troveremo ancora in disaccordo coi gusti dominanti nel preferire la Siberia (1903) alla Fedora (1898). Non neghiamo le varie belle pagine che sono in questa ultima opera, segnatamente il drammatico duetto del 2° atto, il quale in verità si sostiene più per il nervoso commento orchestrale che pel recitativo, e che trova poi un motivo catartico nell'ampia melodia: «Lascia che pianga io sola»; e, nel quadro precedente, il dialogo animato fra Loris e Fedora che si svolge su la Sonata per pianoforte, la quale, in apparenza quasi a caso, ne commenta con efficacia le fasi drammatiche. Ma al pubblico piace di più la romanzetta sentimentale «Amor ti vieta», la quale acquista tuttavia un più riposante respiro nell'interludio.

Siberia è tuttavia preferibile. A parte i motivi autentici russi, i quali del resto sono rielaborati e ben fusi col resto, vi è in tutta l'opera un soffio lirico più unitario e più intimo, senza lasciar troppo spazio alle forme chiuse e alle arie sentimentali (ma appunto questo spiace a chi va a teatro per sentire «i pezzi» A, B, C, e non l' «opera»); e vi è una più aristocratica scrittura armonistica e strumentale, in alcuni punti veramente preziosa e tale da giustificare la simpatia di taluni illustri musicisti francesi.

Ma il maggiore, il più raffinato, il più signorile rappresentante italiano dell'epoca post-verdiana è Giacomo Puccini; il quale ci porterà a precisare il nostro dissenso sia da taluni punti di vista della critica, sia da altri e opposti punti di vista del pubblico.

La critica ha accusato Puccini di essere il più perfetto rappresentante dei bassi gusti edonistici borghesi, e di avere prescelto nei suoi soggetti dei falsi eroi dall'orizzonte spirituale angusto. Orbene, in tutto ciò v'è una gran dose di esagerazione, fors'anche ricercata ad arte per ragioni polemiche. Il piccolo mondo della borghesia, quello dalle modeste idealità che si acquetano soddisfatte e beate nei facili e superficiali piaceri dei sensi, non è proprio quello di molti personaggi pucciniani. Un piccolo borghese (accettando, per non dilungarci troppo, l'abusata definizione di borghesia) un piccolo borghese, dicevamo, non si fa mozzo ad esempio, per seguire la donna amata a domicilio coatto e nel deserto, attraverso ad ogni privazione come Des Grieux. Un piccolo borghese non vive la vita di sogni poetici e di miseria lietamente sofferta in una fraternità d'affetti ammirevole, come fanno i personaggi de La Bohème; non ha l'ambizione di redimere con l'amore un bandito a rischio e pericolo della propria vita come Minnie; non accetta l'esistenza di sacrifizi né conserva la fedeltà del corpo e del cuore fino al suicidio come Butterflv o come Liù. Secondo la definizione corrente il borghese è invece accomodante, transigente pur di avere la vita lieta e facile.

Che fa Puccini con la sua musica? Solleva la borghesia dall'edonismo sensuale alla passionalità ardente di Des Grieux (vero protagonista dell'opera, a torto intitolata Manon Lescaut), alla poesia di Mimì, alla delicata tenerezza e alla fede incrollabile e pura di Butterfly, alla dedizione redentrice di Minnie, alla spiritualità eroica e all'amore senza speranza di Liù. La stessa Tosca nel suo amore sensuale per Cavaradossi ha slanci di coraggio eroico che, insieme alla sua anima di artista, la sollevano e la redimono, così come l'arte e l'amor di patria e la tortura sofferta trasfigurano il borghese Mario.

Nettamente antiborghese è poi l'aristocrazia dell'armonizzazione e dello strumentale, di opera in opera sempre più fini e preziose. Così pure il colore ambientale ottenuto col ricorrere a rielaborazione di spunti melodici e a scale di origine esotica trasportate genialmente nel nostro sistema armonico: tutto ciò richiede per l'apprezzamento gusto e coltura. E quanto alla «femminilità» di Puccini, resta a vedere se esprimere gli intimi moti dell'anima femminile, così sottile e complessa, con tanta sensibilità e penetrazione com'egli ha fatto, sia poi cosa più facile e artisticamente da meno dell'esprimere quella virile.

Un'altra accusa si fa a Puccini: quella di essere «sentimentale», accusa che lo indignava. Il sentimentalismo è sentimento femminilizzato (e perciò rientra nell'accusa di «femminilità» di cui si è detto), è la passione vissuta attraverso a stati d'animo flebili e languescenti. Il sentimentale non lotta contro la tragicità della vita, né l'accetta con quel senso di rinunzia sublime di chi riconosce nella tragedia un fato superiore. Il sentimentale (e qui fa capolino di nuovo l'accusa di cantore dell'anima borghese) rimpiange la perdita di una quiete idillica innaturale e si compiace dei propri sospiri come dell'unica consolazione che gli rimane, e si gode di essere compianto dagli altri. Non si ha più l'impressione forte che desta contrasti potenti di emozione, ma l'impressionabilità che suscita il turbamento di uno spirito debole e nervoso, non più padrone di sé, ma impulsivo e isterico. Ora, non diremo che un po' questo sentimentalismo non ci sia qua e là nell'arte di Puccini. Quando Tosca canta «Vissi d'arte, vissi d'amore» davanti ad uno Scarpia, cade nel sentimentalismo. Quando Johnson dice ai rudi minatori «Ch'ella mi creda libero e lontano» vorrebbe forse parer forte, ma la melodia con cui si esprime lo accusa sentimentale, specialmente allorché grida quasi in pianto «Minnie, della mia vita unico fiore». E il sentimentalismo è la sdolcinatura del sentimento: arte inferiore.

Ma molto del sentimentale che noi sentiamo nella musica di Puccini dipende dagli esecutori, i quali strascicano la frase, portano in maniera svenevole le note, vi singhiozzano in mezzo a sproposito, e cioè danno una interpretazione che falsa interamente la creazione del Maestro, il quale in questi casi aveva ben ragione di indignarsi. E molto è stato esagerato ad arte da una critica ostile per preconcetti.

Per conto suo molta parte del pubblico pucciniano predilige i difetti, applaude le deformazioni sentimentali, passa sotto silenzio la poesia vera. Lo vediamo applaudire «Donna non vidi mai» della Manon: la frase è indubbiamente bella, appassionata, e il Maestro se ne servirà con efficacia come tema-richiamo in altri momenti dell'opera. Ma il suo svolgimento nella romanza in parola cade, verso la fine, nella consueta enfasi, che è la malattia dei lirici ottocenteschi. Infatti, quando incomincia a ripetere «o sussurro gentil, deh! non cessar», e lo fa sei volte di seguito, intercalandovi anche per la seconda volta la ripetizione delle parole di lei «Manon Lescaut mi chiamo» gridate ben forte come uno che non sia persuaso, o che abbia ricevuto da questo nome una mazzata su la testa, o aspetti che tutti nella piazza accorrano al suo grido per vedere cos'è successo, l'enfasi diventa incontenibile e si sfoga in una cadenza che punta a gran voce su un si bemolle acuto, gioia e delizia delle folle, sciupando quanto di bello aveva cantato prima. È lo stesso amore dell'effetto che condusse Puccini a puntare sul do la parola «speranza» nella frase de La Bohème: «Talor dal mio forziere», però senza la corona[31], aggiunta da cantanti di cattivo gusto.

E veniamo a un'altra romanza celebre e popolare, «E lucevan le stelle». Il recitativo si svolge semplice, mentre la voce di un clarinetto «dolcissimo, vagamente, rubando» (è una didascalia del Maestro intesa ad insistere su l'espressione nostalgica, fuggevole, della melodia) rievoca il ricordo delle ore d'amore con Tosca. Il «rubando» è un breve rapido acceleramento del movimento che rende meno preciso il ritmo, creando con tale indeterminatezza quell'atmosfera stupita di sogno che è più propria alla malinconia poetica delle ricordanze. Non si poteva far meglio: l'anima è tratta nel risucchio di questa evocazione tutta penombre. Poi, come la memoria si fa più precisa, la melodia passa nella voce del tenore, sempre pianissimo e «vagamente» come ripete per la terza volta l'autore. Ma, ahimè giunge la frase «l'ora è fuggita e muoio disperato!», ed ecco uno spiritello maligno ha suggerito al musicista di alzare la voce, di ricavarne un effetto teatrale. Come poi Cavaradossi esclama: «E non ho amato mai tanto la vita» (notate che tutto questo dovrebbe essere una meditazione interiore), la voce diventa grido stentoreo, con tanto di accenti marcati su le note, a rischio che il carceriere corra a vedere se questo prigioniero sia all'improvviso impazzito. E non contento ripete «tanto la vita» con relativi singhiozzi (proprio come nella fine del «Ridi Pagliaccio» di Leoncavallo). La romanza, o meglio la poesia del momento nostalgico è sciupata, ma l'applauso di coloro che amano gli effetti un po' grossi, è assicurato.

È spiacevole dover smontare un pochino gli idoli, tanto più che noi amiamo veramente Puccini; ma in che cosa? Ecco: noi lo amiamo quando si mantiene nella semplicità intima e raccolta del canto, in cui rimane insuperato da tutti i suoi contemporanei; ed anche in qualche slancio lirico quando ha una ragione d'essere. Lo amiamo quando ci descrive con un fondo di tristezza e di simpatia così sensibili la sfilata delle donne perdute nel 3° atto della Manon (1893) che lo fa esplodere nel grido liberatore espansivo, ma non enfatico, di Des Grieux: «Ogni pensiero si scioglie in pianto»; lo amiamo quando nel 4° quadro de La Bohème (1896) con accenti così toccanti e con disegni così leggeri ci descrive la morte silenziosa della fragile Mimì, o quando nel 3° con perizia signorile compone insieme l'addio malinconico di Mimì e di Rodolfo e la petulante separazione di Musetta e di Marcello. E amiamo la soave poesia dell'alba di Roma tra il fluire di delicate immagini sonore dei violini punteggiate dai rintocchi lontani o vicini delle campane e dalla fresca canzone popolaresca del pastorello; e la notte di mistero e d'attesa ansiosa con cui finisce il 2° atto di Madama Butterfly (1904), e le innumerevoli eleganze armoniche e strumentali sparse dovunque nella partitura di Madama Butterfly, dal duetto finale del 1° atto (il più appassionato che Puccini abbia scritto) al tragico risveglio di fronte a Kate Pinkerton nell'ultimo atto; e le sfumature delicate di disegni e di armonie che avvolgono Minnie e Johnson nei duetti de La fanciulla del West (1910), e i brividi impressionistici del paesaggio nevoso del 2° atto.

Ci piacciono ancora di Puccini la grazia umoristica fatta di tocchi lievi, e pur sicuri e significativi, con cui rende in pochi tratti una macchietta compiuta: e il sagrestano di Tosca, e Benoit e Alcindoro de La Bohème, e le varie figurette, pittoresche come le maschere da paravento, del «Nakodo» in Butterfly o dei tre ministri in Turandot; e il lampionaio della Manon che passa con la sua canzone che vorrebbe essere gaia, e getta invece un'ombra di tristezza così profonda su la scena; e l'incisiva figura di Gianni Schicchi, ladro di inimitabile arguzia e signorilità, la cui esuberante fantasia si rinette perfino nei suoi svolazzi vocali. Amiamo la grazia e l'humor saporoso e vivido di tutto il Gianni Schicchi (1918). E infine ci piace la varietà, ricchezza e densità dei colori diffusi in tutte le scene di Turandot (1926 postuma); ricchezza e densità che rievocano, anche senza il bisogno dei motivi a carattere folkloristico, o costruiti su scale esotiche, una Cina remota, favolosa, feroce e mistica. Sono tinte sgargianti, solcate da filigrane lievi e aggraziate, su cui la folla si agita come in uno stupito mondo di sogno, attraverso a immagini ora violente come la canzone dei servi del boia, ora incantate come l'invocazione alla luna, ora solenni come l'inno all'imperatore; voci che dileguano nell'ignoto con l'ultima nota nella dolce trenodìa che accompagna Liù alla sepoltura. Turandot è l'opera in cui Puccini seppe, con una bravura superiore, fondere in unità di stile una quantità di motivi diversi, da quelli realistici a quelli fiabeschi, da quelli decorativi a quelli lirici, da quelli passionali a quelli impressionistici; e seppe assimilare al proprio stile la più audace e spavalda tecnica moderna, dall'atonalità alla politonalità, senza incrinare il calore lirico dei suoi lineamenti melodici, in un riuscito sforzo di rinnovamento che è indice della sua nobiltà e del suo genio. Ne è uscita, come ne La Bohème, una forma che non ha riscontro in quella di alcun altro compositore passato o vivente, in cui domina una personalità di creatore, di poeta, delle più robuste.

È in tutte queste pagine che Puccini si dimostra davvero un grande poeta musicale.

La Turandot (1906) di Ferruccio Busoni è altra cosa. Misto di tragico, di grottesco e di fiabesco in una ricerca tesa di un linguaggio sonoro diverso dal solito e angoloso, di forme antitradizionali, e non sempre raggiunte senza un sensibile stento e non senza oscillazioni tra la tradizione e la novità, tra le forme stronche e il «parlato». Tutto ciò in un alone timbrico scintillante. Qua e là la trama musicale è viziata da un cerebralismo che raffredda; e ancor più congelerà nell'ultima opera del Busoni Il Dottor Faust (1925 postuma), ove ogni abbandono lirico è evitato di proposito nell'intento di non commuovere e di far musica puramente oggettiva, scatenando in orchestra barbagli accecanti di colore.

Udendo Arlecchino (1920) il pubblico dovrebbe affrontare un'altra sorpresa incongruente, talvolta urtante: un personaggio che recita (appunto quello di Arlecchino) in mezzo a tutti gli altri che cantano. E altrettanto sarebbe forse disgustato dalla satira feroce del nostro glorioso melodramma che attraverso a questa ironica e cinica commediola di maschere il Busoni è riuscito a fare servendosi di uno strumentale di una durezza e spesso di una volgarità caricaturale ultra-strawinskiana.

Le opere di Alberto Franchetti raramente ricompaiono su le scene, per la stentatezza della vena melodica. Ma nei quadri epici e nelle descrizioni fantasiose, come nelle costruzioni polifoniche vocali, non poche pagine sue avrebbero diritto di vivere, così nell'Asrael (1888), specie le scene infernali e la lotta fra Angeli e Demoni nel finale del 3° atto, come la visione paurosa del campo di battaglia della Germania (1902). Più di tutto l'artista ha rivelato robusta fantasia nel Cristoforo Colombo (1892), in alcune pagine del 1° atto e dell'epilogo, ma soprattutto nel 2° atto: dalla descrizione del mare, visione sonora in cui l'ampiezza del disegno e le impressioni del moto ondoso si fondono in un'espressione di maestà e di smisurata grandezza spaziale, all'intima meditazione di Colombo, alla rivolta e al folgorante e trionfale emergere della nuova terra dalle acque.

Riccardo Zandonai, la cui opera migliore è senza dubbio Francesca da Rimini (1914) benché anche in Conchita (1911), ne La via della finestra (1919) e ne I cavalieri di Ekebù (1925) non manchino pagine simpatiche, ha un melodiare che oscilla tra quello ridondante di Mascagni e quello più raffinato dei maestri francesi, mentre il suo strumentale discende piuttosto da Charpentier. Tuttavia Zandonai nel romanticismo doloroso delle frequenti armonie minori e diminuite piene di spasimo, rivela un'anima malata. La tristezza dell'atmosfera che egli ha saputo creare attorno a Francesca dormiente nell'ultimo quadro del 4° atto dell'opera, è una delle espressioni liriche più tipiche del suo temperamento. Qui è lo Zandonai poeta squisito del dolore, e non nella rimbombante e vacua cavalcata della Giulietta e Romeo, dove nulla giustifica tale tumultuoso rullare di timpani e strepitare di trombe.

Di quell'artista dotto e sapiente che fu Ottorino Respighi ammiriamo La fiamma (1934), e non l'urlante e veristica Lucrezia . Egli volle scrivere con La fiamma un melodramma secondo il vecchio stampo, nel quale gettò materia nuova. Ma tale materia risulta da due amori suoi: l'amore per le nostre musiche antiche, da quelle gregoriane alle secentiste di Monteverdi, e l'amore per il moderno impressionismo strumentale. Ne La fiamma questi due amori hanno trovato spesso un reale equilibrio, anche se talvolta l'uno o l'altro tende a prevalere. È così che vi sentiamo accenti monteverdiani nel canto di Silvana «Dolce la morte» (atto 3°), o gli accordi gravi della invocazione di Medea nel Giasone di Cavalli, là dove Eudossia giunge improvvisa a interrompere il colloquio dei due amanti (atto 3°), o le raffinatezze di un'armonizzazione cromatica moderna nell'altro canto di Silvana «Ah, romper l'aspro tormento» (atto 1°), o la fusione delle melopee gregoriane e del più complesso polifonismo vocale e strumentale, nel finale del 1° atto, e specialmente all'inizio dell'ultimo quadro del 3°. E dovunque nobiltà di ideazione e magìa di colori orchestrali; belle figurazioni sonore in cui l'antico acquista voce nuova, e il nuovo ha la patina dell'antico.

È ancora la sensibilità lirica di Respighi, molto più incerta in Semirama, in Belfagor e ne La campana sommersa, che noi ritroviamo avvincente in Maria Egiziaca (1931), «trittico per concerto», specie di opera-mistero, dove riudiremo non solo gli accordi pesanti della invocazione di Medea a commentare l'indignazione del Pellegrino, ma anche il disegno melodico del suo canto, e la polifonia costruita su l'imitazione dei canti gregoriani nelle preghiere del 2° e 3° episodio, e la patina monteverdiana nel bellissimo canto di Maria: «Che faremo, anima mia?», e nel successivo, così ansioso e sacro: «O bianco astorre».

L'amore per le grandi costruzioni polifoniche, orchestrali e vocali si riscontra pure in Ildebrando Pizzetti, mentre il suo recitativo si atteggia alla semplicità dei primitivi, talvolta con soverchia rigidezza di linee, tanto da divenire più recitativo sillabico, che recitativo musicale. Ma altrove esso si concreta pure in disegni cantabili, e più raramente (quando il testo e l'azione lo permettono) strofici. La semplicità delle musiche antiche gli detta la trenodìa della Fedra.

Dalla Fedra (1915) alla Debora e Jaèle (1922), al Fra Gherardo (1928), a Lo straniero (1930), all'Orseolo (1935), all'Oro (1947), alla Vanna Lupa (1949), a La figlia di Iorio (1954), il linguaggio orchestrale si è andato densificando per sviluppo dell'architettura polifonica. L'orchestra è quasi sempre percorsa da più motivi simultanei, i quali non hanno il valore e il significato dei leit-motiv wagneriani. «Non vogliono avere - mi scriveva il Pizzetti medesimo - un vero e proprio significato, una vera e propria giustificazione logica: hanno, se lo hanno, un valore di espressione sentimentale e sempre presente, cioè per quel momento del dramma in cui essi si manifestano». I vari motivi (spesso brevissimi) che rispondono a emozioni provenienti da diverse vie e con diversa intensità (il diverso strumentale ce lo dice) si compongono in una sintesi emotiva complessa ma unitaria, che segue momento per momento i moti dello spirito che le situazioni liriche o drammatiche risvegliano di volta in volta nei personaggi. E dicendo «personaggi» vi comprendiamo le folle che partecipano anch'esse al dramma, specialmente nel 1° atto della Debora e Jaèle e nel 3° di Fra Gherardo: con movimenti vivi e con una dignità che anche nei momenti d'ira (come ad esempio nel coro del Fra Gherardo: «Quando il popolo di Parma») indicano la concezione artistica severa dell'autore. Nella complessa struttura dell'opera pizzettiana l'armonizzazione ha valore illuminante dei disegni melodici; ma essa è dominata da quell'impronta di malinconia sottile, anche nei momenti più entusiastici, che deriva da uno stato poetico, ed è fonte a sua volta di poesia. Armonia e malinconia sono tutt'una cosa nella morte di Fedra.

Questa malinconia amplia il suo respiro lirico in certe scene capitali, come, ad esempio, in quella fra Mariola e Gherardo nel 2° atto del Fra Gherardo, specie nel racconto della morte del bambino, dove le parole dette a fatica, e le lacrime con amarezza contenute diventano poesia di canto. La tenerezza materna di Mariola, la commozione e il rimorso di Gherardo sciolgono il recitativo in un'onda canora che circola e si espande in orchestra e nelle voci, specie in quella di Gherardo alle parole «Vorrei che Dio mi concedesse», di uno strazio intimo intenso. «Appassionato ma non gridato» avverte a un certo punto l'autore per premunirsi contro la facile enfasi melodrammatica dei cantanti ! E ancora la morte di un ragazzo del popolo nell'ultimo atto scioglie la vena del canto in un'espressione di pianto trasfigurato, ove la polifonia aggiunge intensità al dolore. Ma il tormento, l'ansietà, le lotte interiori ed esterne dei personaggi, rendono rare queste espansioni melodiche liberatrici, e conducono invece il musicista verso un sinfonismo nel quale meglio si effonde la simultaneità delle emozioni da cui le creature del dramma sono come ossessionate.

Gli elementi cantabili di foggia popolaresca sono frequenti in tutte le opere teatrali del Pizzetti, ed anche in quelle sinfoniche e da camera. Popolaresco, ad esempio, oltre al motivo del coro «Quando il popolo di Parma», è nel Fra Gherardo sùbito il primo tema con cui si inizia l'opera, e quello che segue immediatamente all'indicazione «Mosso». Con metodo sinfonico questi motivi, interi o a frammenti, vengono mutati di ritmo e di strumentale, e la loro presenza basta a creare l'atmosfera voluta. Per restare nel Fra Gherardo, ch'è la più nota e forse la più bella delle opere di Pizzetti, popolaresco è il motivo che caratterizza Mariola, e che si ode la prima volta allorché la «voce rabbiosa» dall'interno la chiama. Ma il compositore non esita ad accogliere canti anche dall'esterno quando occorra affermare il colore ambientale, come fa per la canzone antichissima provenzale «A l'entrada del tems clar». Sono questi motivi, come quelli istintivamente arcaicizzanti, di sapore ellenico od ebreizzante o gregoriano senza che vi sia stata intenzionale imitazione, che in Fedra e in Debora evocano un paesaggio, un'epoca, meglio di qualunque descrizione.

Nelle opere dell'Alfano, del Malipiero, del Casella e dei seguaci minori la tendenza a dare al canto la cadenza libera del linguaggio parlato porta verso un certo materialismo fonico di tanto quanto allontana dall'emozione musicale. Cosicché gli altri elementi sonori sembrano piuttosto una sovrapposizione di cosa staccata che non una partecipazione artistica alla vita spirituale dei personaggi. Sono gli autori nei quali più si manifesta il dissidio tra parola e musica, dissidio che spesso essi non sanno comporre ad unità. Il melodramma (ed anche il dramma musicale) è lotta appunto fra i due elementi, parola e musica. A vicenda, a seconda dei casi, debbono cedersi il passo, e talvolta andare di pari passo. E ciò anche se, come dice giustamente l'Hanslick, «l'opera è prima musica, non dramma»[32]. Ma coloro che parlano di «dramma musicale» implicitamente ammettono in questa definizione, la quale antepone il dramma al melos, che la musica occupa un posto subordinato.

Franco Alfano è il più vicino al sentimento melico; ovviamente in Resurrezione (1904) che è opera concepita secondo lo stile Puccini-Giordano, ma anche in Sakuntala (1921); meno in Cyrano e in Don Juan de Manara, dove sono eretti a sistema metodi d'eccezione, senza perciò restringere troppo il fiato della melodia cantabile, che talora anzi si espande insolitamente in forme strofiche. La sua arte è un impressionismo romanticizzato, dove, specialmente in Sakuntala l'atmosfera esotica e leggendaria è determinata da sonorità delicate e trasparenti su sfondi armonici preziosi e, si direbbe, carichi d'effluvi profumati, e vagamente sensuali.

Ma in Gian Francesco Malipiero il fiato melodico è cortissimo, il disegno è scarno. Il linguaggio vocale, specie nelle ultime opere (La favola del figlio cambiato, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Ecuba, L'allegra brigata), è un ritorno al freddo «recitare cantando» della Camerata Fiorentina. Il commento strumentale è ricco di colore, e obbedisce solo a leggi di contrapposizioni di masse e volumi sonori, anche nell'uso dei richiami tematici, mentre l'armonizzazione crea instabilità e incertezza continua di modi e toni in una palese volontà di espressione oggettiva e antiromantica.

Alfredo Casella è il più spregiudicato dei compositori novecentisti italiani. In lui confluiscono diverse correnti che influenzano variamente la sua arte; Scarlatti e Rossini per la tematica e la ritmica, poi Ravel, Strawinski, Schönberg per la libertà delle forme e il dissonantismo armonico più temerario, l'atonalità e la politonalità, che si appoggiano su le più sbrigliate trovate strumentali. A ciò il Casella aggiunge di suo uno scetticismo ironico iconoclasta assolutamente senza scrupoli. La donna serpente (assai meno il balletto La Giara) entro stampi esteriori tradizionali è opera totalmente antitradizionalista, ove la melodia se talvolta soffre di contorcimenti convulsivi raggiunge però anche momenti espressivi poeticamente sentiti e pitture umoristiche vive. Gli strumenti d'orchestra frattanto sono lanciati alla ricerca di effetti grotteschi d'eccezione nelle regioni estreme della loro estensione: è un virtuosismo orchestrale che assorbe gran parte dell'interesse del compositore, a scapito dell'interesse per il cantante e per la voce umana, e dove la ritmica pura elude il sentimento. Come il Malipiero, egli è più un deformatore che un creatore di forme nuove.

L'arte di questi musicisti è dominata dal timore, direi anzi dal «terrore» di fare quello che s'è fatto in passato, di non sembrare abbastanza staccati dalle tradizioni, di non sembrare abbastanza rivoluzionari. Ma non fare quello che s'è fatto in passato, o fare l'opposto (spesso la loro arte è un semplice rovesciamento dei valori tradizionali) non è ancora creare del nuovo, e soprattutto non è fare opera duratura, non è sostituire ai modi convenzionali qualcosa di eterno, ma semplicemente creare nuove convenzioni. Perciò rare volte il sovvertimento della tecnica è ravvvato dalla luce della poesia.

* * *

Fra i più significativi operisti stranieri di questi ultimi tempi citiamo Maurizio Ravel il quale dà all'impressionismo una maggiore concretezza tematica, che talvolta confina col descrittivismo realistico, e un più violento colore orchestrale, emanazione di una quasi morbosa sensualità che ama le atmosfere cariche di profumi inebrianti. A ciò va aggiunta la tradizionale eleganza francese. Le dissonanze non sono fine a se stesse, ma rientrano nel giuoco delle sue luminose suggestioni armonico-timbriche. Tali qualità emergono ne L'ora spagnuola, e più di tutto in quella maliosa poesia così pittoricamente viva e affascinante che è la fantasia lirica L'enfant et les sortilèges (1925). La fiaba graziosissima in cui animali e cose maltrattati da un fanciullo svogliato e monello si vendicano di lui, che però si salva per un gesto di pietà improvviso verso uno scoiattolo ferito, è trattata dal musicista con ingenua delicatezza e novità di toni, in una espressione di intima sensibilità. Noi viviamo veramente nell'anima di questo fanciullo e nei prodigi che accadono attorno a lui, per la magia di una musica che trasfigura le cose senza false gonfiature rettoriche, mantenendoci sempre nell'ambito di una poesia infantile (ma non bambinesca), in una trama che è tutta una cesellatura finissima e colorita. L'ultima pagina musicale ci trasporta dalla tenue favoletta a contatto con la commozione per il dolore umano.

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IX. Giorgio Federico Händel. (Quadro di Th. Hudson).

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X. Le rive dell'Eufrate. (Scena di Rovescalli per il «Nabucco» di Verdi).

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XI. Concerto. (Quadro di Van Loo).

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XII. Serata Schubertiana. (Acquerello di Von Schwind).

Nel movimento moderno, in cui la melodia si trasforma spesso in melopèa infinita, o lascia il posto a una recitazione strettamente legata all'intonazione del linguaggio parlato, su lo sfondo di un'armonizzazione che si aggira nell'ambito dell'atonalità o della politonalità, rientrano la Giuditta di Arturo Honegger, ricca di grandiosi affreschi corali, ma anche di tinte di una durezza cruda e brutale; l'Edipo Re di Igor Strawinski, più originale e robusto, anche dove appare strano; il Cristoforo Colombo di Dario Milhaud, oscillante fra la tradizione classica e le estreme violenze armoniche e strumentali. Un posto a sé, eminente, occupa il Macbeth (1910) di Ernesto Bloch, nel quale l'impressionismo armonico è sorretto da un reale vigore d'ispirazione che eleva alcune scene dell'opera all'altezza del capolavoro. L'orchestra crea un'atmosfera di incubo e di orrore soffocante di grande potenza emotiva, specie negli intermezzi fra un quadro e l'altro, nei finali del 1° atto (uccisione di Duncano), del 2° atto (uccisione di Lady Macduff e del figlioletto), e nelle ultime scene dell'opera (morte di Macbeth). Fra tanto orrore, una luce tenera e soave: la breve scena fra Lady Macduff ed il bimbo.

Interamente dentro l'orbita di Arnold Schönberg, sovvertitore d'ogni teoria musicale tradizionale e creatore dell'atonalità, si muove il suo allievo Alban Berg nell'opera Wozzeck. Paolo Hindemith tenta la fusione della polifonia bachiana col più paradossale dissonantismo, ma in Mathis il pittore egli sembra avviarsi verso orizzonti meno teoricamente astratti e acusticamente disperanti. Se al pubblico capiterà l'occasione di ascoltare Jenufa di Leo Janàcek può apprendere da queste parole del Rossellini, che riportiamo testualmente perché sintetizzano con rapidità il carattere della sua musica, qual'è l'orientamento del compositore moravo, e quale, di conseguenza, dev'essere quello di chi ascolta: «spirito essenzialmente e squisitamente novecentista: di questo nostro tempo egli reca gl'inconfondibili segni nell'amore per il rapido, scarnito eloquio, la mobilità ritmica, nel gusto per le colorazioni accese e gli acri sapori strumentali». Quanto a melodia, essa è «così vicina, per linea e motivi, ai nostri canti mediterranei da recare squisite sensazioni, suggestiva sorpresa»[33].

Karol Szymanowski, autore delle opere Hagith e Re Ruggero, ricerca l'espressione lirica attraverso a un fantasioso e sottile melodizzare intinto di malinconia e di esotismo; mentre lo spagnuolo Manuel De Falla ne La vita breve (1905) sfrutta il tipico e vivace colorismo ritmico e melico del folklore e dello stile caratteristico delle danze e delle canzoni nazionali popolari. Più indovinato pel colore e pel gusto umoristico soffuso di malinconia El retablo de Maese Pedro.

Al melodramma si ricongiungono, come forme sceniche anche se non cantate, i drammi mimati, le pantomime, i balli; ma naturalmente lo stile non si allontana in generale da quello che i loro autori usarono per altre forme da camera e sinfoniche, sia che si tratti dell'elegante e leggiadro Carillon magico (1918), commedia mimosinfonica di Riccardo Pick-Mangiagalli, orchestratore di aristocratica finezza; sia che si tratti del tragico Mandarino meraviglioso (1926) di Bela Bartok, dagli effetti timbrici aspri e allucinativi; sia che ascoltiamo La Giara (1924) di Casella, vivace nei ritmi popolareschi e negli urti armonici pittoreschi; i ritmi coloriti e caldi del Cappello a tre punte (1919) di De Falla, o l'indiavolato Petruska (1911) o il Pulcinella (1919) di Strawinski (il secondo con adattamenti deformanti di musiche pergolesiane).

Un tempo piacevano i balli soffusi di delicato per quanto fatuo garbo melodico, come Silvia (1876) di Leo Délibes, o quelli coreograficamente spettacolosi e musicalmente rumorosi e volgaroni come l'Excelsior di Romualdo Marenco; ma questi gusti sono, per fortuna, tramontati.

Capitolo XI: La musica sacra e l'«oratorio» [Indice]

Quando si parla di musica sacra il primo pensiero va ai «canti gregoriani», così detti dal grande Pontefice Gregorio I (535?-604) che li raccolse nell''Antifonario. Il pubblico non li discute dal punto di vista estetico, pago del loro ufficio liturgico. Ma chiedete a taluno se gli paiono belli, e vi sentirete rispondere invariabilmente che non esprimono niente, con tutto il rispetto per la loro antichità e per la Chiesa. Anzi molti vi diranno che non dicono niente proprio perché sono troppo antichi, ripetendo così l'assurdo concetto che le musiche antiche non sono belle, o perlomeno non dicono più niente a noi moderni. Dagli stessi udrete affermare che non sono belli i quadri dei così detti «primitivi». Per restare nel campo della musica, costoro giudicano gli antichi secondo il gusto formatosi all'arte dell'Ottocento-Novecento, e sono capaci di dirvi (con un paragone che non sta né in cielo né in terra, ma che però abbiamo udito) che «E lucevan le stelle» è più bello non solo di qualunque canto gregoriano, ma di qualunque musica dei secoli scorsi.

Ora, il canto gregoriano trae la sua bellezza appunto da quella austera compostezza, da quella castità espressiva in cui tace ogni passione terrena. Ecco perché chi pensa al canto passionale a cui ci hanno avvezzi i compositori del Sette e Ottocento, chi pensa a «E lucevan le stelle» come termine di paragone, non comprenderà mai la bellezza di un canto gregoriano, candida, schietta, romanica. Ascoltate il Tu es Petrus e ditemi se si poteva con maggiore solennità e grandezza pensare musicalmente al fondatore della Chiesa cristiana. Ascoltate il Benedicamus Domino e ditemi se con più contenuta esaltazione si poteva glorificare Dio. E non è neppur vero che questi canti siano freddi: non dobbiamo farcene una idea dal modo come oggi vengono spesso purtroppo vociati nelle chiese. Pensiamo invece che S. Agostino diceva che dovevano essere cantati «non voce sed corde», e ascoltiamoli, in qualche disco, cantati dai Benedettini di Solesmes.

Nelle espressioni di gioia il semplice e nudo canto gregoriano fiorisce di melismi (jubilationes) come nell'Alleluja: la voce si espande allora in disegni canori, in vocalizzi che, naturalmente, non hanno nulla di sensuale, ma sono come libere espansioni dell'animo lieto «significans quod verbis non potest», come dice S. Agostino.

In ogni caso vi è in tutti questi canti qualcosa di estatico e di trascendente ben appropriato al sentimento religioso e all'elevazione dello spirito dalle passioni terrene alla beatitudine serena del cielo. La stessa serena, ultraterrena castità troviamo nelle composizioni polifoniche del Cinquecento, e specialmente in quelle dei maggiori, quali Giovanni Pierluigi da Palestrina, Orlando di Lasso, Lodovico da Vittoria, Marcantonio Ingegneri. Su lo stile della polifonia sacra del secolo XVI, e in particolare di Palestrina, rimandiamo a quanto abbiamo detto nel cap. VII sul contrappunto. La polifonia del Palestrina, nelle sue quasi mille composizioni, fra le quali emergono un centinaio di Messe (di cui la più nota è la Missa Papae Marcelli), oltre trecento Mottetti (fra i più belli sono il Super flumina Babylonis e il Peccantem me quotidie), lo Stabat Mater, i Magnificat e le Lamentazioni, si rivela come un intrecciarsi e snodarsi delle voci in un giuoco di una espressione serena e casta, in cui si riflettono una luce celestiale e una fede calma e sicura. L'intreccio, talora denso, delle parti, lascia intendere sempre con chiarezza (a differenza dei predecessori) il testo. La polifonia sacra, che presentava già in Orlando di Lasso un rilievo emotivo più umano, e in Lodovico da Vittoria maggiore fastosità sonora, avrà in Andrea e Giovanni Gabrieli i colori vividi e sfolgoranti dei grandi pittori veneti, mentre con Marcantonio Ingegneri e con Claudio Monteverdi si accenderà di una più intensa vigoria drammatica. Ma nei successori a poco a poco la grazia settecentesca rammollirà lo stile fino alla leziosità. Lo stesso Requiem di Mozart è più ammirevole per la sua fine eleganza stilistica e per la toccante melodia che per la forza e la convinzione del sentimento religioso.

Non mancano le eccezioni, e insigni. Se ascoltate la «Salve Regina» o una delle Messe o lo «Stabat Mater» di Giovan Battista Pergolesi vi ritroverete un dolore e una tenerezza ingenue e intense che, se anche qua e là danno nel sentimentale o in un ritmo erroneamente gaio (come nel «Quae moerebat» o nell' «Inflammatus» dello «Stabat»), non mancano di riflettere un grande fervore religioso e un senso di alta spiritualità. E spesso le gonfia una liricità trascendentale innanzi al mistero dell'oltretomba, come nel «Quando corpus morietur». Se ascoltate qualcuno dei 50 Salmi dell' «Estro poetica-armonico» di Benedetto Marcello, in quell'alterna vicenda di recitativi commossi, di arie patetiche e di cori gioiosi non vi sfuggirà certamente l'austera grandezza di una profonda fede religiosa umanamente professata e artisticamente espressa. Dio vi è adorato con slanci di cuore impetuosi, e la religiosità vi è sentita come rifugio idillico dalle tempeste del mondo o come entusiastica dedizione ed esaltazione dell'anima.

Gli elementi costruttivi ed espressivi non cambiano gran che in Antonio Lotti, in Francesco Durante, in Alessandro e Domenico Scarlatti, in Leonardo Leo. Si tratta sempre di un'arte la quale, come nei maestri del Cinque-Seicento, Palestrina, Lasso, Vittoria, Ingegneri, Monteverdi e gli altri, si fonda esclusivamente su la polifonia vocale. Anche quando alle voci si affiancano gli istrumenti, come nei Gabrieli, in Pergolesi e in quasi tutti gli autori dei secoli XVII-XIX, la base resta sempre la vocalità, con un graduale predominio del canto affidato alla voce più acuta. L'opera polifonica più vasta e complessa che sia stata scritta è la Messa in si minore (1738) di G. Sebastiano Bach, composizione veramente monumentale per la grandiosità dell'architettura contrappuntistica, oltreché per la mole che la rende inadatta a scopi ecclesiastici, pervasa da un sentimento religioso che si esprime attraverso una concezione di fede assoluta e di mistica devozione che attinge al sublime.

Ma già su la fine del Settecento il sentimento religioso va smarrendosi fra gli accenti di un melodrammismo di maniera. Nell'Ottocento la nobiltà dell'ispirazione sacra è tenuta ancora alta nelle complesse composizioni di Luigi Cherubini, dove all'austerità del pensiero si aggiunge la superba elaborazione polifonica e contrappuntistica sorretta da un'orchestrazione ricca di colori drammatici. L'altezza della fede risplende nell'organicità salda e raccolta della costruzione architettonica che rammenta le ombre e le luci, le fughe di colonne e le volte elevate delle cattedrali. Di accenti palesemente, e talora anche soverchiamente, melodrammatici sono ripieni lo Stabat Mater e, in grado minore, la «Pétite Messe solennelle» di Gioacchino Rossini, che pure, da un punto di vista profano, contengono pagine stupende per bellezza di disegno, calore d'intonazione, slancio lirico e ricchezza costruttiva sapiente.

La Messa solenne (1822) di Beethoven, con la prorompente e sfolgorante ascensione del «Gloria», l'energica volitiva affermazione del «Credo», la tristezza funerea del «Crucifixus», il volo aereo luminoso del «Resurrexit», la serafica delizia del «Benedictus», il minaccioso rullare dei timpani e squillare delle trombe guerriere sul «Dona nobis pacem», pur fra i mistici gorghi sonori delle frequenti ampie fughe, eleva il sentimento religioso all'altezza di un fato drammatico.

D'intonazione fortemente drammatica (ma, si badi bene, non melodrammatica), sono anche i Pezzi sacri di Verdi: Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine, Te Deum e Pater noster (Ave, Laudi e Pater per sole voci; Stabat e Te Deum per voci e orchestra); specialmente robusto e grandioso il Te Deum (1898).

Ma con Perosi, con Pizzetti, con Licinio Refice la musica sacra ha un ritorno alle sue origini più severe, e pur non rimanendo esente dall'influsso lirico dominante, conserva una elevatezza e una purità spirituale dignitose.

Naturalmente non possiamo prendere in considerazione come musica «sacra» le varie pagine d'ispirazione religiosa situate in melodrammi (preghiere, cori, inni, processioni o scene comunque attinenti ad azioni religiose), perché esse risentono quasi sempre fortemente dello stato d'animo più o meno agitato dei personaggi e del momento drammatico o del pretesto librettistico da cui prendono origine. Non si vuol qui resuscitare la vecchia questione dei generi; ma si può notare che l'impossibilità teorica di distinguerli ha dei limiti pratici; e a nessuno - crediamo - verrebbe in mente, ad esempio, di gabellarci l'entrata di Figaro per musica sacra e, il Barbiere di Siviglia per una pantomima o per un oratorio ! Il soggetto trattato ha il suo peso, cosicché non sono tollerabili in una composizione sacra o da camera, motivi che stanno bene nel melodramma, o viceversa. Ogni argomento comporta una concezione espressiva particolare: uno stile proprio. I secoli, come gli autori, si differenziano gli uni dagli altri per la diversità dello stile; poiché differenti sono le sensibilità delle varie epoche come quelle dei singoli artisti. Entro l'atmosfera comune alla propria età, la personalità del compositore si manifesta nel modo di servirsi dei vari elementi musicali. Perciò l'imitazione si rivela prontamente, e assume il tono falso di una riproduzione meccanica esteriore della tecnica d'un altro autore o di un'altra epoca, senza possederne lo spirito.

Altrettanto dicasi dei soggetti, ciascuno dei quali richiede di essere trattato secondo uno spirito ad esso adeguato, così che ciò che è sacro non appaia in atteggiamenti profani. Ciò non toglie che non possiamo trovarci di fronte a creazioni che, se anche non siano dal punto di vista liturgico adatte ai servizi della Chiesa, appaiano pur sempre imbevute di sincera e forte religiosità. Pensiamo alla prima parte del 4° atto de La Favorita di Donizetti, alla scena della vestizione e a «La Vergine degli Angeli» de La Forza del Destino, all' «Ave Maria» dell'Otello di Verdi, al Prologo del Mefistofele e alle «Beatitudini» del 3° atto del Nerone di Boito, all' «Incantesimo del Venerdì Santo» e all'ultima scena del Parsifal di Wagner, per non accennare che alle pagine più celebri. Invece il coro della Cavalleria di Mascagni «Inneggiamo, il Signor non è morto!» sarà anche ben costruito su una melodia chiara e entusiastica, ma di religioso (salvo la parte inziale) non ha proprio nulla. E un pezzo chiuso fatto per accontentare i coristi (e anche il pubblico), che mira all' «effetto» e lascia la religione dov'è.

Merita invece di essere segnalato all'attenzione degli ascoltatori un coro della Manon di Massenet che solitamente passa quasi inosservato. Siamo nel parlatorio di S. Sulpizio: Manon viene a cercare l'amante che tradì; ed ecco, dalla cappella, il coro, accompagnato dall'organo, intona un solenne «Magnificat». La polifonia procede e si sviluppa per «imitazioni», e non ostante una certa magniloquenza, non le si può negare una severa struttura liturgica e un respiro profondamente religioso. Se lo sentissimo cantare in chiesa non oseremmo dire che quello non fosse il suo posto naturale. Bella anche la preghiera di Manon «Perdona a me», ma non ha nulla di sacro: è un'implorazione ansimante disperata, con un fondo di sensualità melodiosa. Il «Magnificat» l'incornicia e sembra purificarla.

* * *

Una forma, sacra per il soggetto, ma non esente da contatti col melodramma per i modi e i mezzi dell'espressione musicale, è l' «oratorio». Mentre il melodramma è un'azione musicale rappresentata su la scena, l'oratorio è un'azione narrata, senza nessun apparato scenico. Uno «Storico» (o «Testo», o «Poeta», o «Musa») racconta un avvenimento della Storia sacra o del Vangelo, o della vita di un Santo, e come egli rievoca i discorsi fatti da alcuni personaggi della narrazione, questi interloquiscono esponendo direttamente quanto dissero. Il coro interviene sia come personaggio-folla, sia come pubblico di credenti che commenta, o deplora, od esalta, o prega. Si capisce come, tolta la visione scenica, e con essa scomparso gran parte del «divertimento», l'attenzione debba concentrarsi ancor più su la musica, che sopporta da sola tutto il peso dell'espressione.

Si spiega perciò lo scarso interesse del pubblico, specialmente di quello attuale, prevalentemente cinematografico-sportivo, per una forma che, mancando ogni divertimento scenico, appare inoltre doppiamente austera, sia dal punto di vista del soggetto sacro che da quello dell'arte musicale. E, naturalmente, il pubblico ha torto, come lo aveva il Petin Petèle della favola di non voler andare a scuola senza le nocciole.

L'oratorio ebbe origine e nome dagli esercizi spirituali che, predisposti da S. Filippo Neri, si tenevano negli «oratorii» della Vallicella e del Crocifisso in Roma nel secolo XVII, per lenta evoluzione delle laudi spirituali. Queste erano già ricche di drammaticità e di musicalità. Si pensi, ad esempio, al «Pianto della Vergine» di Jacopone: c'è narrazione e dialogo; non attende che la musica per essere «oratorio». Uno dei documenti più signifi-cativi e importanti della trasformazione della «laude» in «oratorio» è il Teatro armonico spirituale di Giovanni Francesco Anerio (1619), in cui è evidente che si mira a tener distinta la nuova forma tanto dal «melodramma» profano come dalla «sacra rappresentazione».

Mentre alla Vallicella, frequentata da un pubblico popolare, dalla laude si sviluppa l'oratorio con testo in italiano, al Crocifisso, frequentato da un pubblico aristocratico, l'oratorio nasce da una trasformazione del mottetto (composizione polifonica in istile a imitazioni) con testo in latino. Fu quest'ultima forma che resistette e si impose per merito di Giacomo Carissimi, mentre quella con testo in volgare scomparve dopo breve tempo. Giacomo Carissimi è il vero creatore dell'orarono. I suoi recitativi hanno una nobiltà di disegno che li differenzia notevolmente da quelli della Camerata Fiorentina, pur non possedendo la forza incisiva dei recitativi monteverdiani. Che la figura del narratore (Historicus) sia affidata ad un solo cantante, come nel Giudizio di Salomone e come negli oratori moderni, o a più persone e anche al coro, come nel Jefte e nel Giona, è cosa che ha solo importanza secondaria (serviva al musicista per accrescere varietà o per altre ragioni difficilmente precisabili), ma è bene che il pubblico che ha occasione di ascoltare un oratorio di Carissimi lo sappia per non essere disorientato.

I cori sono generalmente brevi, ma vibrati e balzanti, come il «Fugite, fugite» dello Jefte, o come il «Plaudite regi» del Salomone, o l'«Et proeliabantur venti» del Giona; oppure pieni di sostenuto dolore, come il «Peccavimus, Domine» del Giona, e il «Plorate, filii Israel» dello Jefte. I personaggi evocati dallo Storico hanno spesso effusioni liriche di intima bellezza e di intensa espressione, come la rassegnata preghiera di Giona «Justus es, Domine», o il lamento dolcissimo della figlia di Jefte: «Plorate, plorate colles», lamento al quale sembra prender parte l'intera natura nella voce dell'Eco che ripete le parole finali delle strofe «Ululate... Lachrimate !...». Ma anche la caratterizzazione dei personaggi appare vivace, specie nella disputa delle due madri al cospetto di Salomone. Dopo Carissimi l'oratorio presto decadde in Italia, soprattutto per l'infiltrarsi in esso dello stile melodrammatico. Ciò non toglie che negli oratori di Alessandro Stradella (sec. XVII), di Giovanni Bononcini e di Giacomo Antonio Perti (sec. XVIII) non si riscontrino pagine di elevata ispirazione e di nobile fattura. Uno degli oratori più belli del 1600, dopo quelli del Carissimi, è certamente il S. Giovanni Battista dello Stradella, di cui s'impone l'ampiezza stilistica e il commosso fervore delle melodie.

Ma la palma spetta alla Juditha triumphans di Antonio Vivaldi che per la genialità dell'autore si solleva a grande altezza sopra tutta la produzione italiana del secolo XVIII. La Juditha, denominata dall'autore «Sacrum militare oratorium», riflette nella musica questi due aspetti: sacro e guerresco, in alternanza fra loro. Alla mancanza dello «Storico» si sostituisce il dialogo diretto fra i personaggi, e questo fatto induce a considerare la Juditha quasi più come un melodramma sacro (però con testo in latino) che non un vero e proprio oratorio. All'entusiasmo sacro ed eroico, di Giuditta fa riscontro il vigore quasi barbarico di Oloferne, così come al Coro delle Vergini in Betulla si contrappone il Coro dei soldati di Oloferne. Contrasto in ogni caso potentemente espresso dalla musica, che raggiunge alti valori lirici nelle linee del canto semplici, parche di ornamentazioni virtuosistiche. «Congegno di metallo e di fuoco di una irruenza celestiale», come chiamò con immagine efficace la Juditha Bruno Barilli.

Decaduto in Italia, l'oratorio fu ripreso in Germania da Enrico Schütz, e portato alla perfezione da Bach e da Händel. Schütz concepì i propri oratori con forza d'ispirazione e sapienza secondo lo stile del Carissimi, ma con una più accentuata tendenza verso quel polifonismo che formerà poi la maggior gloria dei suoi somrni continuatori. Più che nelle Passioni, è nell'Oratorio di Natale e ne Le sette parole che i recitativi acquistano carattere fortemente drammatico, fino alla sofferenza. Ne Le sette parole la morte di Cristo è una pagina di potenza evocativa veramente tragica.

Con Giovanni Sebastiano Bach il quadro dell'oratorio si amplia. Egli fonde lo stile vocale sacro di Palestrina e quello drammatico di Schütz con lo stile strumentale di Vivaldi, dando a questa fusione l'impronta della propria personalità energica, dinamica, ariosa. Alla narrazione commossa dello Storico si alternano corali di alta austerità, arie di solisti sovrapposte a un ricco e vario contrappunto strumentale, interventi ora violentemente drammatici ora solennemente religiosi del coro. Ne risulta un senso di poesia e di verità di potente rilievo.

Fra i suoi oratori i maggiori sono l'Oratorio di Natale, e le due Passioni: quella secondo S. Giovanni, e - più profonda - la Passione secondo S. Matteo.

Gli oratori di Giorgio Federico Händel differiscono da quelli di Bach per i recitativi brevissimi e senza importanza (salvo rare eccezioni); per il più ampio sviluppo delle parti corali, con «fughe» di effetto grandioso, ma anche più decorativo; e infine per un impiego più frequentemente descrittivo dell'orchestra. Sotto quest'ultimo aspetto vanno ricordati i prodigi di Mosè nell'Israele in Egitto, ove l'imitazione anziché smarrirsi in una espressione materialista origina piuttosto una sorta di impressionismo ritmico-sonoro. L'orchestra händeliana si arricchisce, oltre che dei fagotti, dei corni, delle trombe, delle arpe, dei liuti, delle chitarre e del clavicembalo; e perciò offre una maggiore ricchezza di colori in confronto a quella di Bach.

Una novità dell'oratorio di Händel è poi che i personaggi non interloquiscono chiamati in causa dallo Storico, ma prendono parte alla narrazione degli eventi insieme ai cori. Ma in taluni oratori, come ad esempio nell'Israele, i personaggi mancano totalmente. Anche le arie sono impersonali; e ve ne sono di sublimi per la nobiltà solenne del disegno melodico, quale l'aria «Io so che il mio Redentore vive» («Ich weiss, dass mein Erlöser lebet») nella 3ª parte del Messia (1742).

La parte musicale più cospicua degli oratori di Händel e rappresentata dai cori, di una larghezza di stile senza pari, specialmente nelle «fughe» in cui, estendendo anche alle parti vocali la maestosa architettura polifonica che Bach aveva creato per i registri del clavicembalo e dell'organo, Händel riesce ad effetti di fastosa potenza e grandiosità.

Con Giuseppe Haydn il sentimento religioso scompare quasi interamente. Il suo oratorio La creazione (1798) è un quadro idillico con pagine in cui affiora, attraverso a un descrittivismo assai moderato, un vivace sentimento della Natura. Il compito narrativo è affidato ai tre arcangeli: Gabriele, Uriele e Raffaele; interloquiscono Eva, Adamo e il coro. La descrizione vorrebbe ragiungere la maggiore audacia nel preludio che dipinge il Caos, con qualche dissonanza e qualche cromatismo, ma non ostante questo sforzo e il distacco da ogni formula consueta, è difficile immaginare un caos più ordinato di questo. Le arie hanno la costruzione e lo spirito di quelle del melodramma italiano settecentesco. La più nobile e prossima al sentimento religioso è quella di Gabriele «Su l'ali robuste l'aquila leva il volo», ma in tutto il resto, anche nei cori, l'elemento sacro è assente. Il che non toglie che, da un punto di vista non religioso ma puramente musicale, non si tratti di una composizione ammirevole per il garbo e l'armoniosità della forma.

Saremmo tratti quasi ad affermare che c'è più sentimento religioso nel poema profano in forma d'oratorio dal titolo Le stagioni (1801). Per lo meno nel testo idillico-arcadizzante la musica ha palpiti più umani, anche nelle espressioni ingenue. I cori sono contrappuntisticamente assai più elaborati di quelli de La Creazione . Dall'ouverture, in cui il sentimento della primavera porta un soffio di serenità panica, alle ultime note, è un tessuto luminoso di virgiliana poesia campestre, ove qua e là prorompono accenti sinceri di fede. Fede che sentiamo vibrare con più alto vigore e fervore nell'entusiastico saluto al sole.

Il Cristo sul Monte Oliveta di Beethoven non riveste carattere di particolare importanza fra la produzione oratoriana, e neppure nella produzione dello stesso Beethoven, in quanto le arie sono fiorite di melismi alla maniera di quelle dei melodrammi italiani del Settecento, e i cori appaiono ugualmente convenzionali.

Il Requiem tedesco (1868) di Giovanni Brahms per l'ampia forma di «cantata funebre» e pel soli qua e là disseminati in esso si può quasi considerare come un oratorio. Lontano da ogni espressione liturgica, senza personaggi, con un testo che, nei cori come nei soli, espone meditazioni su la fragilità della vita e la felicità della morte, esso è comunque una composizione sacra di liricità intensa che da ogni frase emana un senso di intimità raccolta. La densa polifonia strumentale (strumentale ricco di colore) e vocale, gli ampi e severi fugati, portano la poesia religiosa di quest'opera ad una grande altezza.

Le Beatitudini (1879) di Cesare Franck ci riportano allo schema consueto della forma oratorio, per quanto il narratore non sia designato né col nome di Storico, né di Evangelista o altro. Ma questo non è che un particolare di scarsa importanza. In realtà non si tratta di una «istoria» raccontata da alcuno; bensì di un'evocazione lirica di vari momenti della psiche umana attraverso i quali nasce spontaneo il ricorso a Cristo, la cui voce a consolazione ripete le alte parole del Discorso della Montagna.

In fondo, come il Requiem di Brahms, anche le Beatitudini di Franck sono un'opera religiosa ispirata a uno stato d'animo di malinconica visione dei dolori del mondo; malinconica, però non pessimistica, in quanto sorretta da un profondo senso di speranza e di fidente attesa nella promessa di Cristo.

Le medesime considerazioni possono valere per il poema sinfonico Redenzione (1872), in cui la parte riguardante la bassezza della vita pagana non ha trovato in Franck una sufficiente forza espressiva; ma appena il suo pensiero si eleva verso il cielo, la poesia musicale sgorga con suprema purezza di canto. Specialmente grandioso è nell'intermezzo il contrasto fra il motivo maestoso degli ottoni che esprime la parola di Cristo, e l'allegrezza che inonda ogni cuore e che trabocca dal disegno fervido dei violini fra squilli trionfali di trombe. «Il y a dans la musique de César Franck des idées qui semblent venir de derrière les étoiles; et tout part du coeur!»[34]. Queste parole del Combarieu sono il solo commento possibile alla musica di Franck.

Il Requiem (1837) di Ettore Berlioz contiene alcune pagine intime, soffocate nella pletora di uno strumentale reboante, in una concezione da «cataclisma musicale» (cinque orchestre, e cori proporzionati), che per voler essere troppo grandiosa soffre di gigantismo. Più viva e sentita la trilogia sacra L'infanzia di Cristo (1854), dove alcune pagine respirano un'atmosfera di idillio angelico, specialmente nel «Riposo della Santa Famiglia».

Gli oratori di Felice Mendelssohn e di Francesco Liszt, se comprendono alcune ottime ispirazioni liriche e grandiosità di cori, se mostrano nella costruzione solida di alcune parti la dottrina dei loro autori, raggiungono effetti che sono più spesso teatrali che sacri, e non mancano di qualche vuoto, di qualche prolissità e di momenti enfatici. Sta a sé Il Paradiso e la Peri (1843) di Roberto Schumann, opera che, pur fra la prolissità e frammentarietà episodica di alcune parti, rivela altezza di poesia, fine sensibilità romantica e unità originale di stile.

Anche la Messa di Requiem (1874) di Giuseppe Verdi non è composizione adatta ai riti della chiesa. Essa può accostarsi, per mole e stile, anche se manca la forma narrativa e interlocutiva, alla forma oratorio. Il sentimento religioso vi è intenso, e vi si esprime in forme drammaticissime. L'orchestra, potente coloritrice, infosca o illumina, a seconda dei casi, visioni terrificanti o quadri di serena beatitudine. Le voci tremano e implorano, urlano di spavento o si elevano lievi come per attingere il cielo.

L'oratorio, nella sua struttura originaria, anche se con forme e ispirazione moderna, rinasce con Lorenzo Perosi. Nello stile di Perosi confluiscono l'arte di Bach e quella di Wagner, quella di Carissimi e quella di Palestrina nei loro elementi religiosi contrappuntistici e strumentali; ma la facoltà di assimilazione del Maestro tortonese ha tutto trasformato nella maggior parte dei casi, imprimendo alla materia rinnovata la forza di una commozione lirica spontanea e ardente. A volte tale commozione appare quella di un credente che si abbandona a un'ebbrezza di paradiso, se pure ogni tanto mostra qualcosa di ancora sensuale; altre volte l'estasi è quella di un fanciullo che ammira con occhi sereni e con cuore fidente i sacri misteri, quasi come una fiaba meravigliosa, della cui verità egli non dubita.

La sua ispirazione melodica, senza essere melodrammatica, e intimamente umana. Rare volte ci trasporta fuori del mondo, come nell'«Alleluja» finale de La Risurrezione di Cristo (1898). Più spesso ci fa contemplare il divino senza staccarci dal nostro nido terreno. Ciò che egli descrive noi lo vediamo in rappresentazione plastica nitida, sia che ci raffiguri il terremoto alla morte di Cristo, o la liberazione di un ossesso, o la malattia di Lazzaro, o la scena della sua risurrezione; o quella più vasta della risurrezione di tutti i defunti nel giorno del giudizio universale, quadro che le trombe rispondentisi a distanze diverse amplificano a dismisura.

La narrazione dello Storico è sempre accompagnata da un commento orchestrale polifonicamente chiaro ed espressivo, a tinte nette delle famiglie strumentali, spesso separate. Nella tenerezza ha effusioni liriche avvincenti, mentre non molto gli riesce l'espressione di sentimenti malvagi o violenti. Con pochi tratti caratterizza una persona, una situazione. Basta che Gesù intimi «Noli me tangere» con sì alta passione, o che intoni solenne «Ego sum resurrectio et vita», perché noi sentiamo nel canto la divina grandezza; basta che le due Marie inizino il loro dolce lamento «Piange, piange», o che Marta dica umilmente «Domine, si fuisses hic, frater meus non fuisset mortuus», o che Sephora esclami «No, de' perigli ne l'ora dolorosa - non t'abbandona Sephora amorosa» (le figure femminili sono le meglio scolpite dal Maestro) perché noi vi sentiamo vibrare il loro tormento, la loro fede, la tenerezza e la delicata femminilità.

Il Mosè (1901) non si distacca dallo stile oratoriano consueto del Perosi che per un maggior senso idillico, anche se la stesura del libretto in lingua italiana abbandona la figura dello Storico e accede al dialogo diretto proprio dei melodrammi scenici.

Rari, negli oratori di Perosi, i cori polifonici; frequenti quelli omofoni, spesso tessuti su temi gregoriani, oppure rotti in frasi che passano da una voce all'altra alla maniera drammatica, e i corali di tipo bachiano.

Oltre alla parte vocale che è l'espressione più facilmente accessibile per il pubblico, negli oratori di Perosi c'è la parte sinfonica pura che merita altrettanta e forse più attenzione. Sono spesso grandi elegie, come i preludi 1° e 3° de La Passione di Cristo (1897), e il primo de La Risurrezione di Cristo e de La Risurrezione di Lazzaro (1898); oppure sottili poesie campestri e patriarcali come il preludio del Mosè, o pastorali e mistiche come «La notte tenebrosa» del Natale del Redentore (1899). O sono liriche in cui trema l'aspettazione del miracolo, come il preludio alla 2ª parte de La Risurrezione di Cristo, con quel fatidico motivo lontano, come dall'al di là, delle cornette, cui fanno eco in orchestra trombe e tromboni, e, su i vasti arpeggi, l'alto grido «Alleluja» che sembra piovere dalle più eccelse regioni del cielo, e tutt'insieme creano l'atmosfera trepidante della Risurrezione prodigiosa.

Poi ci sono le pagine descrittive, o meglio evocative, poiché i tocchi naturalistici e realistici sono rari, ma ritmo strumentale e disegno melodico bastano a una rappresentazione che, pur senza scendere a particolari superflui, è di una rara efficacia. E sono, ad esempio, il ricordato terremoto della 1ª parte de Le Risurrezione di Cristo, e la fuga della Sacra Famiglia ne La strage degli Innocenti (1900); la malattia di Lazzaro, con quelle lamentose discese cromatiche della melodia, ne La Risurrezione di Lazzaro, e la guarigione dell'ossesso ne La Trasfigurazione (1898), e «Il roveto ardente» nel Mosè, e la risurrezione dei morti nel Giudizio Universale (1904).

Vi sono anche pagine sinfoniche a sfondo psicologico, come «La dilezione» e «La consolazione» ne La Risurrezione di Lazzaro. E ci sono infine altre parti sinfoniche senza titolo, che hanno l'ufficio o di ampliare il respiro musicale indipendentemente da ogni significazione drammatica o religiosa, come le «varianti» poste fra le strofe dei corali (finale 1ª parte della stessa Risurrezione di Lazzaro); o di preparare a una data situazione, come il brano per organo e archi prima dell'interrogazione di Cristo a Maria «Mulier, quid ploras?» (2a parte de La Risurrezione di Cristo). Molte volte il filo della narrazione è interrotto, e son fermati d'improvviso il corso degli avvenimenti e i dialoghi per una pura effusione poetica musicale: pel bisogno di ripiegarsi su se stesso, di isolarsi, di meditare, di sognare. Sono pagine da ascoltare con lo stesso senso di isolamento e di abbandono meditativo.

Inoltre Perosi è un creatore di atmosfere, dalle più gioiosamente festose, come quella che si respira ne L'entrata di Cristo in Gerusalemme (1900), a quelle miracolistiche, come nel citato 2° preludio de La Risurrezione di Cristo, a quelle più soavemente idilliche, quali appaiono in tanti momenti del Natale e del Mosè, a quelle funeree dell'In patris memoriam (1910), e più ancora del Transitus animae (1907) in cui la tristezza del distacco terreno imminente e il timore dell'ignoto, dell'al di là, creano un quadro di tragica potenza, che si placa solamente nella dolcezza della preghiera, «Maria, Mater gratiae» e del serafico gregoriano «In Paradisum». Ed ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, la musica di Perosi avvolge in un alone di purità malinconica, senza perdere di umanità, di spiritualità sacra; ed è questa la sua maggior virtù trasfiguratrice.

Capitolo XII: La musica vocale da camera [Indice]

La musica vocale da camera si estende praticamente dalle villotte quattrocentesche alle moderne liriche, poiché le musiche trovadoriche e le trecentesche sono ancora troppo poco note, e non raggiungono le sale da concerto. È ben vero che è difficile oggi udir cantare anche villotte o canzoni a ballo o ascoltare musiche per liuto (se non in qualche trascrizione orchestrale, come quelle di Respighi). Il pubblico sarebbe forse tentato di definire l'impressione che ne riceverebbe con la sbrigativa parola: «primitivo», a causa di una certa secchezza del disegno melodico e della semplicità del contrappunto e delle armonie. Ma si avrebbe torto di giudicare queste antichissime composizioni con dei criteri moderni. Altrettanto dicasi dei madrigali cinquecenteschi e delle nuove musiche dei monodisti del Seicento; essi rispondono allo spirito del loro tempo, sono il frutto di una determinata sensibilità e non difettano di forma o di stile ma hanno la forma e lo stile che compete alle aspirazioni artistiche dell'epoca in cui nacquero.

Quindi quel pubblico che avvicinasse le composizioni polifoniche vocali di queste epoche soltanto con la curiosità che destano i documenti archeologici di una lingua morta, avrebbe torto. Queste forme, anche se il loro stile è tanto diverso da quello delle composizioni odierne, ed anche se abbandonate per altre forme ed altri stili, tuttavia sono documenti vivi, in quanto espressioni di poesia, quale era sentita dagli uomini dei secoli passati. La poesia è una e le sue forme sono tante: ogni secolo, ogni popolo ha le sue; e se in queste forme la poesia trovò pienezza di espressione (e lo prova la loro antica popolarità) il loro valore è eterno.

Il madrigale ebbe vari atteggiamenti: in un primo tempo fu una lirica a più voci di soggetto amoroso; poi, con l'introduzione dell'elemento «dialogo» si avviò verso la forma drammatica, con un accentuato sviluppo dell'espressione comica. Conviene in ogni caso che l'uditore segua le ripercussioni, le riproduzioni e le imitazioni dei motivi delle varie parti, che afferri i contrasti creati dai contrappunti al tema, e si immedesimi nell'atmosfera amorosa o idillica, dolente o serena, entusiastica o comica, a seconda dei casi, che ne forma l'oggetto.

Ascoltiamo, ad esempio, il madrigale «Ahi, dispietata morte» di Luca Marenzio. Cantano quattro voci: soprano (cantus), tenore 1°, tenore 2° e basso. Il soprano inizia con l'esclamazione «Ahi», fievole, sul registro basso; a distanza di due quarti le tre altre parti ripetono il lamento formando un accordo di dominante. Ed ecco il soprano alzarsi e iniziare una frase discendente su le parole «dispietata morte». A un quarto di distanza i tenori ripetono le parole su frase ascendente, mentre il basso, a tre quarti di distanza le ripete pure, ma su frase discendente. Di qui un intimo contrasto che accentua il senso di pena e di disagio. Ora è la volta del 1° tenore e del basso che, con un secondo breve disegno, saliente quello del tenore, discendente quello del basso, espongono la seconda esclamazione: «ahi, crudel vita». Con breve ritardo il soprano e il 2° tenore accettano il disegno discendente del basso, in contrasto col 1° tenore che seguita ad ascendere. Ora, su le frasi successive si sviluppa il procedimento a imitazioni sempre più serrato, in cui le frasi imitate ora si rispondono, ora si annodano fra loro con eleganza di movenze. Questi continui echi prodotti dai richiami determinano un approfondimento del sentimento, generano una specie di disegno più complesso che nel suo apparente decorativismo geometrico racchiude e sprigiona una vaghissima atmosfera di poesia. Noi ci sforzeremmo invano di volercene rendere ragione per via di ragionamenti: la poesia si subisce per il suo fascino arcano, non si analizza senza distruggerla.

Troveremo inoltre in vari madrigalisti frequenti contrapposizioni di movimenti lenti a movimenti veloci; udiremo taluni far largo uso di melismi decorativi, altri esprimere qualche parola, come «scorrere», «volare», «precipizio» e simili, con figurazioni sonore vagamente descrittive o simboliche. Infine, con Carlo Gesualdo Principe di Venosa il cromatismo e le dissonanze creeranno successioni dolorose e urti spasmodici atti a intensificare la significazione drammatica del testo poetico. Ma nel complesso, quello che s'è detto testé pel Marenzio, vale per ogni altro madrigalista: occorre seguire il giuoco delle imitazioni, i contrasti e l'accordo dei disegni, l'impronta ritmica delle frasi, la dolcezza o l'asprezza delle armonie, e lasciarsi permeare dalla poesia che con questi elementi principalmente i compositori esprimono.

Con Ingegneri e Monteverdi il madrigale si drammatizza sempre più. Il Monteverdi in particolare getta nella vecchia polifonia del madrigale una vita nuova. Nel famoso «Ecco mormorar l'onde» non è più il soggetto amoroso che lo interessa, ma lo spettacolo dell'alba; e non tanto il fenomeno fisico dal punto di vista descrittivo, quanto la suggestione degli stati d'animo che il sorgere del sole suscita in chi lo contempla, l'atmosfera e quel senso di miracolo che Monteverdi appunto con la sua musica sa creare.

Successivamente tratterà le voci come strumenti (madrigale sinfonico), finché arriverà ad aggiungere alle voci l'accompagnamento o meglio il «commento» strumentale e alternerà nei madrigali melodie a una voce e recitativi, creando così la prima forma di Cantata.

A questo punto il madrigale cede il posto alla scena drammatica, cioè ai dialoghi fra voci sole con accompagnamento strumentale.

Quelli infatti che Monteverdi chiamò Madrigali guerrieri et amorosi altro non sono che piccole forme di oratorio profano. Infatti, se osserviamo il più celebre di essi il Combattimento di Clorinda e Tancredi, troviamo che le parti sia del narratore (Testo) come dei due protagonisti non sono più affidate a un complesso di voci, ma a singoli individui, e lo stile usato è quello che il Monteverdi usa nei suoi melodrammi.

Polifoniche erano invece nel '500, oltre ai madrigali, anche le canzonette, delle quali fu, tra gli altri, più fecondo e arguto compositore Orazio Vecchi. Nelle canzonette le voci si muovono generalmente insieme (omofonia od omoritmia), ma la vivacità dei ritmi, il brio dei disegni, sono tali da creare uno scintillio fervidissimo, spesso una comicità grottesca, una satira mordace. «So ben mi ch'ha bon tempo», «Non vò pregare chi non m'ascolta», «Mi vorrei trasformare», sono dei gioielli di allegra spassosità musicale, cui fa soltanto riscontro la gentilezza di certe villanelle come quella a tre voci contenuta ne Le Veglie di Siena (1604), che incomincia appunto con le parole «Villanella son io ma bella» e che termina con un felice contrasto di sentimentali «ohimè» del soprano sul gaio cantarellare delle altre due voci (soprano e basso).

Queste Veglie sono già un'opera a indirizzo drammatico, dove si dipingono musicalmente umori, tipi, caratteri, razze: il modo di fare degli spagnuoli, dei tedeschi, dei veneziani, degli ebrei; gli umori gravi, affettuosi, dolenti, balzani, e simili.

Nell'Amfiparnaso (1594?) il Vecchi giunge addirittura a musicare un'intera commediola di maschere in forma polifonica. E qui è facile che l'uditore profano si proponga un dubbio. Come mai un personaggio può essere rappresentato da cinque voci simultaneamente? Anzitutto occorre tener presente che la commedia del Vecchi, come altre composizioni di tipo drammatico del genere, non doveva essere rappresentata su la scena.

 «... Si mira con la mente,
«Dov'entra per l'orecchie, e non per gl'occhi.
«Però silentio fate,
«E'n vece di vedere hora ascoltate».

Così ci avverte nel prologo l'autore.

Secondariamente bisogna osservare che la verità che la musica ricerca non è quella materiale, ma quella artistica. Il melodramma ci ha abituati a una concezione scenica delle azioni drammatiche rappresentabile, da cui, nel caso del Vecchi e degli altri madrigalisti drammatici, bisogna allontanarsi. I personaggi pel Vecchi sono figurazioni che attendono un'espressione non visiva, ma acustica, totalmente musicale. Sotto questo aspetto la rappresentazione di uno stato d'animo o di un carattere può essere anche polivoca o corale. Potremmo citare, come esempio moderno, l' «Inno del Sole» nell'Iris di Mascagni, ove un intero coro raffigura la voce del Sole concepito come personaggio. Chiunque può facilmente comprendere che la voce della divinità solare rimane accresciuta in forza emotiva dalla massa corale, mentre se fosse stata affidata ad una sola voce ne sarebbe uscita un'espressione mingherlina e impoverita proprio in quelli che sono i suoi caratteri essenziali: la grandiosità solenne, la potenza soggiogante, la luminosità. Ora, per i personaggi vecchiani non è in gioco nessun elemento di grandiosità; pertanto non è un coro che canta, ma cinque voci sole; quante bastano alla varietà espressiva (nelle esecuzioni moderne le cinque voci sono anche decuplicate, con accentuazione di colore e di forza non sempre in carattere con la finezza della composizione). Bisogna pensare a questi «personaggi a cinque voci» come si penserebbe a un quintetto d'archi che oltre ai suoni ci facesse sentire le parole. Tutto sta nel superare il punto morto, abitudinario, della visione scenica, per portarsi nel campo più musicale dell'audizione sonora. Tenuto presente ciò, non v'è maggior difficoltà a gustare il giuoco fine ed arguto della polifonia di Orazio Vecchi, di quello che non sia per le altre composizioni del genere.

La Triacca musicale di Giovanni Croce, Il cicalamento delle donne al bucato, di Alessandro Striggio, e Il festino del Giovedì grasso, Ia pazzia senile e La saviezza giovenile di Adriano Banchieri, vanno ascoltate secondo lo stesso criterio. In tutte è qualcosa di frizzante, di umoristico, di satirico, si tratti della baruffa e dei pettegolezzi delle donnicciuole, o del malumore dei cinque mangiatori della passerina che trovano il pasto troppo scarso; o si tratti dell'assurda gara di canto fra il cuculo e l'usignolo, con vittoria del primo (arbitro il pappagallo), comica parodia di ogni gara e di ogni concorso (e delle relative giurie); o del sesquipedale contrappunto di abbaiamenti, miagolii ed altre simili voci bestiali al canto gregoriano con cui in tono ieratico si proclama l'impossibilità di aver fede nei gobbi, negli zoppi e nei guerci!

Ma nell''Amfiparnaso di Vecchi l'espressione musicale è più varia: c'è il madrigale amoroso («Misero che farò», «Ecco che più non resta speranza») con accenti di forte drammaticità, c'è la burla del capitano spagnuolo vanesio e deriso, c'è la turlupinatura dello spropositato cantore Graziano, storpiatore di versi e di musica, e c'è la piramidale caricatura, umoristica e bonaria, anche se ridanciana, degli ebrei, dei loro canti e dei loro usi. E l'espressione polifonica scolpisce così vivamente ogni aspetto di questo mondo sentimentale e grottesco, da rendere superflua ogni rappresentazione visiva.

Con la reazione alla polifonia avvenuta nel sec. XVII, la musica vocale, specialmente la profana, diventa monodica; e allora le arie da camera non differiscono più da quelle d'opera. Il disegno melodico dapprima un po' secco e simile quasi a una parte di polifonia (e più tardi ad un recitativo) che attende il suo completamento sul clavicembalo, va poi successivamente allargandosi sempre più e acquistando forza e carattere, ampiezza e respiro. Verso il Settecento e durante tutto il sec. XVIII, si ingentilisce, acquista grazia e delicatezza e tende alla canzone e all'arietta, fino a che la sua semplicità ingenua e arcadica diverrà sempre più preziosa e non sarà più che un pretesto per ricami ornamentali di puro virtuosismo. La sua intimità espressiva si scioglierà a vantaggio di un edonismo sensoriale esteriore, il sentimento diverrà spesso sentimentalismo, la grazia languidezza leziosa. Ma nell'Ottocento il coro, che nel melodramma ha assunto ormai forme omofone o monodiche unisone, anche se con aspetti grandiosi (ad es. nei. cori del Guglielmo Tell, della Norma, del Nabucco, ecc.), riacquista un nuovo interesse come forma a sé, indipendente dal melodramma e dall'oratorio. Esso presenta sviluppi e forme diverse da quelle ampie e polifoniche dategli dai grandi Maestri del Settecento, specialmente da Händel e da Bach, e indirizzo romantico. Nel coro libero (cioè non incluso in opere teatrali od oratori) la struttura torna ad essere polifonica, ma con garbo, con eleganza e scioltezza. Si pensi al «Beati i morti» di Mendelssohn, ai Liebes-lieder con accompagnamento di pianoforte, di Brahms, a «Dolce sera» o alla Mattinata di Veneziani, e ai numerosi canti folkloristici, modernamente armonizzati da vari autori, della campagna e della montagna. Nulla eguaglia la potenza emotiva di un coro, poiché la voce umana e il prodotto di un istrumento naturale in diretta dipendenza dalla nostra anima. Per questo, allorché Beethoven nella IX Sinfonia volle cantare la gioia, non si accontentò delle voci, pur varie e possenti, dell'orchestra, ma, con senso profondamente umano, ricorse al coro nella pienezza robusta delle sue sonorità.

Nella prima metà dell' 800 in Germania si crea una forma di musica da camera monodica vocale nuova, fresca, intima, tutta poesia: il lied, di cui furono creatori geniali Schubert, Schumann, Mendeissohn, Wolf, Brahms, Grieg. D'intonazione varia in Francesco Schubert, dal fantastico e tragico «Re degli Alni» alla patetica «Serenata», dall'ansiosa e inquieta «Margherita all'arcolaio» alla semplice e vaga «Rosellina», il lied conserva ancora un profumo primaverile nella fluida canora linea di Felice Mendelssohn; diventa appassionatamente romantico in Roberto Schumann.

Schubert si mantiene, al fondo, sempre chiaro e sereno: il suo romanticismo non accetta il tumulto esasperato e disordinato dell'espressione, e resta fedele alla perfezione equilibrata della forma classica, anche se il sentimento è intimamente agitato e commosso. L'amore, la vita, il paesaggio, la leggenda, tutto è visto dal musicista con morbida malinconia in un disegno trasparente, a colori vivaci, e in un'atmosfera di perenne tensione verso qualcosa di infinito, di superiore, di nostalgico: l'ineffabile e inafferrabile Sehnsucht.

Parecchi di questi lieder formano dei «cicli», come, ad esempio, quello dal titolo La bella molinara, composto su poesia di Wilhelm Müller, che comprende venti lieder i quali trattano del fascino che suscita nel viandante la bellezza e l'amore della molinara; fascino che si riflette su tutto il paesaggio circostante: ruscello, mulino, fiori. Ma poiché la bella si è volta ad amare un cacciatore, tutto divien triste; il cuore del viatore si addolora e piange. Il murmure del ruscello lo culla, lo addormenta e lenisce i suoi tormenti. Il Canto del cigno comprende quattordici lieder, fra cui la celebre «Serenata»: canti d'amore e di dolore, di trepidanti ansie, di sospirosi rimpianti, di drammatici abbandoni, I primi sette sono composti su poesie di Ludwig Rellstab, gli altri sette su poesie di Arrigo Heine. Più desolato e triste il «Viaggio d'inverno», su ventiquattro poesie di Müller. Il. paesaggio gelido, l'assenza del sole, il senso della morte, la solitudine, lo sconforto, la miseria: tutto ciò forma attraverso il soffio lirico trasfiguratore dell'arte schubertiana una delle più commoventi espressioni del dolore, «una collana di lacrime», come la definì stupendamente Mary Tibaldi Chiesa.

Abbonda dovunque quell'ispirato splendore di melodia, quella cangiante fluidità delle armonie, quella quadratura scultoria del ritmo che fecero esclamare a Beethoven: «Certo in Schubert vi è la scintilla divina!» e che commuoverà Liszt fino alle lacrime.

Robert Schumann è in generale meno limpido melodista di Schubert. In lui passa il tormento della passione romantica e una maggior tendenza impressionistica a voler cogliere le lievi fuggevoli emozioni dello spirito, mentre i preludi, i commenti e le ampie chiuse pianistiche creano attorno all'espressione vocale un mondo di sogni e di poesia con una raffinata cesellatura di linguaggio che non di rado supera il linguaggio vocale

Anche Schumann raggruppa talvolta in «cicli» i suoi lieder. Uno dei più noti è quello intitolato «Amori e vita di donna», che comprende otto melodie su poesie di Alberto de Chamisso. Una donna racconta come si innamorò («Per me vederlo fu accecarmi al sol»: «Seit ich ihn gesehen»), loda le virtù dell'amato, esprime le sue ansie, parla all'anello d'oro da sposa, canta la sua gioia nel dì delle nozze, la sua emozione di giovane madre accanto alla culla del primo nato, celebra il gaudio del suo amore per il bimbo, e lo stupito dolore per la morte dello sposo.

Non meno celebre è il ciclo «Amor di poeta», composto sopra sedici poesie di Arrigo Heine. Il poeta canta il suo amore, la fanciulla che destò in lui questo profondo sentimento e tutte le emozioni che lo accompagnano. Poscia esprime il suo dolore senz'odio per l'abbandono dell'amata; le danze e i canti di lei gli frangono il cuore. Lo sa: essere abbandonato è vecchia storia; ma «quei cui l'è toccata, spezzar si sente il cor». Gli uccellini lo consigliano a perdonarle. L'ha sognata morta ed ha pianto; ma anche vivente egli la sogna, però essa non accoglie il suo ardente amore. E sogna pure un magico paese in cui il suo dolore troverebbe pace, ma col risveglio la beata dimora scompare. Desidera alfine una bara enorme per seppellirvi il suo amore.

Il primo dei due cicli ci conduce dall'espressione lirica attraverso a successivi mutamenti all'espressione tragica. Questo secondo ciclo è più romanticamente concitato; più liberamente lirico è invece il ciclo de «I Mirti» che comprende ventisei liriche amorose su poesie di vari autori, le quali prendono vita dalle più differenti emozioni, talune attribuite all'uomo, altre alla donna amante. Ma talune anche inneggiano al vino, alla libertà, ed anche a Dio.

Con Giovanni Brahms la lirica del lied in generale appare tessuta di una più ingenua grazia nell'intendimento di spaziare per i regni ideali di una poesia più intima e raccolta. Ugo Wolf al confronto ci si mostra tristemente drammatico e tormentatissimo nell'instabile incertezza dei ritmi, delle armonie e del canto. Romantico, melodico, poetico, con una ritmica derivante talora dall'elemento folkloristico, Edward Grieg appare meno originale degli altri se pur sempre facile ed attraente.

La lirica vocale russa accentua il carattere folkloristico, anche là dove, come spesso in Mussorgski, il folklorismo è soltanto un modello sul quale il compositore plasma creazioni proprie di profondità fantastica intensa.

Le liriche di Debussy rappresentano il momento impressionista della lirica vocale da camera. Sono pagine vaporose, ove la parte pianistica non è un «accompagnamento al canto» ma è l'espressione di una stupita e sognante poesia di cui il canto medesimo è una parte. Musica evocatrice e suggestiva, che crea atmosfere di penombre misteriose, di profumi inebrianti, dove le armonie, con la loro preziosità e il loro sfumare di modulazione in modulazione, giuocano la parte più importante in uno stile personalissimo.

Degli italiani Giuseppe Martucci si riallaccia nelle sue liriche a Schumann e a Brahms. Più personali e intensamente poetiche le liriche di Ildebrando Pizzetti («I pastori», «La pesca dell'anello» ecc.) e di Ottorino Respighi («Nevicata», «Nebbia» ecc.).

Non possiamo prendere in considerazione Denza, Rotoli e gli altri romanzisti italiani dell'Ottocento, troppo frequentemente imitatori dei francesi, e, quel ch'è peggio, troppo spesso inquinati da enfasi e da banalità melodiche, da goffaggine pianistica, e da sentimentalismo pletorico.

«La musica proibita» di Stanislao Gastaldon, «La mia bandiera» di Augusto Rotoli, «O begli occhi di fata» di Luigi Denza, la «Serenata» di Enrico Toselli ed anche molte romanze di Francesco Paolo Tosti, sono tutte più o meno affette da questi mali. «L'ideale» si regge, come disegno vocale, un po' meglio, ma casca anch'esso nel banalismo sentimentale dall'invocazione «Torna, caro ideal» alla fine.

Infinitamente meglio, per spirito ritmico e gustosa armonistica, le canzoni di intonazione popolare, specialmente napoletane; così «Funiculì, funiculà» di Denza, come «Serenata napulitana» ed altre di Mario Costa, l'autore della graziosa ed elegante pantomima «L'histoire d'un Pierrot», e (anche meglio per spigliatezza originale) «Marechiaro» di Tosti.

Fra le canzoni popolari, talune vivaci e graziose sono di origine toscana (Stornelli), o piemontesi (bellissime quelle raccolte da Leone Sinigaglia), e veneziane (fra cui celebre «La biondina in gondoleta»).

Capitolo XIII: La musica descrittiva, a programma e impressionistica [Indice]

La parola è un binario sul quale l'intelligenza musicale dell'ascoltatore si appoggia con sufficiente sicurezza, sia che la musica ne interpreti il significato, o il suono, o lo spirito, o l'emozione e le relative reazioni da essa parola suscitate. Diciamo «l'intelligenza musicale», chè la sensibilità è altra cosa e fa a meno di qualunque significazione esatta. La sensibilità ci porta diritti all'essenziale, alla poesia, senza bisogno di sapere «che cosa vuol dire» una data musica. Ad ogni modo non si deve negare che la parola può essere una chiave che apre la porta della poesia a chi non abbia la facoltà (innata, o dovuta alla lunga consuetudine) di arrivarci di colpo da solo. Quando la parola manca, l'ascoltatore si trova talora un po' sperduto e, se non è musicista d'istinto o di professione, naviga come in un mare di nebbie opache, con la tendenza a voler precisare l'imprecisabile, a voler definire l'indefinibile, a voler materializzare ciò che è puro spirito.

Il mondo musicale sembra schiarirsi allorché la musica acquista, più o meno largamente, carattere descrittivo. E qui bisogna intendersi: se la descrizione vuol riprodurre un gesto o un fenomeno nella sua materialità, allora la poesia ne esula, e la musica non è più musica ma suono onomatopeico. «Dès l'instant - scrive il Riemann - où le cri de joie ou de douleur que l'homme profère, passe a l'etat de chant proprement dit, en d'autres termes dès l'instant où des sons d'intonation differente et nettement appréciable s'opposent les uns aux autres, ce cri cesse d'être l'expression pure et simple d'une sensation. Il devient l'élément premier d'une formation artìstique»[35]. Analogamente: al momento in cui la realtà materiale d'un fenomeno si traduce in suoni ordinati entro una determinata atmosfera armonica, esso diventa musica, diventa arte, diventa poesia.

Rifacciamoci a qualche esempio molto antico per intenderci. Nella musica del medioevo troviamo cacce e battaglie come soggetti frequenti di composizioni descrittive. Celebre è la Battaglia di Marignano di Clemente Jannequin, in cui l'autore, per mezzo delle sole voci umane, senza l'aiuto di un solo strumento, si sforza di imitare il rombo dei cannoni, il cozzo delle spade e gli squilli delle trombe di guerra. E ci sono «battaglie» strumentali, come quella per liuto di Donino Garsi in cui si imitano i tamburi e le trombe che comandano l'assalto e la ritirata, e la marcia suonata dai pifferi, e le canzoni dei soldati e le trombe «per inanimire gli scaramuzzanti» e per annunziare la vittoria. Nella Caccia di Gherardellus de Florentia si imitano con le voci i cacciatori che aizzano i loro cani dietro la preda, ed i richiami dei corni da caccia. E potremmo continuare, ma crediamo sia inutile perché è quasi impossibile una occasione di udire composizioni simili, e perché ad ogni modo la musicalità e la poesia vi sono piuttosto costrette in termini assai angusti. Sono composizioni che hanno più valore di documento storico circa i gusti del tempo, che positivo valore d'arte. Pure c'è già la traduzione di suoni disordinati in suoni ordinati, in musica, in quadri poetici, per quanto incompiuti.

Diamo ora qualche esempio più recente e che più facilmente può capitare di udire. Nel 2° quadro della Germania di Franchetti, allorché Federico colpisce con uno schiaffo Worms, in orchestra si sente un colpo di piatti: la risonanza è semplicemente grottesca perché vuol tradurre, esagerandolo, un rumore con un altro rumore. Quando Minnie nel 1° atto de La Fanciulla del West di Puccini dice a Jack «me ne stavo sotto al tavolino aspettando cader qualche moneta», e a questo punto il triangolo fa sentire un leggero tintinno metallico, l'imitazione del suono è già più trasfigurata nell'evocazione leggerissima, di un ricordo: la materialità del suono è superata dalla poesia. Altra cosa è dunque il descrittivismo veristico, altra il descrittivismo come trasfigurazione poetica: il primo non ha che un valore meccanico, il secondo rientra nel quadro dell'arte. Ma ci può essere un descrittivismo tecnico che suggerisce quello poetico. È, in parte almeno, il caso di Fonderia d'acciaio di Alessandro Mossolow. Si tratta di una stilizzazione della vita di un'officina, ottenuta con una bravura strumentalmente sbalorditiva. Girare di ruote, cigolii e stridori metallici, percuotere di magli in ritmo cadenzato, sibili di colate, soffi di vapore: tutto è, più che imitato, riprodotto alla perfezione, ma dentro una norma ritmica. Perciò vi insiste un elemento musicale atto a trasfigurare ed evocare l'attività intensa degli operai, la superiore intelligenza che regola e anima il movimento delle macchine, quel qualche cosa di violento, di fatale e quasi di magico che afferra l'animo di chi entra in un'officina meccanica in funzione. In questa atmosfera il tema dei corni e dei tromboni è quasi un canto rude e fiero che inneggia alla poesia del lavoro. Invece nel «Mi par d'esser colla testa in un'orrida fucina» del Barbiere rossiniano, l'effetto meccanico è totalmente musicalizzato.

Apparentemente più lirico, in realtà più freddo e meccanico della Fonderia di Mossolow, è il Pacific 231 di Arturo Honegger, in cui si vuol descrivere la corsa di un treno; ma le emozioni e la poesia del viaggio rimangono pressoché assenti. La locomotiva dapprima col suo queto ansare, poi con gli sforzi dello stantuffo per muoversi, il crescere di velocità, è vista quasi in una espressione ritmica esteriore, come un organismo vivente; ma tutto resta allo stato meccanico in un'abile costruzione politonale, senza che la scintilla della commozione vi penetri. L'intenzione polemica per la pura «obbiettività» materiale contro ogni tendenza espressiva o romantica finisce per far ammirare senza dubbio la bravura tecnica del compositore, ma lo spirito non è toccato da alcun senso di poesia. Il Rugby, in cui Honegger descrive il duro giuoco inglese in una precisione automatica di mosse e di gesti, è anch'esso una composizione fredda e disumanata per eccessiva meccanicità sonora. In Mossolow il ritmo delle macchine diventa ritmo umano; in Honegger la ritmicità meccanica resta puramente meccanica senz'anima.

Risaliamo ai compositori del primo ottocento: gli episodi descrittivi (limitati, s'intende, alle musiche per melodramma) sono brevi e generalmente riguardanti descrizioni di temporali, oppure intesi a sottolineare qualche gesto o qualche manifestazione fisica o miracolosa. In generale si tratta di un descrittivismo all'acqua di rose: accenni imitativi sempre di una musicalità ben spiegata tanto da non poter passare per onomatopee o per tratti veristici, salvo qualche rullo di timpani o qualche colpo di gran cassa e di piatti per raffigurare tuoni e fulmini, scorribande e scalette di violini e di flauti per lampi o per urli di vento. Anche l'atto di stracciare un foglio, come fa Renato nel 3° atto di Un ballo in maschera allorché straccia i documenti coi quali avrebbe potuto compromettere Samuel e Tom, da luogo a un breve energico accenno descrittivo; nel caso in parola, rapide violente scalette seguite da uno scatto secco. I forti colpi alla porta del castello che atterriscono Macbeth dopo l'uccisione di Duncano, nel 1° atto del Macbeth di Verdi, si traducono in tre note fortemente accentate, precedute ciascuna da un gruppetto di tre note precipitate, e il loro tremendo risuonare e il loro ripetersi si risolve in un enetto psicologico di spavento anziché in un fatto veristico; effetto che Verdi riprende da Mozart (il bussare del Commendatore nel finale del Don Giovanni).

Di carattere pure psicologico, ma nettamente comico, sono gli squilli di tromba allorché Figaro soffia nell'occhio insaponato di Don Bartolo del Barbiere rossiniano. Un analogo effetto tragicomico troviamo nell'ultimo atto del Don Giovanni dì Mozart allorché Leporello imita i passi della statua del Commendatore. Ricordiamo anche l'imitazione ritmica del saltare delle rane del ronzare delle mosche che Händel fa nell'Israele in Egitto.

I «temporali» sono fra le descrizioni più frequenti dell'operistica d'ogni tempo. Badiamo di non prendere troppo sul serio come temporale quello del Barbiere di Rossini: si tratta soltanto di un acquazzone estivo, con qualche lampo e tuono e qualche raffica di vento, sì, ma nulla che faccia minimamente rabbrividire. Un vero temporale «da commedia». Molto diversi quelli della sinfonia, e dell'ultimo atto del Guglielmo Tell, o quello del Rigoletto, verdiano. In questi, e nell'ultimo specialmente, preceduto da sinistri lamenti e da silenzi minacciosi, seguito da uno scatenarsi ansimante di ritmi violenti, le cose volgono veramente al tragico. Cupo e impetuoso anche quello, per quanto breve, con cui si inizia La Walkiria di Wagner, con quelle sue raffiche basse, quel martellare insistente di una sola nota centrale (pedale), lo squillare fatale negli ottoni del tema del Dio Donner, e lo schianto della folgore. Tragicissimo il temporale dell'Otello di Verdi, temporale e tempesta di mare insieme, ondeggiare di marosi negli archi, urla e gemiti della folla, scrosci, strida e clangori paurosi di istrumenti: la natura sconvolta con un senso terrificante: e tutto ciò - si noti bene - senza cessare un momento dall'essere «musica», senza nessuna concessione veristica. Né concessioni veristiche troviamo nell'uragano della VI Sinfonia (Pastorale) di Beethoven, pure così pieno di suggerimenti drammatici, ma così potente pei suoi valori puramente musicali più che per quelli volutamente imitativi. Crescendi e diminuendi, alternative di pianissimi e di fortissimi, tremoli e trilli, divisioni dispari contro pari (cinque note dei violoncelli contro quattro dei contrabassi), rapidi e brevissimi arpeggi acuti di violini, qualche gemito di clarinetti e oboi, note picchiettate degli archi, moderato uso di dissonanze, due (dico due) scale cromatiche, e i timpani (si noti bene) usati con parsimonia, nei tortissimi, e non più di quello che Beethoven medesimo faccia in qualunque altra composizione sinfonica. Anzi nella VII e nella IX sinfonia i timpani, senza nessuna intenzione imitativa, sono usati assai di più, e completamente allo scoperto, cosa che nel temporale della VI Beethoven non fa mai. La suggestione, la verità sono ottenute dunque, anche in questo caso (e assai più che non in Verdi e nello stesso Rossini) con elementi del tutto psicologici e musicali, e si direbbe che i mezzucci più materialistici siano stati proprio intenzionalmente eliminati.

Ma la Pastorale (che è del 1808) è una sinfonia quasi a programma: 1° tempo: «Dolci sensazioni arrivando in campagna»; 2° tempo: «Scena in riva al ruscello» (è nella fine di questo tempo che si trovano gli unici elementi pseudoveristici, ma ben musicalizzati (intonazione, ritmo e perfino contrappunto): l'imitazione del gorgheggio dell'usignolo (flauto), della quaglia (oboe), e del cuculo (2 clarinetti) = otto battute in tutto !; 3° tempo: «Danza di contadini»; 4° tempo: «Uragano»; 5° tempo: «Rendimento di grazie del pastore dopo la tempesta». Tranne che per l'episodio del temporale, per il resto si tratta di un programma poetico; non descrittivo. «Più descrizione dei sentimenti che pittura», com'è detto sull'originale manoscritto della parte per il 1° violino. E nei libri di schizzi di Beethoven, a proposito della Pastorale si legge: «Qualsiasi pittura in musica istrumentale se spinta troppo lungi è un errore». Ed anche «Sinfonia pastorale: nessuna pittura, ma qualcosa in cui sono espresse le emozioni che sono suscitate negli uomini dal piacere della campagna, in cui sono esposti alcuni sentimenti di vita campestre». Ecco perché abbiamo detto «quasi sinfonia a programma», poiché la vera sinfonia a programma ha carattere più descrittivo e particolareggiato, così da richiedere non una sola indicazione generica all'inizio dei tempi, ma molte indicazioni analitiche lungo ogni tempo. Ed ecco perché questa sinfonia, che si propone di suscitare solo sensazioni ed emozioni campestri, può essere interpretata bene anche da una figurazione mitico-umoristica come quella creata da Walt Disney in «Fantasia», senza che ciò suoni offesa al genio di Beethoven.

Faremmo torto al lettore se aggiungessimo commenti nostri alle dichiarazioni così esplicite di Beethoven. Ascoltando la Pastorale non c'è che da abbandonarsi alla suggestione poetica delle emozioni create dalla musica su l'indirizzo generico segnato dal titolo a ciascun tempo. E se volessimo anche fare a meno di ricordare le dichiarazioni beethoveniane, noi ci accorgeremmo che la Pastorale è in grado di comunicarci ugualmente la sua suggestione idillica, oltre alle consuete emozioni sinfoniche dateci da ogni altra delle sue sinfonie per i suoi valori sonori, timbrici, melodici, ritmici e architettonici.

Del resto, tutte le composizioni che hanno per titolo «Pastorale» si propongono di ridestare in noi le sensazioni calme e serene della campagna, quando non mirano più specificatamente all'imitazione di una zampognata di pastori, coi ritmi, le melodie e le armonie caratteristiche. A quest'ultimo tipo appartengono, per esempio, la Pastorale per organo di Bernardo Pasquini, la Pastorale in do di Domenico Zipoli, col lungo pedale del do basso che ricorda il «bordone» delle zampegne montanare, le graziose Pastorali di Domenico Scarlatti (quella in re minore, quella in fa maggiore, e quella in do maggiore), la delicata «Sinfonia Pastorale» del Messia di Händel, e quella così altamente mistica dell'VIII Concerto grosso di Arcangelo Corelli.

Su la via della sinfonia a programma è l'ouverture, specie di prefazione sonora premessa a drammi o a melodrammi (in quest'ultimo caso il termine è particolarmente usato all'estero, di dove è poi entrato in Italia, benché i nostri compositori, fino a Verdi e a Mascagni, abbiano seguitato a dire sinfonia, che è termine nostro più antico). Oppure si tratta di composizione svolta su un soggetto o personaggio drammatico di cui si vogliono esprimere musicalmente gli avvenimenti o il carattere. Così, per citarne alcune delle più celebri, il Coriolano, o l'Egmont di Beethoven, La grotta di Fingal, o La bella Melusina di Mendelssohn.

Ora, che ascoltando la musica del Coriolano si assista a una lotta fra il principio del bene e quello del male; che nell'Egmont ci si manifesti la lotta disperata del popolo fiammingo e del suo condottiero per la libertà, e l'immolarsi dell'eroe; che ne La grotta di Fingal si odano voci di fantasmi eroici e squilli di tromba di un mondo leggendario remoto; che la vicenda de La bella Melusina riguardi la donna che divenne Ondina, può essere utile a saperlo, ma non è indispensabile ai fini di un felice accostamento alla musica. Essa si impone, indipendentemente da ogni programma, per la genialità delle melodie, per il gusto dell'armonizzazione e dello strumentale, per i contrasti di timbri, di colori, di stati lirici o drammatici, per l'architettura organica dell'insieme, e per mill'altri elementi che affascinano lo spirito di chi ascolta e sfuggono all'analisi. E ciò può ripetersi di ogni altra composizione programmatica che non sia un catalogo freddo di temi logici, ma una cosa viva, organica e musicale. In realtà gli accordi ferrei con cui si apre l'Egmont possono ben parlarci di una volontà eroica, ma che essa sia quella di Egmont piuttosto che di Francesco Ferruccio, nulla ce lo precisa. Noi possiamo sentire l'elemento acqua nel disegno che si snoda all'inizio de La bella Melusina (e Wagner se n'è servito appunto nell'Oro del Reno per dipingere l'ambiente in cui nuotano le Ondine), ma che quel disegno e tutto ciò che segue riguardi Melusina piuttosto che la nascita di Venere, è perfettamente indifferente di fronte alla bellezza musicale della creazione. Tutto è lieve nell''ouverture al Sogno di una notte d'estate dello stesso Mendelssohn, e più ancora nello «Scherzo»; ma che tutto ciò si riferisca agli aerei spiriti della commedia shakespeariana piuttosto che ad altri elfi e spiritelli di qualsiasi altra fiaba, è del pari imprecisato e indifferente davanti al miracolo di questa musica che sembra volare come un soffio lieve.

Consideriamo una delle più belle ouvertures italiane, quella della Cleopatra di Luigi Mancinelli. Forse che se non lo sapessimo penseremmo alla fatale regina egiziana? E c'è qualcuno forse che, sapendone il riferimento, ci pensi mentre ascolta questa ouverture? Non credo. Noi sentiamo un tema profondo che sale a poco a poco e che gli archi riprendono l'uno dall'altro contrapponendone fra loro il disegno in fasi opposte, formando un intreccio contrappuntistico vaghissimo, fino a che s'inciela nelle note sovracute ppp dei violini. Col medesimo sistema di intreccio viene ripreso da tutta l'orchestra energicamente, passa sul tremolo dei violini e dei flauti nelle viole e nei violoncelli allacciandosi coi clarinetti e con gli oboi, fino a che sfocia in una nuova dolce melodia proposta dall'oboe e ripresa da altri istrumenti. È questa una melodia elegante, sinuosa, sensuale in cui, sapendo qual'è l'argomento della ouverture, potremmo raffigurare l'arte seduttrice amorosa di Cleopatra; non sapendolo resta sempre un motivo ricco di seduzione. Tutta la composizione consiste nello sviluppo e nella sovrapposizione di questi due temi e di una variante allargata del secondo, fra cui si interpongono a un certo momento anche squilli guerrieri di tromba, in una costruzione solida, nitida, commossa, musicalmente armoniosa, di cui sarebbe difficile trovare un programma letterario qualsiasi; e probabilmente, salvo che per la scelta dei motivi principali, l'autore non ci ha mai pensato. E noi sentiamo che se invece di trattarsi di Cleopatra e di Antonio si trattasse, ad esempio, di Enea e di Didone, sarebbe perfettamente la stessa cosa. Anche in questo caso, come in quelli citati, e in quelli che potremmo ed è inutile che continuiamo a citare, contano solo la espressività puramente musicale dei motivi, gli effetti dinamici, agogici[36], drammatici e lirici che derivano dai loro sviluppi, dai loro intrecci, dai colori strumentali, e la bellezza della struttura sinfonica.

Dalla ouverture al poema sinfonico il passo è breve: si tratta solo di rendere il programma più ampio, dettagliato, e più minutamente descrittivo. Ci troviamo allora di fronte, per esempio, alle Storie bibliche di Giovanni Kuhnau, o al Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo di Bach, prime forme di musica programmatica, che in tempi più recenti conducono appunto al poema sinfonico a programma, qual'è, ad esempio, la Sinfonia fantastica di Berlioz, in cui ciascuna parte reca le seguenti indicazioni: 1. Sogni; 2. Un ballo; 3. Scena romantica; 4. Marcia al supplizio; 5. Sogno d'una notte del Sabba; e i titoli si riferiscono a un ipotetico artista suicida, che piombato per effetto di un veleno in un sogno morboso, immagina di avere ucciso la donna amata, di essere stato per ciò giustiziato e travolto in una ridda macabra di spettri. La donna amata gli appare dovunque con un motivo dolce e malinconico che ritorna insistente (l'Idea fissa, o tema ciclico) ogni volta ch'egli la vede o pensa a lei: poeticamente in sogno; fra le eleganti spire di un valzer a una festa da ballo; in campagna, fra lo stormire delle fronde e le danze dei pastori. Nella fantasticheria bizzarra e macabra del sonno oppiaceo, in cui l'innamorato crede di essere condotto al supplizio, il tema risuona spezzato seccamente allorché sogna il colpo di scure che lo uccide; poi ancora, in forma volgare, in mezzo alla ridda grottesca del Sabba infernale. Ma il programma per fortuna non è preso troppo alla lettera, e la fantasia del musicista, in forma romanticissima, crea un'opera musicale sinfonica atta a suscitare emozioni puramente musicali anche in chi non sappia nulla del soggetto. Lo stesso si può dire per l'Aroldo. Berlioz ha un mondo poetico tutto suo e, non ostante le molte novità di stile e di tecnica, possiede un senso dell'equilibrio che gli permette di costruire solidi e mirabili architetture sonore atte a reggersi per virtù propria al di sopra di ogni presupposizione didascalica.

Non così si può dire per il Tasso, per il Mezeppa e per gli altri poemi sinfonici di Franz Liszt, dove il programma è preso troppo alla lettera e origina opere frammentarie, slegate e spesso musicalmente vuote anche conoscendo i suggerimenti del programma. Talvolta però vi appaiono anche oasi liriche, e temi genialmente e liberamente lirici a dispetto del programma. È il caso degli ammirevoli Preludi, ove la vita come preludio alla morte gli suggerisce una frase principale per corni e violini in sordina, sostenuti dalle arpe, di una poesia toccante. In questi casi il programma interessa non l'uditore come spiegazione della musica, ma il compositore come stimolo alla fantasia. Ma come lo stimolo letterario è diventato musica, possiamo star certi ch'esso è irriconoscibile, trasfigurato. Ed era proprio Francesco Liszt a scrivere, a proposito dell'Aroldo di Berlioz: «La parola distruggerebbe ogni incanto, profanerebbe i sentimenti e spezzerebbe le tenui fibre dell'anima, la quale si rivela in questa forma precisamente perché non può esprimersi per mezzo di parole, d'immagini e di concetti». Sono parole di condanna di ogni chiarimento verbale a proposito della musica a programma.

Più organico appare Riccardo Strauss nei suoi poemi sinfonici, e specialmente in Don Giovanni, in Till Eulenspiegel, in Morte e Trasfigurazione e nella Sinfonia domestica. La sua audacia negli sviluppi armonici e contrappuntistici, audacia che lo spinge ad accavallamenti di temi e di armonie ch'egli ottiene portando le regole fino agli estremi confini del possibile, senza preoccuparsi di eventuali urti dissonanti, prontamente risolti, con abilità che ha del prodigioso, richiede da parte dell'uditore in qualche momento una maggiore attenzione. Ma la strumentazione, plastica e nitida anche nella ricerca degli impasti di colore più impensati, anche negli urti più dissonanti, permette di chiarire quasi sempre la densa trama sinfonica. Talvolta non è indispensabile avere presente i particolari del programma, perché, come accade in Don Giovanni, la suggestione sensuale, spesso fino all'esasperazione morbosa, dei motivi e dei colori strumentali è sufficiente ad avvincere fantasia, anima e sensi dell'uditore. Anche Morte e Trasfigurazione riesce abbastanza chiaro e affascinante. Ma in Till Eulenspiegel, nella Sinfonia domestica, in Don Chisciotte e negli altri poemi la frattura e la successione degli avvenimenti è seguita dalla musica nei dettagli per modo che i chiarimenti programmatici si rendono utili. Diciamo «utili», non indispensabili, poiché, come al solito, in tutti i grandi musicisti gli effetti di antitesi, i motivi burleschi, gli abbandoni lirici, gli scatti drammatici, la fantasmagoria dei disegni tematici e della potente tavolozza orchestrale creano ugualmente un incanto perfettamente musicale all'infuori degli avvenimenti illustrati.

In fatto di «musica descrittiva» Wagner ci presenta esempi cospicui. Basterà ricordare i più celebri: il fragore meccanico della fucina dei Nibelunghi, in cui il martellamento su le incudini è stilizzato in un tema ritmico a significazione costante. Ricordiamo il gracidare del rospo e lo strisciare del drago; la tempesta scatenata da Donner nel finale de L'oro del Reno e quella, già ricordata, con cui si apre La Walkiria; il sorgere dell'arcobaleno in un incurvarsi ampio di note luminose, pure nel finale dell'Oro, e la chiarità dell'alba nel prologo del Crepuscolo degli Dei in un disegno calmo e trasparente. L'incantesimo del fuoco in un misterioso brusìo degli archi, in un guizzare degli strumentini, in uno scintillare dei sistri, campanelli e triangoli, nel finale de La Walkiria. E soprattutto l'incantesimo della foresta del 2° atto del Sigfrido, dove lo stormire delle fronde e il canto degli uccelli, in una perfetta stilizzazione e trasfigurazione musicale (disegni, armonia, melodie, timbri) creano un'atmosfera di poesia altissima. Altrettanto dicasi della Cavalcata delle Walkirie dai ritmi balzanti intonati con senso eroico-guerresco dagli ottoni in una ridda favolosa tra lo scroscio dei nembi tempestosi.

In tutto ciò vi è, senza dubbio, intenzione descrittiva, ma partente da un principio poetico e musicale insieme, al quale il compositore è sempre fedele. È, dunque, nei valori espressivi musicali di queste pagine che noi dobbiamo ricercare la poesia «descrittiva» (diciamola così per intenderci, ben lontani da ogni allusione verista).

Altrettanto dicasi per la citata allucinazione di Boris nell'opera di Mussorgski, della quale s'è fatto cenno nel capitolo X.

L'elemento fiabesco, riguardante fate, elfi ed altri spiriti lievi della terra e dell'aria, oltre che nel citato Sogno d'una notte d'estate di Mendelssohn, trova altre delicate pitture nella «Danza degli spiriti beati» dell'Orfeo di Gluck (già ricordata al capitolo VI) e nella «Danza delle Silfidi» de La dannazione di Faust di Berlioz, dove alla leggerezza dell'accompagnamento, alla diafana trasparenza della melodia trasognata, si aggiunge un pedale basso dei violoncelli in sordina (sono la bellezza di 111 battute di un re continuamente tenuto) con effetto di incantamento magico stranissimo. E vogliamo anche ricordare la «Danza delle ondine» della Loreley di Catalani, in cui le note puntate e staccate da brevi pause e l'ondeggiamento della linea melodica eseguita dai violini in sordina danno l'impronta di una elegante e voluttuosa fantasia fiabesca; e la «Canzone e danzetta delle fate» nell'ultimo atto del verdiano Falstaff. Anche in questa la levità delle note ribattute dai violini in sordina, l'ondeggiamento dei violoncelli, il molle disegno di danza che si sposa al coro, le misteriose voci di questo, producono una sensazione di eterea incorporeità.

Al fiabesco diabolico appartiene invece la «Corsa all'abisso» de La dannazione di Faust: un ritmo impetuoso e ostinato di cavalcata, quasi un «pedale ritmico», procede fra melodie bieche, fra grida e cachinni sinistri e scrosci di folgore; mentre un coro di contadini terrorizzati eleva una preghiera triste e grave.

Le descrizioni musicali demoniache non potevano non toccare un soggetto tanto noto e trattato anche da poeti e da pittori, come la «danza macabra», il sorgere a mezzanotte di scheletri e larve di morti per una danza fantastica. Fra le più note è Una notte sul monte calvo di Mussorgski. «Rumori sotterranei di voci soprannaturali - Apparizione degli spiriti delle tenebre e del dio Cernobog - Glorificazione di Cernobog - Sabba. Nel colmo del Sabba suona da lontano la campana della chiesa di un villaggio che disperde gli spiriti delle tenebre. Spunta il giorno». Questa la trama del poema sinfonico che la musica sottolinea con vigore di tinte davvero diaboliche. Quando la campana suona, un disegno lamentoso dei violini dice il dolore degli spiriti per la fine del Sabba.

Non meno demoniaca e sinistra è la Danza macabra di Camillo Saint-Saëns. Al tocco della mezzanotte misteriosi suoni isolati annunziano il sorgere dei morti. Un violino scordato accenna aspro ad un ritmo di danza, che subito è accettato. Al motivo ballonzolante e grottesco di danza, cui lo xilofono coi suoi suoni legnosi dà l'effetto dello scricchiolìo di ossa dinoccolate, si intercala un motivo di valzer lento, triste e lamentoso. Folate di vento ululano e trasportano per aria la disperata congrega. Una frase patetica, piena di nostalgia, quasi un rimpianto della vita, si leva da un violino cui fa séguito un'eco di gemiti ripetuti e dolenti. Ma il violino scordato e sinistro riprende il suo invito alla danza, fino a che una tromba lontana suona, piano, l'ordine di rientrare nelle tombe. Un mormorio di malumore, un breve motivo dolente, un accenno fuggevole al tema di danza, e tutto scompare. La composizione è di tale chiarezza espressiva che anche senza bisogno di commenti si impone, oltre che per i suoi valori suggestivi, specialmente (come al solito), per i suoi valori costruttivi puramente musicali.

Poiché siamo in argomento fantastico-magico, merita che ricordiamo anche L'apprendista stregone di Paolo Dukas. L'apprendista sbaglia la formula magica e produce una specie di diluvio; si prova a rompere la magica scopa, ed è peggio: cateratte su cateratte; fino a che interviene il maestro il quale arresta il maleficio. Amalgama di magico, di descrittivo e di comico. Dal punto di vista musicale, su lo sfondo delle evocazioni magiche e del crescente scroscio delle acque che sembrano sgorgare da ogni dove (e i particolari descrittivi sono efficacemente suggestivi, senza perdere in musicalità), interessa lo sviluppo sinfonico del motivo quasi narrativo dell'avventura: una specie di marcia-danza di trionfo delle forze occulte sull'inesperienza dell'allievo. Questo motivo è ampliato, prima lento, poi energico, e infine cantato a piena orchestra. Su la fine radi limpidi tintinni: le ultime gocciole armoniose come cadessero dentro vasche d'argento. Poi una breve cadenza-sfuriata per chiudere: un rabbuffo del maestro? Un solenne scapaccione? Una porta sbatacchiata? Quel che volete; tanto, ogni descrittività ha un limite, e l'interpretazione di certi particolari è del tutto soggettiva; il quadro descrittivamente pittoresco e comicamente divertente, è anche musicalmente pieno di dinamismo ritmico e strumentale: ed è questo ciò che più conta.

Un gioiello di umorismo descrittivo è pure la Marcia funebre in morte d'una marionetta di Carlo Gounod. Dopo avere ruotato vorticosamente, la marionetta meccanica si rompe di schianto: fragore di rotelle metalliche e di fili spezzati cui segue un silenzio di stupore. Poi le altre marionette raccolgono la defunta, si compongono in corteo e iniziano la marcia. Ora la musica, nei movimenti stecchiti e negli sgambetti, raffigura il modo di camminare «burattinesco». Ogni tanto si odono lamenti che hanno anch'essi del piagnisteo comico. Ma le marionette non resistono alla voglia di saltare, e il motivo della marcia si cambia in un balletto, per ritornare poi alla compostezza e all'umoristica malinconia di prima.

Non daremo troppa importanza come pezzi descrittivi alla Ronde des Lutins di Antonio Bazzini o a Le Streghe di Niccolò Paganini. Come le marionette furono per Gounod un pretesto per una delicata pagina di musica, così i folletti e le streghe sono stati per Bazzini e Paganini un pretesto per fare della musica di bravura, del virtuosismo, per quanto con quadratura di forma e con buon gusto. E pure bravura strumentale sono le imitazioni del verso dell'asino nel 1° atto de La Fanciulla del West e nella Suor Angelica di Puccini, o ne La farsa amorosa di Zandonai.

Imitazioni assai musicalizzate e ben inquadrate in un vasto disegno sonoro sono l'Usignolo in amore di Francesco Couperin, il Cucù di Luigi Daquin, La gallina di Filippo Rameau, La colomba di Jacques de Gallot, riportate a vita musicale più moderna nella suite «Gli uccelli» di Ottorino Respighi; e gli uccelletti che con gioiosa musicalità trillano e gorgheggiano nel quadro delle Quattro stagioni di Antonio Vivaldi che rappresenta «La Primavera». Più veristicamente vivo, ma sempre entro un ambito di trasfigurazione musicale, «Il calabrone» che Nicola Rimski-Korsakoff incluse nell'opera Zar Saltan: musicalizzato nel suo fastidioso ronzio, nel suo picchiettare contro i vetri, e perfino nel suo volar fuori dalla finestra.

La descrizione perde in materialità e acquista un più ampio respiro poetico quando il musicista si accosta a un fenomeno naturale. Egli è tratto allora ad esprimere coi suoni il sentimento della Natura, che non è il sentimento di questa o quella cascata, o foresta, od altro, ma l'insieme delle emozioni estetiche suggerite dal fenomeno fisico naturale preso a soggetto. Il quale fenomeno fisico naturale diventa artistico quando dal concreto particolare lo spirito dell'artista sa sollevarsi e ci solleva all'universale e spirituale.

Soffermiamoci, ad esempio, su un fenomeno meraviglioso ed anche spiritualmente suggestivo come l'alba. Già vedemmo come un Monteverdi (cap. XII) ha trasfigurato questo fenomeno in una serie di stati psicologici, e come Puccini nell' «alba di Roma» (3° atto della Tosca) abbia creato attorno ai rintocchi dell'Ave Maria un così delicato alone di pace mediante la vaghezza misteriosa e sfumata dei disegni e delle fluttuazioni armoniche degli archi e i rapporti tonali delle campane medesime (cap. X).

L' «Inno del Sole» nell'Iris di Mascagni è di proporzioni più vaste, quasi una sinfonia con coro, e per di più a programma: «La notte - I primi albori - I fiori - L'aurora - I primi raggi - Il sole - Il giorno». Tutto ciò trova in orchestra una gradazione di colori e di intensità che dalle note profonde e piattissimo dei contrabassi sale a poco a poco, attraverso al canto centrale patetico dei violoncelli e dei corni, ai suoni sovracuti degli ottavini e al fortissimo di tutta l'orchestra e del coro, con un intermezzo acuto e sfumato dei violini all'episodio dei fiori. Ma non crediate che, se non lo sapessimo dal libretto, noi riconosceremmo in quegli accordi delicati i fiori, mentre è più facile, per semplice associazione di idee, collegare il crescendo di sonorità al crescendo di luminosità del giorno. Sono dunque ancora una volta stati d'animo che la musica crea in un quadro musicalmente ampio e ben costruito; stati d'animo ai quali noi per richiamo d'immagini visive (suggerite anche dalla crescente luce su la scena) associamo l'idea dell'alba e del trionfo della luce.

Allo stesso modo noi associamo la sensazione della pace campestre ai due primi tempi della Sinfonia Pastorale di Beethoven, o l'idea della glorificazione d'un eroe alla «Marcia funebre» della III Sinfonia, o a quella del Crepuscolo di Wagner. E un senso di poesia dell'infinito emana anche dagli elementi descrittivi del poemetto Nelle steppe dell'Asia centrale di Alessandro Borodine: il lungo pedale acuto senza colore che dà l'impressione di una distesa uniforme, interminata, e la nenia mesta, e il passo di carovana accompagnato da una specie di marcia che si avvicina e dilegua su lo stesso eterno pedale: malinconia delle solitudini desolate ove la vita cammina verso ignote mète.

Aspetti descrittivi troviamo pure nella Sinfonia del Guglielmo Tell di Rossini: il dolente pianto del popolo oppresso che nel canto dei violoncelli assume aspetti quasi di preghiera e di speranza; l'uragano, simbolo della rivolta popolare che scuote e scrolla ogni cosa; la serena attesa nell'idillio alpestre fra il suono malinconico del ranz e il gorgheggio dell'usignolo: e infine gli squilli che annunziano la vittoria, la cavalcata eroica dei liberatori, il chiacchierio del popolo festante e le sue esplosioni di entusiasmo: tutto un poema di vita, di fede, d'amore e di gloria in quattro quadri. Come il 3° tempo della sinfonia del Guglielmo Tell rievoca alla nostra fantasia il paesaggio alpestre svizzero, cosi il preludio del 3° atto dell'Aida rievoca la notte lunare incantata egiziana presso il Nilo. E nel lento oscillio acuto dei violini un perenne calmo fluire delle acque, mentre il canto aereo del flauto dona a questo scorrere d'acqua fluviale un colore nettamente esotico orientale ed arcaico e un senso di mistero notturno che le invocazioni interne delle sacerdotesse accentuano.

Fra le pagine idilliche, se non proprio descrittive, ispirate alla Natura, poniamo Il Capinero (dalle «Impressioni dal vero») di Giov. Francesco Malipiero, composizione che di veristico non ha nulla, ma è una delicatissima idealizzazione musicale, una pagina di squisita poesia della natura. Siamo già alle soglie dell'impressionismo, col quale il descrittivismo più o meno realistico non ha più niente a che fare, anche se ne conserva qualche apparenza esteriore. Ma sono proprio le apparenze alle quali non bisogna fermarsi.

Quando si parla di impressionismo si parla generalmente di Debussy, ma esso ha radici più remote. Possiamo risalire, ad esempio, a Francesco Couperin «le Grand». I titoli delle sue composizioni: Barricate misteriose. Le farfalle. Suor Monica, I mietitori, e simili, sono già apertamente impressionistici (il primo quasi surrealista). Nella musica non troveremo nulla di descrittivo, ma impressioni vaghe, del tutto soggettive, divenute grazia ed eleganza di disegno fiorito. In tempi più recenti, impressionista si può considerare Roberto Schumann nelle composizioni brevi per piano che rispondono ai titoli di Carnaval, Pezzi fantastici. Scene infantili. Ecco infatti degli argomenti come Pierrot, Arlecchino, Farfalle, Paganini, Passeggiata, Sfingi; oppure Di sera. Di notte, Perché?, Favola; ed anche Bimbo che prega. Sogno, Presso il focolare, Sul cavalluccio di legno. Descrizioni? neppure l'ombra; impressioni poetiche suggerite dai soggetti ed espresse con disegni melodici (talvolta sono spunti), o con fantasiosi arabeschi in un'atmosfera armonica suggestiva per preziosità di accordi e di modulazioni. Le Sfingi sono la composizione più straordinaria di questo genere. Sono tre temi separati, costituiti uno di tre e gli altri di quattro note lunghissime, enunciati senza nessun accompagnamento e colore, di un enigmismo incantato ed intenso.

L'impressionismo moderno, che prende le sue mosse da Claudio Debussy, come s'è già detto al capitolo X, è un impressionismo armonico e timbrico. Non mancano anche gli elementi melodia e ritmo, ma più che altro come spunti fuggevoli atti a suggerire atmosfere di poesia suggestiva.

Nel primo e nel terzo quadro di Iberia Debussy crea una fantasmagoria ardente di colori, meridionale e orientaleggiante nei mille rumori e suoni della strada, nei frammenti di canzoni popolari, nel tripudio acceso di festosità splendente, coi tocchi parodistici di bonario umorismo. Ma nel secondo quadro il fascino della notte di Siviglia, coi suoi caldi profumi, con la delicatezza di mille echi e sussurri misteriosi, col suo languore sensuale, diffonde la sua poesia penetrante e sottile con maliosa forza evocativa.

Più difficile per il pubblico è l'accostamento al poema La mer appunto per la scarsità di elementi descrittivi e la molteplicità, complessità e raffinatezza delle impressioni. Questa musica infatti traduce impressioni sonore, visive, coloristiche, dinamiche e cinematiche, dalle più delicate alle più appariscenti, spesso simultanee, molto di frequente poetiche e soggettive, in macchie di colore (sonoro, timbrico, ritmico) che fanno appello a una grande sensibilità fantastica e musicale, ma escludono ogni richiamo sentimentale. Certi movimenti delle acque evocano disegni musicali del tutto spirituali e personali. Colori opacità e luccicori si traducono in suoni labili od ostinati; nascono non si sa come in noi le immagini dell'ampia distesa dell'oceano o dell'incresparsi delle onde, senza il concorso di alcun elemento veristico, per puro suggerimento di impressioni sonore. Ora diciamo subito che, specialmente nel primo episodio, Dall'alba al mezzogiorno sul mare, chi non sa di che si tratti difficilmente arriverebbe a indovinarlo all'audizione. Del mare c'è soltanto un senso di musicalità vasto e profondo e una grande varietà di spunti e di macchie strumentali smaglianti. Più ricco di particolari descrittivi, ma sempre secondo impressioni soggettive e, quel che più importa, musicalissime, il secondo episodio, Giuochi d'onde. Su gli elementi descrittivi il compositore ha avuto il buon gusto di non insistere per non diventare banale. Ne è uscito un quadro pieno di pennellate luminose e varie che verso la fine si traducono in un'espressione di gioia. Il terzo episodio, Dialogo fra il vento e il mare, ci porta di fronte ad una lotta fra le due potenze naturali, con urti violenti, gemiti, contrasti, in una infinita molteplicità di emozioni. È una vera allucinazione gioiosa in cui nessuna sensazione è ferma; tutto è labile e fugace, ma da tutto prorompe un senso di vita immenso. Nei momenti di maggior calma risorge il sentimento della melodia cantante, sia pure anch'essa per cenni e scorci.

Non insisteremo sul senso di languore e di abbandono sensuale che esce come una seduzione beata e contemplativa da ogni nota del preludio A' l'après-midi d'un faune.

Più accessibili le composizioni per pianoforte; per esempio l'evocazione de La cattedrale sommersa: un fluido scorrere di accordi, quasi d'organo, un rombo remotissimo di campane, un'eco di canti sacri, e un ravvivarsi di sonorità a mano a mano che i ricordi ravvivano le visione, per disperdersi poi nella lontananza delle profondità del tempo e dello spazio.

Non vi domandate, ascoltando Ciò che ha visto il vento d'occidente perché sia proprio vento d'occidente e non d'oriente, e che cose vede. Sono domande oziose. Quello che noi sentiamo è che si tratta d'un vento burrascoso. Nel Chiaro di luna ciò che più avvince è il senso di serenità che sale dall' ampio melodizzare. Noi subiamo delle impressioni musicali, e anche senza sapere il titolo bisogna lasciarsi permeare dalla profonda e delicata musicalità di queste pagine.

Più descrittivo Giardini sotto la pioggia: sgocciolìo, picchiettio sulle foglie, anche raffiche, poi stillicidio e sciacquii sonori come di rovesci, malinconia. Avremo capito bene? si chiedono molti uditori. Non importa: cediamo al fascino di questa visione trasformata non in un'imitazione materiale, ma in musica. Anche i Passi su la neve non debbono essere interpretati in senso veristico; non c'è che l'infinita tristezza che stringe il cuore di chi segue ad una ad una queste orme e pensa forse a chi sa quale miseria. In senso umoristico e fanciullesco, e pure non senza poetica malinconia, debbono essere ascoltati i bozzetti del Cantuccio dei bambini (Children's Corner); guai a cercarvi una serietà di intenzioni che non esiste (ma serietà artistica sì).

Allo stile impressionista appartengono anche i poemi sinfonici di Ottorino Respighi. Il migliore, Le fontane di Roma, ci presenta quattro impressioni poetiche: La fontana di Valle Giulia all'alba, immagine pastorale deliziosa per delicatezza di tinte. La fontana del Tritone al mattino: stentorei suoni di corno, simboleggianti la buccina del Tritone, seguiti da erti zampilli sonori, e quindi un vivace giuoco di sciacquii e di spruzzi che s'immaginano provocati da danze e scherzi di Naiadi e Tritoni, sempre sul pedale di do persistente del corno del Tritone. Ne La fontana di Trevi al meriggio le figurazioni mitologiche della monumentale fontana del Salvi hanno ispirato al Respighi l'idea di un sonoro e pomposo trionfo di Nettuno circondato da altre divinità marine. Infine La fontana di Villa Medici al tramonto ci riporta alle impressioni idilliache: gorgoglio queto di acque entro l'ampia vasca tra un lene stormire di fronde, un lieto bisbiglio d'uccelletti, la nenia malinconiosa di un corno inglese che all'unisono col flauto sembra «il giorno pianger che si more», mentre da lontano le campane rintoccano l'Ave Maria: ora di pace non priva di nostalgia com'è sempre l'ora del tramonto; poesia squisita della sera imminente.

I Pini di Roma con i suoi garruli giuochi di bimbi, le catacombe funeree, la sera sul Gianicolo col canto dell'usignolo (l'unico elemento verista costituito da un disco riproducente il reale gorgheggio del notturno cantore pennuto), e infine la marcia pesante delle legioni romane vittoriose, è assai più accessibile. E non è il caso di trattenerci su i poemi minori.

Impressionistici sono anche i Quadri d'un'esposizione di Modesto Mussorgski, che Ravel strumentò con un gusto così delizioso. E ancora una volta, non bisogna cercare una troppo esatta rispondenza materiale fra il titolo dei quadri e la traduzione musicale. Tra una passeggiata e l'altra (tema ora deciso, ora vagamente sognante, ora trionfale, ora pacato), sfilano vari quadri: il Gnomo dai disegni ritmici a capriole, a scatti e salti bruschi alternati a pause e a suoni e mormorii diabolici e a movimenti tortuosi. Il vecchio castello ci presenta la melodia patetica d'un trovatore, evocatrice nostalgica di ricordi e di sogni. La sorregge un lungo pedale, fermo come il tempo remoto. Les Tuilleries dovrebbero richiamarci alla mente un «giuoco di bimbi», ma l'impressione è più quella d'un ricamo incipriato, di saluti e inchini frivoli e sentimentali. Forse che i bimbi giocano «ai signori»? Ed ecco il tema quasi di marcia cadenzata con rumore di passi che si allontanano. È il Bidlo: carro tirato da buoi; ma bisognava saperlo. Più evidente la Danza dei pulcini nei loro gusci, per lo zampettio, il pigolio e le corsettine rapide che udiamo (ma proprio danzano «nei gusci» e non fuori?). Samuel Goldenberg e Schmuyle sono due ebrei: riccone il primo ed avaro, povero e importuno il secondo. Li distinguiamo per il tema pomposo e sprezzante di Samuel, e quello pettegolo insistente e monotono di Schmuyle. Il dialogo s'interrompe allorché Samuel scaccia con ira il seccatore. Segue Il Mercato di Limoges: animazione, chiacchierio, frastuono crescente; guardiamo il programma: è una «lite fra donne». Accordi dissonanti funerei e gravi ci dipingono le Catacombe; ma il programma dice di più «Lo spirito creatore di Hartmann defunto mi porta verso i teschi, rivolge ad essi la parola. I teschi si illuminano internamente di una luce lieve»; e tutto ciò, se letto prima dell'audizione, ci può suggestionare fino al punto di farci sentire e vedere nella musica quello che, nell'ignoranza di questa didascalia, malgrado la migliore buona volontà e la più sbrigliata fantasia, difficilmente ci troveremmo dentro. Ora anche il motivo della passeggiata viene esposto in modo cupo e austero; ma ecco un nuovo quadretto attraente e vivace: La capanna su le zampe di gallina; temi ritmici animatissimi e fiabeschi che ricordano quelli della folla in piazza nel Boris. Ma ce le vedete le «zampe di gallina»? No? Eppure dovreste vederci assai più; ecco la didascalia. «Capanna della strega Baba Yaga. Mussorgski descrive una ridda fantastica (fin qui tutto bene) della strega «dentro il suo mortaio»! Francamente questo non ce lo aspettavamo. E finalmente siamo davanti a La grande porta dei Boiardi a Kiew, «disegnata in stile russo massiccio con cupola in forma d'elmo slavo». Il motivo è grandioso, trionfale, pesante e splendente: crederemmo quasi che le cupole siano dorate e rifulgano al sole, ma «la forma d'elmo slavo» bisogna avere della gran buona volontà per trovarcela.

Concludendo: ci siamo dilungati perché l'opera è stupenda, ma le didascalie programmatiche hanno il torto di volerci far vedere più di quello che è nella natura di una musica che, pure usando mezzi coraggiosi di forme, vuol essere sempre musica; e musica grande questa è, spesso soffusa di un umorismo fine e talora anche caricaturale.

Non certamente un indirizzo impressionista o descrittivista, ma piuttosto psicologico-intimista noi riconosciamo in Bloch. Nella Rapsodia per violoncello e orchestra intitolata Re Salomone (Schelomo), a parte certi disegni melodici che sembrano di derivazione straussiana, il canto del violoncello è a volte nei monologhi di una tristezza sconsolata grandiosa, dalla quale passa a parossismi torbidi di passionalità e diremmo quasi di disperazione.

Con altro indirizzo da quello di Mossolow di Honegger e Bloch, Igor Strawinski spinge i mezzi sonori agli estremi limiti della descrittività e della oggettività. Non cerchiamo in lui espressioni sentimentali; vi troveremo ironia, caricatura, grottesco, parodia, anche poesia, ma non sentimento. E le emozioni ch'egli suscita, a parte le intenzioni sopra accennate, sono sempre emozioni musicali. «Io considero la musica - scriveva lo Strawinski - per la sua stessa essenza, impotente ad esprimere qualsiasi cosa: un sentimento, un gesto, uno stato psicologico... se la musica sembra esprimere qualche cosa... ciò è soltanto un elemento addizionale che, per una tacita e inveterata convenzione noi le abbiamo prestato».

Dentro questo ordine di idee va considerata anche la musica dai titoli in apparenza descrittivi, o dall'intenzione più o meno palesemente grottesca. Udite Fuochi d'artificio: una girandola è in moto (si ricorda involontariamente Fonderie d'acciaio di Mossolow), si odono scoppi, sprazzi, poi fuochi che si spengono. Ora, non è la verità materiale che ci interessa: chi vuol vedere i fuochi artificiali è meglio che vada senz'altro dove si accendono fuochi artificiali. Ma qui c'è solo quanto di musicale la visione dei fuochi può suggerire alla fantasia di un musicista per natura disposto a trasformare in musica la realtà.

In un'opera di ben più vasta mole e importanza, quale ad esempio La sagra di primavera, il carattere della sua arte appare più compiutamente. Vi si odono temi elementari di origine popolaresca russa ripetuti con insistenza ossessionante, ritmicamente marcatissimi e spesso turbinanti in danze frenetiche, spesso anche emergenti come rumori puri al di sopra del suono. Gli strumenti ci lanciano timbri carichi come dense pennellate, continuamente mutevoli come i colori di un caleidoscopio. Ascoltando questa musica bisogna assolutamente non pensare mai al melodizzare ampio alla maniera italiana del Sette-Ottocento. Occorre allontanarsi dalla tradizione, dimenticarla totalmente. Incontriamo dissonanze che danno un senso di vaghezza e di libertà di movimenti ma non vogliono di proposito essere urtanti, né vi riescono mai. C'è un impressionismo diffuso, poeticamente sognante, spesso realisticamente campestre, e su tutto passa qualche cosa di tragico, come una fatalità travolgente e inevitabile. Ma uno che non sappia che la composizione ha per sfondo un rito popolare primitivo del popolo russo con le sue danze violente non lo indovinerebbe forse mai. Forse solo un russo potrebbe intuirlo. Ed ecco come fu possibile che un artista come Walt Disney fosse tratto da quanto vi è di primitivo, di brutale, ed anche di vorticosamente caotico nella Sagra a immaginare la sagra primordiale del mondo (mi riferisco ancora al cartone animato che ha per titolo Fantasia) con i boati dei vulcani, le lotte delle belve e i sommovimenti cataclismatici della Terra. Sembra che Strawinski non sia rimasto scandalizzato di una così libera e audace interpretazione, e in verità siccome la musica non dice mai nulla di troppo preciso, essa ci sembra legittima, e di fatto risulta avvincente.

Non è musica da proporre all'imitazione, specie dei musicisti italiani. Con il nostro cielo, con la nostra razza, con il nostro spirito quest'arte non ha nulla a che fare. Imitare questo stile, soprattutto in Italia, vuol dire fare del falso. È un mondo popolare barbarico slavo-orientale, e come tale va ascoltato, ed anche ammirato poiché appare coll'impronta della sincerità più schietta, documento vivo di una sensibilità originale e forte.

Quando vuol fare della parodia grottesca, Strawinski è perfettamente padrone dei mezzi. Nella 2ª Suite per piccola orchestra che comprende: Marcia, Valzer, Polka, Galop, le dissonanze, palesemente sfacciate, la bizzarria inventiva, i suoni strani, sembrano voler fare la macchietta musicale delle orchestrine e delle fanfare stonate di certi baracconi e circhi da fiera. Soprattutto di una comicità caricaturale irresistibile è il Valzer nel quale gli istrumenti imitano (come poi fece, in modo diverso ma sempre riuscitissimo, il Puccini nel Tabarro) uno scordato e guasto organetto di Barberia, ed anche il negroide e rumoroso jazz del Galop.

Capitolo XIV: La musica strumentale pura [Indice]

Chiamiamo musica pura quella che non si appoggia né ad un testo cantabile, né ad un programma descrittivo o narrativo, e neppure a titoli psicologici. Perciò denominazioni come quelle di «Notturno» o di «Ballata» date da Chopin e da altri a certe forme di composizioni, ed anche fino a un certo punto i termini di «Romanza» e di «Canzone» che paiono quasi far riferimento a un immaginario testo, non indicano a rigore composizioni di musica pura. Ma il testo non c'è, e la fantasia del compositore opera quindi con quella libertà inventiva e costruttiva che il titolo sembra negarle.

Chiariremo con qualche esempio. Se osserviamo qualche Canzone di Girolamo Cavazzoni (prima metà del sec. XVI), di Girolamo Frescobaldi (1583-1643), o di Bernardo Pasquini (1637-1710), noi ci accorgeremo che il titolo deriva dal fatto che il compositore si è servito per le proprie opere strumentali delle melodie di canzoni vocali. Ma se in alcune opere del Cavazzoni o dei due Gabrieli spesso si tratta di una pura e semplice trascrizione per gli strumenti delle parti di una canzone vocale polifonica, in altre degli stessi maestri, e specialmente poi del Frescobaldi e del Pasquini, della canzone vocale non rimane che lo spunto iniziale, il tema, spesso alterato, il quale serve a una costruzione musicale totalmente nuova, di stile severo imitativo (fugato) ormai staccata da ogni carattere vocalistico. Dunque, interesse soprattutto strumentale-contrappuntistico.

Della libertà creatrice del musicista su lo spunto di una canzone popolare è prova il fatto che talvolta egli intitola queste composizioni «Capricci ovvero Canzoni». Altrettanto possiamo dire per i termini «Notturno», «Ballata», «Barcarola», «Berceuse», «Serenata», «Romanza». Le Romanze non cantabili, tipiche le Romanze senza parole di Mendelssohn, hanno certo un carattere lirico largamente melodico, carattere, scrive il Bonaventura, che assume «quasi l'aspetto di un canto vocale»[37]; ma esse non hanno riferimento con nessun testo, e d'altra parte troppi sono gli elementi di interesse puramente strumentale: pianistico, nel caso delle Romanze senza parole di Mendelssohn, violinistico nel caso delle celebri Romanze di Beethoven.

Il «Notturno» (e in questo caso il pensiero ci porta ai Notturni di Federico Chopin)[38] è anch'esso una composizione di carattere lirico, che si ispira alla notte, al suo fascino, al suo mistero, e che dal semplice lirismo può assurgere a espressioni drammatiche. In Chopin l'elemento patetico predomina, ma guardiamoci dall'accettare a occhi chiusi certe interpretazioni isterico-sentimentali come ci sono presentate purtroppo di frequente da qualche dilettante, specialmente di sesso femminile. Se Chopin è «il principe del sentimento», come si dice in Fedora, l'espressione dei suoi Notturni non rappresenta, tuttavia, l'eccesso smascolinizzato del sentimento stesso. Fra sentimento e sentimentalismo vi è lo stesso abisso che tra dolce e sdolcinato, tra abbandono e svenevolezza, tra femminile ed effeminato.

Ascoltiamo, per esempio, il Notturno in mi bemolle op. 9 n. 2, che per la sua cantabile melodiosità è stato trascritto anche pel violino senza deturpazione. Non emerge dalla grande melodia che una suprema dolcezza serena, qua e là velata da una lieve pensosa malinconia, resa più delicata dalle ripetizioni filigranate, e più trepidante da una modulazione vaghissima che ci trasporta per varie tonalità successive, quasi con ansia, e poscia col riposante ritrovo della tonalità e del motivo originario. Quindi, dopo qualche accento più fortemente appassionato, improvvisamente illeggiadrita da un gentile arabesco in forma di cadenza che ci tiene anch'esso l'animo sospeso fra terra e cielo in un'atmosfera di sogno, alfine si cala con una specie di battito d'ali come di un augelletto che cerca il suo nido e lo ritrova felice.

Ascoltiamo ora il Notturno in do minore op. 48 n.1: è un quadro più vasto, più patetico e più drammatico. La melodia iniziale, lenta, a mezza voce come una meditazione, ci si presenta più intensamente ansiosa per le pause frequenti, per certe sincopi, per certi sbalzi all'in giù, e per l'accompagnamento ritmato e grave con qualche scatto che fa presentire il dramma. Poi subentra un secondo motivo di sentimento religioso, tutto posato su accordi spesso arpeggiati, di un'enorme ampiezza. Ma ecco che improvvisamente la preghiera è spezzata da ritmi tempestosi di terzine che vi si intercalano. La tempesta aumenta di forza e ci riconduce alla ripresa della melodia iniziale, non più su gli accordi gravi e lenti di prima, ma su un movimento assai agitato di terzine che accresce il turbamento fino alla disperazione. Poi tutto si dilegua in un aereo volo e si chiude in accordi lenti e oscuri come una tomba.

Il celebre Notturno in sol bemolle op. 70 n. 1 di Giuseppe Martucci è altra cosa. È un «sogno notturno», tutto poesia delicata e sfumata, tutto imbevuto di azzurro e di chiarore lunare, attraversato da ricordi nostalgici, che si conclude con un'ascesa tranquilla nei regni del più etereo incantesimo.

Nelle Ballate di Chopin (ricordate la romantica Ballata in sol minore op. 23?) come, del resto, nelle altre sue opere, i procedimenti non cambiano molto, anche se cambiano di continuo i disegni con una fertilità e una genialità che paiono illimitate. Chi le ascolta non è legato a nessun programma preciso, ma in realtà spesso è difficile sfuggire all'idea di ascoltare fantastici meravigliosi racconti in una lingua incantevole. Gli stessi arabeschi sono di un decorativismo spiritualizzato, poiché non appaiono come sovrapposizioni estranee, ma fanno parte dell'idea esposta. La Ballata op. 23, che si apre con un preambolo così grandioso, e procede con un tono narrativo tanto appassionato, si conclude anch'essa in un inatteso modo drammatico, in una vera tempesta sonora che ci fa pensare per analogia alla paurosa fine di eventi contenuti in un racconto poetico.

Le Novellette conservano un carattere narrativo, tra il fiabesco e il leggendario. Occorre appena ricordare le Novellette op. 21 di Schumann; osserviamone una, quella n. 5. Incomincia con dei ritmi festosi in modo strepitoso, e procede con disegni pieni di gaiezza giovanile. Poi subentra un movimento legato e misterioso, cui succede la ripresa del motivo iniziale. Ora è la volta di una melodia semplicissima formata da tre note ripetute come un'interrogazione ansiosa, sostenuta da un accompagnamento sincopato. Ciò sembra aver prodotto uno smarrimento nel tema festoso, che infatti oscilla, frammentario, piano, da una tonalità all'altra, e solo a fatica ritrova la spigliatezza primitiva. Ancora un altro episodio della novella, che si volge su un ritmo vivace di cavalcata; e di nuovo riudiamo il tema festoso, che si direbbe abbia nel racconto il valore di un ritornello, il valore di un richiamo a qualche elemento originario e fondamentale della narrazione. L'ultimo episodio è di una liricità meditativa e calma: è un motivo legato, tra il misterioso e il sacro, parafrasi dell'altro movimento legato già esposto. Ed ecco disegnarsi di nuovo la melodia breve ed ansiosa sotto la quale ricompare nel basso, pianissimo, la prima cellula del tema festoso, che assume ora un carattere cupo e si perde nel nulla.

Inutile sforzarsi di dare al racconto, alla «Novelletta» e al suo preambolo-ritornello un qualsiasi preciso significato narrativo. Il racconto è formato da immagini puramente musicali, e perciò di loro natura intraducibili sia in aspetti visivi che verbali. Non al mondo della logica si rivolge, ma a quello della fantasia.

Le Barcarole ritengono, del soggetto da cui prendono il nome, il movimento cullante, ondulato, dell'accompagnamento, mentre la melodia esprime un sereno piacere, e talvolta l'impronta di una canzone. Penso, più che alla Barcarola op. 60 di Chopin, deliziosa sognante poesia, a quelle contenute nelle Romanze senza parole di Mendelssohn, specialmente alla Barcarola Veneziana op. 19 n. 6, così cantabile e riposante.

Quasi movimento di Barcarola, pel disegno molle e cullante dei bassi, ma di melodia più soave, è la Berceuse. Primeggia per arabescata vaporosità di disegni fantasiosi la Berceuse in re bemolle op. 57 di Chopin. Non pensate che così si possa cullare un bambino; così si cullano i nostri sogni, anzi ci si culla noi stessi in un mare latteo di sogni e di sorridenti malinconie.

Il termine Serenata indica palesemente una composizione da suonare di sera, all'aperto. Non le si può negare qualche affinità col Notturno, ma in generale è di struttura più semplice e di melodiosità più brillante, e si suppone rivolta a qualcuno come un omaggio o un saluto. E non mancano Serenate in più tempi, quasi minuscole sinfoniette, come la graziosissima Piccola Serenata (Kleine Nachtmusik) di Mozart che rientra nella forma «Quintetto d'archi». La irrora il consueto fascino melodioso mozartiano, pieno di fresca ingenua giovinezza, di serenità gentile.

Anche le «Danze» se non sono propriamente descrittive possono suggerire figurazioni visive. Una tarantella o un minuetto, un bolero o una gavotta, una czardas o un valzer possono per la suggestione dei ritmi creare nella nostra fantasia immagini figurative, quadri pieni di movimento e di colore. Se ascoltiamo Il bel Danubio blu di Giovanni Strauss, noi ci sentiamo trascinati nel vortice della danza, quasi crederemmo di veder passare le coppie allacciate e piroettanti in un incantamento tra il magico e il tattile, non ostante i motivi talora banalucci anziché no. Cosicché è facile comprendere come il fascino di questa musica sia assai più di natura sensuale che artistica. Ma se invece ascoltiamo un Valzer, una Mazurka o una Polonese di Chopin, ci accorgiamo subito che, malgrado il ritmo originario, non c'è più nulla di ballabile. Siamo di fronte a trasfigurazioni artistiche della danza, e ogni volta che qualche ballerina si prova ad aggiungere passi e movenze a questi ritmi e a queste melodie, essa ci trasporta dal cielo in terra, distrugge in gran parte il fascino musicale per un'attrattiva pseudoartistica di natura materiale. In altri termini compie, cosciente o no, una profanazione.

Qui, naturalmente, non si intende dir male della danza artistica, ma solo di quella applicata a certe musiche, per esempio a quelle di Chopin. La danza in sé (diciamo la danza, e non il ballo) è un simbolo dello spirito umano, e perciò è poesia. I rapimenti e le estasi, le esitazioni timide, le fughe pavide, le finzioni sottili, i balzi decisi, le affermazioni potenti della volontà, lo spasimo e l'ansia, la voluttà dei sensi e l'ebbrezza dell'anima, la meditazione e l'abbandono, i vortici travolgenti della morte e della gioia, l'impeto di incielamento e il trasumanare, tutto ciò passa nelle immagini figurate e musicali dalla danza: Diòniso ed Apollo insieme fusi in un solo Iddio. È l'espressione della gioia di vivere in opposizione all'immobilità della morte. Come espressione ritmica del movimento in ogni sua forma è anche espressione cinetica e dinamica dell'universo; e perciò è espressione cosmica e religiosa. Le «danze funebri», come quelle dell'Orfeo di Gluck, non sono che l'omaggio della vita alla morte, in quanto i ritmi sono rallentati e tendono alla totale estinzione o a pose di estasi (che è la contemplazione mistica dell'oltre-vita).

Si capisce allora come la danza, intesa quale trasfigurazione mimo-coreografica della vita, abbia originato i Balletti di corte francesi del secolo XVI, i balletti del Lulli, poi, per ampliamento e deviazione spettacolare, i grandiosi balli coreografici italiani dell'Ottocento, e, per raffinamento, i balletti russi e spagnoli e le pantomime italiane del Novecento, di cui s'è già fatto cenno precedentemente.

Il ballo... oh! il ballo dei circoli e dei salotti non è che un pretesto ad allacciamenti pseudo-erotici; e come tale, degenerazione della danza. E per ciò; ballabili sono così banali, spesso volgari, impregnati di languidezza sentimentale, o, nei casi peggiori, trasudanti una grossolana sensualità. Non che non vi siano eccezioni, parziali o totali, ma sono rare.

Con Giovanni Strauss si sfiora il precipizio della banalità, e talvolta vi si sdrucciola. Ma col jazz vi si precipita! Questa forma di canto e danza d'origine negro-americana, che ha invaso il mondo come una folle ventata di ritorno dell'umanità verso i suoi istinti e gusti barbarici primitivi, afferra i sensi ed entusiasma soprattutto i giovani, di natura più irriflessivi e più facili agli impulsi sensoriali, per i portamenti sonori glissati e viscidi dei tromboni e dei clarinetti, per le melodie svenevoli affidate alle voci sentimentalone dei saxofoni o alle trombe con sordina, spinte, come gli altri strumenti a fiato, nei registri acuti estremi più istericamente striduli aspri e sguaiati, per i suoni vocali rauchi, «sporchi» (dirty tone), per le armonie sfacciatamente dissonanti, per la soverchiante autorità degli istrumenti a percussione, in cui la cassa scandisce spesso il tempo in modo funereo e insistente fino all'ossessione, ma soprattutto per i suoi frenetici eccitanti ritmi sincopati (ragtimes) singhiozzanti ed epilettoidi, per tutto quello che di primitivo e di isterico, di bestiale e di morboso esso porta alla luce in una forma così suggestiva e allucinante.

L'orchestra è normalmente costituita da un violino, un clarinetto, un saxofono, una tromba e un trombone con sordine, un contrabasso, il pianoforte, e la batteria i cui vari istrumenti sono suonati da una sola persona. Ma questa formazione può variare e anche essere accresciuta sia nella specie degli strumenti (corni, sarrusofono, banjo, vibrafono, ecc.), sia nel numero degli esecutori. L'ispirazione, se così si può chiamare, si basa su motivi negri folkloristici, religiosi o volgari, in cui dal canto, anch'esso fortemente ritmato in modo ossessivo, si passa spesso al grido e all'urlo selvaggio; motivi ora inquinati da contaminazioni con l'arte europea, e spesso abbandonati all'improvvisazione libera (swing) di variazioni e cadenze virtuosistiche. Ne formano la base elementi provenienti dai canti del lavoro degli schiavi negri (work songs), dai canti religiosi (spirituals)[39], e principalmente da canti dell'amore infelice (blues)[40], nei quali è usata la scala diatonica maggiore con 3e e 7e minori.

Indubbiamente questi canti alle loro origini esprimevano, nelle forme tipicamente primitive della musica negra, un dolore disperato per la dura schiavitù, l'aspirazione alla libertà, la speranza in Dio, ed anche un sordo senso di ribellione contro l'ingiustizia umana. Ma ben presto, specie dopo la liberazione dei negri, vi penetrò l'atmosfera del vizio per i contatti con un mondo di gente equivoca ed abbrutita. L'inquinamento e la trasformazione dei canti primitivi nell'attuale jazz (nome di origine incerta, usato per la prima volta a Chicago nel 1916) ha avuto luogo in ritrovi notturni malfamati di negri ed americani, maschi e femmine d'ogni risma, tra grosse sbornie di alcool, orge, risse e revolverate.

Trasferito dalle taverne alle sale da concerto, il jazz si trasformò presto in una forma d'arte professionale, e prese un indirizzo industriale, soprattutto ad opera di impresari, editori, scuole, complessi-jazz, fabbricanti e venditori di dischi, con profitti enormi. Di qui la spettacolare propaganda in tutto il mondo, legata a interessi finanziari grandiosi, e con la costituzione perfino di associazioni di amatori, difensori e diffusori di questa forma che con la nostra civiltà non ha nulla a che fare! Negare che il jazz porti la traccia dell'ambiente morale, o meglio immorale e primitivo, in cui è nato, è assurdo. Esso ne è lo specchio fedele, e come tale non può che riflettere ed eccitare con forza deteriore i sentimenti più bassi di chi ascolta. Da ciò il suo enorme potere di seduzione, specialmente, dicevamo, sui giovani.

Siccome il jazz conteneva elementi tecnici nuovi, di ritmica di contrappunto, di antitradizionalismo, ed anche di violenza e di stramberia ad ogni costo, esso ha fatto breccia presso quei musicisti che cercano di liberarsi dagli aspetti tradizionali della musica (e chi non dovrebbe farlo?) e aspirano ad un rinnovamento soprattutto della tecnica, nella falsa supposizione che rinnovando la tecnica si rinnovi la fantasia, mentre la storia ci dimostra che è sempre avvenuto il contrario! Vi si sono interessati anche musicisti di grande fama e capacità, come Strawinski, Honegger, Hindemith, Ravel, Milhaud.

Ci fu pure chi si propose di nobilitare il jazz e di fare di esso una forma «sinfonica». L'esperimento riuscì in modo soddisfacente a Giorgio Gershwin con la nota Rapsodia in blue, un po' meno con l'Americano a Parigi, ed anche con l'opera Porgy and Bess. Nella Rapsodia in blue, strumentata da Ferde Grofé, il musicista alterna temi di canzoni bianche e negre (di sua invenzione), effetti cadenzali concertistici di pianoforte ad effetti strumentali jazzistici, i quali gli servono a schizzare con rapida bravura molti elementi espressivi comici, grotteschi ed anche sentimentali. Al centro della composizione si stende una melodia ampia, un po' languida, contrappuntata con vivaci disegni ritmici destinati ad affermarne per contrapposizione, i valori patetici. Gershwin stesso ci ha detto quale mira ebbe nel comporre la Rapsodia. «La costruii - scrisse egli - come una specie di caleidoscopio musicale dell'America, col nostro miscuglio di razze, il nostro incomparabile brio nazionale, i nostri blues, la nostra pazzia metropolitana».

* * *

Riprendiamo l'interrotto itinerario nel mondo dell'arte musicale europea.

Un minuetto di Boccherini (quello, ad esempio, così fine, incipriato, in la maggiore del 6° quintetto, vera poesia dell'eleganza più signorile e del più delicato godimento della danza) ci porta ben lontano dallo spirito musicale dell'America! In Boccherini tutto è forma esatta, finezza di sentimento, galanteria settecentesca. E nel mondo più alto dello spirito, lontano da ogni «ballabilità» ci trattengono le danze di Chopin. Esse non hanno un tempo esatto, vi si trova di tutto: Allegretto, Moderato, Vivace, Andantino, Risoluto, Animato, Tempo giusto. Semplice, Molto vivace. Cosicché ora il Valzer è lento come una Mazurka, ora la Mazurka ha la spigliatezza di un Valzer. Poi vi sono le innumerevoli indicazioni agogiche scritte, ed anche quelle non segnate, come il rubato, che dà luogo purtroppo di frequente a interpretazioni fra le più capricciose e arbitrariamente aritmiche. Provatevi a danzare qualcosa di simile; per esempio la Polonese in la bemolle maggiore op. 53, soprattutto quella specie di marcia trionfale col fantastico pedale di ottave del basso !

Colori ed espressioni scintillanti o malinconiche, patetiche o grandiose, ritmi vorticosi o balzanti, armonie plastiche o sfumate, si avvicendano in quadri smaglianti dove il «passo di danza» si perde dietro fantasmi di sogno e meditazioni poetiche indefinite. Il ritmo di danza e l'elemento melodico a tipo folkloristico possono suggerire immagini e quadri di vita popolare, o (come per le Polonesi) la visione di sfarzosi cortei principeschi. Ma non è necessario vedere qualche cosa; direi anzi che è meglio non veder nulla, all'infuori del mondo sonoro, delle immagini uditive, atte da sole a creare emozioni di poesia profonda, intensa, in un linguaggio che vuol essere puramente musicale.

Ma quando si parla di Toccata, Ricercare, Fantasia, Improvviso, Preludio, Fuga, Studio, Sonata, Concerto, Trio, Quartetto, ecc. Sinfonia, allora noi abbiamo a che fare con forme che non possiamo più cercare di capire con l'appoggio di un testo, di un programma, di una figurazione visiva qualsiasi. Ciò non esclude la presenza di espressioni affettive; religioso, amoroso, con sentimento, con fuoco, con brio, e simili terminologie sottintendono sempre il ricorso a un sentimento umano affettivo, se pure generico e vago. Tuttavia molto spesso conviene abbandonare anche la ricerca di un'espressione affettiva, poiché la musica non esprime soltanto sentimenti, ma talora si limita a suscitare impressioni di maggiore o minore energia, emozioni di natura puramente poetico-sonora. In tal caso capire vuol dire soltanto riconoscere gli elementi estetici di cui una data musica è costituita. Ma teniamo ben presente che conoscere i mezzi sonori e tecnici di cui s'è servito un compositore ci può aiutare a comprendere il meccanismo costruttivo, ma con ciò non avremo ancora raggiunta la soglia del «bello», che è al di là e al di sopra della costruzione. Noi potremo analizzare una composizione di Schönberg e renderci conto della sua tecnica seriale; dopo di che potremo anche riconoscere che la costruzione non fa una grinza, ma la sua musica rimane odiosamente brutta!

Scrive il Combarieu: «Voici la charmante sonate de Beethoven (op. 49) pour piano:

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«Je crois en avoir la pleine intelligence - ce qui n'est vraiment pas difficile! - et j'affirme que nul ne pourrait dire, à moins de braver le ridicule quel état elle exprime. Il y en a certainement un, mais le compositeur ne l'a pas énoncé, il en aurait probablement été incapable, et nous n'avons nul besoin de le connaître»[42].

C'è del vero: non sapremmo quale stato d'animo esattamente questa melodia beethoveniana esprima, e tuttavia non possiamo sottrarci a un senso di fresca ed energica gioiosità, la quale appunto per la sua particolare essenza non è esprimibile che attraverso a quel giro di note. Tutto quello che ha da fare l'uditore è semplicemente di godere questa sensazione espressa con sì gentile poesia.

Non bisogna voler precisare troppo i significati dei motivi musicali, neppure in quelle composizioni che hanno un fondo programmatico o descrittivo. Per esempio, osserviamo la Sonata per piano op. 81 n. 26 di Beethoven: Das Lebewohl (Gli addii). Su le prime tre note sono scritte le tre sillabe della parola «Le-be-wohl !»; ma i motivi dell'Allegro che cosa esprimono? C'è dell'animazione; ma, salvo le ultime settantacinque battute in cui ricompare ancora il tema formato dalle tre note iniziali, che cos'altro dice la musica di questo tempo che abbia rapporto con i saluti di «addio»? In certi momenti anzi si direbbe quasi che c'è della gioia. E nell'ultimo tempo, Vivacissimamente, Das Wiedersehen (Il ritorno), che cosa udiamo se non degli altri disegni sonori pieni d'animazione decisamente gioiosa? Guardiamoci dal voler attribuire a ciascun tema un significato espressivo preciso. Questo, ad esempio,

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cosa vuol dire? Niente altro che un nuovo motivo gaio ed energico.

Dunque in questa Sonata oltre al giuoco delle parti, al loro rispondersi, a qualche bella dissonanza (nel 2° tempo), a qualche dissonanza aspra (queste più significative su la fine del 1° tempo, dove i Lebewohl ! si accavallano) non c'è da cogliere altro che questo: gioia o tristezza, animazione o calma, eccitazione o meditazione. Ed è quello che noi coglieremo, espresso con maggiore o minor forza, con maggiore o minor rapimento, in qualunque altra Sonata di Beethoven; meglio, in qualunque composizione di musica cosiddetta pura.

Le espressioni passionali vanno diminuendo ancora nelle composizioni di Bach, le quali, anzi, secondo alcuni, ne sono assolutamente prive tanto da costituire della musica «oggettiva».

Su l'estetica di Bach e il significato della sua musica si sono svolte molte discussioni in vario senso, presentandocelo di volta in volta come romantico, come classico, come pittorico, come oggettivo, come matematico. Tali discussioni non crediamo sia il caso di riassumere perché ci porterebbero troppo lontano dal nostro scopo. Non possiamo tuttavia accettare che si neghi in ogni caso qualsiasi espressività alla sua musica. Il fare di essa un freddo giuoco geometrico, una questione di masse e di volumi sonori, un problema di rapporti di piani e di tonalità, è ridurla a un semplice artificio cerebrale. È certo che questi valori predominano su quelli passionali, ma non come fine a sé stessi, bensì come mezzo ad un'espressione spirituale diversa della musica, che riguarda un mondo di emozioni, se non più alto, senza dubbio più austero, più complesso ed astratto, e in qualche momento vorremmo dire cosmico. E insistiamo su questo fatto: che senza rapimento (che nasce da uno stato lirico contemplativo dell'animo, non importa se originato da superamento di passioni umane terrestri o da aspirazioni più o meno vaghe verso un ideale panico o cosmico) non vi è musica, anzi non vi è arte. Ora le immagini musicali di Bach sorgono da non sappiamo quale stato contemplativo, da quale meraviglioso rapimento fantastico; ed è questa difficoltà di precisazione che rende arduo a molti l'accostamento a Bach. Altre cause son da ricercare nella molteplicità delle sue derivazioni (numerose derivazioni dinamiche e melodiche italiane, taluni riflessi francesi, e il contrappuntismo tedesco), e nella complessità delle sue tendenze, che rende l'opera sua tanto profonda e spesso apparentemente astratta. Non si deve dimenticare, ad ogni modo, che le sue immagini musicali hanno una loro bellezza intima, dipendente dalla disposizione delle note e dalle relazioni fra le immagini stesse come un verso deve la sua bellezza alla particolare scelta e al collocamento delle parole. Non chiediamo di più.

Le composizioni di Bach si basano su una prodigiosa facoltà di sviluppo tematico in vaste tessiture polifoniche, dove le varie parti si allacciano e si rispondono in forme armoniose e con l'apparenza logica di un dialogo stringato e insieme fantastico. I temi, pomposi o umoristici, severi o animati, meditativi come pensieri filosofici, o scorrevoli come limpide acque di ruscello, hanno carattere più spesso ritmico che melodico, sono di una felice freschezza d'invenzione estrosa e suscettibili di sviluppi in periodi regolari e di sovrapposizioni contrappuntistiche atte a creare solenni architetture sonore, vere cattedrali di suoni.

Si osservi ad esempio, la 13ª Invenzione a due voci: due brevi arpeggi ascendenti energici e gioiosi in la minore costituiscono il tema proposto dalla parte superiore, subito imitato dal basso, ripreso dalla parte acuta, ripetuto dal basso. A questo punto la parte superiore ne propone una modifica rovesciata, che il basso accetta e ripercuote; lo si abbrevia, lo si palleggia, fino a che vien ripresa la prima figurazione in do maggiore, poi ancora la seconda che porta ad una cadenza di chiusa. Ma il gioco non è finito: un nuovo motivo viene proposto in forma di progressione discendente il quale conduce alla ripresa in la minore del motivo di partenza sviluppato con espressione e movimenti più intensi, e tali da portare a un disegno conclusivo finale largo e sonoro.

Osservate l' Invenzione a tre voci n. 6: un tema scorrevole e sereno si ripercuote con il medesimo sistema da una voce all'altra, si presenta rovesciato, si alterna con alterazioni di forma di progressioni ora ascendenti ora discendenti, passa per varie tonalità con una instabilità inquieta che è il segno della sua vitalità e della sua spiritualità, fino a che le tre voci si accordano per concludere insieme robustamente su un rallentando che ne accresce la forza. Ho udito più volte dei bimbi dire per gioco filastrocche di parole buffe, od anche senza senso, e finire sillabando con forza le ultime parole come per dare un tono maestoso al loro discorso. Solo che nel gioco dei bimbi la filastrocca è fatua, mentre i motivi bachiani, anche i più burleschi, sono emanazioni di una fantasia fiabesca e di uno spiritualismo etereo, o di una religiosità solenne.

I Preludi che precedono le Fughe nel Clavicembalo ben temperato, e così a maggior ragione, perché costruite secondo un più libero sviluppo, le Toccate che precedono le grandi «fughe per organo» e la Fantasia cui segue la celebre «fuga cromatica» sono contemplazioni poetiche che traggono la loro essenza, ora meditativa come il 1° preludio in do maggiore (quello che servì a Gounod come accompagnamento all'Ave Maria), ora dinamica come quello in do minore, ora intimamente sognante come quello in do diesis minore, dal disegno ritmo-melodico del tema iniziale. Nell'ultimo preludio citato il trattamento polifonico, con le imitazioni, le varianti, gli intrecci, dilata il respiro della cellula melodica con una vibrazione che passa per numerose sfumature del sentimento. Poiché, per quanto la fantasia puramente musicale prevalga in Bach su ogni altro elemento, tuttavia il sentimento non vi è assente; spesso anzi nelle composizioni di Bach esso prende il primo posto e splende in forme di canto spiegato come nella famosa «Aria», o trema con una commozione e un abbandono profondi, come nell' «Andante» del Concerto nello stile italiano, e nell' «Adagio» della Toccata che precede la grande Fuga per organo in do maggiore, o in certe arie della Passione.

Ma certo uno dei più totali e fantasiosi rapimenti poetici, quasi un abbandono trasognato all'improvvisazione musicale, è appunto la Fantasia che prepara alla Fuga cromatica in re minore. Un irrompere di ritmi veloci, di arpeggi impetuosi che si fermano su qualche trillo prolungato come per meditare e seguire una nuova immagine. Poi è un placato succedersi di grandi ondate armoniose per diverse tonalità, quasi alla ricerca di un sogno inafferrabile, e infine un alternarsi di pensosi soliloqui e di improvvise ansiosità, di meditazioni estatiche e di scatti volitivi energici, e infine un accorato nostalgico rimpianto che gonfia il cuore come per un bene perduto. La fuga seguente, col suo tema inizialmente tranquillo e incantato, si presenta come una conclusione necessaria, come la catarsi di un dramma. E il passare del tema da una voce all'altra, attraverso i mirabili ricami dei contrappunti, il suo insistere sempre più martellante, il suo imporsi vigoroso, il suo concludere in una piena sonorità, sono come il cammino trionfale di una volontà liberatrice. E nella fuga il genio inventivo di Bach attinge le maggiori altezze per gli sviluppi geniali, per il senso architettonico grandioso, per la varietà sorprendente degli effetti coloristici, per l'espressione di potenza che provoca ogni nuova comparsa del «soggetto» che le risposte del «contrassoggetto» e i contrappunti illuminano ed esaltano. «Lo schema della fuga - dice l'Abbiati - è dimenticato nell'incanto dell'opera d'arte»[43].

Né ci dilungheremo su tale argomento dopo quanto s'è detto al capitolo VII.

Anche la Ciaccona (così chiamata dal nome di un'antica danza in movimento lento) per violino solo, stretta parente della più melodica Ciaccona di Tommaso Vitali, è un fantasioso palpitare di figurazioni musicali attraverso alle più fluttuanti suggestioni di poesia, e un trionfo dei principi tecnici dello sviluppo tematico e delle variazioni, superati e arsi dal fuoco dell'ispirazione. Nella necessità di accompagnare se stesso, il violino solista, con trascendentale virtuosismo, genera effetti orchestrali e organistici.

Con i Concerti brandeburghesi si entra invece in una forma più complessa, per il numero e le varietà di strumenti che partecipano alla polifonia, la quale, secondo l'originaria struttura del Concerto grosso italiano, si svolge a dialogo fra un piccolo gruppo di istrumenti (Concertino) ed una massa maggiore (Concerto grosso o Tutti). Ne nascono contrasti di tinte e di sonorità stupendi.

L'origine italiana di tale forma ci porta ad accennare a qualche composizione e autore italiano. Senza risalire ad Alessandro Stradella che sembra l'inventore di questa forma, possiamo ricordare Arcangelo Corelli, del quale è abbastanza facile udire VIII Concerto grosso per la Notte di Natale. È un quadro pieno di movimento e di colore: ad alcuni accordi in tempo Vivace segue un Grave che si svolge per accordi austeri e solenni. Le parti successive alternano per due volte il tempo Allegro all''Adagio in una esposizione di disegni ritmici modulanti, che il concertino e il concerto grosso si rimandano, completandosi a vicenda in un susseguirsi di piani e di forti, di ombre e di luci che danno ai disegni stessi un plastico rilievo e un'animazione intensa. Poi, dopo uno scherzoso Vivace, un altro Allegro di carattere ritmico gaio ci presenta i due gruppi strumentali in contrasto fra loro: sono proposte fatte sotto voce cui seguono risposte affermative sonore, accenni tematici sussurrati e subito accolti e ripresentati con vigoria in un brillare di effetti che portano nel dialogo un forte palpito di vita. Conclude il Concerto la celebre Pa storale che distende il suo canto mistico in un'onda lunga di dolcezza soavissima.

La nervosità dei movimenti ritmici si accentua ed acquista una nuova animazione nei Concerti grossi di Antonio Vivaldi. La separazione e la contrapposizione fra proposte e risposte, fra suggerimenti e affermazioni, fra accenni e commenti, in una parola fra la funzione del Concertino e quella del Concerto grosso è in Vivaldi ancora più netta ed efficace. Ma l'avvicendarsi delle loro rispettive entrate non crea mai frattura nel fiotto dell'ispirazione, ma solo contrasti di colore, di intensità luminosa, di effetti dinamici. Nel Concerto grosso in sol minore per archi e cembalo, uno dei Concerti dell'Estro armonico, il 1° tempo, Adagio, inizia con accordi spaziati, che scattano dall'energico volitivo a un misterioso grave di tristezza. Verso la fine v'è un accenno melodico soffuso di una dolce malinconia. L'Allegro, di una animazione vivacissima, ci presenta il dialogo tra Concertino e Concerto grosso, con effetti trascinanti di crescendo di quest'ultimo. A contrasto, il successivo Larghetto ci offre effetti di colore e di massa nel passaggio da accordi imponenti ad altri pianissimo. La vicendevole lotta si chiude in un canto triste di rassegnato abbandono. L'ultimo tempo è una Giga balzante e spiritosa.

Più noto al pubblico, perché più di frequente eseguito, è il Concerto grosso in re minore dell'Estro armonico, che ha un 1° tempo Allegro in cui su un lungo pedale basso gli arpeggi sfasati dei violini generano una tesa concitazione di disegni e il senso di una forza dilagante a stento contenuta. È così che un piccolo particolare, apparentemente di scarsa importanza, acquista un alto valore artistico. Fatto che, del resto, si nota anche in altre composizioni del Vivaldi, dove la ripetizione di un piccolo inciso posto sotto diverse luci, una ricca e varia disposizione di disegni simultanei degli archi, creano effetti luminosi ed aprono le porte all'avvenire. La concitazione febbrile del 1° tempo sfocia in una fuga dal «soggetto» vigoroso e dallo svolgimento possente nei contrasti di ff. e pp. tra Concerto grosso e Concertino. Dalla lotta drammatica che questa fuga rappresenta, lo spirito si riposa nell'ampia meditativa melodia del largo successivo. Desiderio di pace, nostalgia, speranze, affetti, passano nella divina lirica appoggiata tutta su una sola linea cantabile, con un fascino sicuro. Dopo di che l'ultimo Allegro riscatena una gioia ritmica festosa non senza oasi di riposante dolcezza e non senza il consueto giucco vibrante fra tutti e solo che accresce il senso di fresca gioia.

I Concerti brandeburghesi di Bach discendono direttamente dai Concerti grossi di Vivaldi e di Marcello (principalmente del primo) e debbono essere ascoltati col medesimo spirito, senza ricercarvi, salvo che nei temi lenti centrali, il sentimento, ma principalmente il senso di una grande vitalità, di una espressione dinamica, di una ricerca di immagini sonore e del loro sviluppo ritmico e coloristico. Anche in uno dei meno appariscenti, com'è il Concerto brandeburghese n. 2 in fa maggiore vi è la medesima ricerca di animazione, di vivacità, di contrasto fra Tutti e Concertino, e il tipico senso di giuoco degli istrumenti nei tempi Allegro, mentre negl'Andante il dialogo fra gli strumenti si dilata in un delicato e nobile cantare: una vitalità esuberante e un'anima rapita in metafisiche emozioni.

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XIII. Verdi. (Quadro di Morelli).

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XIV. Franz Liszt. (Litografia di Daveria).

Una forma musicale assai più vasta e complessa è la Sonata, la quale ha servito di modello ad altre forme, quali il Concerto per istrumento solista, il Quartetto e le altre forme affini, a più strumenti, e la Sinfonia.

Tutte queste forme constano in generale di tre o quattro tempi (raramente di uno o due soltanto), un Allegro (preceduto talvolta da un'introduzione lenta), un Adagio, un Minuetto (sostituito nella maggior parte delle composizioni beethoveniane e in quelle posteriori da uno Scherzo) e un altro Allegro più vivo o un Rondò finale. Ma l'ordine, e il genere dei tempi può essere variamente modificato. Essi sostituiscono le danze che nella primitiva Sonata o Suite ne formavano le parti e che generalmente erano rappresentate dall''Alemanna, dalla Corrente, dalla Sarabanda, dal Minuetto, dalla Gavotta e dalla Giga[44].

Dei vari tempi, il 1°, detto la forma-sonata, è quello che presenta maggior complessità e interesse. Esso consta di tre parti: nella 1ª parte si ha l'esposizione di un tema, che più o meno ampiamente sviluppato permette un collegamento con un secondo tema, generalmente di carattere contrastante con il precedente. Il secondo tema è di solito nella tonalità corrispondente alla dominante del primo (per esempio: 1° tema do, 2° tema sol). Il secondo tema deve presentare una parte conclusiva; dopo di che la 1ª parte viene ripetuta interamente da capo.

Nella 2ª parte si riprendono elementi dei temi presentati nella parte precedente e si sviluppano originando costruzioni nuove; ed è soprattutto in questa nuova architettura, creata con frammenti tematici già usati in precedenza, che si rivela la fantasia geniale del compositore. Modificazioni e aggiunte fatte agli elementi dei temi, la loro ripercussione a diverse altezze e in tonalità differenti fra loro e da quella della Iª parte, modulazioni, progressioni, ed elaborazioni contrappuntistiche armoniosamente disposte, evitando ogni frammentarietà, dando anzi all'insieme l'impronta di un'unità ispirata, costituiscono gli aspetti estetici fondamentali di questa 2ª parte. Essa deve condurre alla 3ª parte in cui il primo tema riappare nella tonalità originaria dalla quale prende il nome la sonata (Son. in re maggiore, in sol minore, ecc.). Una conclusione più ampiamente sviluppata di quella posta alla fine della 1ª parte, e detta coda, chiude la 3ª parte e con essa il 1° tempo.

Spesso su questo schema si modella anche l'ultimo tempo, o l'Adagio (più raramente e in forma abbreviata). Ma talvolta l' Adagio può essere sostituito da Variazioni, come il finale può assumere la forma del Rondò. In quest'ultimo caso esso consta di alcuni temi brillanti, di cui il primo, a forma di canzone, viene frequentemente ripetuto (alternandolo agli altri) anche in maniera variata.

Ad ogni modo, questi a cui abbiamo brevemente accennato non sono che schemi (i quali possono anche essere variamente modificati) che la fantasia del compositore deve riempire della materia viva: i temi e i loro sviluppi. Ora, la forza di un'opera d'arte non sta nello schema, per quanto logico e provato da gloriose esperienze, ma nel vigore e nel senso di poesia che l'ispirazione del compositore manifesta nel servirsene, cioè nei temi e nella loro elaborazione. Da Haydn ai moderni questo schema ha servito alle più svariate espressioni, a volta a volta galante, aggraziata, drammatica, tragica, lirica, impressionistica, patetica, fantasiosa, a seconda che i compositori si chiamavano Haydn o Mozart, Clementi o Beethoven, Brahms o Debussy, Liszt o Ravel, e via dicendo. Il lettore non ha che a scegliere fra i vari autori di Sonate per rendersi conto della mirabile varietà di effetti, di disegni, di colori, di architetture a cui lo schema della Sonata si presta, e in particolare lo schema del 1° tempo. E allora, nel rapimento che il fiotto ispirato deve produrre, non sarà male che chi ascolta dimentichi un po' la frigidità meccanica dello schema (allo stesso modo che gli conviene non pensare alla nomenclatura dei temi wagneriani) per seguire il palpito della poesia, il fluttuare delle emozioni, il dialogo appassionato o drammatico delle voci, la vicenda caleidoscopica stellare dei motivi, dei loro contrasti e dei loro sviluppi. S'intende facilmente come questo dialogo e queste vicende risultino più facilmente afferrabili quando gli strumenti sono due (per esempio violino e piano), o tre come nel trio (piano, violino e violoncello), per la diversità chiarificatrice dei timbri. Non ho bisogno di ricordare, fra le Sonate maggiori, quelle di Beethoven, alcune delle quali, come la Patetica (op. 13), quella detta Chiaro di Luna per il suo sognante 1° tempo (op. 27, n. 2), quella detta l'Aurora (op. 53), quella degli Addii (op. 81), l'op. 110 con il desolato monologo e la possente fuga, e soprattutto la tragica Appassionata (op. 57), fra quelle per pianoforte; quella Alla Primavera (op. 24), la (op. 30 n. 2), e l'infocata Sonata a Kreutzer (op. 47) fra quelle per violino e piano, sono nella memoria e nel cuore di tutti.

In molti casi, tanto in Beethoven che in Chopin, la parola Scherzo indica una forma dal ritmo, dai disegni, e dai contrasti di colore vivaci, ma dall'espressione fortemente drammatica, e che può vivere anche da sé, isolata dalla Sonata. Si pensi in particolare al grande Scherzo in si bemolle minore op. 31 di Chopin.

La Sonata a Kreutzer al posto dell'Adagio ci presenta, come in altre Sonate di Beethoven, un gruppo di variazioni di un tema di canzone particolarmente sereno. Anche le variazioni possono costituire una forma autonoma; esse sono quanto di più alato la fantasia può trarre dalla meditazione attorno a un soggetto, sia dal punto di vista ritmico che da quello melodico e contrappuntistico, e - nelle variazioni moderne - anche armonico. Dopo Mozart e Beethoven, di cui sono ben note le variazioni contenute nelle Sonate e quelle isolate, fra le quali le grandi 32 variazioni in do minore per pianoforte dello stesso Beethoven, Brahms è stato forse l'artista che ha dimostrato la più ricca e colorita capacità fantastica nello sviluppare da un tema dato uno smagliante mondo di immagini musicali. Si ascoltino specialmente le Variazioni per pianoforte su un tema di Schumann, quelle su un tema di Händel, le stupende Variazioni su un tema di Paganini e le più note, per orchestra, su un tema di Haydn, nelle quali ultime in particolare il musicista ha saputo creare dal tema prescelto quadri di una vitalità esuberante, di una vigoria dinamica e di una grandiosità impareggiabili. Per comprendere tutta la monumentale bellezza di queste, come delle Variazioni sinfoniche per piano e orchestra di Franck, occorre abituarsi a distinguere in ogni variazione gli elementi originari del tema e apprezzarne il valore in rapporto alle «trasfigurazioni» subite.

Tra le forme moderne della Sonata, una delle più interessanti è quella detta ciclica, come, ad esempio, la Sonata in la maggiore per violino e piano di Cesare Franck. «La Sonata ciclica - scrive il D'Indy nel suo Corso di Composizione - è quella la cui costruzione è subordinata ad alcuni temi speciali che riappaiono sotto forme diverse in ognuna delle parti che costituiscono l'opera, dove esercitano una funzione in certo modo regolatrice o unificatrice»: Ora, nella Sonata di Franck il ritorno dei temi intensamente patetici, intinti di un romanticismo ora sognante ora nervosamente agitato, ora appassionatamente espansivo, ora tragicamente disperato, la loro compenetrazione armoniosa che li fa sembrare nati a un'unica sorgente, la potenza della loro elaborazione in un'atmosfera di modulazioni fervidamente commosse da una continua ricerca di poesia, creano un'unità spirituale che dà il senso di una vicenda drammatica personale. Il nostalgico monologo del 3° tempo (Recitativo-Fantasia) rende tale vicenda anche più intima e profonda.

La chiarezza dei dialoghi e della costruzione armonica e contrappuntistica risulta maggiore nelle Sonate a due strumenti, come s'è detto, per la diversità dei timbri che facilita l'analisi. Meglio se il solista è accompagnato dall'orchestra, come nei Concerti per violino, per piano o per un qualsiasi altro strumento e orchestra, di Mozart, di Beethoven, di Mendelssohn, di Schumann, di Brahms, di Ciaicowski e d'altri. La forma, generalmente in tre tempi (Allegro, Adagio, Allegro), distinti o fusi, deve permettere di fare emergere il virtuosismo del solista. S'intende che non deve trattarsi di acrobatismo funambolistico a vuoto, ma il virtuosismo deve servire a più brillanti ed agili figurazioni musicali. Anche la cadenza, che specialmente alla fine del 1° tempo rappresenta una parentesi particolarmente riservata allo sfoggio dell'abilità tecnica del solista, dev'essere dal compositore piegata ad espressione d'arte. Egli si serve di solito di frammenti dei temi esposti in precedenza, e qui rielaborati in forma di capriccio o fantasia a solo. Per il restante il Concerto si regge sul dialogo e sui contrasti fra solista e orchestra. E se in alcuni concerti il virtuosismo puro ha preso la mano all'artista, non si può tuttavia dimenticare che in questo genere esistono pure monumenti insigni, primi fra tutti per splendore di poesia i Concerti per piano e quello per violino di Beethoven.

In questa forma, così estrosa e sciolta, l'orchestra, in quanto le varie parti della costruzione corrispondono appunto ad altrettanti timbri diversi, favorisce in sommo grado l'analisi acustica, e attraverso a questa l'emozione estetica.

Tra le forme solistiche (accompagnate o no dall'orchestra) e le forme orchestrali pure, sta il Quartetto d'archi. Due violini, una viola e un violoncello: ecco la struttura del quartetto d'archi. Infinita è la varietà degli effetti artistici che si possono ricavare da un complesso strumentale così piccolo, ma che abbraccia un'estensione sonora di ben 5 ottave: cioè 61 note, a non contare gli enarmonici, cioè i suoni interposti ad ogni semitono, i così detti quarti di tono, che nella musica - salvo qualche composizione modernissima e discutibilissima - non contano se non come sfumature nei portamenti, cioè nei passaggi da una nota all'altra sfiorando rapidamente tutti i gradi intermedi, e gli armonici, cioè le note «flautate» ottenute sfiorando con le dita della mano sinistra in varie posizioni le corde mentre l'arco passa su di esse facendole vibrare. Questo spazio sonoro è più che sufficiente a svolgere una melodia con la più ampia libertà di volo, e a concedere all'armonia e al contrappunto il più esteso sviluppo. A ciò si aggiunga che ogni strumento ha qualità di forza, di passione, di soavità particolari, e che ogni corda di ciascuno porta un contributo sonoro timbrico speciale che ne moltiplica la varietà.

Questi quattro istrumenti riuniti a colloquio in una intimità raccolta e pensosa, riescono spesso a dire più di quello che esce dalle voci numerose di un'orchestra, anche se in questa i colori sono più vari e le sonorità più possenti. L'orchestra può darci un quadro più abbagliante, ma forse non scende tanto nel cuore profondo della musica quanto può farlo il semplice quartetto d'archi. Chi ascolta, dunque, un quartetto non deve attendersi emozioni travolgenti e fragorose, ma un godimento tutto interiore, basato su le più penetranti emozioni poetiche, anche nelle espressioni più gagliardamente drammatiche o gioiosamente esuberanti di certi movimenti beethoveniani.

Il colore vi è necessariamente uniforme, o suggerito indirettamente per via di certi procedimenti tecnici (sordina, suono sul capotasto, sul ponticello, su la 4ª corda, flautati, pizzicati) in quanto i quattro istrumenti sono il prolungamento sonoro l'uno dell'altro. Cosicché un quartetto può essere paragonato, come del resto una composizione per piano solo, a una figurazione bianco e nero, con tutte le sfumature relative. Non è cibo per i palati grossi; e anche per questo l'orchestra non ha mai ammazzato il quartetto. La relativa uniformità dei timbri strumentali, anziché nuocere rende più omogenea e unitaria la natura dell'espressione musicale; e nell'orchestra si ricorre al solo quartetto degli archi (accresciuti di numero perché non appaia di sonorità troppo gracile in confronto all'ambiente più vasto e alle robuste e piene sonorità degli istrumenti a fiato) ogni volta che l'espressione si intimizza.

Tutto ciò lascia intendere le difficoltà di una buona esecuzione quartettistica: sono indispensabili virtuosismo individuale tecnico e di cavata (sonorità e qualità del suono), precisione di attacchi, di collegamenti e di ritmo, equilibrio, fusione, omogeneità, espressione, cantabilità, interpretazione, stile, colore, chiarezza, rilievo plastico, comunicativa. Nessuno deve soverchiare l'altro né apparire troppo debole; eppure la linea principale deve sempre emergere nitida, mentre nell'insieme i quattro istrumenti debbono sembrare uno solo.

Ma non basta al compositore far suonare insieme due violini, una viola, e un violoncello per avere un quartetto d'archi. La forma dev'essere concertante, vale a dire che in essa tutte e quattro le parti debbono avere ugual valore e presentare uguale interesse; tutte debbono cantare, a vicenda o insieme, muovendosi l'una su l'altra, libere e insieme interdipendenti. Il quartetto costituisce per tal modo una specie di conversazione a quattro (le diverse voci degli istrumenti suggeriscono facilmente questa impressione) in cui un istrumento propone un tema, un soggetto di conversazione che viene discusso, variato, commentato, sviluppato e gradatamente portato a una conclusione. Occorre dunque seguire il tema nei suoi passaggi da un istrumento all'altro, nelle risposte che provoca, nelle varianti, negli sviluppi, afferrare il disegno e il carattere degli episodi interposti fra un ritorno e l'altro del tema, e il complesso delle reazioni simultanee dei vari istrumenti che possono fra loro armonizzare o contrastare. Non si fa che allargare a quattro l'attenzione che nella Sonata si pone su uno o due istrumenti.

Osserviamo, ad esempio, il 1° tempo di uno dei più facili quartetti di Beethoven, quello op. 59 n. 1 in fa maggiore. Il violoncello espone un tema dolce, cantabile, mentre il violino 2° e la viola accompagnano con note ribattute. Ora è questo tema che passando uguale, o alterato in varia maniera, intero o a frammenti (i quali a loro volta danno origine a nuovi sviluppi) dall'uno all'altro istrumento, sostenuto da commento contrappuntistico, con episodi sempre diversi intercalati fra una ripresa e l'altra, forma la base del dialogo animato delle quattro voci. Il violoncello propone il tema, il 1° violino ripete e modifica, gli altri ne afferrano una parte e la sviluppano, un frammento rimbalza fra i quattro, come discusso, esaltato, rinnegato, trasformato, da luogo a deviazioni, a ritorni, fa balenare idee nuove, e finalmente è l'inizio del tema che s'inciela nel 1° violino, si sofferma nell'alto con dolce sicurezza, mentre la conversazione degli altri accenna a placarsi. E allora discende con serena calma per unirsi agli altri in accordi conclusivi.

Questa, in maniera piuttosto sintetica e approssimativa, la struttura del 1° tempo del Quartetto op. 59 n. 1 (chè un'analisi più particolareggiata ci porterebbe inutilmente per le lunghe); ma la vita, lo spirito, l'energia, la poesia che scaturiscono dai temi, dai loro svolgimenti e da tutto l'insieme noi tenteremmo invano di renderli a parole.

Le stesse cose potremmo dire per un qualsiasi altro quartetto di qualunque altro autore, anche per quelli di Debussy e di Ravel, mirabili nel loro più moderno stile, che riflette tutt'altre sensibilità da quelle classica e romantica di Beethoven, di Schubert, di Schumann, di Brahms.

Il Quartetto op. 10 in sol minore di Claudio Debussy ha un primo e un ultimo tempo passionali e romantici, ma tutti velati di ombra e di mistero, pervasi di un fascino sottile che emana dalla indefinita poesia creata dai delicati chiaroscuri delle armonie evanescenti e languide. Altrettanto etereo sospiroso e spirituale è il 3° tempo. Ma il secondo, Assai vivo e ritmico, con la ridda dei pizzicati che si addensa attorno agli istrumenti che scherzano con fine umorismo sul tema del 1° tempo, sembra quasi un'aerea ironica danza di spiritelli.

Il Quartetto in fa maggiore di Ravel è anche più ligio alla struttura classica, ed è una prova del come tale struttura possa venire animata pressoché all'infinito da spiriti nuovi. Anche questo Quartetto è soffuso da un giuoco poetico di luci e d'ombre, da ritmi e melodie nuotanti in un'atmosfera di armonie maliose. E anch'esso contiene un secondo tempo a scale e a strappate di pizzicati, con la parentesi desolata, quasi preghiera, di una frase in sordina, pianissimo, come un sogno evanescente. Il 3° tempo è un nostalgico pianto trasognato, mentre il finale è tutto animato da un inquieto fervore.

La musica da camera del '900 va alla ricerca di tutt'altre emozioni, mettendo in giuoco tutte le nuove esperienze armoniche, ritmiche e strumentali, non rinunziando agli effetti spaziali del contrappunto. C'è però una tendenza diffusa ad andare verso un primitivismo che sembra spesso troppo voluto per essere sincero oggi, e un oggettivismo che reca con sé un senso di gelida astrattezza. E, nella ricerca del nuovo, c'è la tendenza a schivare di proposito quanto si è fatto prima, con un senso di sovversivismo iconoclastico, a porre in primo piano quanto era rimasto finora in penombra o era ritenuto brutto, sostituendo perfino gli archi con gli istrumenti a percussione. Un amico che usciva da un concerto dove poco prima aveva udito una composizione per pochi istrumenti a fiato e molti a percussione, ridisse a mo' di commento un noto verso di Carducci scritto con tutt'altro significato da quello che egli intese dargli: «L'ora presente è in vano, non fa che percuotere e fugge». Naturalmente era una malignità, ma si poteva anche sospettare che il sostituire istrumenti cupamente pulsanti ad altri soavemente o fieramente cantanti non fosse solo un modo di ribellarsi al passato, un modo polemico di reazione, ma un modo di mascherare la propria incapacità a cantare. L'uso oggi divenuto frequente delle «parti recitanti» conferma anch'esso l'incapacità di dar vita alla parola, e trascendere dall'espressione verbale al canto. Ma, dicemmo già, la tecnica nuovissima, pur fra gli eccessi polemici, ha un suo scopo di ricerca che non andrà perduto per chi avrà la potenza geniale di assimilarla per esprimere un mondo nuovo e veramente profondo di emozioni. E l'amico proseguiva: «Sol nel passato è il bello...», ma anche questa era una pura malignità.

«E il cuore?», chiedeva un altro. - «Oh, il cuore, - gli fu risposto - un vecchio arnese frusto, è stato gettato nel letamaio !»

La Sinfonia per orchestra ha lo schema della Sonata, arricchito non solo in sonorità ma nella abbondanza di timbri risultanti dai numerosi singoli istrumenti e dai loro impasti. Se le differenze di timbro rendono più facile la percezione di un tema, il riconoscimento di ogni suo ritorno, e chiariscono le armonie, le dissonanze e le loro risoluzioni, possono tuttavia accrescere le difficoltà, specie nelle partiture moderne, per la complessità della polifonia risultante. In questo caso occorre un'abitudine, che si forma attraverso ripetute ascoltazioni, a saper distinguere i temi o i frammenti di essi e le loro trasformazioni nei passaggi attraverso i vari strumenti, e cogliere l'atmosfera armonica che li circonda e i contrappunti che li animano.

Ma badiamo: se noi ammirassimo i ritorni, le variazioni, gli intrecci tematici, le abili modulazioni, i sapienti impasti e contrasti di timbri per se stessi, noi ammireremmo ancora solo la tecnica, non la musica; rimarremmo in un campo troppo cerebrale, dove il nostro entusiasmo sarebbe una montatura fittizia e meccanica del genere di quella che prende certi appassionati di motociclette e d'automobili quando ne ammirano qualche congegno o dispositivo nuovo. Il godimento artistico incomincia dall'emozione artistica che ci è procurata da tutti gli elementi di cui sopra. La musica sta dunque nella poesia che il giuoco tecnico può creare.

L'esecuzione della musica sinfonica richiede la costituzione di organismi orchestrali formati da elementi numerosi, tecnicamente preparati e bene affiatati. Rispondono a questo scopo le moderne «orchestre stabili», fra le quali in Italia si distinguono particolarmente l'Orchestra di S. Cecilia di Roma, quella della Scala di Milano, e quella del «Maggio musicale» di Firenze, e l'orchestra «Alessandro Scarlatti» di Napoli.

Alle composizioni per piccola orchestra bastano formazioni minori. La prima del genere in Italia fu la nota «Orchestra da Camera», costituita e diretta dal M.° Adriano Lualdi. E va pure ricordato il Collegium Musicum Italicum, formato tutto da concertisti di fama, costituito e diretto dal M.° Renato Fasano, l'orchestra da camera di Roma, diretta dal M.° Guido Guerrini, e quella di Firenze diretta dal M.° Piero Adorno.

La struttura d'una sinfonia è troppo complessa perché possiamo sperare di darne a parole qualche chiarimento che serva ad avviare ad una possibile audizione.

«Ogni viltà convien che qui sia morta»: chi ascolta deve fare appello a tutte le proprie risorse di indagine e d'attenzione e insieme ad una propria facoltà d'abbandono e di sensibilità. Accenniamo appena a qualche episodio per dare un'idea vaga delle possibili difficoltà che attendono l'uditore.

La presentazione del tema (archi e clarinetti ff) del 1° tempo della V Sinfonia in do minore di Beethoven è fatta con tale energia da imprimerlo subito nella mente col suo carattere fatale e possente; cosicché il riconoscimento di esso durante tutto il tempo riesce facile, come facile riesce il riconoscimento dei contrappunti fatti per moto contrario su lo stesso ritmo, le sue progressioni ascendenti, il suo precipitare, il suo riaffermarsi vigorosissimo nei corni, il suo pulsare piano nei bassi come una minaccia sotto il nuovo disegno melodico dolce dei violini prima, poi dei clarinetti e infine dei flauti. Ed ogni sua nuova presentazione, ogni sua modificazione, il suo violento ricomparire dopo i misteriosi accordi alterni degli archi e dei legni, il suo insistere, anche dopo il dolente soliloquio dell'oboe, il suo infuriare fino alla chiusa, non offrono reali difficoltà. Ma cosa c'è da cogliere oltre questo giuoco di sviluppi sinfonici? Inutile cercare un significato preciso, come taluno ha voluto fare pensando al «destino che batte alla porta» o ad altre sovrapposizioni letterarie consimili. C'è comunque qualcosa che può far pensare al martellare del destino, c'è un ossessionante impeto ritmico, uno sprigionarsi di energie favolose tra oasi ridenti, tra gemiti sospirosi, tra misteri incantesimali, e pause piene di tragica ansia.

Se si ascolta la Sinfonia in si min. «Incompiuta» di Schubert, già sùbito, dopo la breve introduzione austera e fatale, noi ci troviamo di fronte a due disegni che bisogna afferrare in maniera distinta simultaneamente: un ricamo lieve e pieno di movimento dei violini, e un canto dolce e un po' malinconico dell'oboe, compenetrati l'uno nell'altro e fra loro inscindibili. Sono essi che creano l'atmosfera d'incantamento musicale che si svilupperà via via nel corso della Sinfonia.

Più distinti e chiari, perché più sciolti da sovrapposizioni contrappuntistiche, i temi largamente cantabili della V Sinfonia «Dal nuovo Mondo» in mi min. op. 95 di Antonio Dvôrak; mentre accostandosi a Franck o a Brahms la densità del polifonismo, e gli sviluppi tematici più liberi richiedono un'ascoltazione più attenta ed intensa.

Nella 1ª Sinfonia in do min. op. 68 di Brahms, ad esempio, il 1° tempo ci afferra subito per il ritmo martellato più ancora che pel motivo quasi disperato che si leva e si spezza in un gemito dell'oboe. All'attacco dell'Allegro si sprigiona un tema ritmico energico, interrotto ogni tanto da estasi meditative. Nell'Andante sostenuto Brahms ci fa assistere a una specie di gara dei violini che si scavalcano e fanno a chi porta il canto sereno più in alto, alternando poi pensieri serafici a pensieri gravi, meditazioni calme a effusioni patetiche. E potremmo continuare così a tracciare leggermente un esile filo conduttore, se non fossimo più che persuasi che questo (anche se ci estendessimo di più) è troppo poco, che questo è nulla a confronto con l'insieme di elementi musicali che, dal semplice pizzicato di un contrabasso, a un accordo grave di ottoni, da un canto di corno a un contrappunto di viole, da un «solo» a un «tutti», determinano la complessa atmosfera, il pathos, il susseguirsi delle differenti emozioni musicali, che tanto più sono poeticamente alte, tanto più sfuggono ad ogni precisazione verbale; poiché

«trasumanar significar per verba
«non si porìa; però l'esempio basti
«a cui esperienza grazia serba».

Appendice [Indice]

Aggiungiamo in Appendice brevi cenni illustrativi di composizioni strumentali più celebri o più di frequente eseguite e delle quali non s'è trattato nel testo.

Albeniz Isacco (1860-1909)

In tutte le composizioni di Albeniz troviamo l'eco di canti (autentici o imitati) delle terre di Spagna, col loro particolare colore e profumo meridionale e con gli effetti caratteristici degli istrumenti locali, specialmente della Chitarra, in una trasfigurazione artistica affascinante per ricchezza di ritmi e bellezza di modulazioni armoniche. Citiamo, ad esempio, le quattro seguenti:

Prelude. Un movimento rapido di note ribattute sopra un disegno melodico a note staccate, intercalato a forti strappate di accordi, simula le caratteristiche strumentali della chitarra. Nella parte centrale della composizione un canto dolce a frasi brevi, di tipo orientale, porta nella vivacità del movimento precedente un più vivo senso del colore esotico e accenti di nostalgia.

Navarra. Temi e ritmi folkloristici scelti fra i più suggestivi danno alla composizione un'espressione calda e luminosa incantevole dell'ambiente meridionale.

Cordoba. «Nel silenzio della notte, che interrompe il sussurro della brezza profumata dai gelsomini, suonano le guzle accompagnando la Serenata e diffondendo nell'aria melodie ardenti e note tanto dolci come il dondolìo delle palme nell'alto cielo». Questa la didascalia posta dall'autore a chiarimento su la prima pagina della composizione, che è traboccante dell'intensa poesia di una notte meridionale con i suoi effluvi e i suoi canti sensuali e molli. La guzla è una sorta di chitarra a una sola corda.

Triana. È una evocazione del quartiere gitano di Siviglia, del «passo doppio» e della «marcia torera» fatta con ricchezza di contrasti ritmici e grande vivezza di colore.

Bach Giovanni Sebastiano (1685-1750)

1° Preludio in do magg.: vedi testo a pag. 76.

Invenzione a 2 voci n. 13: vedi testo a pag. 252-253.

Invenzione a 3 voci n. 6: vedi testo a pag. 353.

Fantasia cromatica e fuga in re min.: vedi testo a pag. 254.

Toccata e fuga in re min. Un richiamo brillante per tre volte ripetuto all'ottava sempre più in basso, seguito da robusti accordi dissonanti apre in movimento Adagio la Toccata. Subito dopo una serie di disegni rapidi in Prestissimo donano alla composizione una vivace animazione (si noti che il Prestissimo non è rigido, ma ha diverse mutazioni che aumentano il senso di vitalità dei disegni melodici). Infine, dopo una cadenza solenne, incomincia la Fuga (allegro sostenuta), il cui tema agile e semplice, di un ritmo uniforme, subisce, nelle varie presentazioni e nei divertimenti, variazioni che lo rendono sempre più interessante. Su la fine un movimento mosso, a recitativo, una nuova presentazione precipitata del tema, alcuni accordi e arpeggi cadenzali, concludono la composizione in modo grandioso.

La Toccata e fuga in do magg. per organo (trascritta da vari autori per piano) inizia con un Preludio che si apre con due brevi richiami vivaci in movimento Moderato, seguiti da arabeschi veloci e leggeri simili a improvvisazioni fantastiche. Segue un tema grave, assai variato nei suoi sviluppi, che via via si anima e si addolcisce e assume un andamento più largamente cantabile, si arricchisce di contrappunti, passa a varie voci con sempre maggior vigore e vastità di risonanze, per chiudere con solennità. - Il 2° tempo è un Intermezzo: Adagio, una melodia di carattere dolce ma profondamente meditativa e trasognata. - Una cadenza grave ci porta al 3° tempo, e cioè alla Fuga, dal tema un poco scherzoso e umoristico che nelle diverse facce della costruzione architettonica assume fisionomie mutevoli per colore e calore, sfociando alla fine in una estrosa cadenza finale.

tavola15
XV. Wagner. (Acquerello).

tavola16
XVI. Scena di Casorati per La donna serpente di Alfredo Casella.

Il Concerto nello stile italiano in fa magg. per clavicembalo consta di tre tempi. Il 1° (Allegro animato) ci presenta motivi festosi e pieni di dinamismo. Il primo specialmente, più volte ripetuto in varie tonalità, costituisce, coi suoi ritorni fra i vari agili disegni, il pilastro attorno al quale si muove tutto l'edificio sonoro. - Il 3° tempo (Andante molto espressivo) ci presenta uno dei consueti esempi del cantare quasi recitando, intimamente raccolto e pensoso di Bach. Apparentemente intento solo a creare arabeschi e giuochi ritmo-melodici differenti, in realtà concentrato in un mondo fantastico e spirituale che è umano e divino insieme. Tale recitativo assume una nota di più sentito dolore verso la fine dove pare che l'anima naufraghi nelle profondità di un sogno nostalgico inafferrabile. - Il 3° tempo (Presto gioioso) è uno scatenarsi di allegria festosa, specialmente per merito del tema iniziale (spesso ripreso come nelle forme rondò) che con quel salto in basso e la rapida scaletta ascendente e affermantesi su accordi risoluti, reca con sé il buon umore, bene coadiuvato dai gustosi episodi intermedi, scorrevoli o imitativi, tutti freschi di una sanità primaverile gaudiosa.

Ciaccona per violino solo: vedi testo a pag. 254.

Concerto in mi magg. Per violino e orchestra. Il 1° tempo (Allegro) si inizia con energia; poscia il tema brioso e pieno di vita proposto dal violino passa all'orchestra che lo palleggia dagli acuti ai bassi, contrappuntandolo con movimenti ora ondeggianti, ora arpeggiati, con intensa fervida espressività. - II 2° tempo (Adagio) ha un andamento di raccolta serenità e meditativa soavità. La frase cantabile ampia acquista a momenti una penetrante forza d'espressione, mentre i bassi commentano con solenne gravita conferendo all'insieme l'austero sentimento di una preghiera. - L'ultimo tempo (Allegro assai) è scorrevole, fresco, ed esprime una vivace festosità cui i ritmi balzanti conferiscono carattere di danza aggraziata e signorile.

Concerto in re min. per 2 violini e orchestra. Il 1° tempo (Allegro) presenta una grande vivacità di figurazioni, con svolgimenti di disegni diversi contrappuntisticamente sovrapposti e armonicamente concatenati, secondo un metodo che ricorda lo stile vivaldiano. - L'Adagio presenta una frase discendente di largo respiro, di un carattere patetico profondo, che passa da un violino all'altro. Quando è ripresa all'acuto, dopo la prima proposta, è come un incielarsi, un indiarsi del sentimento. Sul finire, un breve trillo sembra una lacrima che tremi fra ciglio e ciglio: lacrima di tenerezza, tra la nostalgia mesta e il sorriso sereno. - Il 3° tempo (Allegro) riprende i modi e la costruzione architettonica del 1°, con pari solidità e vivacità dinamica e di moto.

I sei Concerti brandeburghesi furono così denominati perché composti da Bach per il Margravio di Brandeburgo Cristiano Lodovico, nel 1721. Derivazione diretta dei «Concerti grossi» di Antonio Vivaldi, essi sono considerati come opere strumentali della maggiore importanza per la bellezza armoniosa, vigorosa e insieme severa della costruzione, per l'originalità tematica, la magnificenza degli sviluppi, la forza dinamica prodigiosa, l'intensità di vita ritmica che li pervade e fa di essi dei poemi di una ricchezza artistica non comune.

Il 1° Concerto brandeburghese in fa magg., ha la struttura del «concerto grosso» con varianti che lo allontanano dal tipo classico italiano. Il Concertino è costituito da un «violino piccolo» con accordatura si bem.-fa-do-sol; 2 corni, 3 oboi, 1 fagotto. Il c. grosso è formato dagli archi. Le due masse ora si alternano, ora si fondono, ora si contrappongono, con grande varietà d'effetti, e a volte anche si frazionano in gruppi minori. - Il 1° tempo è vigoroso; l'Adagio assai patetico; il 3° è gaio e sereno. L'ultimo tempo è il più caratteristico. Si tratta di un Minuetto seguito da due «trii», il 1° per 2 oboi e il fagotto; il 2° per 2 corni e 3 oboi. I due trii sono intramezzati da una Polacca degli archi. Chiude la ripresa del Minuetto.

Pel 2° Concerto brandeburghese in fa magg.: vedi testo a pag. 256-257.

Il 3° Concerto brandeburghese in sol magg. per archi e cembalo, uno dei più frequentemente eseguiti, consta di due tempi: il 1° è un Allegro di grande energia ritmica e di grande respiro. Il 2°, pure Allegro, ha un movimento più rapido e vivace ed un'espressione di intenso fervore.

Il 4° Concerto brandeburghese in sol magg. per violino, 2 flauti, orchestra d'archi e cembalo consta di tre tempi. Il 1°, Allegro, è animato. Ad esso si alternano un a solo del violino, in forma di fantasia, quindi uno per i due flauti. Il 3° tempo è un Andante a dialogo e a effetti d'eco fra violino e flauti da un lato e archi dall'altro. Il 3°, Presto, è una fuga vigorosa che racchiude un ampio a solo del violino.

Il 5° Concerto brandeburghese in re magg. per flauto, violino, cembalo e archi incomincia con un Allegro di cantabile ed estrosa energia, cui si intercala un ampio a solo, quasi una cadenza-fantasia, del clavicembalo, che conduce a una ripresa della chiusa in maniera grandiosa. Il 2° tempo è una pagina affettuosa dal ritmo spiccato, e non priva di contrasti drammatici, per flauto, violino e cembalo soli. Il 3°, Allegro, e un fugato su un tema quasi di canzone popolaresca fresca e gioconda.

Il 6° Concerto brandeburghese in si bem. magg. è composto per 2 viole, 2 viole da gamba[45], violoncello, contrabasso e cembalo. L'assenza dei violini dà al Concerto un colorito grave che bene si intona con il dialogo serrato che si svolge fra gli strumenti nel 1° tempo, e col pathos melodico del 2° (in cui tacciono le viole da gamba). L'ultimo tempo ha carattere di giga robusta e non rapida.

La Passione secondo S. Matteo fu eseguita la prima volta nella Chiesa di S. Tommaso a Lipsia nel 1729. Ma, anche dopo, Bach seguitò a lavorarvi ritoccandola, e raggiungendo un'edizione definitiva solo nel 1740. Da quest'epoca la grande opera di Bach, una delle più grandi d'ogni tempo per altezza di ispirazione, potenza espressiva e perfezione di forma, e che tuttavia aveva avuto mediocre successo, fu dimenticata fino al 1829, allorché Felice Mendelssohn la riportò, in una memorabile esecuzione, davanti al pubblico di Berlino stupito e soggiogato.

Alla narrazione evangelica di S. Matteo (tradotta in tedesco) il musicista intercalò preghiere e meditazioni di cui egli si fece appositamente scrivere il testo da Christian Friedrich Heinrici (Picander).

L'oratorio si divide in due parti. La prima parte si inizia colla profezia di Gesù: «Fra due giorni è la Pasqua e il Figlio dell' Uomo sarà preso per essere crocifisso». Segue la Cena, l'arresto, fino all'annunzio che i discepoli fuggirono. - La seconda parte contiene il processo, la crocifissione e gli avvenimenti successivi fino al momento in cui la pietra del sepolcro viene suggellata.

La parte narrativa è sostenuta dall' «Evangelista» (tenore). Gli altri personaggi sono: Gesù, Pietro, Giuda, Caifa, Pilato, un falso testimonio, un sacerdote (tutti bassi); un altro sacerdote (baritono); una serva (soprano); un'altra serva, e una falsa testimone (contralti). Vi è inoltre una nuova figura: la figlia di Sion, che personifica l'anima cristiana, ed ora è sostenuta dal coro, ora da un solista (tenore). Nel complesso predominano le voci basse, e ciò dona all'insieme una tinta scura che bene si intona con la tristezza grave del soggetto sacro.

Un altro personaggio, come tale appena abbozzato negli oratori di Carissimi, qui portato a nuova e grandissima importanza, è la «folla», sia che interroghi ansiosa, sia che minacci e imprechi furente, sia che preghi adorante. Le forme fugate e imitative, con l'alternarsi spezzato delle parti, rendono con verità drammatica il vario agitarsi delle persone e il concitato parlare di esse, isolate o a gruppi. Altre volte le masse, divise in due cori, rappresentano la cristianità sbigottita la quale commenta, medita o prega in brevi forme di «corali», o in più vaste composizioni polifoniche di largo respiro melodico. I corali sono antiche melodie religiose a brevi frasi, chiuse da note tenute, armonizzate a voci sole in maniera omoritmica da Bach stesso. Essi hanno un carattere solenne per il movimento largo in cui s'effonde un toccante sentimento religioso.

Le altre forme più ampie, con partecipazione degli istrumenti (divisi in due orchestre di archi, organo, 3 flauti e 2 oboi ciascuna), si trovano all'inizio, alla chiusa della prima parte, e alla fine dell'oratorio. Notevole soprattutto quest'ultima («Wir setzen uns»: «Ci prosterniamo in lagrime»), disposta a tre cori sovrapposti, per l'alta espressione di pietà che emana dalla melodia stessa; e così pure l'iniziale («Kommt, ihr Töch»: «Venite o figlie»), anch'essa disposta a triplice coro, in cui il terzo emette ogni tanto delle brevi e drammatiche interrogazioni («Wen? Wie?»: «Chi?», «Come?»), mentre il primo sovrappone agli altri due, con stupendo contrasto, l'esposizione di un corale a «voci bianche» (ragazzi). Spesso poi le due orchestre dialogano fra loro o coi cori.

L'Evangelista si esprime invece per recitativi accompagnati ora dal cembalo, ora (nei momenti più drammatici) dall'orchestra. Il recitativo di Bach ha un andamento mosso, nervoso, ricco di una intensa vibrazione drammatica per gli scatti vocali ampi e improvvisi, per la varietà del ritmo e del movimento in rapporto strettissimo col significato del testo.

Quella dell'Evangelista è una voce che narra presa da uno spasimo di commozione, da un'agitazione che le viene dall'orrore per la tragedia divina. Ma quando il recitativo è affidato a qualcun'altro dei principali interlocutori, allora il carattere del disegno e del movimento cambia: lento, dolce e nobile se parla Cristo (sempre accompagnato dall'organo e dagli archi); torbido e cupo se parla Giuda; duro se parla il Gran Sacerdote: deciso e rapido se parla Pietro. Ma Gesù, che costituisce il centro tragico dell'oratorio, non si esprime solo per recitativi, ma anche per frasi più ampiamente e liberamente melodiche. Così, ad esempio, durante la cena, quando Egli offre ai discepoli il pane e il vino; o quando nell'orto di Getsemani prega il padre di allontanare da Lui il calice amaro; o sia che dall'alto della croce esclami:

«Eloi, Eloi, lamma sabachtani?».

Il quadro si allarga ancor più per le arie (precedute da recitativi melodici) affidate a parti soliste diverse, dialoganti col «solo» di uno o più istrumenti, mentre il resto dell'orchestra accompagna, contrappunta e commenta. Prevalgono, naturalmente, le arie di basso, dalle tinte timbriche oscure. Il coro talvolta interviene alternando ai soli angosciate interrogazioni, commenti polifonici, o le austere meditazioni dei corali. Citiamo, ad esempio, il solo per contralto: «Du lieber Heiland du»: «O Salvatore amato», dialogante con la melodia di due flauti; l'aria del tenore: «Ich will bei meinem Jesu wachen»: «Io voglio vegliare presso il Maestro», con il contraccanto dell'oboe e l'alterno intervento del coro; il pianto del soprano e del contralto: «So ist mein Jesus nun gefangen»: «Così Gesù fu colto», su un disegno singhiozzante, accentuato dall'orchestra, mentre il coro intercala a tratti grida violente e drammatiche: «Lasst ihn, hatet, bindet nicht !»: «Lasciatelo ! Fermate ! Non stringete !». E ricordiamo ancora la divina aria del contralto: «Erbarme dich, mein Gott»: «Pietà, o Signore», col dolcissimo e patetico contraccanto del violino, forse la pagina più bella dell'intero oratorio, certo la più commovente; e l'altra, pure bellissima, del soprano: «Er hat uns Allen wohlgethau»: «Egli volle morire per amore», con il soavissimo solo di flauto accompagnato dagli oboi da caccia (oggi non più in uso, e perciò sostituiti da corni inglesi) che donano al canto un'impronta di profonda mestizia. Ricordiamo infine il grande pianto del contralto: «O Golgotha!», sul dolente lamento degli oboi e fra le interrogazioni smarrite e terrorizzate del coro; pagina di cupa e desolata tragicità.

La Messa in si minore di Bach, per soli, cori, orchestra e organo, fu composta per il Principe elettore cattolico di Sassonia Federico Augusto II, fra il 1733 e il 1738. È opera di proporzioni colossali, assolutamente inadeguata al rito ecclesiastico. È noto che alcune parti musicali della Messa erano state già composte da Bach su altri e differenti testi. Tali, ad esempio, il «Gratias agimus», il «Qui tollis», il «Patrem omnipotentem», il «Crucifixus», l' «Hosanna», e l' «Agnus Dei», ma tutto ciò non toglie che la musica non si sia profondamente assimilata al nuovo testo, e, in qualche caso, non vi si sia meglio adattata anche subendo opportune trasformazioni.

Aria, duetti, e cori sono le forme prescelte dall'autore, e precisamente: sei arie, tre duetti e quindici cori. Questi ultimi hanno uno sviluppo polifonico denso e grandioso, in cui le «fughe» vocali, a uno o più soggetti, raggiungono spesso una forza trascendentale poderosa, sganciandosi talora dal significato della parola per assurgere a pura manifestazione di alta spiritualità contemplativa, specie di «mistiche rose» sonore. E ascoltandole vien fatto di pensare a Dante, là dove dice (III, XII):

«A rotar cominciò la santa mola:
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch'un'altra d'un cerchio la chiuse,
e moto a moto, e canto a canto colse».

E se anche in qualche momento il congegno scolastico può rivelarsi nella sua meccanica aridità, in molti altri un possente soffio di elevazione al divino lo illumina tutto e lo trasfigura con una sublimità folgorante.

Quanto alle arie e ai duetti, essi si innestano nella Messa portandovi le forme e gli accenti della «Cantata profana» e dell' «Aria da camera»; il che non esclude ch'essi presentino sovente un'adeguata espressione religiosa, tanto più che l'ispirazione bachiana è sempre così elevata e nobile, anche nelle forme strumentali oltreché in quelle vocali, che si potrebbe anche affermare che tutta la musica di Bach è religiosa. Strumenti solisti preludiano e accompagnano arie e duetti con freschi contraccanti che ne accrescono la varietà.

Il Kyrie, dopo il drammatico inizio, si sviluppa da un preludio orchestrale con un monumentale «fugato» su un tema pieno di dolce malinconia, che a tratti assurge a grandiosità espressiva solenne, se pure sempre accorata. Il Christe, affidato a due soprani e sostenuto dagli archi, non muta l'espressione malinconica se non forse per un'intonazione più flebile. La ripresa del Kyrie su un tema nuovo e più incisivo accresce l'austerità religiosa del brano.

Il Gloria, annunciato dalle trombe e dagli oboi con vivacità di movenze ritmiche sopra il pulsare dei timpani, sviluppa un tema gioioso, marcato e molto florido, specie all' «Et in terra pax» in cui la floridezza del canto sembra voler esprimere la gioia della pace; gioia esuberante e quasi trasfigurata in danza. Il Laudamus te, per soprano e solo di violino, espone un motivo sonatistico e alquanto virtuosistico, in cui il canto stesso ha un trattamento più strumentale che vocale e un'espressione di giubilo. Il Gratias agimus con la sua polifonia corale e orchestrale ci riporta alle consuete costruzioni improntate a grandiosità. Il duetto soprano-tenore Domine Deus, con contraccanto di flauto e violini, ritorna all'espressione di gorgheggiante letizia. Ma il Qui tollis ha una melodia implorante e dolorosamente inquieta nella sua mobilità tonale, che trova un prolungamento nell'aria per contralto con oboe d'amore (oggi sostituito dal corno inglese) del Qui sedes: una delle più limpide ed espressive melodie bachiane. L'aria per basso Quoniam tu solus con acrobatico accompagnamento del corno da caccia (anche questo ormai sostituito dalla tromba bassa) riprende una espressione giubilante per la ricchezza dei vocalizzi canori e strumentali. Giubilo che diventa entusiastico fervore nella miracolosa florida animazione vocale del Cum Sancto Spiritu: luce trasformata in suoni; suoni che diventano beatitudine celeste.

Il «Credo», costruito sul tema gregoriano, si afferma, su un basso in continuo movimento, come una robusta e attiva confessione di fede. E tale carattere si conserva nella «fuga» del Patrem omnipotentem; e, più addolcito, nel duetto soprano-contralto Et in unum dominum.

Ed eccoci alle pagine più drammatiche della Messa.

Nell' Incarnatus la polifonia corale si dirada per lasciar posto a un'espressione di malinconico stupore, quasi, verrebbe voglia di dire, premozartiano. Il Crucifixus, con le sue frasi lente e spezzate, che passano da una voce all'altra con cupo terrore, su l'ostinato disegno cromatico dolorosamente discendente del basso, è tutto imbevuto di lacrime e d'orrore; e qui più che a Mozart si pensa a Beethoven. Con uno scatto energico, senza preludio orchestrale, il coro attacca l' Et resurrexit: le trombe squillano, i timpani hanno una palpitazione robusta di vita, e il canto si libra su spire sonore, a onde gonfie di un'immensa gioia trionfale. Alle parole: «Et iterum venturus est» l'espressione festosamente gioiosa passa ai bassi soli. Infine, allorché cessa il coro, l'orchestra prolunga i ritmi e i canti di vittoria. L'aria per basso, con oboi d'amore, Et in Spiritum Sanctum ha una ritmica e una dolcezza pastorali. Il Confiteor prende dalla cristallinità della polifonia (in cui si innesta anche un tema gregoriano: tenori, battuta 92) un vigore di fede che soggioga, una forza d'indiamento, una travolgente certezza nell'al di là, che nelle audaci modulazioni dell' «Expecto resurrectionem» sembra sollevarci al di sopra della vita terrena in un'estasi abbacinante di luce e di ebbrezza.

Il Sanctus, con la poderosa «fuga»: «Pleni sunt coeli et terra», e l'Hosanna, conservano alto questo fervore di glorificazione vittorioso. Al Benedictus, aria per tenore, preludia con patetica e insieme florida dolcezza un violino solo, che poi contrappunta con gli stessi disegni il canto. L'Agnus Dei è una preghiera per contralto, umile e dolente, eccezionalmente scarna e priva di melismi sia vocali che strumentali, cui reca un alone di spiritualità la voce aerea del flauto. Per il «Dona nobis pacem», Bach non ha cercato espressioni imploranti, ma, si direbbe, imperiose; e non ha esitato ad usare qui lo stesso coro a imitazioni polifoniche del Gratias agimus, sul quale la grande Messa si conclude con effetto di grandiosità sonora.

Bartok Bela (1881-1945)

Ungherese, compositore eminentemente moderno nel più audace senso della parola. Il suo nazionalismo e il suo amore per tutto ciò che di primitivo gli hanno rivelato gli studi sul folklore magiaro e zingaresco, lo fanno tendere verso sonorità pesanti, la musica-rumore, e dissonanze brutali. Spesso tuttavia rivela una forza primigenia d'espressione soggiogante, come nel famoso Allegro barbaro, dalla forma quadrata perfetta.

1ª Sonata op. 18 per violino e piano. Il 1° tempo, Allegro appassionato, ci presenta la dissoluzione del linguaggio musicale in disegni atonali che si svincolano da ogni forma di nesso logico o armonistico in una pura successione di suoni dal ritmo sempre mutevole. Sonorità pura che aspira ad espressioni ora patetiche, ora ardenti, ora trasognate. - Il 2° tempo, Adagio, è costituito in gran parte da lunghi a solo del violino, con espressione disperata. Dal 1° e 2° tempo emerge un senso di esasperante ansia e di spasimo, come di uno spirito alla ricerca di qualche cosa che sempre sfugge, mentre l'armonia si mantiene lontana da ogni sistema consacrato. Si pensa involontariamente ad uno che voglia cantare, ma non sa, perché è stonato o perché è un primitivo; tuttavia c'è, in fondo al disordinato cantilenare, una viva emozione ugualmente sentita. - Il 3° tempo, Allegro, ci presenta ritmi di danza, fra il barbarico e lo zingaresco, su armonie dissonanti. Nella parte centrale il piano assume un ritmo cadenzato, mentre il violino accenna a motivi di «capriccio». I ritmi divengono furiosi nella chiusa.

La Suite op. 14 per pianoforte è una successione di 4 movimenti: Allegretto, Scherzo, Allegro molto. Sostenuto, attraverso ai quali si manifesta la natura complessa e moderna del compositore ungherese, nelle armonie e nei ritmi audaci o arcaici che interpretano l'anima rude e pur ricca di poesia del popolo magiaro. Alla vivacità ritmica e al rilievo tematico dei primi tre movimenti contrasta la divagante e un po' slegata linea dell'ultimo.

Le Danze Romene e quelle Ungheresi trascritte da Bartók, svolgono in forma artistica melodie popolari originali. Rispettoso della linea e del ritmo, il maestro con sapiente armonizzazione piena di gusto e ben caratteristica, ha aggiunto alla vivacità dei movimenti un'accesa intensità di colore.

Gli elementi ritmici e folkloristici, uniti al senso di una libertà tonale sconfinata, come quella suggeritagli dallo studio delle musiche zingaresche più antiche e rudi, hanno permesso a Bartók di crearsi un proprio linguaggio musicale barbarico e primitivo, che nulla ha di comune con quello dell'arte occidentale, e che pertanto a noi, discendenti da tradizioni di una civiltà aristocratica (anche nelle forme popolari), fatta di luce e di chiarezza, appare pressoché astruso e incomprensibile, oltre che urtante. Di questa materia e di questo stile scabro e istintivamente bruto, pure nella sua innegabile fantasiosità, sono costruite quasi tutte le opere di Bartók, e in particolare i suoi Quartetti per archi.

Beethoven (Van) Ludvig (1770-1827)

Il Trio-Serenata op. 8, scritto nel 1796 è forse la composizione più gaia del Maestro. I numerosi brevi momenti in cui è suddivisa l'opera apportano ciascuno un colore tenero e fresco di primavera, un accento ilare e luminoso che fanno di questo Trio per archi soli (violino, viola e violoncello) la più umana e viva espressione della giovinezza che spera felice e sorride al destino. A ventisei anni il destino non aveva ancora tradito il Maestro, ed egli poteva guardarlo con balda fede.

I Trii per archi dell'op. 9, pubblicati nel 1797, erano stati composti due anni prima. Seguendo i consigli di Haydn, il giovine autore li rimaneggiò profondamente, in ispecie quello n. 3 in do min. che fu quasi interamente rifatto. Questo Trio interessa soprattutto per la sua nervosa inquietudine e per quel senso tragico che si affermerà sempre più nelle opere successive come carattere fondamentale dell'arte beethoveniana.

Le 32 variazioni in do min. per piano, su tema originale, composte nel 1806, sono un esempio tipico della prodigiosa facoltà di sviluppo tematico di cui era dotato il Maestro. Sono 32 luci diverse, 32 impressioni psicologiche differenti emanate da un'unica idea madre, 32 trasformazioni ritmiche di un unico pensiero.

La Sonata n. 3 in mi bem. magg. op. 12 n. 3 per violino e piano (1798) pure presentando, come la 1ª e la 2ª, i caratteri tipici del Beethoven giovanile, cioè freschezza di idee di evidente derivazione haydniano-mozartiana anche nella forma degli sviluppi, è tuttavia più personalmente sentita. Il 1° tempo è pieno d'impeto e di vita; soavissimo l'Adagio; il Rondo, di una limpidezza che oseremmo dire latina nella sua fluidità, è spigliato e gioviale. È ancora l'opera di un musicista che guarda alla vita con serena forza e fiducia, rispettoso della forma tradizionale.

La Sonata n. 5 in fa magg. op. 24 per violino e piano (1801) è un quadro di serenità e di freschezza impareggiabile. Il 1° tempo (Allegro), signorilmente giocoso ed espansivo; il poetico Adagio molto espressivo, pieno di un largo e commosso sentimento di pace e di raccolta meditazione; lo Scherzo in cui piano e violino si inseguono in burlesco contrattempo; il vivace e gaio Rondò[46], sono tenuti dall'ispirazione e dall'arte magistrale di Beethoven in un'atmosfera che pienamente giustifica, per il suo tono idillico, la denominazione di Sonata alla Primavera con cui tale opera è generalmente designata.

La Sonata n. 7 in do min. op. 30 per violino e piano (1802) ha un 1° tempo (Allegro con brio) tutto impeto e bagliori drammatici. Vi si sente una volontà eroica in lotta contro forze avverse, un'affermazione di dominio assoluto dello spirito. - Il 2° tempo (Adagio cantabile) è una raccolta meditazione quasi una preghiera intima nobile e soave. - Lo Scherzo (Allegro) corrisponde a un bisogno di riposo, a un senso di benessere, quasi di gioco, e di rinascita dello spirito. - Il Finale (Allegro) è un'ondata di forza travolgente e di entusiasmo canoro che si espande con indicibile vivacità, e risponde a un senso di vittoria della volontà sul dolore.

La Sonata n. 9 in la magg. op. 47 per violino e piano (1803), nota con la denominazione di Sonata a Kreutzer, dal nome del violinista Rodolfo Kreutzer a cui fu dedicata (Sonata che dette il titolo e lo spunto per il noto romanzo di Leone Tolstoi) è una delle più alte concezioni beethoveniane. Il 1° tempo (Adagio sostenuto) inizia con un breve preludio in cui violino e piano si rimandano un'ampia frase pensosa, alla quale subentrano accenti incerti che si fanno tosto ansiosi e prorompono nel Presto, rappresentazione di una violenta lotta in cui i due istrumenti sembrano personificare due forze ora contrastanti, ora sforzantesi di raggiungere entrambe un comune ideale. Alternata a momenti di dolente pensosità, la lotta ha un aspetto estremamente energico, quasi tragico, verso la fine. - Nel 2° tempo (Andante con variazioni) Beethoven ci presenta un tema di eterea serenità che dà luogo a quattro leggiadrissime aeree variazioni. Poche volte la forma variazione ha raggiunto tale senso di delicata poesia. - A contrasto, il Finale (Presto) scatena un'orgia ritmica tempestosa da cui si sprigiona una barbarica e rude gioia travolgente. Sembra un ritmo di tarantella divenuto espressione di una drammatica allegrezza.

Le due Sonate per violoncello e pianoforte dell'opera 5

(1795) constano ciascuna di due soli movimenti, preceduti da un'ampia introduzione lenta. Prevale dovunque una grande chiarezza e nobiltà. Si può dire che queste Sonate ci mostrano un Beethoven per molti aspetti legato allo stile di Haydn e di Mozart. Sensibilissimo inoltre in esse lo stile beethoveniano delle prime Sonate per violino e pianoforte, specie della 5ª (detta La Primavera) di cui si risentono quasi identici alcuni passi. Tuttavia queste Sonate non mancano di rivelarci anche, in modo evidente, i segni robusti di una personalità che si affermerà con sempre maggiore potenza nelle opere successive.

La Sonata in la magg. op. 69 n. 3 per violoncello e piano

terza delle cinque composte dal Maestro fu scritta tra il 1805 e il 1806 e pubblicata solamente nel 1809. Il 1° tempo (Allegro ma non tanto) si inizia con una magnifica frase del violoncello, frase che il piano raccoglie, sviluppa, e gradatamente porta all'acuto in un'atmosfera di profonda poesia. - Lo Scherzo successivo, ritmato in contrattempo, è vivace e delizioso. - Dopo 18 battute meditative di Adagio cantabile, l'Allegro sgorga facile e fluido, pieno di gioconda serenità.

La Sonata in re magg. op. 102 n. 2 per violoncello e piano,

quinta delle Sonate composte da Beethoven pel violoncello, è del 1815. Vi si riconosce la concezione di un uomo ormai staccato dal mondo, e che vive solo nelle proprie visioni superiori, in un al di là del tutto suo. Piano e violoncello appaiono legati l'uno all'altro in un dialogo appassionato. Notevole la potenza vigorosa e severa dell'Allegro con brio (il brio in questo caso è indicazione generica di moto più che di espressione), in contrasto coll'espressione religiosa alta e meditativa dell'Adagio con molto sentimento d'affetto. - Denso e forte l'Allegro finale nell'intreccio dinamico del fugato che chiude la Sonata.

La Sonata n. 7, op. 10 n. 3 in re magg. per pianoforte (1797) si apre con un primo tempo (Presto) di grande irruenza e forte vitalità. Il tema originario si aggira per tutto questo tempo, intero o a frammenti, variamente modificato, assumendo espressioni sempre nuove e sempre incisivamente potenti, e spesso drammaticamente agitato. Il secondo motivo cantabile in si minore che vi si contrappone, in realtà col suo commosso dolore non fa che accrescerne l'energia. Il secondo tempo (Largo e mesto) è, come il Rolland aveva già notato, di una tristezza tragica; una vera elegia funebre, rotta da singhiozzi dolorosi; e costituisce una delle più alte vette dell'ispirazione beethoveniana. Gli fa contrasto la fresca grazia del Minuetto, giocoso nel «Trio» per le risposte della parte acuta ai richiami del basso. Il Rondò finale, non privo di una certa ansia negli improvvisi arresti del tema, sembra correre, nella sua vivacità, incontro a una gioia più intravveduta che conquistata.

La Sonata n. 8 in do min. op. 13 (Patetica) per pianoforte,

fu composta nel 1798. Si apre con una tragica introduzione (Grave), cui segue un Allegro molto e con brio pieno di fuoco e di concitazione febbrile, inframezzato a quando a quando dalla ricomparsa di frammenti dell'introduzione, che sembrano quasi fermarsi contro un ostacolo che l'impeto dell'Allegro si sforza di superare con crescente energia. - L'Adagio cantabile successivo è costituito da una melodia contemplativa, serena e nobile, non senza lotta e tristezza. - Il Rondò finale (Allegro) ci porta di scatto in un'atmosfera di gioia non scevra da una tinta lievemente malinconica data dal modo minore.

La Sonata n. 12 in la bem. magg. op. 26 per piano (1801) è costituita da un 1° tempo Andante, sereno e calmo, seguito da cinque variazioni, ciascuna di carattere differente, che sono come altrettante meditazioni liriche del primo pensiero. - Lo Scherzo (Allegro molto) è gaio e spigliato, ma non distoglie dalla pura concezione di una vita serena, già preannunziata nell'Andante - Improvvisamente la Marcia funebre in morte d'un Eroe oppone un contrasto drammatico alla soavità delle pagine precedenti. I suoi ritmi gravi e solenni, cui s'intercala una parte tutta fremiti e scatti dolorosi, formano un insieme di un'austerità e di una sublimità possenti e veramente eroiche. - L'ultimo tempo (Allegro) è fluente e vivo, e dà un senso di sollievo e di gioia che, in opposizione con la Marcia funebre, sembra quasi tradurre musicalmente l'ebbrezza celeste dello spirito liberato.

La Sonata n. 13 in mi bem. magg. op. 27 n. 1 per piano

(1801) è costituita da tre tempi concatenati. La forma dei singoli tempi e la loro concatenazione hanno suggerito all'autore di chiamare questa composizione Sonata quasi una fantasia. Essa ritiene infatti il carattere dell'improvvisazione. Si inizia con un Andante pensoso ma sereno in mi bem. magg., che d'improvviso scatta in un vibrante Allegro, per ripiegarsi poi ancora sul motivo dell'Andante. A questo punto irrompe l'Allegro molto e vivace in do min., che è quasi uno «Scherzo» appassionato, romanticamente, staremmo per dire schumannianamente inquieto. Dopo essere passato nel «trio»[47] in la bem., ritorna in tono per concludere con un movimento sincopato al quale subito s'innesta il breve Adagio con espressione in la bem. magg., nobile e mesto. Su una cadenza rapida la Sonata volge, sempre senza soste, al finale Allegro vivace, nella tonalità primitiva di mi bem., di una festosità forte e grave, che comprende anche una parentesi fugata. Improvvisamente, come una visione remota, si presenta di nuovo il motivo dell'Adagio, subito scacciato dal tema dell'ultimo tempo, ripreso in movimento Presto, col quale la Sonata stessa rapidamente e gioiosamente conclude.

La Sonata n. 14 in do diesis min. quasi una fantasia op. 27 n. 2 per piano (1801) fu detta Sonata al chiaro di luna per l'alta serenità non priva di una grave contenuta malinconia del 1° tempo (Adagio sostenuto). I termini non sono antitetici poiché anche la serenità può fiorire su un fondo malinconico. Il fluire delle terzine pone sul movimento calmo dei bassi una lieve trepidazione, addolcita e resa come trasognata dall'ampia melodia che vi si stende sopra, e il cui inizio dà quasi l'impressione di uno squillo remoto e fatale. - A contrasto, il successivo Allegretto, coll'andamento di uno «Scherzo», produce un gioco sorridente, non senza qualche ansietà data dalle frequenti sincopi, specie nel «trio». - Il Presto agitato dell'ultimo tempo si svolge tempestoso e turbinoso. La frase patetica che lo solca, ora nel basso ora negli acuti, spesso anch'essa sincopata su un disegno sempre agitato dell'accompagnamento, ne approfondisce l'espressione drammatica senza annullarne l'agitazione, che permane anche negli episodi apparentemente giocosi (ma non giocondi) e negli accordi fermi o arpeggiati, energicamente affermativi di una indomabile volontà di lotta.

La Sonata n. 18 in mi bem. magg. op. 31 n. 3 per piano

(1802-3) inizia il suo 1° tempo (Allegro) con un tema interrogativo, seguito da accordi meditativi i quali risolvono in un disegno francamente affermativo. Non valgono gli episodi sereni, né il secondo motivo gaio a togliere il senso dubitativo e interrogativo, sempre ritornante e assillante con le frequenti ripetizioni del tema iniziale. - Lo Scherzo (Allegretto vivace) è impetuoso e severo pur nella sua forma giocosa, ricco di una vita ritmica intensa specie negli «staccati energici». - Il successivo Minuetto (Moderato e grazioso) è schiettamente elegante e signorile nella sua sciolta cantabilità, ma non ha più nulla di settecentesco, ne ha vero carattere di danza. - Invece un ritmo di danza balzante vivacissimo, si scatena nel finale Presto con fuoco, che è tutto fervida briosità e vitalità esuberante.

La Sonata n. 21 in do magg. op. 53 per pianoforte è del 1804. Il Maestro la dedicò al suo primo protettore, il Conte di Waldstein. Essa è comunemente indicata con la denominazione di Sonata all'Aurora, ma si tratta di un titolo che non fu dato da Beethoven, e che ben poco o nulla ha a che vedere con l'espressione della Sonata medesima. Il 1° tempo (Allegro con brio), che si inizia con un sordo brontolìo, è tutto pieno di fremiti, di aneliti come di una possente aspirazione a una gioia forte e radiosa. È questo il movimento che ha meritato alla Sonata il titolo di Aurora. Fra brividi ed ansie passa a quando a quando una frase soave piena di religioso sentimento contemplativo. A un tratto l'ansia si fa tempesta ove il minaccioso brontolìo del basso è gradatamente sommerso da impeti e bagliori della parte acuta simili a strappi liberatori. Poi, dopo una ripresa del primo movimento, e la ricomparsa della frase sognatrice, bruscamente con decisione piena di energia il 1° tempo si chiude. - L'Adagio molto che segue è come un momento di meditazione, di intimo raccoglimento da cui balza improvviso lo zampillo di gioia fresco e penetrante che si effonde dal Rondò, tutto canti e trilli. Poi la gioia sempre più alta e incontenibile prorompe nel Prestissimo in un'ondata travolgente, quasi di mistica danza orgiastica.

La Sonata n. 23 in fa min. op. 57 per pianoforte (Appassionata) si dice ispirata a Beethoven dalla lettura de La Tempesta di Shakespeare, e fu composta nel 1804, in piena sordità dell'autore. Beethoven stesso la considerava come la più possente delle sue Sonate. Il titolo di Appassionata le fu dato dall'editore Cranz, e le è particolarmente appropriato.

Il 1° tempo (Allegro assai) si apre con un tema grave ed arcano esposto dalle due mani in ottava: qualcosa di enorme che sembra uscire dall'ombra fonda in cerca di luce. Un ritmo drammatico lo ferma, insiste e determina un crollo. Si scatena allora una tempesta di sincopi che spezza e travolge in un tumulto di spasimi, in una lotta tragica, il motivo originario. L'ondata saliente dei potenti accordi sincopati crea un'atmosfera tutta piena di fremiti, di accenti spezzati, di ritmi turbinosi, che il tema iniziale, ora sommesso, ora squillante, solca e accende di vampate ardenti. Ogni formula schematica è obliata nel fiotto dell'ispirazione impetuosa. Tutto questo 1° tempo è un susseguirsi di elementi ritmici e melodici, di trasformazioni tematiche, di contrasti sonori sempre più incalzanti per vigoria drammatica, fino alla «coda» epicamente prorompente con una forza sovrumana, che porta il tema a incielarsi per poi discendere e scomparire nel fondo mistero da cui era emerso. - Dopo questa bufera spirituale il 2° tempo (Andante) con le sue variazioni costituisce una sosta riposante. Il tema meditativo quasi sacro, viene sottoposto a una successione di brevi variazioni le quali ne presentano aspetti impensati e vari, che preparano ritmicamente l'avvento della gioia. La melodia pacata e austera del tema viene ripresa prima in modo sincopato, poi arpeggiata, infine filigranata da un fitto brusio di note, e quindi nuovamente rasserenata. Ma con essa il 2° tempo non si chiude; da un ultimo lento arpeggio meditativo scatta improvviso (ancora rompendo lo schema consueto), l'Allegro, ma non troppo del 3° tempo. Un'altra tempesta veemente si scatena, con sussulti aspri e disegni brevi e imperiosi. Ma come l'angoscia cresce e sembra aver raggiunto il più alto grado del parossismo, ancora all'improvviso (Presto) prorompe la fanfara vittoriosa della gioia che si sfrena in vortici deliranti, quasi selvaggi. Bismark sentiva in questa Sonata «la lotta e i singhiozzi di tutta una vita», ma gli era forse sfuggito il senso di gioia quasi barbarica e la irruente orgia di forza che si scatena specialmente dal Presto in una frenesia di liberazione.

La Sonata n. 26 in mi bem. magg. op. 81 (Gli addii) è la sola delle Sonate per pianoforte che abbia avuto dall'autore stesso indicazioni esplicative: Gli addii - L'assenza. - Il ritorno. In questa Sonata Beethoven volle esprimere le sue emozioni per la partenza dell'amico e protettore arciduca Rodolfo, costretto nel 1809 (anno in cui la Sonata fu composta) ad abbandonare Vienna all'approssimarsi delle armate Francesi; le ansie per l'assenza e la gioia per il ritorno. Nel manoscritto originale infatti si legge: «Addio Vienna - lì 11 maggio 1809 - per la partenza di S. A. I. il venerato Arciduca Rodolfo». Gli altri tempi recano: «Il ritorno a Vienna - 31 gennaio 1810». Secondo alcuni, non ostante le diciture poste sul manoscritto dal Maestro, la Sonata sarebbe stata composta in occasione di una momentanea separazione di Beethoven dall'amata Teresa di Brunswich. Comunque, sia stata essa ispirata dall'amicizia o dall'amore, resta un monumento di potente espressività artistica di teneri affetti.

Il 1° tempo (Gli Addii) si inizia con alcune battute di Adagio in cui viene esposto il tema fondamentale della prima parte dell'opera; tema che si modifica per numerosi sviluppi, a seconda delle diverse sfumature del sentimento: triste, calmo e dolce nell'introduzione (in cui sotto le prime note è scritta la parola Lebewohl!: (Addio !); diviene rude nell'Allegro, che manifesta il violento dolore della separazione in una febbrile agitazione affannosamente crescente, e si risolve in una tenera malinconia, espressione degli ultimi saluti (il tema sopra la parola Lebewohl si ripete ora dolente con incatenamento a differenti altezze). - L'Andante espressivo dipinge l'abbandono e la solitudine con espressione di tristezza attraversata dall'eco di lieti ricordi, e alfine ravvivata dal sentimento dell'attesa fidente. Con geniale passaggio esso si congiunge all'ultimo tempo (il Ritorno: Vivacissimamente) brillante, vario, che conclude con un alto impeto di gioia. (Vedi anche testo a pag. 250-251).

La Sonata n. 28 in . la magg. op. 101 per pianoforte, composta nel 1816, non è fra le più frequentemente eseguite, benché sia una delle bellissime. Non ha un programma, però Beethoven medesimo indicava brevemente il significato generale dei quattro tempi che si seguono senza interruzione. Il 1°, Allegretto ma non troppo: con sentimento intimissimo, corrisponde a delle «impressioni di sogno». Il motivo si muove ondeggiante ora ascendendo ora discendendo con penetrante poesia. Le brevi frasi che dialogano presentandosi ora dirette ora rovesciate, i sincopati che alternano il forte e il piano, i crescendi e i diminuendi, con incerta vicenda, danno a tutto questo tempo un sapore romantico. - 2° tempo, Vivace, alla Marcia, è, nell'intenzione dell'Autore, un «invito all'azione». Esso vibra infatti di una decisione energica ed eroica. Le frasi che nell'acuto e nel basso si rispondono hanno qualcosa di ferreo e di volitivo che si sprigiona anche dalle implacabili ripetizioni dei frammenti imitativi «a cànone» e «fugati». -- Il 3° tempo, Adagio ma non troppo, con affetto: lento e pieno di passione (mai Beethoven fu così romanticamente abbondante nelle indicazioni espressive) corrisponde a un «ritorno alle impressioni di sogno». Breve e intensamente pensoso, esso ci riconduce per un momento con una cadenza leggera e delicata al motivo poetico del 1° tempo, dal quale, mediante un lungo trillo si passa all'Allegro non troppo e risoluto che è finalmente ' «azione». Il motivo è lampeggiante e deciso; il suo ripetersi e le imitazioni riaffermano un'energica imperiosa volontà in atto. L'idea si impone in maniera ancor più autoritaria e indomabile allorché, sorgendo piano dal basso, dà origine a una «fuga» che ne centuplica, con le ripercussioni gli sviluppi e i rovesciamenti, la forza vitale gigantesca. Alla fine tutto il movimento sembra sprofondarsi su un lungo trillo del basso e spegnersi in un ritardando. D'improvviso pochi accordi tortissimi ascendenti e decisi chiudono con impetuoso vigore la Sonata.

La Sonata n. 30 in mi magg. op. 109 per piano fu scritta nel 1820, solamente sette anni prima della morte. Essa appartiene dunque al periodo più denso e libero dell'arte beethoveniana. L'ordine tradizionale dei tempi vi è invertito. Infatti il 1° tempo (Vivace ma non troppo) è in realtà uno dei più animati, e con le sue alternative di periodi concitati e meditativi produce un profondo effetto di ansietà. - Il 2° tempo (Prestissimo) è particolarmente agitato e violento, in più d'un punto addirittura selvaggio e febbrile. Si direbbe uno spirito scatenato dallo stato primitivo di incertezza verso la ricerca di una liberazione. E questa avviene all'ultimo tempo (Andante molto cantabile ed espressivo): si annunzia pieno di serenità con un tema calmo ed espressivo, e fiorisce sempre più con crescente senso di beatitudine nelle sei «variazioni» successive, per concludere in perfetta celestiale letizia col tema iniziale.

La Sonata n. 31 in la bem. Magg. op. 110 per piano composta nel 1821, è opera della piena maturità artistica del Maestro. Essa rompe la forma tradizionale della Sonata per assurgere verso una espressione più liberamente lirica. Cantabile e meditativo è tutto il 1° tempo (Moderato cantabile molto espressivo) pieno di accorata amarezza e di dolce nostalgia. - Il 2° tempo (Allegro molto) coi suoi ritornelli e la sua coda fu giustamente definito enigmatico per l'irrequietudine dei suoi lineamenti, dei suoi ritmi e dei suoi colori. - L'Adagio ma non troppo con la sua introduzione profondamente raccolta e pensosa, con le variazioni di movimento e di tono in cui si svolge un recitativo pieno di sconforto, che sbocca nel desolato Arioso dolente a cui le terzine conferiscono un'ansiosità senza pari, conduce all'attacco della Fuga (Allegro ma non troppo). La melodia dell'Arioso ritorna più affannosa, e sbocca di nuovo nella Fuga col «soggetto» dapprima rovesciato, poi ancora in posizione normale. Questa varietà di movenze accentua lo stato d'incertezza dominante nelle parti precedenti della Sonata. È una ricerca trepidante dello spirito che ora medita accorato, ora si abbandona a recitativi dolorosi, ora piange appassionato, e alfine, attraverso agli avvolgimenti logici e gravi della fuga conclude con un motivo di fede che, derivato dalla fuga medesima, sembra lanciarsi audace verso un ideale di serenità forte.

La Sonata n. 32 in do min. op. 111, composta nel 1822, a cinque anni dalla morte, è l'ultima delle 32 Sonate per pianoforte di Beethoven. Essa presenta quella libertà di forma che caratterizza le opere dell'ultimo periodo artistico del Maestro; libertà ottenuta senza rinunciare a certi schemi personali prediletti. Ad una breve, potente introduzione (Maestoso) si lega mediante un trillo basso l'Allegro con brio ed appassionato, energico e fremente di drammaticità tempestosa. - Il 2° ed ultimo tempo (anche in ciò questa Sonata si allontana dalla forma consueta) è un'Arietta (Adagio molto, semplice e cantabile) blanda e serena che fiorisce attraverso a «variazioni» tutte legate le une alle altre, di estrema mutevolezza e di fine grazia leggiadra. Sotto un lungo trillo acuto il tema dell'Arietta si stende con un senso di infinita pace e pianamente si estingue come un sogno etereo e irraggiungibile.

Il Concerto in re magg. op. 61 per violino e orchestra fu composto nel 1806. Eseguito mediocremente in quello stesso anno dal violinista Franz Clement non ottenne che uno scarso successo. Fu solo nel 1844 che il grande Giuseppe Joachim, allora appena tredicenne, seppe rivelarne la meravigliosa bellezza. Si dice che il tema iniziale, rappresentato da cinque colpi di timpano, sia stato suggerito a Beethoven da cinque colpi ch'egli udì bussare al portone di casa durante una notte d'insonnia. E questo tema domina, passando dall'uno all'altro gruppo di strumenti, tutto il 1° tempo (Allegro ma non troppo), mentre la frase cantabile annunziata nell'introduzione dai legni, diviene poi il centro di gravitazione pel violino solista. Il contrasto fra questi due temi, l'uno quasi esclusivamente ritmico, il secondo melodico e dolente, genera l'atmosfera drammatica e fatale che avvolge il 1° tempo. - L''Andante, iniziato dai violini in sordina, è di un sentimento toccante. Sul movimento melodico dell'orchestra il violino per varie battute ricama arabeschi delicati come se cercasse qualcosa di più alto. Ed ecco che gradatamente dall'arabesco fiorisce un canto purissimo che si collega con la frase d'attacco dell'orchestra, ora incielata dall'istrumento solista. Poi da questa nasce ancora una frase melodica d'infinita tenerezza; e alfine scaturisce balzante e gaia, la melodia del Rondò, che l'orchestra ripete festosa e come presa da un gran palpito di gioia. Ora il violino a corde doppie e l'orchestra scherzano con fresca ingenuità. Il violino trova poi una frase nuova e dolce; un fagotto glie la ruba e la immalinconisce. Violino e fagotto seguitano a dialogare; più spirituale il violino, più sentimentale il fagotto. Poscia il primo motivo è ripreso e conduce per vari episodi alla conclusione dettata dal violino il quale lancia audacemente il tema verso l'alto, dove accordi secchi di tutta l'orchestra lo fermano.

Il Concerto n. 3 in do min. op. 37 per piano è stato composto nel 1800. Nella sua costruzione classica rivela una sensibilità nuova, che specialmente nel 1° tempo (Allegro con brio) risulta fortemente drammatica e passionale. Il primo tema è nettamente incisivo e volitivo. A questo segue poi un secondo motivo dolce e cantabile. Su la vicenda e gli sviluppi di questi due temi, ma in particolare sul primo, trattato drammaticamente nei contrasti con l'orchestra, è imperniata l'architettura del 1° tempo. - Nel 2° tempo (Largo) il pianoforte ha una melodia ampia, di una dolce gravità. La ripresa del motivo da parte dell'orchestra, la nuova presentazione che il piano ne fa in una forma più variata, i dialoghi fra il solista e gli strumenti dell'orchestra (tutti, o gruppi di essi), raggiungono effetti di rara bellezza e delicatezza. - Il 3° tempo è un Rondò: il pianoforte attacca un motivo vivace che passa dal solista all'orchestra varie volte con effetti sempre nuovi. La composizione si chiude poi con un Presto che ha la consueta impronta della vigorosa gioia beethoveniana.

Il Concerto n. 4 in sol magg. op. 58 fu composto nel 1805 ed eseguito nel 1808. Il 1° tempo (Allegro con brio) si apre con un motivo a note ribattute che il piano propone e che è ripreso dall'orchestra con vivo senso di poesia. Dopo un episodio melodico del piano, l'orchestra presenta il secondo motivo che viene sviluppato dal piano con florida ricchezza fantastica. Tutto il 1° tempo per la frequenza delle ornamentazioni e dei ricami pianistici ha carattere di «fantasia».

- L'Andante con moto brevissimo, contiene un'armoniosa melodia pel piano, piena di sentimento, in contrapposizione a disegni rigidi e violenti dell'orchestra. È su questi due aspetti che s'impernia un dialogo ricco di contrasti, in cui la melodia del piano sembra prevalere col suo carattere suadente e soave e serve a far passaggio all'ultimo tempo, Rondò, a ritmo vivacemente saltellante con arpeggi pianistici ampi e fantasiosi e con foga irruente.

Il Concerto n. 5 in mi bem. op. 73 per piano fu composto nel 1809 ed eseguito nel 1811, e fu detto dell'Imperatore. Piano e orchestra si alternano nel primeggiare a vicenda, lasciando libero sviluppo all'architettura solida e ariosa della composizione. Ciò produce nell'unità della forma una grande varietà d'effetti espressivi. Il 1° tempo (Allegro) incomincia con vasti arpeggi, quasi improvvisazione, cui segue un motivo dapprima presentato dall'orchestra, a carattere gagliardo, marziale ed epico, a contrasto con un secondo tema cantabile e dolce.

- L'Adagio presenta disegni agili del piano, simili a ricami, cui fanno eco melodie del flauto e degli altri legni. - Con rapido trapasso viene attaccato il finale (Rondò: Allegro ma non troppo) in cui il tema principale, annunciato dal piano, ripreso dall'orchestra, appare ricco e brillante ed ha carattere quasi di danza popolaresca.

Il Trio in si bem. magg. op. 11 n. 4 è del 1798, ed era stato scritto originariamente per piano, clarinetto e violoncello. Esso consta di tre tempi. Il 1° (Allegro con brio) esprime una lotta tra movimenti tematici gioiosi e movimenti drammatici. - Il 2° è un Adagio di una dolcezza celestiale per la purezza dei disegni e la spiritualità degli intrecci. - Il 3° (Allegretto-Allegro) ha un terna quasi di canzonetta che si alterna con accenti di profonda tristezza; ma nel complesso sovrasta una gioiosità quasi villereccia.

Il Trio in re magg. op. 70 n. 1 (1808) è opera perfetta ed equilibrata. Il 1° tempo (Allegro vivace) che si apre con potenti unisoni, col suo impeto ardente è un'ondata di energia viva che afferra ed esalta. L'ultima parte del tema iniziale si sviluppa passando per tutti gli strumenti. Dopo il suo primo sviluppo seguito da brevi passi dialogati fra violino e violoncello, si presenta un secondo motivo costituito da poche battute di note pp ora ascendenti, ora discendenti che origina nuovi dinamici disegni. Fra i passi più notevoli va ricordato quello delizioso in si bem. del piano, che si svolge contro una sostenuta armonia degli archi. - Il 2° (Largo assai ed espressivo) emana un arcano fascino pauroso. È pieno d'orrore vertiginoso, greve di una fatalità alta e solenne: il canto vi diffonde un sentimento drammatico di grande potenza, che il contrasto di colore col 1° tempo rende anche più sensibile. Ha il fascino oscuro di un mistero; ed è per esso che questo Trio viene comunemente denominato Trio degli spiriti o delle streghe. - Il Presto finale è una vera corsa alla liberazione, alla gioia spirituale, tutto pervaso com'è da un'indicibile ebbrezza che ci trascina.

Il Trio in mi bem. magg. op. 70 n. 2 è una delle opere più nobili, vive e piacevoli. Si apre con una di quelle introduzioni polifoniche (Poco sostenuto) di espressione religiosa, delle quali Beethoven farà poi uso soprattutto dopo il decimo quartetto, e il cui tema si sviluppa durante il successivo Allegro ma non troppo, con serietà serena. - Segue un Allegretto elegante e pure vigoroso. - Il 3° tempo (Allegretto ma non troppo) è di una cordialità signorile, anche nei dialogati tra archi e piano. - Il Finale (Allegro) sprigiona una rude gaiezza che ha momenti di slanciata e balda forza eroica.

Il Trio in si bem. magg. op. 97 è noto comunemente sotto la denominazione di Trio dell'Arciduca, e fu composto nel 1811. Schindler, l'amico più intimo di Beethoven, ne dette un'illustrazione che non fu contraddetta dall'Autore. Secondo Schindler il 1° tempo (Allegro moderato) è un sogno di pura gioia e serenità meditativa e patetica con tratti arguti e burleschi. - Nel 2° tempo (Scherzo) domina un'espressione di compiuta felicità e di quasi maliziosa allegrezza, con un pensoso fugato e varie oasi di alta poesia. - Nel 3° (Andante cantabile) la felicità si trasforma in emozione, rassegnazione, devozione. «Io considero l'Andante - scriveva Schindler - per il più alto ideale di santità e divinità. Le parole qui nulla valgono; esse sono pessimi servitori della parola divina che la musica rivela». Per questo tempo Beethoven si vale del sistema delle «variazioni», di cui egli seppe fare una vera forma poetica. Nessuna parola in verità può rendere l'incantesimale emozione che se ne sprigiona. - L'ultimo tempo (Allegro moderato) ci trasporta verso quel vivo sentimento agreste che è uno degli aspetti più intensi della fantasia beethoveniana.

L'opera 18 di Beethoven è stata composta nel 1799, e cioè nello stesso anno in cui Beethoven, ventinovenne, compose la 1ª Sinfonia. Essa consta di sei quartetti per archi. - Il Quartetto in fa magg. op. 18 n. 1, ha un 1° tempo (Allegro con brio) notevole per l'energia volitiva nell'insistente ritorno del tema iniziale (130 volte in 427 battute); ma nel complesso predominano grazia e gioia freschissime. - Nell'Adagio affettuoso ed appassionato il dolore e il rimpianto si sviluppano in larghe frasi e formano una delle pagine più alte e potenti che Beethoven abbia scritto. - Leggero, quasi come un gioco, si svolge, in pieno contrasto coi tempi precedenti, lo Scherzo (Allegro molto). Si sente che il lottatore sta per opporre vittorioso al dolore la liberazione dello spirito in una superiore visione di gioia. - Ciò avviene nell'ultimo tempo (Allegro), pieno di giovanile baldanza, in cui il primo violino domina coi giocondi e acuti gorgheggi da allodola che balza dalla terra verso la luce.

Il Quartetto in sol magg. op. 18 n. 2 ci trasporta in un'atmosfera tutta freschezza giovanile, affine alla grazia di Mozart e al brio sereno di Haydn. Il 1° tempo (Allegro) suggerisce alla fantasia cerimoniosi inchini e sorrisi galanti, ed ha meritato a quest'opera il soprannome di Quartetto dei complimenti.

- L'Adagio cantabile successivo è interrotto dopo 20 battute da un giocoso Allegro, e poscia ripreso con maggior ricchezza di ornamentazioni. - Lo Scherzo (Allegro) ha ancora il sapore di un Minuetto haydniano, e appare soprattutto originale nel «trio». - Il finale (Allegro molto quasi presto) riprende la conversazione strumentale galante e animata a cui lo sviluppo vario e sfumato dei particolari da un'impronta delicatamente festosa.

Il Quartetto in do min. op. 18 n. 4 ci mostra un Beethoven che, non ancora intieramente staccato dall'influsso di Mozart e di Haydn, e pure affermando già una robusta personalità, ha tuttavia della vita una concezione serena. L'ombra tragica della sordità e dell'isolamento non è ancora piombata su di lui. Egli sa sorridere con gaiezza, ed espandere in larghe frasi cantabili la piena della propria gioia. Il dolore è lontano, e guardato con umana pietà non scevra da accenti amari, notevoli specie nel 1° tempo (Allegro ma non tanto). - Il 2° tempo (Andante schersoso, quasi allegretto) è un ricamo sottile di disegni elegantemente sovrapposti e rincorrentisi da un istrumento all'altro in un gioco fresco e geniale in cui ferve il sentimento vivo della primavera e dell'amore, la fede nella felicità. - Attraverso a questo «Scherzo» e al Minuetto gentile, specialmente originale nella seconda parte, l'esuberante giovinezza del Maestro esplode nella festosità brillante del magnifico Allegro finale.

Il Quartetto in si bem. magg. op. 18 n. 6 per le caratteristiche dell'ultimo tempo fu denominato Il Quartetto della malinconia. Veramente il 1° tempo (Allegro con brio) largamente melodico e spigliato, quasi rossiniano e burlesco, ci porta piuttosto verso la serenità di Haydn. - Calmo e pensoso è l'Adagio ma non troppo seguente, con effetti di un patetico garbato. - Lo Scherzo, brillante, è una delle pagine più originali di Beethoven, e si svolge su un tema quasi di canzonetta infantile. - L'ultimo tempo (Adagio - Allegretto - quasi Allegro - Prestissimo) si inizia con un canto che Beethoven medesimo denominò La malinconia. Il tema di questo canto è profondo, suggestivo, pieno di sfumature e di intenzioni psicologiche; meditazione e preghiera dolorosa insieme, di una tristezza quasi funebre. Poi, improvvisamente, con mossa tutta beethoveniana, esplode la gioia con un disegno che fa pensare a una danza agreste. La «malinconia» riappare più volte, e sempre il ritmo gioioso riprende lasciando l'animo sospeso sull'esito di questa drammatica lotta; fino a che la gioia raggiunge la sua suprema vittoria nel Prestissimo che, nel suo veloce ritmo, sembra rasentare il delirio.

Il Quartetto in fa magg. op. 59 n. 1 (l'op. 59 è del 1806) è uno dei più vari. In questo quartetto Beethoven riprende poche volte i motivi esposti; egli preferisce abbandonarsi a una continua creazione di temi nuovi. Dopo un 1° tempo (Allegro) così vario e poetico, il Maestro anziché costruire il consueto «Minuetto» attacca un Allegretto vivace e sempre scherzando che passa dal gioco burlesco al ritmo di danza, interrotto a quando a quando da voci di rimpianto e di meditazione. - L'Adagio molto mesto seguente ha uno sviluppo lirico commovente ed alto tra il pianto sconsolato e il sogno nostalgico. Poi il primo violino ha una cadenza simile a un volo improvviso: si ferma su un lungo trillo, mentre il violoncello inizia il ritmato «tema russo» (Allegro); e la gioia liberatrice prorompe in pieno. (Vedi anche a pag. 263).

Il Quartetto in mi min. op. 59 n. 2 inizia con un Allegro di un vigore denso e contenuto. Ad esso segue una delle più sublimi réveries (Molto adagio) uscite dal genio di Beethoven, e ispiratagli dalla contemplazione di una notte stellata.

- Il «trio» dell'Allegretto svolge l'originale tema del canto popolare russo «Slava!» (Gloria). - Pieno di fuoco ritmico è il Presto finale.

Il Quartetto in do magg. op. 59 n. 3 incomincia con un Andante con moto. Dopo un breve preambolo meditativo segue un gioco sereno e pieno di calore.

- L'Allegro vivace successivo è schiettamente dinamico. - L'Andante con moto quasi Allegretto si svolge su frasi teneramente dolenti, fra cui balenano lievi sorrisi ed anche tratti drammatici, rappresentati questi ultimi dagli insistenti, misteriosi e a volte quasi minacciosi pizzicati del violoncello. - II Minuetto come espressione risponde esattamente all'indicazione «Grazioso» segnata dall'autore. - L'Allegro molto finale è un fugato velocissimo che ci trascina nel suo vortice ritmico e nella profondità della sua costruzione magica.

Il Quartetto in mi bem. op. 74 fu scritto nel 1809, l'anno successivo a quello in cui vennero composte la Vª Sinfonia e la VIª detta Pastorale. Beethoven perciò quando scrisse questo Quartetto si trovava in uno dei periodi di maggiore attività fantastica e maturità spirituale. Questo Quartetto, per la maniera e la frequenza dei pizzicati del 1° tempo, fu detto Quartetto dell'arpa. Ha il consueto sviluppo dei quartetti beethoveniani: un primo tema lento e interrogativo forma l'introduzione. Esso viene fermato bruscamente da strappate impetuose che ci trasportano in pieno movimento emotivo (Allegro) con un senso di gioioso entusiasmo e di lotta vigorosa. - Succede un Adagio ma non troppo, meditativo, trasognato, costruito su una melodia di vasto respiro intonata dal primo violino. Il sogno di felicità è commentato poi dagli altri istrumenti, con altri accenni melodici che sembrano palesare sfiducia, dolore e ansia. Ma il motivo fondamentale della pace supera questi stati d'incertezza in una luce di serenità profonda. - Lo Scherzo (Presto) ha carattere quasi orgiastico, intramezzato da un tema sacro («trio») in drammatico contrasto con la precedente giocosa ridda. La ripresa di questa si collega direttamente con l'Allegretto finale che con le sue «variazioni» riporta la serenità, la quale si accentua passo passo, trasformandosi da ultimo in gioia esuberante e impetuosa, quasi una corsa folle dello spirito verso la sua liberazione.

Il Quartetto in fa min. op. 95 fu composto ne 1810, lo stesso anno in cui fu scritta la ouverture per l'Egmont di Goethe. L'autore lo intitolò Quartetto serioso per il suo carattere dominante. Il 1° tempo (Allegro con brio), dopo il potente unisono iniziale, sembra esprimere, nel carattere passionale dei suoi temi, nel contrasto drammatico dei loro sviluppi, una viva angoscia, un lottare dello spirito tra l'ira e l'abbattimento, tra una violenta volontà di vita e una follia annientatrice. - Col 2° tempo (Allegretto) lo spirito ritrova la calma, non però ancora la serenità: è meditazione (specie nel «fugato» centrale, cromatico e doloroso nella prima esposizione, veemente e agitato nella ripresa), ed è sospiroso desiderio di pace, e preghiera religiosa. - D'improvviso, per uno scatto energico, si passa al 3° tempo (Allegro vivace ma serioso): a ritmi spezzati, a frasi meste, ad armonie accorate. Tutto in questo tempo esprime una grande tristezza agitata. Ma di nuovo la volontà s'impone. L'anima, dopo la lunga lotta, sale alla conquista di una gioia superiore: il modo maggiore, che subentra al minore dominante nelle parti precedenti, illumina la nuova visione di vita che vigorosamente e rapida s'afferma come la vittoria su ogni avversità. È, in fondo, la stessa concezione che informa tutte le principali opere di Beethoven, e che trionferà alla fine nella IXª Sinfonia.

Il Quartetto in mi bem. magg. op. 127, pubblicato nel 1826, appartiene già a quella che fu detta l'ultima «maniera» del Maestro. Vi domina la più assoluta libertà di concezione e di costruzione, lontana da ogni schema convenzionale prestabilito. Non ci sono i ritorni e le riprese che chiarificano e permettono di riudire e imprimersi meglio nella memoria i lunghi temi principali. Il sistema di «variazioni» qui largamente usato ci porta di fronte a immagini e quadri sempre rinnovati o nuovi. Il 1° tempo (Allegro) è così tutto una fantasmagoria di figurazioni sonore concatenate fra loro e costituenti quella che con termine wagneriano si potrebbe chiamare «melodia infinita». Predomina un senso di raccoglimento religioso e di affettuosa tenerezza che contrasta con la trionfale robustezza dell'introduzione (Maestoso). - Il 2° tempo (Adagio ma non troppo e molto cantabile) è formato da cinque variazioni di una celestiale melodia; variazioni che del tema proposto sviscerano ogni aspirazione spirituale latente.

- Lo Scherzo, coi suoi liberi movimenti, i suoi incontri armonici inusitati, talora anche aspri, con la densità dei suoi sviluppi polifonici, trasporta l'uditore in un re-gno di pura emotività sonora quasi priva di contatti terreni. - Il Finale riprende lo schema della forma-sonata, pure con ampliamenti e libertà, e ci immerge in un sereno mondo di giocondità compiaciuta, contrastante con la fantasiosità e l'ultraterrestrità dei tempi precedenti.

Il Quartetto in do diesis min. op. 131 è il primo dei grandi Quartetti dell'ultima serie: opere di vasta mole di profondo respiro e di sapienza formidabile. L'op. 131 fu composta nel 1826, a un anno dalla morte del Maestro. È costituito da sette movimenti principali, legati l'uno all'altro senza intervallo; ma la varietà è tale, e così gemmea l'ispirazione, che non se ne avverte la relativa lunghezza. Certo è una delle manifestazioni totalmente e più fortemente beethoveniane per la potenza e la perfezione dell'espressione poetica. Il Quartetto op. 131 è la prima grande rottura con la tradizione formalistica, ed è tutto teso verso la libertà e sorretto da un'altezza di fantasia sconfinata.

Il 1° tempo (Adagio ma non troppo e molto espressivo) è un fugato grave e mesto, quasi religioso. Wagner scrisse che era «l'espressione più intensamente malinconica raggiunta dalla musica». - Nel 2° tempo (Allegro molto vivace), scrive ancora Wagner, «l'anima sembra ridestarsi da un sogno interiore in un ricordo di soavità assoluta». La forza di questo tempo consiste principalmente nel suo movimento vivace. - L'Allegro moderato è sereno; il successivo Andante ma non troppo e molto cantabile è uno dei più tipici esempi della «grande variazione» beethoveniana. - Segue un Presto svolto in forma di «scherzo», con vari indugi e riprese, e con bizzarri pizzicati circolanti dall'uno all'altro istrumento, e rudi temi burleschi. L'Adagio quasi un poco Andante che viene dopo, ci riporta all'espressione triste e sconsolata. Il tema, di carattere meditativo, è affidato alla voce patetica della viola. - Ed ecco scattare a un tratto negli unisoni imperiosi dell'Allegro finale la gioia vigorosa. Il motivo si svolge a ritmo di trombe, quasi una marcia trionfale, alternata a frasi patetiche del 1° violino e a una frase secca e d'interrogazione sospesa che getta come un'ansia dubbiosa su la nuova vita che l'Allegro ha dischiuso finalmente al nostro spirito.

Il Quartetto in la min. op. 132 composto da Beethoven nel 1825-26 dopo una grave malattia, porta questa dicitura dello stesso Maestro: «Canzone di ringraziamento in modo lirico offerta alla Divinità da un guarito». Incomincia con un breve motivo di quattro note, e si sviluppa con un procedimento che sembra voler evocare le fasi della malattia. - Lo Scherzo richiama invece alla salubrità della vita campestre con suoni di zampogna. - Infine segue l'inno di ringraziamento a cui i procedimenti polifonici aggiungono austera solennità.

L'inno è diviso in cinque periodi, intercalati da episodi strumentali. Ad esso succede un disegno strumentale più commosso (il Maestro scrive: «con intimissimo sentimento»). - Dopo l'esposizione d'un tema rude e grave di marcia, un recitativo conduce al vero e proprio finale, giocondo e sereno.

Il Settimino in mi bem. Magg. op. 20 per violino, viola, corno, clarinetto, fagotto, violoncello e contrabasso, è una delle composizioni più deliziose ed eleganti uscite dalla penna di Beethoven. Appartiene a quello stesso anno 1799 in cui uscirono i sei Quartetti dell'op. 18 e la 1ª Sinfonia, e rispecchia la serenità della giovinezza beethoveniana, ancora fidente non ostante le prime minacce del male che doveva renderlo sordo. Il profumo settecentesco che ancora esala questa musica si sposa alla maschia robustezza di un'ideazione e di una costruzione che già accennano agli sviluppi stilistici delle opere più mature del Maestro. - Dopo una breve introduzione in movimento Agitato che ha quasi carattere virtuosistico, subentra la grazia dove il motivo sentimentale (Allegro con brio) enunciato dal violino, raccolto dal clarinetto origina poi una serie di episodi tutti di una serena limpidezza. Il gioco dei sette istrumenti di diverso timbro ed estensione, alternandosi nel canto e nei contrappunti o fondendosi in amalgame di vario colore, genera effetti, risonanze, rispondenze, contrasti di sempre nuova e differente emotività artistica, così nel 1° come nei tempi successivi. - Il 2° tempo (Adagio cantabile) incomincia con una melodia dolce alla quale il timbro del clarinetto dona una vaghezza eterea, e che la ripresa da parte del violino sublima. Le risposte del fagotto e del corno aggiungono un tono patetico al quadro che, dopo una serie di sviluppi tutti improntati a delicata tenerezza, sfuma e sembra perdersi negli spazi aerei. - Il Minuetto è tutto grazia; il suo motivo iniziale si trova già abbozzato nella Sonata per piano op. 49 n. 2, anteriore di tre anni. Nel Settimino lo sviluppo è più vario, specialmente nel «trio» al quale le terzine caprioleggianti del corno aggiungono un sapore umoristico. - L'Andante con variazioni ci presenta la consueta abilità di trasformazione tematica beethoveniana, che da una cellula iniziale sa creare sempre nuovi organismi. - Ma è nello Scherzo (Allegro molto vivace) che più si rivela la personalità artistica di Beethoven, sia con l'originale attacco del corno, sia con i martellamenti ritmici e tutti gli sviluppi strumentali ricchi di una mobilità avvincente. - L'ultimo tempo ha una breve introduzione in movimento Andante con moto alla Marcia che sbocca nel Presto, pervaso da una foga irruente, animato dagli interventi quasi eroici del corno, dall'agitazione del basso, e dai rapidi accenni fugati. Un episodio di espressione quasi religiosa, punteggiato da misteriosi pizzicati, conduce attraverso a una cadenza fiorita alla ripresa classica e a una slanciata conclusione.

La ouverture in do min. op. 62 per il Coriolano di Collin è del 1807. Forti ottave tenute, troncate da accordi secchi e intercalate da lunghe pause, segnano l'inizio violento e stupefatto della ouverture, cui fanno seguito disegni sordamente agitati, anch'essi interrotti da pause arcane, da accordi violenti. Disegni e agitazione che si sciolgono in un canto patetico che cresce d'intensità e s'impone, fondendosi poi in nuovi episodi nervosamente agitati. Poi l'agitazione si placa in un mormorio che si annienta in un blando sfumare di echi.

La ouverture in fa min. op. 84 per l'Egmont di Goethe è del 1810. Accordi gravi e vibrati in movimento Sostenuto non troppo aprono l'ouverture. Un malinconico breve disegno dell'oboe è ripreso dai violini e dal clarinetto. Poi i violini accennano nell'acuto a un tema che i legni ripetono più in basso, e che alfine, subentrando l'Allegro, diventa il tema principale della ouverture. Esso dà origine ad ampi sviluppi tutti pervasi da una potente energia, e passando da un istrumento all'altro suscita illuminazioni nuove. Gli accordi ribattuti violentemente dagli archi e raccolti in fanfara selvaggia dai corni, alternati a gemiti fiochi e a slanci di passione, creano un'atmosfera di grandiosità epica, la quale ha il suo epilogo nella veemente e squillante chiusa dell''Allegro con brio.

Per l'opera Fidelio Beethoven scrisse quattro ouvertures diverse: le prime tre portano il titolo di Leonora (la protagonista del dramma), e la quarta ha il nome dell'opera alla quale rimase legata. La 3ª delle ouvertures denominate Leonora (in do magg. op. 72), la migliore, scritta nel 1807, è una rapida sintesi dell'azione dell'opera che celebra l'amore e la fedeltà coniugale. Si inizia con un Adagio in cui si svolgono frasi ampie e gravemente patetiche. Segue, senza intervallo, un Allegro drammaticamente agitato, solcato da melodie passionali e da squilli di tromba. Speranza e dolore lottano nei temi principali fino al momento in cui una fanfara annunzia la liberazione di Florestano dai ceppi per opera dell'eroica sposa Leonora. A questo punto i diversi temi si fondono e portano alla chiusa attraverso a un turbine di gioia travolgente. E un quadro grandioso e potente in cui all'elevatezza dell'ispirazione corrispondono una bellezza di sviluppo tematico e una struttura organica perfette.

La Sinfonia n. 1 in do magg. op. 21, fu composta nel 1800. Benché risenta ancora di Haydn e di Mozart nella struttura, l'ideazione e gli sviluppi tematici presentano già il carattere dello stile beethoveniano, di una sensibilità così personale e nuova. Nel 1° tempo, dopo l'introduzione (Adagio molto) che lascia ancora incerti su la tonalità, ha inizio l'Allegro limpido e vibrante, non senza scatti di collera e sviluppi tematici originali. - Il 2° tempo (Andante cantabile con moto) è dolce e sereno; gli strumenti si passano l'un l'altro il motivo principale, traendo dai suoi frammenti nuovi elementi di vita e presentandolo in contrappunti sempre mutevoli. - Il Minuetto (Allegro molto vivace) ha già il carattere di uno Scherzo così per il movimento come per l'ideazione che non ha più niente dell'incipriata e pomposa danza settecentesca. - Dopo un accordo sonoro di tutta l'orchestra, i violini, per accenni successivi titubanti, di evidente intenzione burlesca, formano il motivo brillante del Finale (Allegro) che prorompe scorrevole come una ispirazione rossiniana, mantenendo per tutto il tempo il suo fervore brioso e umoristico.

La Sinfonia n. 2 in re magg. op. 36 è del 1803. Incomincia con un'ampia introduzione (Adagio molto) in cui floridi motivi passano dall'acuto al basso in un dialogo sereno. Dopo l'ultima rapida scala discendente, il motivo energico dell'Allegro con brio attacca senza sospensione, e nel suo successivo ripresentarsi intero o a frammenti dà origine a una grande varietà di sviluppi. - Il 2° tempo (Larghetto) è una delle pagine più serafiche scritte da Beethoven; pagina in cui si espande un sentimento religioso intenso e purissimo. - Nel tempo successivo (Allegro) Beethoven sostituisce definitivamente con la forma Scherzo l'abusato Minuetto delle sinfonie mozartiane e haydniane. Il tema rimbalza fra le parti con sincera e cordiale giocosità ed ha la leggerezza di un aleggiare di spiritelli aerei. - Scherzoso si mantiene anche il Finale (Allegro molto), con quel brusco inizio che si ripete insistente come un richiamo o un ritornello burlesco.

La Sinfonia n. 3 in mi bem. magg. op. 55, detta l'Eroica, è una delle opere più monumentali del Maestro. Scritta fra il 1803 e il 1804 per glorificare Napoleone Primo Console, essa è in verità tutta pervasa da un così elevato sentimento di grandezza e di potenza da costituire il più solenne poema che sia stato composto per celebrare un eroe. È noto che Beethoven ne cancellò la dedica quando il Primo Console divenne Imperatore. - Dopo le prime due strappate, che preparano a qualche cosa di insolito e di formidabile, ecco apparire nei violoncelli il tema austero dell'eroe (1° tempo: Allegro con brio). Questo tema passa da uno strumento all'altro attraverso a vari sviluppi, divincolandosi fra numerosi altri motivi meno solenni, come uno spirito che tenti di liberarsi da costrizioni immani. Ora sommergendosi, ora emergendo, ora affiancandosi ad altri temi che sembrano voler descrivere dell'eroe anche aspetti di gentilezza e di purità, appare a un tratto, inatteso, su un accordo di tonalità diversa, quasi ad imporre con la propria essenza un ordine nuovo. Gradatamente si afferma con crescente forza e virilità, e finalmente balza vittorioso nel più squillante e luminoso impeto sonoro. - Il 3° tempo (Marcia funebre: Adagio assai) è il più accorato e sublime pianto che possa sgorgare da cuore umano alla vista dell'eroe morto. Un maschio dolore, una sconsolata meditazione, i ricordi più dolci misti alle lacrime, il pensiero della grandezza e quello dell'annientamento, flebili sospiri e gridi d'angoscia, un impeto di disperazione tremenda in cui tutto il mondo sembra crollare fra squilli prolungati di trombe, come se si affacciasse improvvisa la visione del «dies irae». E ancora un pianto sconsolato fra un greve squillare di campane a morto, pianto che diviene affannoso e si spegne in singulti; tutto è vibrante di una tristezza tragica e celestiale insieme. - Lo Scherzo (Allegro vivace) è come un inseguimento turbinoso in cui a ritmi quasi di danza bellica si alternano rulli violenti di timpani e squilli selvaggi di caccia. Questi aspetti suggeriscono alla mente la visione di una formidabile «fantasia guerresca» in onore di un eroe. «Sono giochi - scriveva il Berlioz - come quelli che i guerrieri dell'Iliade celebravano intorno alla tomba del loro capo». - Il Finale (Allegro molto) e la contemplazione gioiosa della vita eroica. Lo spirito ha conquistato una superiore allegrezza a cui si abbandona con sincerità. Verso la chiusa vi è come un breve Inno di ringraziamento a Dio, poi la coscienza della liberazione conduce a un'espressione quasi orgiastica di ebbrezza, a cui gli ultimi strappi danno il senso di un completo distacco dal mondo dei sentimenti e dei sentimentalismi inferiori.

La Sinfonia n. 4. in si bem. magg. op. 60 è del 1806. L'introduzione (Adagio), dopo un pedale pianissimo su cui si snoda un tema lento discendente, è tutta formata da un motivo a note staccate, come qualcosa di misterioso. Su la fine, due scalette ascendenti preparano al tema dell'Allegro vivace successivo, che scorre e si sviluppa con fresca gioia, anche negli avvolgimenti a cànone del secondo motivo. - L'Adagio è una melodia di grande purezza di linee, che si presenta in seguito variata con più grazia. Tra una ripresa e l'altra, ritmi incisivi, balzanti, ed elementi sincopati rendono più palpitante l'espressione. - Il 3° tempo (Allegro vivace) ha la forma dello «Scherzo». Inizia con un motivo dal ritmo strano, singolarmente animato ed energico, seguito da un disegno a ondulazioni misteriose; ma è la sola prima parte che dà lo spunto agli sviluppi posteriori. Il trio è più molle e capriccioso per il contrasto fra la quasi pastorale melodia dei legni e le acciaccature e le frasette di risposta dei violini. - Il Finale (Allegro ma non troppo) incomincia con un vivo disegno di moto perpetuo che sbocca in frasi ampiamente cantabili e in agili brevi ritmi sincopati. Ogni tanto pare che si addensi una burrasca drammatica, ma tosto si risolve in gaia gioia quasi spensierata.

È noto che Beethoven era solito chiamare le proprie composizioni «opere nascoste», intendendo con ciò avvertire che «sotto il velame» armonico, ritmico, melodico, strumentale di esse si celava un significato profondo. Anche se la Sinfonia n. 5 in do min. op. 67 non è ispirata al «Destino che batte alla porta», è certo che da ogni accento si ha l'impressione che si sprigioni la forza di un richiamo fatale e inesorabile. - Il tema iniziale del 1° tempo (Allegro con brio) ci si impone subito per questa energia straordinaria e imperiosa. E non si può negare a questo tema un carattere tragicamente interrogativo. Esso si presta a un superbo sviluppo che ha l'impeto drammatico di una lotta corpo a corpo per la vita e per la morte. - Il 2° tempo (Andante con moto) ha una espressione grave e contemplativa, se pur solcato qua e là da accenti eroici. - Il ritmo pulsante, però modificato, riprende nello Scherzo (Allegro), che si collega per mezzo di un crescendo col finale (Allegro maestoso), pieno di slancio gioioso e trionfale, simile ad un grande inno di vittoria e di esultanza. - Anche a voler prescindere da ogni interpretazione contenutistica, la Vª Sinfonia ha valori dinamici (giuoco delle parti, elaborazione dei temi, varietà dei contrappunti, agile intreccio di linee, vigoria incisiva di ritmi) e valori pittorico-musicali (contrasti di colori e di effetti sonori, ricchezza di timbri) tali da apparire, anche dal punto di vista più strettamente oggettivo, come un capolavoro magistrale. Ma al di là di ogni sapienza tecnica e di ogni significazione programmatica, noi sentiamo che questa Sinfonia conferma la definizione che Beethoven medesimo ci ha lasciato della Musica: «la rivelazione sublime della vita spirituale. Un rivelazione più alta della scienza e della filosofia: è il senso del divino, e nulla vi è di più alto dell'accostarsi alla divinità e di espanderne i raggi sopra gli uomini». (Vedi anche a pag. 266).

Sinfonia n. 6 in fa magg. op. 68 (Pastorale) - vedi testo a pagg. 223-324.

La Sinfonia n. 7 in la magg. op. 92, composta nel 1812 ed eseguita l'anno successivo, è fra le nove sorelle una delle maggiori per originalità d'ispirazione, ricchezza di sviluppi, varietà di effetti, profondità di sentimento. «È tutta un folle espandersi di energie sovrumane», scrisse Romain Rolland; ed anche Riccardo Wagner ebbe a definire questa Sinfonia «l'apoteosi della danza». Essa è infatti tutta pervasa da ritmi marcatissimi e insistenti che attingono verso la fine la grandiosità di un'orgia spirituale. Dopo un preambolo meditativo (Poco sostenuto) - stupendo e originalissimo è quell'attacco di accordi secchi e violenti da cui emerge il canto «a solo» dell'oboe, - dopo l'ansioso salire e scendere di scale, quasi una drammatica disperata ricerca, un ritmo di danza si impone (Vivace) e sorregge tutto l'edificio sinfonico; si svolge, si scioglie balzante, irrequieto, senza posa, e trascina con sé tutta l'orchestra. - Si placa in una successione di dattili e spondei, nell'Allegretto che tiene le voci dell'Adagio; ritmi

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che sostengono con la loro vita un etereo canto di elegia, un canto a cui il ritmo stesso dona un carattere funebre, e che sembra un commosso compianto per la morte di una creatura soave. La seconda frase di questo tempo, affidata al clarinetto e al fagotto su un arpeggio blando a terzine dei violini, è come un richiamo di ricordi teneri perduti in una lontananza di sogno. - Poi il ritmo di danza passa per movimenti pastorali nello Scherzo (Presto), e diviene ditirambo nel finale (Allegro con brio). - Quest'ultimo tempo afferra anche per gli improvvisi drammatici contrasti fra i fortissimi e i pianissimi, per i rapidi inseguimenti dei fugati, e per le sospensioni inattese. Tutto sembra teso in uno stato di emozione indicibile, come nell'aspettativa dell'irruente orgia dionisiaca conclusiva. Il chiarimento più efficace di tutta la Sinfonia è contenuto nelle parole scritte da Beethoven medesimo: «Io sono il Bacco che mesce il vino delizioso per l'umanità. Sono io che dono agli uomini la divina frenesia dello spirito».

La Sinfonia n. 8 in fa magg. op. 93 è del 1812, ma fu eseguita soltanto nel '14. È una delle composizioni più serene, non scevra di tratti umoristici. - Il 1° tempo (Allegro vivace con brio) ci presenta subito, senza un Adagio introduttivo, un motivo gaio, quasi di danza. Anche il secondo motivo è fluente e sereno; il gioco contrappuntistico è garbato e lieve, la costruzione robusta e chiara senza pesantezza. - L'Allegretto scherzando è costituito da un motivo burlesco e delicatissimo che i bassi intercalano di commenti umoristici, si direbbe quasi satirici. Esso sostituisce l'Adagio, che anche in questa Sinfonia (come nella VIIa) manca. Si tratta di un motivo scherzoso scritto da Beethoven in omaggio a Maelzel, inventore del metronomo. Esso si chiude rumorosamente, in maniera rapida e brusca. - Poscia Beethoven ritorna al Minuetto donandogli però un disegno più sciolto e ottocentesco, e non rinunziando al carattere umoristico. - Il Finale (Allegro vivace) e brioso, specie per l'animazione portata dal continuo moto delle terzine e dalla loro contrapposizione a disegni ritmici pari.

La Sinfonia n. 9 in re min. op. 125 con cori, composta fra il 1823 e il 1824, ebbe la sua prima esecuzione a Vienna il 7 maggio 1824. Su un oscillare tremulo dei bassi si presenta il tema del 1° tempo (Allegro ma non troppo, un poco maestoso), uno scatto ritmico brevissimo, come qualcosa di oscuro che precipita. Poi questa opaca immagine musicale affiora sempre più nitida, per esplodere maestosa ed affermativa con estrema potenza di ritmo e di colore. Poco oltre un secondo motivo sembra voler ascendere al ciclo sereno. Ed ha inizio una lotta aspra e serrata, anche fra andamenti per moto contrario dello stesso disegno, con fasi in cui il contrappunto si fa dramma. - Il 2° tempo (Molto vivace) è uno Scherzo. Il tema, esposto dagli archi ff a intervalli pausati, improvvisamente passa ai timpani con effetto imperioso. Indi si snoda in una frase scherzosa che dà origine a un fervido febbrile fugato. Ogni tanto alcune soste rendono più misterioso il carattere del tema, come se stesse per scomparire, per spegnersi e poi tentasse di riaccendersi. L'ultima parte, a mo' di trio, ha un disegno fluido in cui il canto, quasi frammento di danza, del corno e poscia del fagotto, è contrappuntato da un movimento rapido dei violini prima, e poi dell'oboe. Il tempo si chiude con una breve «coda» (Presto), energica e decisa. - Segue l'Adagio molto e cantabile che ci presenta un motivo dolce, di carattere calmo e di sentimento religioso, al quale se ne innesta un altro estatico (Andante moderato) dei violini, di estrema dolcezza e spiritualità. Il primo motivo si alterna col secondo, sempre variato ogni volta e con crescente snodatura, fino a che appare una nuova idea affermativa e vigorosa, ben presto sopraffatta dalla dolcezza del canto, che pianamente s'estingue. - D'improvviso un accordo dissonante seguito da un movimento ansiosamente agitato ci scuote. I bassi intonano un motivo che ha la forma di un recitativo vocale energico. Per due volte ciò accade, poi sono ripresi gli spunti tematici dei vari tempi, sempre interrotti da forme recitative dei bassi, quasi un riesame di tutto ciò che in precedenza è stato esposto. Un nuovo tema allora si presenta che il recitativo sembra discutere e infine accettare. Ed ecco il motivo stranamente primitivo, quasi barbarico, ma con carattere sacro, dell'Allegro assai. Esso passa attraverso a vari strumenti prendendo luce. Ma a un tratto l'accordo dissonante e lo scatto rabbioso dell'orchestra l'interrompe. - Si leva a questo punto la voce di un Baritono che invita al canto e alla gioia. Il motivo dell'Allegro assai viene ora ripreso; variato poi di ritmo (Allegro assai vivace), serve a sostenere il coro che, su le parole di Schiller, inneggia alla gioia. Quindi un Andante Maestoso ci presenta un altro tema austero e pure energico del coro, che conduce a un Adagio ma non troppo, ma divoto, e infine alla ripresa del coro di gioia su nuovi ritmi e movimenti (Allegra energico - Allegro ma non troppo), prima in modo più balzante, poi più scorrevole. Ancora un ritorno a un motivo (Poco Adagio) religioso, e infine, in movimento Prestissimo, la ripresa conclusiva dell'inno alla gioia, il cui motivo, portato al massimo parossismo espressivo, vero delirio di entusiasmo, chiude poi secco e brusco.

La Missa solemnis in re magg. op. 123 di Beethoven fu composta dal 1818 al 1822 per soli, cori e grand'orchestra. Essa si impone per la monumentalità della costruzione polifonica oltre che per la forza espressiva. Naturalmente non è opera di carattere liturgico, ma drammatico-sinfonico. I frequenti vortici sonori delle «fughe» (forse in numero esuberante) conferiscono alla composizione un'espressione spesso sovrannaturale con effetti di una luminosità abbagliante. La vastità dell'opera esclude ch'essa possa inserirsi in una funzione di chiesa, per la quale in un primo momento era stata richiesta all'autore. La lunghezza delle singole parti obbedisce soltanto alla libera fantasia del musicista, il quale sembra inebbriarsi, senza limiti di tempo e di spazio, dell'orgia sonora da lui creata. Essa è, in fondo, una grande sinfonia con cori, di cui il testo sacro forma come il programma, il quale stimola a spaziare anziché a restringere il volo dell'ispirazione, in cerca dell'assoluto e del divino.

L'opera si divide in cinque grandi «Inni»: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei.

Il Kyrie è pieno di fidente fervore. In esso l' «eleison» si svolge su ampie volute che passano da una voce all'altra simili a spire d'incenso che si elevino verso il cielo, su le ripetute implorazioni di «Christe, Christe».

Il Gloria prorompe con un impeto di ascensione sfolgorante, superba esaltazione della potenza divina, e si calma per un istante solo nell'invocazione «et in terra pax», e nel «Gratias agimus» sempre senza abbandonare lo stile contrappuntistico imitativo che forma la base dell'intera Messa. Una più larga oasi di commossa preghiera si ha nel Qui tollis, ricca di preziosi particolari espressivi nell'interpretazione del testo. L'inizio maestoso del Quoniam tu solus da luogo ad una vasta elaborata fuga su le parole «in gloria Dei patris» per chiudere coll'impeto iniziale del «Gloria».

Il Credo, con la ricchezza e la varietà dei suoi episodi drammatici, forma la parte più vasta della Messa. La parola «credo» è affermata su un ritmo estremamente energico, simbolo di una fede assoluta e incrollabile. Le parole «visibilium et invisibilium» danno luogo a un vivo contrasto di luce e di ombra. Il mistero dell'incarnazione dirada la densa trama polifonica per lasciar mormorare a mezza voce l'annunzio dell'avvenimento miracoloso. L'espressione di mistero si accresce e si ammanta di stupore, allorché le voci ripetono fra larghe pause: «homo, homo, homo, factus est». Poscia allo stupore si aggiunge l'angoscia funerea alle parole «crucifixus», «passus», «sepultus», mentre ogni suono sembra sprofondare nel buio. Ma all'annunzio della resurrezione e dell'ascesa al cielo le voci scattano di nuovo in una veloce corsa verso i più luminosi acuti. Poi i tromboni squillano nell'annunzio del giudizio universale, e dopo una ripresa del «Credo», alle parole «et vitam venturi saeculi» il musicista costruisce un'altra gloriosa «fuga», le cui volute si incielano e si estinguono nel lungo sospiro di un «amen» serafico.

Il Sanctus va celebre per il sublime «Benedictus qui venit», di una melodiosità celestiale, accompagnato dal canto etereo di un violino «a solo»; pagina in cui sembra aleggiare veramente la grazia dello Spirito Santo.

L'Agnus Dei, annunziato dal basso, ripreso e sviluppato dal coro, è una casta preghiera, di una dolcezza ed umiltà senza pari. Ma alle parole «Dona nobis pacem», Beethoven ha segnato: «Preghiera per la pace interna ed esterna», quella del cuore e quella degli uomini. Quella del cuore è una pace idillica che richiama alla mente la quiete serena dei campi. Ecco perché il Maestro svolge qui un motivo pastorale, contrappuntato perfino dal mormorio di fronde e di ruscelli che si ode nel secondo tempo della Sinfonia pastorale. La pace esterna è minacciata dalla guerra: il sordo rullo dei timpani e il lontano squillo marziale delle trombe ne suscitano la visione. L'invocazione all'Agnus Dei per la pace si fa più fervida ed alta, e le parole «dona, dona» e «pacem, pacem» si ripetono con drammatica ossessione. A questo punto un'agitazione nervosa si impossessa dell'orchestra che, mentre le voci ammutoliscono, prosegue da sola in un intermezzo strumentale ansioso e tormentato. Poi le voci riprendono lena e le implorazioni salgono di nuovo al cielo su l'evocazione della pace campestre. Ma ancora una volta i suoni di guerra appaiono minacciosi. Prima sommesse, e poscia con perentoria energia le voci implorano la pace, mentre l'orchestra vi si associa con forza volitiva. E su quest'ultima vigorosa affermazione la Messa ha termine.

Berlioz Ettore (1803-1869)

Sinfonia fantastica, vedi testo a pag. 227.

Carnevale romano. Era originariamente l'ouverture all'opera Benvenuto Cellini. Il tema principale è un «saltarello» rapido e popolaresco di un fervore ardente e irrequieto. Si apre con un'introduzione Allegro con fuoco, cui segue l'Andante sostenuto in cui il corno inglese espone una canzone su un suggestivo pizzicato degli archi. La canzone viene poi ripetuta dai violoncelli e ripresa da tutta l'orchestra con un crescendo di intensità che non ne falsa però il carattere semplice e ingenuo. Segue il Vivace a ritmo di tarantella raffigurante una lieta baraonda carnevalesca in cui si mescolano tratti galanti e banali, briosi e buffoneschi, espressi da sonorità a volte raffinate e morbide, a volte fragorose e sgargianti.

L'Aroldo in Italia, poema sinfonico per orchestra e viola solista, fu composto per incarico di Paganini. Questi, veramente, desiderava un pezzo virtuosistico per viola con accompagnamento d'orchestra; ma Berlioz, abbandonandosi alla propria ispirazione, sfruttò l'idea della viola solista suggeritagli da Paganini per comporre un'opera di tutt'altre dimensioni e struttura. Paganini non se ne dimostrò soddisfatto dal suo punto di vista di virtuoso, in quanto la composizione di Berlioz non era proprio quella ch'egli aveva chiesto; ma quando l'udì eseguire in concerto si precipitò a baciare le mani dell'autore e gli inviò a casa ventimila franchi.

L'Aroldo ci presenta in quattro episodi l'irrequieto e romantico personaggio byroniano che, disceso in Italia, ammira estatico e inebriato le bellezze naturali e i costumi delle nostre popolazioni primitive. - Nel 1° episodio si figura Aroldo nelle montagne. Un disegno cupo e solenne dei bassi sale a poco a poco verso gli acuti con un movimento fugato. La viola, che personifica Aroldo, diffonde un canto tenero accompagnato dall'arpa; canto che talora si fa gemito o interrogazione ansiosa sorta dalla profonda malinconia di un'anima di poeta. I soliloqui della viola sono intramezzati da movimenti animati dell'orchestra; la viola stessa vi si associa con crescente entusiastico fervore. Un tema di tre note si ripercuote energico da un istrumento all'altro fra una sempre più vibrante e gioiosa concitazione. - Il 2° episodio ci descrive una Marcia di pellegrini che cantano la preghiera serale. Lievemente mosso e cadenzato il canto sacro si spande: la viola esprime sentimenti devoti e sereni. Originalissimo è il rintocco di campana che si ode mezzo tono sopra la tonica, determinando un dolente accordo diminuito. Delicati arpeggi accompagnano la marcia che si sperde e dilegua sui pizzicati degli archi, mentre una campanella acuta diffonde una dolce malinconia. - 3° episodio: Serenata di un montanaro abruzzese alla sua innamorata. Zampognata gaia a ritmo di danza campagnola. Poi la zampogna leva un canto a solo più calmo, dolce e patetico. Riprende poscia la zampognata, mentre la viola prospetta su la gaiezza dei ritmi pastorali la tristezza del poeta. - 4° episodio: Uno scoppio secco apre l'Orgia dei briganti. Ritmi energici e rudi si alternano ai malinconici accenti della viola. La vivacità dei canti orgiastici cresce fino al parossismo più violento e rumoroso, in cui anche la malinconia di Aroldo si sommerge.

L'infanzia di Cristo, di cui Berlioz scrisse il testo e la musica, e intitolò non «oratorio», ma «trilogia sacra», fu eseguito per la prima volta a Parigi, sotto la sua direzione il 12 dicembre 1854. Si divide in tre parti, e ciascuna in diverse scene. Per la presenza del «Recitante»[48], che tiene le veci dello «Storico», questo poema musicale potrebbe essere accostato alla forma «oratorio», d'altra parte l'indicazione delle scene farebbe pensare a una sacra rappresentazione. Tuttavia, sta di fatto ch'esso viene sempre eseguito in forma concertistica, oratoriana.

La 1a parte reca il titolo Il sogno di Erode. Il Recitante descrive il terrore che possedeva i potenti e la speranza dei deboli al tempo in cui doveva nascere Gesù. - Scena 1a: «Marcia notturna: una via di Gerusalemme. Un corpo di guardia. Soldati romani compiono una ronda nella notte». Il Comandante della pattuglia e un Centurione si scambiano notizie e confidenze. Erode, dice il comandante Polidoro, fa sogni tremendi e vede dovunque assassini. - Scena 2a, 3a e 4a: «Interno del palazzo d'Erode». Erode è terrorizzato da un sogno insistente e minaccioso, nel quale lo si avverte che un nascituro farà crollare il suo trono. Egli chiede ai suoi Indovini spiegazione del sogno e consigli per stornare il pericolo. Essi, dopo aver compiuto evoluzioni cabalistiche, gli confermano la verità del sogno e lo consigliano a uccidere tutti i neonati. Ed Erode delibera la strage dei piccoli innocenti. - Scena 5a e 6a: «La stalla di Betlemme». La Vergine Maria e Giuseppe vagheggiano il Figlio, allorché un coro invisibile di Angeli li avvisa di partire verso l'Egitto per mettere in salvo Gesù dalla minaccia di Erode.

La 2a parte rappresenta La fuga in Egitto. - Scena 1a: Un coro di pastori saluta la Santa Famiglia. - Scena 2a: Il Recitante narra come la Santa Famiglia, giunta in un luogo ridente, ricco d'acqua e di palme ombrose, si fermasse a prendere riposo. E gli Angeli del Cielo attorno ad essi adorarono in ginocchio il Divino Fanciullo.

La 3a parte ha per oggetto L'arrivo a Saïs. Il Recitante narra come dopo tre giorni di penoso cammino attraverso il deserto, la Sacra Famiglia giungesse alla città di Saïs. - Scena 1a: «L'interno della città di Saïs». Estenuati pel lungo faticoso cammino, Giuseppe e Maria col Figlio cercano un asilo, ma i Romani e gli Egiziani li respingono brutalmente. Solo un povero Ismaelita li riceve sotto il suo umile tetto e si prende cura dei Pellegrini affranti. Egli è falegname: Giuseppe lavorerà con lui e guadagnerà. E intanto, per rallegrare i profughi, l'Ismaelita ordina ai figli di suonare; poi li conduce a riposare. Il Recitante commenta: «Così da un infedele fu salvato il Salvatore». Per dieci anni Giuseppe e Maria vissero a Saïs vedendo fiorire la sublime bontà e saggezza del Figlio. Infine Gesù volle tornare là dove nacque e dove lo attendeva il sacrificio dal quale aspettava salvezza il genere umano. Il coro conclude con un voto d'umiltà.

Non ostante varie ineguaglianze di stile, per cui accanto a pagine ispirate se ne trovano altre pallide o stentate, tuttavia la bellezza delle prime si impone su la povertà delle seconde. Inoltre, contrariamente alle consuetudini strumentali di Berlioz, in questa «trilogia» l'orchestra è sobria e finemente trattata. Nella struttura l'autore fa ancora uso di pezzi e scene staccate.

Nella 1a parte la «Marcia notturna» con i pizzicati dei bassi e la ritmata melodia vuol descrivere la ronda dei soldati nella notte, ma il suo interesse si perde e si scolora nella prolissità. Successivamente l'aria di Erode: «Toujours ce rêve» è piena di una profonda tristezza; le frasi rotte grondano di terrore e di smarrimento come i disegni dell'orchestra. Deboli appaiono invece così il coro degli Indovini come le loro evoluzioni propiziatorie. Forse Berlioz dette soverchia importanza a qualche particolare esteriore, come le 5e del canto e le misure di 7/4 della danza, che avrebbero dovuto conferire un carattere magico ed esotico al pezzo. Meglio, ma non abbastanza violenta, la chiusa con la decisione della strage dei bimbi.

Una pausa di sette misure, quasi una sospensione del respiro per l'orrore del crimine deliberato, separa questa scena crudele dall'altra successiva che ci trasporta nella stalla di Betlemme. Maria e Giuseppe vagheggiano il Figlio con una melodia stesa su un blando ritmo di berceuse, accompagnata da archi e strumentini. E una pagina di commovente delicatezza, dove linee e tinte cooperano a creare un'atmosfera di pastorale e tenero idillio. Tale delicatezza si fa anche più aerea ai richiami degli Angeli, per la trasparenza dello strumentale e la leggerezza dei tocchi.

La 2a parte è la più ispirata. Il preludio, con la sua struttura fugata e i motivi pastorali, un poco arcaicizzante, vuol descrivere il malinconico giungere dei pastori per salutare la Sacra Famiglia. Il coro dei pastori conserva alla composizione il carattere idillico elevandone il tono verso una sfera di sognante poesia. Questa intonazione poetica si accentua ancor più nella pagina che chiude questa parte e che descrive il riposo della Santa Famiglia nell'oasi. Tutto qui è di una soavità dolce e nobile, di un'intimità raccolta e casta, che attinge al celestiale nella fine, allorché intervengono ancora una volta le voci degli Angeli.

3a parte: Una modificazione ritmica del preludio della 2a parte serve a commentare, in forma di fugato, la narrazione della penosa traversata del deserto. Senso di pena che si accentua, nella scena seguente in cui Maria e Giuseppe, estenuati, cercano un asilo; dove al tono supplichevole delle loro domande si contrappone la durezza secca delle repulse corali dei Romani e degli Egiziani. L'ispirazione, fino ad ora fluente, si raffredda un poco per una maggiore rigidezza dei disegni nella scena successiva in cui la famiglia dell'Ismaelita soccorre i profughi. Il «Trio» con cui gli Ismaeliti intendono rallegrare Maria e Giuseppe, non si preoccupa di darci l'impressione né dell'esotico, né dell'arcaico (se non nella scelta degli istrumenti: a flauti e un'arpa). E un pezzo grazioso, ma che stona con la religiosità del soggetto. Le ultime pagine corali ci riportano un alone di tenerezza idilliaca appropriato. E in questa mite luce il canto sfuma e si perde come un'arcana visione, su la parola «Amen».

Bizet Giorgio (1838-1875)

Le più belle pagine scritte per l'Arlesienne di Daudet, furono da Bizet raccolte in due Suites. La 1a contiene: Preludio, Minuetto, Adagietto, Carillon; la 2a: Pastorale, Intermezzo, Minuetto, Farandola. Nella 1a Suite il Preludio comincia con un tempo deciso che s'impernia su un antico «Noёl» provenzale, prosegue con un Andante di una intensa tristezza, e prorompe in una frase piena di passione. Il Minuetto dei vecchi è una pagina gaia e lievemente umoristica; soavissimo l'Adagietto; e tutto squilli argentini di campane remote in un movimento vivace e festoso il Carillon. - Nella 2a Suite, la Pastorale disegna una melodia suggestiva per delicato sapore agreste. L'Intermezzo esprime una meditazione dolorosa. Elegante e fine il Minuetto; la Farandola ci offre un vecchio motivo provenzale elaborato in forma di cànone; un secondo motivo di danza subentra, che poi si fonde col primo in un contrappunto di intenso colore e di una ritmica turbinosa.

La Suite Jeux d'enfants è costituita da una serie di deliziosi quadretti in cui il musicista dipinge alcune scenette infantili: bimbi che giocano ai soldati con comica gravità; una bimba che culla una bambola cantandole una ninna-nanna; bimbi che giocano con la trottola; un bimbo e una bimba che giocano «ai fidanzati»; un rumoroso «girotondo». - Musica pervasa di ingenua, freschissima serenità.

Bloch Ernesto (1880)

Schelomo. Vedi testo a pagg. 238-239.

Quintetto per pianoforte, 2 violini, viola e violoncello. Il 1° tempo (Agitato) inizia su un breve ritmo oscillante degli archi nervosamente ostinato, da cui originano disegni violenti e torbidi, in un'atmosfera tempestosa, spesso tesa in uno sforzo aspro di spasimo. Il tempo cessa bruscamente su alcuni accenti netti e vibrati. - Il 3° tempo (Andante mistico) si apre con un insistente pedale a note ribattute del piano, che crea subito un ossessionante peso d'incubo, sul quale gli archi svolgono frasi piene di un raccolto, implorante dolore. Nella seconda parte il senso nostalgico e desolato si fa più intenso e penetrante; i disegni accennano a tentativi di affermazioni più energiche, per ricadere in una mistica tristezza cupa, che si spegne in un sospiro. - Il 3° tempo (Allegro energico) si annuncia con un tema che ha un'impronta ritmica vivace, di sapore barbarico accresciuto dalle dissonanze armoniche; ma è fresco e vigoroso. Al centro del tempo ancora un'oasi di motivi sognanti e dolorosi. Dopo un ritorno del movimento vivace, verso la fine l'espressione nostalgica e dolente, quasi con senso di preghiera, si accentua nelle frasi degli archi, con una ripresa del tema del 2° tempo, nel quale si placa l'emozione, e con cui si chiude la composizione.

La costruzione del Quintetto è equilibrata e solida. Il pianoforte è però quasi sempre tenuto nell'ombra e sottomesso al canto e al pianto degli archi.

L'Israel, sinfonia per soli, cori e orchestra, presenta linee e armonie chiare, anche se lo strumentale è denso. Espansioni liriche, accenti drammatici, impeti tempestosi travolgenti, malinconie disperate, momenti di grandiosità solenne: le espressioni atavicamente tipiche e profonde dell'anima ebraica emergono con grande forza di vita dalla musica del Bloch. Dopo uno dei momenti di più trionfale grandiosità entra, dolce, il coro femminile, poi le voci femminili dei solisti con accenti di preghiera, e poscia le voci maschili tra vibranti richiami di trombe. Poscia l'evocazione di questo fervido mondo si chiude su accordi sfumati e pieni d'ombra e mistero.

Boccherini Luigi (1743-1805)

Luigi Boccherini fu con Giovan Giuseppe Cambini uno degli artisti che maggiormente contribuirono allo sviluppo della musica da camera, e, in particolare, a determinare la forma tipica «concertante» del Quartetto d'archi e del Quintetto. L'opera del Boccherini è immensa; oltre alla musica sacra, fra cui il celebre «Stabat Mater», egli lasciò 42 trii, 16 sestetti, 2 ottetti, 24 sinfonie, 92 quartetti, 141 quintetti. Ma è soprattutto in queste due ultime forme che il suo genio eccelse. Nel «galante» Settecento, Boccherini si stacca dai musicisti contemporanei per un soffio romantico dell'ispirazione che precorre lo stile dei grandi romantici tedeschi dell'Ottocento. L'impronta che distingue le opere del Lucchese è data dalla stupenda ricchezza e bellezza dei motivi, dalla forza e dalla varietà dei ritmi, dalla signorilità costante del gusto, dall'ampiezza elegante della costruzione e dalla sapienza degli sviluppi. Una libertà aerea e geniale di forme, una inusitata passionalità circola nella sua musica e le dà ala a superare i secoli e le mode.

Il Quartetto op. 58 n. 3 in mi bem. magg. (1799) rivela un'intensa ricerca di uno stile concertante nuovo, e un nuovo sfruttamento delle possibilità sonore ed espressive dei quattro istrumenti. Notevole è l'indicazione di «Allegretto lento» data al 1° tempo, dove l'apparente contraddizione dei termini sta a indicare una sottile fusione di gaiezza e di malinconia, di movimento e di meditazione. - Vigoroso il Minuetto, che l'ansioso dialogare del Trio per poco interrompe. - Il 3° tempo (Larghetto malinconico) inizia sospiroso per passare improvvisamente a un'espressione concitata e drammatica. - Il Finale conclude con veemenza la composizione bellissima.

Quartetto in re magg. op. 58 n. 5. Fu scritto anch'esso, come il precedente, nel 1799, quando Beethoven era ai suoi primi sei Quartetti dell'op. 18. I quattro tempi di cui si compone, sono legati due a due. L'Andante sostenuto, elegiaco e grave, si congiunge a uno spiritoso Allegretto gaio. - Segue una ripresa dell'Andante sostenuto, il quale mette capo al Finale Presto, vivacissimo, cui si intercala un'imitazione di zampogne e pifferi pastorali di delizioso effetto agreste.

Quintetto in re min. op. 18 n. 2. Nel 1° tempo, Allegro moderato, ci sono tratti suggestivi a imitazione del gorgheggio e pigolio d'uccellini. - Il 2° tempo Lento è di espressione tragica, con intonazioni precorritrici tra Beethoven e Brahms. - Schiettamente vivace l'Allegro con moto finale.

Il Quintetto in la magg. op. 28 n. 2 consta di quattro tempi. Il primo è un Allegro vivace di intonazione burlesca, stupendo per ricchezza e bellezza di motivi, per forza e varietà di ritmi, e per la sapienza degli sviluppi ispirati a un gusto signorile. - Il 2° tempo è un Minuetto dal fare galante proprio dello stile settecentesco e di un'aristocrazia tipicamente boccheriniana. - Il Larghetto successivo presenta una melodia di malinconia funebre, che si svolge su un perpetuo pedale di la, ribattuto come una goccia d'acqua, così da ricordare il noto Preludio n. 15 (op. 3° fase. III) di Chopin. Poi, senza intervallo, con stupendo travolgente trapasso (quella forma di rapido trapasso che sarà tanto usata da Beethoven) viene ripreso il 1° tempo burlesco, chiudendo le parti centrali della composizione come in una cornice.

Concerto in si bem. magg. op. 34 per violoncello e orchestra. È un'opera dominata da un'intensa e spiegata cantabilità. L'orchestra propone il tema del 1° tempo (Allegro moderato) a mo' d'introduzione. Il violoncello lo espone nella sua compiutezza melodica, legandolo a una successione di altri motivi patetici, intramezzandoli con tratti virtuosistici. L'ampia cantabilità strumentale domina anche nella vasta cadenza. - Il 2° tempo è un Adagio non troppo, anch'esso largamente cantabile, pateticamente sospiroso, ma non languido, esposto dal violoncello e delicatamente accompagnato dall'orchestra. Il canto si svolge simile a un'implorazione sommessa e a un rimpianto nostalgico. - Il 3° tempo è un Rondò gioioso e arditamente balzante, ma sereno. Il tema dal violoncello passa all'orchestra, ove circola, e ritorna all'istrumento solista con sempre rinnovata lena e calore, intramezzando ogni ritorno con episodi vari. Dopo una cadenza il Concerto chiude con vigorosa festosità.

Lo Stabat Mater, op. 61 per due soprani e tenore, con accompagnamento di due violini, viola, violoncello e contrabbasso, composto tra il 1800 e il 1801, è opera di raffinata eleganza, dove i cinque istrumenti ad arco giuocano come nella forma quartettistica da camera. Le voci si inseriscono alla trama strumentale melodizzando e vocalizzando. La concezione prettamente settecentesca galante attenua e talora annulla il valore drammatico del testo. Così avviene, ad esempio, nel Quae moerebat, nel Pro peccatis, nell'Eja Mater, nel Tui nati, di una musicalità serena e dolce, spesso gaia e quasi spensierata, in aperto, spesso stridente contrasto col testo. Notevoli, invece, oltre che per la sapiente e signorile grazia stilistica, anche per l'espressività lirica, lo Stabat Mater e il Cujus animam, di un dolore rassegnato, tutto sospiri nell'orchestra; l'O quam tristis, che serve di chiusa al Cujus animam, come una breve cadenza, senza sviluppo a sé, com'era nelle consuetudini, ed è una frase piena di sconforto. Più intensamente doloroso il recitativo del Quis est homo, cui accresce strazio il breve ripetuto vocalizzo del 1° violino, che è quasi un lamento senza pace. Bellissima pure la frase piena di sentimento: «Fac me pati» intercalata, pel tenore solo, fra il Tui nati e il Juxta crucem. Altrettanto dicasi dell'aria sentita, delicatissima, tutta oscillante tra ansia e abbandono: Virgo virginum, e della seguente dolce e patetica: Fac ut portem. Il Fac me plagis, che si fonde sull'Inflammatus, è pervaso da una soave ebbrezza celestiale, infiammato da una gioiosa volontà di soffrire per amore di Cristo. Infine il Quando corpus morietur ci presenta non il dolore per la perdita della vita terrena, ma il sospiroso desiderio di una pace infinita e dolcissima nell'al di là. Qui la morte del corpo è sentita come apertura all'anima della porta del Paradiso.

Borodine Alessandro (1834-1887)

Il Quartetto n. 2 in re magg. forma la delizia di ogni pubblico non solo per la finezza signorile di espressione e la passionalità del 1° e dell'ultimo tempo (Allegro moderato e Finale: Andante-Vivace), oltreché per la freschezza melodica delle idee in essi contenute e abilmente elaborate; né solo per la vivacità fluida e aggraziata dello Scherzo (Allegro), ma principalmente per il patetico Notturno (Andante), nel quale la proposta sognante del violoncello sveglia un dialogo ricco di affascinante sentimento e di romantica poesia.

Nelle steppe dell'Asia centrale: vedi testo a pag. 233.

La Sinfonia n. 2 in si min. è divisa in quattro tempi. Il 1° tempo (Allegro) inizia con un tema energico, quasi minaccioso, pieno di un magnifico slancio, esposto dagli archi all'unisono. A questo se ne contrappone un secondo proposto dai violoncelli e raccolto dai legni, dolce, melodioso, di carattere pastorale. Tutto il tempo si regge sul conflitto e su gli sviluppi di questi due temi, i quali si intrecciano, cozzano, si frantumano, subendo anche trasformazioni ritmiche interessanti, e fondendosi infine nella perorazione entusiastica della chiusa. - Il nucleo del 2° tempo (Scherzo: Prestissimo) è costituito dal giuoco dei pizzicati e dei legni su un pedale di note rapidamente ribattute dei corni, cui si innestano episodi giocosi degli archi. Oltre al tema di carattere burlesco, un altro se ne presenta sereno e aggraziato, che però non riesce a predominare sul primo. Il «trio» evoca un lontano armonioso scampanìo. - Il 3° tempo (Andante) è il più ispirato e ricco di colore orientale nostalgico. Incomincia con un canto mesto di corno, ripetuto dal clarinetto. Segue un secondo motivo degli archi, contrappuntato dagli ottoni. Dalla mestizia il canto assurge ad accenti passionali, quindi a poco a poco si estingue come in un sogno di pace. - Il 4° tempo (Finale: Allegro) in ritmo 5 /4 è vivacemente umoristico, con frequenti dissonanze ed effetti caricaturali e richiami folkloristici; questi, del resto, sparsi un po', o accennati, anche nei tempi precedenti. Dopo una serie di sviluppi del primo tema animato, un secondo tema è affidato agli ottoni e intercalato da note ripetute dei corni. Segue una ripresa del primo motivo, poi la frase si slarga negli archi; quindi un'altra ripresa conduce a una chiusa slanciata.

Le Danze del «Principe Jgor», che vengono spesso eseguite nei concerti come un pezzo sinfonico a sé, sono quelle con cui termina il 2° atto dell'opera.

La prima (motivo dell'oboe e coro femminile su accompagnamenti di arpeggi sincopati) è molle e flessuosa. È una danza di fanciulle. Allorché il motivo passa ai contralti acquista nelle voci basse un carattere voluttuosamente sensuale.

La seconda, danza di selvaggi, si svolge senza coro. È più turbinosa e violenta, con un efficace contrasto che nasce dalla sovrapposizione dei suoi due motivi: uno rapido e lieve, l'altro marcato e rude.

La terza è una danza generale, dai ritmi vibrati, sincopati e scale cromatiche discendenti. Il coro vi figura al completo. Essa è inframezzata dalla danza dei prigionieri, di tono più lamentoso.

La quarta è una danza di fanciulli, seguita da una danza d'uomini con coro maschile. È balzante, di un ritmo simile a quello d'una tarantella, piena di vita e di brio.

Si ripete la danza delle fanciulle, poi si sovrappongono la danza rapida dei fanciulli e quella lenta delle fanciulle. Indi si ripete la danza dei fanciulli e degli uomini, e poscia di nuovo una dama generale che però si svolge sul motivo della danza dei selvaggi. Infine un movimento più animato, che diventa alla fine turbinoso, conduce alla chiusa dell'atto.

Nelle esecuzioni concertistiche purtroppo non figura sempre il coro, il che fa perdere uno dei grandi effetti coloristici di queste danze, ma rimane l'intenso colore melodico e ritmico orientale a cui aggiunge splendore la policroma e sgargiante orchestrazione di Rimsky-Korsakoff che dovette strumentare l'opera rimasta incompiuta per la morte dell'autore.

Brahms Giovanni (1833-1897)

La Sonata op. 2 in fa diesis min. per pianoforte è del 1852, e nella sua esuberanza giovanile presenta già nettamente le caratteristiche fondamentali dell'arte del compositore amburghese. Nel 1° tempo (Allegro non troppo ma energico) è soprattutto notevole il vigore e il fuoco degli accenti; nell'Andante il giuoco delicato dei contrappunti su la melodia espressiva. - Nello Scherzo i contrasti dinamici e la vivacità ritmica si spianano nel Trio in una cantabilità che passa da effetti di dolcezza tenera a sonorità grandiose. - Dopo una Introduzione che sta fra la «Fantasia» e l' «Improvvisazione», il Finale ne svolge il tema con animazione crescente, che si placa verso la chiusa, per assumere nuovamente il tono fantasioso e arabescato. Dovunque dettagli preziosi e quasi un vasto senso orchestrale.

I Tre Intermezzi op. 117 per pianoforte, composti nel 1892, sono tre piccoli poemetti, densi nella struttura, ma ricchi di romantico lirismo. Il primo di essi si ispira alla ninna-nanna popolare scozzese di Herder: «Dormi tranquillo, bimbo mio; il mio cuore dolora nel veder le tue lacrime».

Le Danze Ungheresi di Brahms non ricostruiscono esattamente spunti autentici di danze ungheresi popolari, ma l'autore crea motivi propri originali, ispirati ai modi del folklore ungherese, sviluppandoli nell'atmosfera tipica delle forme d'arte popolare magiara e zingaresca.

La Sonata in sol magg. op. 78 per violino e piano ha un 1° tempo (Vivace ma non troppo) che muove da una idea calma e serena, e passa gradatamente a un'eccitazione ansiosa e appassionata. - Nell'Adagio il tema patetico proposto dal pianoforte, ripreso dal violino, intercalato ad un movimento dal ritmo più drammatico, per una serie di sviluppi ricchi di poesia, conclude in una espressione di estasi. - L'ultimo tempo (Allegro moderato) incomincia con un tema dolcemente agitato e commosso. La ripresa di frammenti del 2° tempo, nella parte centrale dell'ultimo, conferisce alla Sonata un carattere ciclico. Senza scosse drammatiche la Sonata si chiude con tenera soavità.

La Sonata n. 3 in re min. op. 108 per violino e piano nella sua ricca elaborazione presenta una viva ricerca di contrasti lirici e drammatici di robusta efficacia e di alta poesia. Inizia con un commosso 1° tempo (Allegro) in cui tratti di vigoria si alternano a effusioni di trasognata poesia. - Nel 2° tempo (Adagio) il Maestro svolge un canto nobile e passionale. - Elegantissimo e aristocratico il 3° (Un poco presto e con sentimento); vibrante il Presto agitato finale. - In ciascun tempo l'elaborazione della forma non è puro gioco tecnico ma ricerca e contrasto di emozioni liriche.

La Sonata n. 2 in fa magg. op. 99 per violoncello e piano fu composta nel 1886. Si tratta di uno dei più limpidi e stupendi capolavori del compositore amburghese. Energico e drammatico è il 1° tempo (Allegro vivace). - L'Adagio affettuoso dilata l'ispirazione in un respiro calmo e patetico. - L'Allegro appassionato è uno Scherzo spigliato e vibrante. - L'ultimo tempo (Allegro molto), in cui taluno ha ravvisato spunti di una canzone goliardica tedesca, è una graziosissima espressione di gioia.

Le Variazioni sopra un tema di Paganini op. 35, come le altre su un tema di Haydn, per orchestra ed anche per a pianoforti, e quelle su un tema di Schumann op. 23 e su un tema di Händel op. 24, sono opere smaglianti per il susseguirsi caleidoscopico delle numerose e splendenti trasformazioni del tema prescelto, differenti per carattere espressivo, equilibrate classicamente negli sviluppi, elevate nell'ispirazione. Costituiscono una successione di quadretti compiuti, ricchi di colore, che però richiedono qualità tecniche di esecuzione e interpretative non comuni per il trascendentale virtuosismo su cui si reggono.

Il Concerto in re magg. op. 77 per violino e orchestra (1879), per la eccezionale importanza della partecipazione dell'orchestra si potrebbe dire una Sinfonia concertante. Le enormi difficoltà accumulate nella parte del solista non hanno tanto uno scopo virtuosistico, quanto quello di trarre dall'istrumento nuovi effetti espressivi in rapporto alla vastità della concezione poetica. - Il 1° tempo (Allegro non troppo) si apre con un luminoso tema esposto con grandiosità dall'intera orchestra, ripreso dal violino, e dominante tutto il tempo. È attorno a questo tema che si sviluppano, ora aderenti, ora contrastanti, gli episodi lirici secondari. - L'Adagio, presentato dall'oboe è di carattere pastorale; il violino lo adorna di leggiadre variazioni. - L'Allegro giocoso ma non troppo vivace è pieno di slancio e il violino vi ha una parte attivissima e carica di passi a corde doppie.

Il Concerto in re min. op. 15 per piano e orchestra (1861), accumula nella parte pianistica uno sbalorditivo virtuosismo, che ha valore non tanto in sé quanto per lo splendore dell'espressione polifonica, la quale tien testa al meraviglioso polifonismo orchestrale. La solidità dell'architettura, la novità della concezione e la varietà dei motivi, pongono quest'opera fra le più grandi della letteratura concertistica d'ogni epoca. - Il 1° tempo (Maestoso) è veramente di una superba solennità di linee sinfoniche. - L'Adagio trabocca di un senso di poesia malinconica e sognante nel disegno melodico avvolto da armonie deliziosamente velate. - Il Rondò finale, dal tema ritmico originalissimo, vibra di un'energia audace e balzante.

Il Trio in do magg. op. 87 è composizione organica e potente. Tutto pervaso da un passionale anelito di poesia, offre nel 1° tempo (Allegro) momenti di commosso affanno drammatico. - L'Andante con moto contiene frasi e melodie piene di un sentimento che tocca alti vertici di bellezza. - Originalissimo lo Scherzo (Presto) che, con le note rapidamente balzellate e le misteriose scalette, ha un'espressione quasi spiritica, alla quale fa contrasto la parte centrale che snoda un sano canto di forza quasi agreste. - Pieno di festosa concitazione il finale (Allegro giocoso).

Il Trio in do min. op. 101 è uno dei più perfetti del Maestro. Il 1° tempo (Allegro energico), romantico e drammaticissimo, ha poche altre pagine che gli possano essere paragonate per grandezza d'espressione. - Il 2° tempo (Presto non assai) effonde grazia e tristezza insieme. - Elegante il 3° tempo (Andante grazioso); vibrante ed energico l'ultimo (Allegro molto) che corona superbamente l'edificio sonoro con la sua scultoria vivezza emotiva.

Il Quartetto in do min. op. 51 n. 1 fu composto nella piena maturità artistica di Brahms, ed è, nell'insieme, austero e non facile. Il 11° tempo (Allegro) è vivo e complesso; di esso D'Annunzio (Il Piacere) dice che esprime «un lottar cupo e virile». - Il 2° tempo (Romanza: Poco Adagio) è ansioso e commosso, pur nella sua veste armonica di preziosa squisitezza; esprime, sempre secondo D'Annunzio, «un ricordarsi desioso ma assai triste, e quindi un sollevarsi lento, incerto, debole, verso un'alba assai lontana». - Il 3° tempo (Allegretto molto moderato e comodo) è molle di aerea soavità; - ma il 4° tempo (Allegro) si rileva vigoroso. - Dovunque è un disegno largo e una elaborazione densa e sapiente.

Il Quintetto in fa min. op. 34 per archi e piano è composizione vasta ed ariosa, ricca di vivo sentimento. - Il 1° tempo (Allegro non troppo) nell'instabilità tonale dei suoi motivi, così ben fusi in un blocco unitario dalla sapienza delle modulazioni, è tutto vibrante di quell'amato romantico, spesso presente nelle composizioni dell'Amburghese, che sembra spingerne la fantasia verso qualcosa di etereo e inafferrabile. - Patetico e sereno il 2° tempo (Andante un poco Adagio) che sviluppa due temi di larga linea e di alto respiro poetico. Fa contrasto la chiusa piena d'impeto doloroso. - Il 3° tempo (Scherzo: Allegro) mette in giuoco due temi di grande forza ritmica, che acquistano il carattere e l'andamento di una marcia trionfale. - Originale il Finale per la vitalità e il rilievo dei suoi temi, di cui il principale ha un'impronta tra il «momento musicale» e la canzone. Gli sviluppi e la chiusa recano un crescente senso di vigore trascendente.

La Ouverture tragica per orchestra op. 81, non è una composizione programmatica, tuttavia gli elementi tematici e gli sviluppi della solida e classica architettura sono tutti ispirati a stati d'animo che l'autore ha esattamente definiti con la parola «tragica», benché non mirino a nulla di preciso. Più suggestiva la parte centrale, la quale coi suoi ritmi cadenzati e col suo tema dolce e mite, fa pensare al funerale di una giovinetta.

La Sinfonia n. 1 in do min. op. 68 è del 1877. Il 1° tempo (Un poco sostenuto - Allegro) incomincia con un pedale insistente dei timpani che sbocca in aspre dissonanze, e crea di colpo una tragica atmosfera d'incubo. Dalle sincopi degli strumentini emerge un gemito dell'oboe che apre la via all'Allegro in cui i violini sviluppano un tema cromatico energico che forma il pernio del 1° tempo. Grazioso è il dialogo che si svolge tra corno e clarinetto, che si innesta come un'oasi meditativa sul disegno morbido degli archi. Ruvidi strappi ogni tanto fanno risorgere il pathos tragico; poi il tema principale riprende in forma grandiosa e conclude sui pizzicati degli archi con espressione elegiaca. - L'Andante sostenuto affascina per il canto ingenuo e largo che si svolge a dialogo tra oboe e clarinetti, bassi e flauti; ripreso infine dal violino solo e dal corno si estingue con grande soavità. Lo scavalcarsi dei violini sembra una gara per condurre il tema sempre più in alto. Per tutto il tempo è un alternarsi perenne di pensieri serafici e di pensieri gravi, di sereni e di patetici. - Il 3° tempo (Un poco Allegretto e grazioso) è impostato su una dolce berceuse, alla quale non mancano accenti agresti pastorali, affidata ai clarinetti sui pizzicati dei violoncelli. Ha un andamento narrativo, che assume via via un tono quasi epico e georgico. - Nell'ultimo tempo (Adagio - Più Andantino - Allegro non troppo, ma con brio) riecheggia all'inizio la tragicità del 1° tempo. I pizzicati che si rincorrono, dapprima sottovoce e in modo misterioso, poi precipitando, sfociano in una sfuriata dei violini, da cui poscia emerge un canto dei corni luminoso e sereno. Questo canto così nobile passa ad altri istrumenti e dà luogo ad accordi gravi degli ottoni. Alla fine sorge negli archi una nuova melodia (che - è stato notato - richiama alla mente l' «inno alla gioia» della IX Sinfonia di Beethoven) e che si svolge con bella pienezza di sonorità e con vivacità di sviluppi. Dopo un ritorno della melodia del corno la Sinfonia volge al termine con un movimento più allegro dapprima assai drammatico e vigorosamente grandioso, e infine tutto vibrante di un'animazione fervida e ardente. (Vedi anche a pag. 267).

La Sinfonia n. 2 in re magg. op. 73 è del 1878. Il 1° tempo (Allegro non troppo) inizia con un largo motivo dei corni, passato poi ai legni, che sprigiona un senso di serena poesia campestre. Il secondo motivo, affidato ai violini, ha quasi il movimento di una mazurka ed è di una freschezza primaverile, non scevra di malinconia. - L'Adagio non troppo e di un'estrema delicatezza. Tuttavia la patetica frase dei violoncelli subisce qualche momento di opacità per quel divagare delle idee dietro a qualche intimo disegno poetico che è tutto proprio dell'arte di Brahms, e che rende spesso così difficile il seguirlo attraverso a tutte le deviazioni dei suoi sogni e delle sue meditazioni. Il secondo motivo è più vivace e animato e meno dispersivo. - Il 3° tempo (Allegretto grazioso), di un ritmo estremamente vano, ha però carattere sereno; cantano i legni su pizzicati dei violoncelli. È una pagina che sa di idillio pastorale e di serenata insieme. - Il finale (Allegro con spirito) riporta l'atmosfera ad una sana vigoria piena di calore e lontana da ogni romantica nebbia. Vigoria data dai ritmi popolareschi e dallo slancio della melodia intonata a piena orchestra.

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XVII. Scena di Benois per La sagra di Primavera di Strawinski.

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XVIII. Palestrina. (Stampa).

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XIX. Antonio Stradivari. (Da un quadro di E. Hamman).

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XX. Wolfango Amadeo Mozart. (Da un dipinto di J. Lange. 1782).

La Sinfonia n. 3 in fa magg. op. 90 (1884) è una delle più incantevoli per la chiarezza della vena melodica. Hanslick chiamò questa Sinfonia L'Eroica di Brahms. Tutta la composizione presenta un superbo equilibrio di forma, ed è illuminata da un grande fervore di fantasia, tesa verso una magìa di sogni che si trasfigurano in canto, imbevuta spesso, anche nei momenti più impetuosi, di una sottile poetica malinconia.

Il 1° tempo (Allegro con brio) è riboccante di un'energia espansiva. Il primo motivo ha un andamento slanciato, ispirato, dal ritmo balzante. Il 2°, esposto dal clarinetto, è un motivo quasi di canzonetta delicata e leggiadramente elegante. I due motivi danno poi origine a sviluppi vari che si alternano a episodi vigorosi, a strappate energiche, con effetti di contrasti drammatici. - Il 2° tempo (Andante) inizia esso pure con un motivo sereno e tenero di clarinetto, che ha il fare di un lied. Esso è seguito da accenti di profonda tristezza che destano risonanze nei vari gruppi strumentali e suscitano reazioni vibrate ed energiche degli archi. Il motivo iniziale passa poi per altri timbri strumentali con sfumature d'espressione di una preziosa signorile finezza. Verso la fine un'ampia frase melodica appassionata si placa fra accordi sommessi. - Il 3° tempo reca l'indicazione: Poco Allegretto. Al posto del Minuetto e dello Scherzo, Brahms ha messo in questa Sinfonia una specie di Intermezzo a forma di canzone gentile. Il motivo è trepido di poetica dolcezza. Passa poi ai violini insieme al flauto e al corno, è ripetuto dal corno solo, fra episodi lirici e su contrappunti delicati, e infine chiude su l'oboe. Malgrado qualche effetto di facile presa sul pubblico non diremo che questa sia una delle migliori pagine di Brahms. La sua dolcezza, infatti, rasenta e talvolta tocca il sentimentale. - Ma il Maestro si rileva con tutta la sua forza nel Finale (Allegro con brio) che incomincia con un robusto unisono degli archi cui fanno riscontro le note gravi dei contrabassi e gli accordi solenni dei tromboni. Il tema concitato e misterioso sbocca in strappate secche e in altri motivi drammatici, fra i quali sorprende di trovare il tema ritmico della 5ª Sinfonia di Beethoven. Gli accordi degli ottoni si presentano poi fra un delicato mormorìo dei violini con sordina che chiudono la Sinfonia in pianissimo, come un sogno che vanisca, con un senso di pace serena.

La Sinfonia n. 4 in mi min. op. 98 (1885) è la più austera e complessa delle quattro Sinfonie di Brahms, ed anche la più potente e limpida. Vi è in tutti i tempi, specialmente nel 1°, una grande irrequietezza spirituale che si esprime attraverso a una continua instabilità melodica e armonica. Temi e ritmi passano rapidamente dal sentimentale all'eroico, dagli accenti pensosi e sognanti a quelli volitivi e incisivi. - Nel 1° tempo (Allegro non troppo) più che col consueto schema classico basato su la contrapposizione di due motivi di carattere differente, abbiamo a che fare con una successione di temi variati, di un'espressione sempre mutevole, illuminati da uno strumentale pure caleidoscopico. I violini e i violoncelli espongono gli uni dopo gli altri un tema a sospiri carezzevoli, a disegno ondulato, imbevuto di una nobile malinconia, seguito da movimenti sincopati fino all'attacco di un tema energico degli ottoni, ripreso poi dagli archi. Successivamente arpeggi pizzicati schiudono la via ad altri disegni degli archi, del corno, dei legni, tutti pieni di tenerezza carezzevole. Poscia l'orchestra prorompe in movimenti energici e squilli di trombe eroici. Per qualche tempo espressioni energiche e patetiche si alternano per accedere, verso la fine, a maggiore concitazione e a un più forte impeto drammatico accentuato dall'intervento autoritario dei timpani. È stato notato, e non a torto, che questo tempo, e in gran parte anche i seguenti, lasciano l'impressione della forma «quartetto» arricchita di una varia e riccamente colorita orchestrazione. - Il tema dell'andante moderato, esposto dai corni all'unisono con espressione di leggenda, viene raccolto dai legni, ripetuto quindi e variato dai legni stessi su misteriosi pizzicati degli archi sottovoce, passato nuovamente ai corni in armonia, quindi cantato dal 1° corno ancora accompagnato dai pizzicati, e infine modificato dai violini, con espressione dolce su arpeggi pizzicati. Il motivo prende poi un andamento di marcia in modo minore, di una protonda liricità, sviluppato dagli strumenti a fiato e dai violoncelli con sentimento di intensa commozione. Successivamente i violini snodano una larga frase patetica che si ricollega col primo tema dei corni. Questo assume espressioni varie, dal soave al vibrato, all'eroico, e infine, dopo una ripresa dei violoncelli su delicati contrappunti dei violini, il tema è riafferrato dai corni i quali chiudono il tempo su un dolce mormorìo dei legni. - L'Allegro giocoso ha un ritmo vigoroso, entusiastico, balzante e fortemente marcato, a disegno discendente, che si alterna con movimenti lievi di danza. Il motivo di questo «Allegro» provoca un vivace dialogo di proposte e risposte fra i vari gruppi strumentali, presentandosi anche in forma rovesciata (cioè ascendente), con scatti e lampeggiamenti eroici robustamente scanditi. - Il Finale (Allegro energico e appassionato) è una specie di Ciaccona[49] con 31 variazioni. Il tema, esposto dagli istrumenti a fiato, origina una serie di quadri tutti atteggiati secondo profonde modificazioni ritmiche e di movimento, e dipinti con una smagliante tavolozza timbrica. Sono accordi ascendenti drammatici degli ottoni, squilli cupi troncati da accordi violenti su cui alfine si erge un canto delicatamente malinconico e misterioso dei legni seguito da un pianto accorato ma forte dei violini. La frase si spezza nel flauto in accenti ansimanti, carichi di un pianto disperato, cui fanno seguito armonie dolenti dei corni. La ripresa dell'introduzione da luogo a un movimento drammaticamente agitato e sconvolto degli archi. Poi ancora le strappate e il canto malinconico, ripreso stavolta dagli archi con estrema passione. L'interesse non diminuisce, ma cresce di continuo durante lo svolgimento del tempo per i colori iridescenti presentati dalle variazioni, le quali conducono alla conclusione con un'ultima variazione piena di slancio e d'energia.

Il Requiem tedesco di Brahms non è una delle consuete «Messe da requiem» cattoliche. Nelle sette parti che lo costituiscono la musica si ispira a sette versetti lirici scritti in tedesco da Brahms medesimo, parafrasando alcuni passi della Bibbia. La composizione avvenne negli anni 1865-66, dopo la morte della madre; e l'esecuzione ebbe luogo nella Cattedrale di Brema il 10 aprile 1868 sotto la direzione dello stesso autore. Mancava allora l'attuale 5ª parte, che Brahms intercalò nel 1868, e che fu conosciuta dal pubblico solo attraverso all'esecuzione che del Requiem fu fatta a Lipsia nel 1869.

La 1ª parte è un commento pieno di malinconica e austera dolcezza al concetto che gli afflitti saranno beati. Nella strumentazione di questa parte è notevole l'assenza totale dei violini, cosicché l'uso delle viole, dei violoncelli e dei contrabassi, insieme ai corni, ai tromboni e ai fagotti, ai flauti, agli oboi e alle arpe, accresce la tristezza grave e patetica dell'espressione. Il coro canta su linee melodiche le quali si intrecciano in una polifonia semplice e chiara, sempre sottovoce, salvo verso la fine, dove il pensiero del conforto celeste dà al canto per un istante maggior forza e calore.

Nella 2ª parte, su un ritmo ternario di marcia solenne, non senza una tinta di fatale mestizia dell'orchestra, il coro canta la fragilità della carne e la vanità della gloria. Su un movimento più animato sorge l'invito alla pazienza «fino al ritorno del Signore». Dopo una ripresa del primo ritmo, una più viva concitazione con disegni fugati sottolinea il pensiero della gioia che aspetta i redenti, e quindi si estingue in onde leni.

La 3ª parte si inizia con un desolato recitativo per baritono: un Credente chiede a Dio quale sia il termine della vita terrena. Quest'ansiosa domanda si comunica, a tratti, al coro; si espande in ansimanti disegni alla constatazione che l'uomo è sulla terra un nulla. Ma allorché la speranza nella bontà divina rinasce, un motivo forte e deciso si leva e si sviluppa in un caldo fugato.

La 4ª parte, totalmente corale, è una laude di idilliaca serenità in cui si esalta la dolcezza del Paradiso e si esprime il desiderio di salirvi.

La 5ª parte è un canto di consolazione di intensa tenerezza lirica per soprano, a cui risponde a intervalli, affettuoso, carezzevole, il coro.

Nella 6ª parte il coro incomincia ricordando con trepidazione l'instabilità della nostra vita terrena. Ma la voce di un baritono annuncia il mistero della resurrezione. Il coro ne ripete con crescente emozione le parole, per prorompere poi insieme all'orchestra in un impeto di esultanza all'affermazione che lo squillo di una tromba ci desterà, vittoriosi della morte. A questo punto in una magistrale gioiosa «fuga» il coro leva un inno di gloria a Dio.

La 7ª parte («Beati i morti nel Signore») è una melodia lenta e di una dolcezza pensosa e serena, eppure non scevra di una lieve tinta di malinconia, annunziata dai tenori all'unisono, ripresa dai bassi, variata dal coro, conclusa in uno sfumato pianissimo che gli arpeggi ascendenti incielano.

Britten Benjamin (1913)

Sinfonia da requiem. Tre episodi della Messa da requiem sono scelti per una illustrazione orchestrale. - I. Lachrymosa. Colpi di timpano sordi, in ritmo funebre, iniziano questa parte. Seguono lamenti e gemiti degli archi e dei legni. Il pianto cresce d'intensità, arriva allo spasimo su tortissimi colpi di timpano, e si estingue. - 2. Dies irae. L'orchestra prorompe in ritmi irruenti, in dissonanze aspre, in disegni turbinosi e in crolli violenti. Poi tutto si placa a poco a poco. - 3. Requiem aeternam. La preghiera per i defunti trova la sua espressione in un canto blando e gemente su una lieve impressione di scampanio. Poscia un tema di tre note, ma caldo, sale per imitazioni e si accende di passione e di dolore, per spegnersi con serena pace.

Bruch Max (1838-1920)

Il Concerto in sol min. op. 26 per violino e orchestra è una delle pagine più importanti e significative della letteratura violinistica ottocentesca. Già sùbito nel 1° tempo (Allegro) il Bruch ci appare artista dalla tecnica raffinata, sicuro coloritore, felice per calda ispirazione melodica, abile sfruttatore di ogni artificio virtuosistico in senso espressivo. Queste qualità costituiscono il lato più interessante anche dei tempi successivi: così del commosso Andante, dall'ampia ed elegante cantabilità, come del brillante e ritmicamente vivo Allegro energico.

Bruckner Antonio (1824-1896)

La Sinfonia n. 4 in mi bem. magg., detta Romantica (1881) è fra le opere più efficaci del Maestro austriaco. Il 1° tempo (Allegro molto moderato) ha inizio con un tremolo d'archi basso, su cui si affacciano richiami di corno, ripresi dai legni, poi dagli ottoni, ai quali serve di sfondo un vivace movimento degli archi che conduce a un fortissimo di tutta l'orchestra. Segue un motivo agile e gaio dei violini; indi il tempo procede per sviluppi ed episodi di vario carattere, tutti animati da un fervore appassionatamente romantico che ben spiega il titolo dato a questa sinfonia. Splendono idee incisive esposte con grande chiarezza e con robusta costruzione nell'armonioso intreccio polifonico, sorretto da una viva fantasia ritmica e coloristica, entro gli schemi classici tradizionali. Il 1° tempo è chiuso da energici squilli di trombe che ripetono il tema sul rullare dei timpani e fra le strappate secche degli archi. - L'Andante successivo ci fa udire un motivo, esposto dagli archi e ripreso dai legni, che si riallaccia col suo spunto iniziale al tema del 1° tempo. Ha andamento quasi di marcia funebre, tuttavia serena pur nei fuggevoli tocchi di delicata mestizia sui ritmi cadenzati di pizzicati simili a passi di un corteo. Richiami isolati del flauto, poi del corno, si chiudono su un motivo religioso dei legni; poscia la marcia riprende. C'è nell'insieme qualche cosa di primaverile che fa pensare al funerale di un giovane di cui si rievocano la bontà e i sogni di poesia ch'egli portò con sé nell'al di là per sempre. Verso la fine l'elegia si fa inno che si spegno ben presto in un gemito di rimpianto. - Nel seguente Presto i corni e i legni sul tremolo degli archi espongono temi quasi di caccia e di guerra, fra disegni stupiti e misteriosi dei violini. Fa contrasto un secondo motivo calmo e dolce che passa attraverso a vari istrumenti con un movimento ondulante di berceuse. Poscia riprendono i primi temi di caccia e di guerra in uno sviluppo che si conclude in piena sonorità. - Nel Finale su un disegno agitato, corni e trombe espongono un motivo energico che si svolge con grandiosità drammatica. Segue un motivo largamente patetico che si distende in un fraseggiare nobile. Un successivo sviluppo concitato e solenne insieme porta a nuove oasi serene, non senza qualche dispersione e prolissità. Attraverso a vari sviluppi sinfonici densi, la sinfonia si conclude in una potente e luminosa sonorità.

La Sinfonia n. 6 in la magg., malgrado l'evidente derivazione wagneriana di modi strumentali e armonici e anche dell'ideazione, è fra le più equilibrate e chiare del compositore austriaco. Il 1° tempo (Maestoso) è intessuto su temi energici, spesso con intonazione eroica. - Il 2° (Adagio) presenta una cantabilità dolce, espansiva, ed ha uno sviluppo pieno di abbandono romantico e sognante. - Il 3° (Scherzo), vario di movimenti, alterna disegni pizzicati leggeri ad accenti soavi d'archi ed eroici di ottoni e a tratti scherzosi. - Il 4° tempo (Finale) pur nella sua varietà, appare un po' frammentario e diluito. Stranamente vi ricorre il motivo del Tristano e Isotta di Wagner «Morremo entrambi uniti insieme».

Busoni Ferruccio (1866-1924)

Nella Sonata n. 2 op. 36 per violino e pianoforte esiste una collaborazione strettissima fra i due istrumenti. Il 1° tempo consta di due movimenti: Lento - Presto. Il Lento è un cantabile pieno di poesia; il Presto è animato e fervido. - Il 2° tempo (Andante piuttosto grave) è mesto e pensoso. - Il 3° tempo (Corale e variazioni) presenta un tema lieve e balzante; delicate e fantasiose le variazioni.

Ouverture a una commedia. Si direbbe composta nello stile di Wolf-Ferrari, per quanto non manchi la nota personale. Chiara, spigliata nei ritmi, vivace nelle movenze, bizzarra nei temi, ha il sapore di un settecento rivissuto modernamente, con qualche accento malinconico dell'oboe di quando in quando, e lascia un senso di amena e fresca giocondità.

Da alcune delle scene migliori dell'opera Turandot il Busoni tolse la materia per una Suite sinfonica. Si tratta di quadretti pittoreschi, di espressione tra il fiabesco, l'ironico e l'umoristico, strumentati con gusto delizioso.

Carissimi Giacomo (1605-1674)

L'oratorio Jefte è il capolavoro del Carissimi. È composto su testo latino, per soli, coro, orchestra d'archi e basso cifrato da realizzare con l'organo.

Eccone il soggetto. Lo Storico narra come Jefte, prima di andare in guerra, abbia fatto voto che, qualora ritorni vincitore, sacrificherà il primo che gli verrà incontro. Racconta quindi lo Storico le vicende della guerra e la vittoria di Jefte. Al suo ritorno in patria, una folla festante, con canti e suoni lo va ad incontrare, guidata dalla figlia di Jefte. Grave e il dolore di questi al vedere la figlia, alla quale è costretto ad annunsiare il voto fatto. Ma la figlia si sottomette volonterosa affinchè il padre non sia spergiuro; solo chiede due mesi di tempo per piangere la propria verginità. E l'oratorio si chiude col pianto della figlia di Jefte.

Nella realizzazione musicale la parte di Jefte è affidata a un tenore, quella della figlia a un soprano. Ma lo Storico non è raffigurato da una persona sola; per ragioni di varietà espressiva la narrazione, fatta all'inizio da un contralto, passa poi al coro e a un basso nel racconto della battaglia; poi a un soprano e ancora al coro per gli effetti della battaglia sul nemico; e di nuovo a un basso per il ritorno di Jefte. Al coro sono pure affidati i canti di vittoria, intercalati a quelli della figlia di Jefte, il racconto della partenza della figlia per andare fra i monti a piangere, e l'ultimo pianto con cui si chiude l'oratorio. Un contralto narra invece l'incontro di Jefte con la figlia.

Nella musica le parti soliste seguono un recitativo che si distacca da quello dei fiorentini per una maggiore cantabilità e una più intensa espressività drammatica. I cori hanno robustezza di costruzione e vivacità appropriata di movenze, che raggiunge effetti realistici di forte drammaticità nella descrizione della battaglia e del dolore dei vinti. Festosi e balzanti i cori del popolo vincitore, condotto incontro a Jefte dalla figlia, la quale anch'essa canta inni giubilanti, di una freschezza giovanile. Notevole anche, per il suo realismo drammatico che si concreta nel movimento ritmico espressivo delle sue linee, il «Fugite, fugite» del basso, il quale in questo momento non personifica lo Storico, ma un commento di chi scrisse il testo narrativo.

Il dramma prorompe all'incontro fra padre e figlia: il canto di Jefte esprime un dolore grave, percorso dal ripetuto grido «Heu mihi! filia mea!», mentre le risposte della figlia sono improntate a umile devozione filiale e religiosa. Poscia la figlia incomincia il suo ultimo pianto: «Plorate, plorate, colles». È un lamento accorato, in alcuni momenti disperato, pieno di un profondo senso di rimpianto per una vita chiusa senza la consolazione dei figli. E l'Eco, quasi voce stupefatta della natura, ripete qualche parola delle sue sconsolate espansioni. Il coro, infine, chiude l'oratorio con un canto lento e dolente: «Plorate, filii Israel», in cui è uno struggimento e un sentimento di elevazione che trasfigura la musica in una specie di incenso sonoro e spirituale.

Casella Alfredo (1883-1947)

Il Concerto per archi timpani pianoforte e batteria op. 79 fu composto nel 1943. Il 1° movimento si svolge su ritmi energici con un grande vigore e fervore di vita nello snodarsi e intessersi dei motivi, in una forma libera da ogni convenzione. Sulla trama i timpani gettano un senso di pulsazione profonda. - Nel 2° movimento è svolta una frase ampia, di un'espressione dolente e a volte funebre, con un'intima passione e un forte sentimento del canto. - Il 3° movimento è vivace. Sui ritmi scorrevoli il piano lancia i suoi colori brillanti in un giuoco di disegni gai che assumono via via un'espressione di gioia orgiastica e scapigliata, la quale si placa in un lungo accordo di pace.

Introduzione, Aria e Toccata. Per questa composizione l'autore stesso dettava il seguente cenno illustrativo: «Come ne lascia prevedere il titolo, il lavoro si compone di tre singoli brani, i quali si eseguiscono però senza interruzione. Va osservato che il titolo Toccata designante l'ultimo dei tre frammenti potrebbe anche convenire a rappresentare l'intera composizione, essendo questa una vera e propria fantasia musicale di vaste proporzioni e di libere forme di carattere severo e monumentale, la quale offre non poche analogie architettoniche con le illustri «toccate» del ferrarese Frescobaldi. Analogie però puramente esteriori e che non possono in ogni caso indurre a parlare di «ritorni» e di umanesimo laddove si tratta invece di superamento di forme romantiche e di restaurazione di discipline sotto apparenze di libertà costruttive».

Aggiungeremo, a maggior chiarimento, che gli elementi geometrici e architettonici prevalgono, intesi in senso antiromantico, su ogni altro elemento espressivo e sentimentale. - Il 1° movimento (Introduzione) è un Allegro, il cui tema ha carattere energicamente ritmico. - L'Aria ha una melodia esposta dall'oboe, ripresa e portata al fortissimo dall'orchestra. - L'inizio della Toccata è preparato da un motivo nuovo affidato agli archi e alla tromba con sordina, ai timpani e ai rauchi timbri degli ottoni chiusi. La Toccata si svolge in forma di Rondò con un'animazione crescente, rinvigorita dall'entrata dell'organo e dal vibrante squillare degli ottoni. Non mancano in tutta la composizione gli incontri dissonanti dovuti alla libertà della costruzione armonica e contrappuntistica tipica del Maestro torinese.

Alcuni episodi del balletto La Giara, che il Casella scrisse ispirandosi alla nota novella di Pirandello, furono dall'autore riuniti a formare una Suite orchestrale di intonazione popolaresca e di ritmica vivace. Al carattere popolaresco contribuì l'avere il musicista tratto alcuni elementi dalla raccolta folkloristica di Alberto Fa vara: Canti della terra e del mare di Sicilia. Lo strumentale è gustoso, il fare scanzonato, tra l'ironico e il grottesco.

La Serenata per piccola orchestra op. 45 bis fu composta originariamente nel 1927 per cinque istrumenti (clarinetto, tromba, fagotto, violino e violoncello) e trascritta per piccola orchestra nel 1930. E formata dai seguenti cinque movimenti: Marcia, Notturno, Gavotta, Cavatina, Finale. Su la partitura l'autore scrisse questa didascalia: «Per lo spirito e per la tecnica, quest'opera intende di rimanere fedele all'antico significato del suo titolo: essa è dunque una composizione da camera di stile leggero e senz'altra intenzione se non quella d'essere gradevole e divertente per chi l'ascolta».

La Sinfonia dell'opera La donna serpente è un gioco strumentale spigliato e iridescente su temi di una effervescenza ritmica lucida e bizzarramente giocosa. Ritmi e timbri, diremmo, che sono, anche al di sopra dell'originalità tematica, i due elementi dominatori dell'impeccabile costruzione sonora.

Cherubini Luigi (1760-1842)

Se nel preambolo introduttivo della ouverture all'opera Anacreonte (1803) si può pensare a Rossini, nell'Allegro seguente, sia per la natura dei temi, sia per il loro sviluppo come per l'architettura dell'insieme, vien fatto di pensare al fresco e sereno Beethoven della giovinezza.

La Sinfonia in re magg. è costituita dai seguenti movimenti: Largo - Allegro; Larghetto, Scherzo (Minuetto), Finale. Composta nel 1815, riesumata dal Winter nel 1935, dopo centovent'anni di deplorevole oblio, rimessa in circolazione da Adriano Lualdi nel 1939, è l'unica composizione sinfonica di forma classica della prima metà del sec. XIX che l'Italia possa vantare. E opera di ampia e solida costruzione, in cui la sapienza tecnica si fa spirito e vita, ricca di colori strumentali, non priva di accenti beethoveniani, anche precorritori di opere posteriori del genio di Bonn, fiorita da una ispirazione spontanea e robusta.

Il Requiem in do min. fu composto nel 1816 in memoria di Luigi XVI. Cherubini aveva assistito alla tragica fine del Re. Che cosa siamo noi? Che cos'è anche un Sovrano, di cui il Fato può disporre senza pietà e senza distinzione di grado? Umili e potenti ci troveremo un giorno tutti innanzi alla misteriosa soglia dell'al di là col fardello delle nostre virtù e delle nostre colpe per essere giudicati; la pietà e la preghiera possono forse salvarci! Questi sembrano essere i concetti che ispirarono il Musicista nel comporre le severe e pur umanissime pagine di questo Requiem. Opera costruita con una sapienza contrappuntistica e con un gusto strumentale di primissimo ordine, ravvivata da una ispirazione che ha sempre per oggetto le supreme altitudini dello spirito. La stessa sobria ed elegante architettura sonora nobilita la creazione.

Un senso di poesia austera fonde la preghiera dell'uomo, i suoi terrori, le sue speranze in un unico atto di fede calma. Le frasi ascendenti del violoncello e fagotto che conducono alle prime parole del Requiem aeternam, sono come sospiri rassegnati e quasi invocazioni alla pace della tomba. Esse si completano con la frase discendente delle viole che, all'inizio del successivo Graduale sboccano nella medesima preghiera, come un'interrogazione e la sua risposta fatale. La terribilità del Dies Irae non prende la mano al compositore che sa contenere l'espressione drammatica del testo in una semplice sobrietà di linee. Per scatenarla gli basta un violento e sinistro colpo di tam-tam.

Episodi, come il Tuba mirum, il Mors stupebit, il Rex tremendae majestatis, che altri autori non si lasciano sfuggire come elementi descrittivi da sviluppare ampiamente, qui sono sottolineati con rapidi accenni, ma non per questo meno efficaci. Per esprimere la frase «flammis acribus addictis» gli basta di far scorrere nelle parti delle brevi aspre scalette ascendenti e discendenti sfasate e per moto contrario, ma si guarda bene dall'insistervi per non appesantire. Quando invoca la liberazione delle anime «de poenis inferni», e che «ne cadant in obscurum», l'orchestra sottolinea con rapidi brividi e tremiti scendendo paurosamente verso le note profonde, ancora senza calcar la mano con soverchie insistenze. Il Quam olim Abrahae, al quale s'intercala il delicato Hostias et preces, dà luogo a un «fugato»; e sarà questa l'unica volta che il Maestro, celebre per la sua fenomenale sapienza contrappuntistica, cederà alla tentazione della forma scolastica.

Al vibrante Sanctus fa seguito col Pie Jesu una delle più caste ed eteree pagine non solo del Requiem, ma di tutta la letteratura musicale religiosa. Alla dolcezza della linea melodica si aggiunge il ritornello, così umile e tenero, del clarinetto, che aumenta il senso di intimità della preghiera. Né il sentimento religioso diminuisce nell'Agnus Dei, la cui frase iniziale, passando su la fine per vari istrumenti e a diverse altezze, chiude sul Lux aeterna sfumando come in un trasparente chiarore su un lungo calmo pedale e aprendoci il cuore all'infinita pace del Paradiso. E la fede nella conquista dell'eterna luce ci è data dalla chiusa della composizione «in do minore», su l'affermazione finale dell'accordo di «do maggiore».

Chopin Federico (1810-1849)

Il virtuosismo pianistico di Federico Chopin, il suo sicuro senso delle possibilità sonore e canore dell'istrumento, l'uso elegantissimo degli arabeschi che si incorporano coll'idea madre e per così dire ne fioriscono, il chiaro sentimento ritmico, cui aggiungono vaghezza le fluttuazioni dei rubando (brevi improvvise accelerazioni del movimento), la delicatezza delle modulazioni armoniche, conferiscono alle sue composizioni, qualunque sia la forma adottata, ed anche se basata su spunti ritmici o melodici di carattere folkloristico, un fascino inconfondibile.

Nelle Mazurche come nei Valzer e nelle Polacche gli spunti di danze popolari, autentici o inventati dall'autore al modo delle danze popolari, ricchi di una grande forza ritmica, ravvivati da una deliziosa vaghezza armonica, non sono che dei pretesti, dei punti di partenza per creare della poesia delicata e fantasiosa insieme, in cui l'elemento popolaresco è aristocratizzato dalla nobiltà del sogno artistico vissuto dal musicista.

I Notturni sono poemetti soffusi di malinconia ora tenue, ora profonda, talvolta pensosi e arabescati come sogni incantesimali sfumanti in un'atmosfera di penombra, ove tutto pare morbido, evanescente, incorporeo, e nei quali anche il dolore più desolante diventa canto spirituale. A quando a quando un'ansia tumultuosa si leva, un'evocazione tragica sembra soverchiare la volontà, per ripiombare poi nella voluttà del pianto sublimato in melodia eterea.

Le Quattro Ballate sono ispirate a liriche del poeta Adamo Mickiewicz. In esse il Musicista polacco seppe trasfondere nei suoni emozioni e visioni suscitategli dalla lettura del poeta e dal ricordo di leggende patrie. I ritmi propri della forma ballata conferiscono alle composizioni un'espressione fantasiosa.

Poemetti estrosi sono pure gli Improvvisi, e così pure, nella lor forma più breve, i Preludi, nei quali la fantasia creatrice spazia liberamente fondendo valori puramente ritmici e dinamici all'invenzione melodica più espansiva.

Fra i Preludi, celebre è il 15°, noto anche sotto il titolo «La goccia d'acqua» per l'insistente ribattere di una stessa nota (nella 1ª parte un la bem., nella 2ª un sol diesis, che per l'orecchio sono il medesimo suono). L'insistere di questo pedale martellato (la bem. = sol diesis) come una pulsazione febbrile, dà alla composizione un'espressione ossessionante, che diventa quasi macabra nella 2ª parte, allorché dal basso sale un tema che sembra evocare una spettrale teoria di fantasmi.

Il titolo di Scherzo dato da Chopin ad alcune composizioni non deve illudere sulla loro espressione. Esso non riguarda che lo schema formale, ma temi e sviluppo presentano un carattere altamente drammatico quasi di Ballata romantica.

Anche la parola Studio che Chopin applica ad altre sue composizioni, è dovuta al fatto che esse ebbero origine dall'essere state tecnicamente impostate su talune formidabili difficoltà di esecuzione. Ma l'elemento tecnico e virtuoslstico trascendentale è completamente assorbito dalla vita poetica profonda dell'ispirazione che li anima. Essi appaiono dunque come trasfigurazioni liriche dell'acrobatismo, in cui l'agilità diventa grazia e scintillìo, la meccanica pianistica forma d'arte compiuta.

Di alcune composizioni chopiniane s'è già fatto parola nel testo; in particolare delle seguenti:

Studio op. 10 n. 12: vedi testo a pag. 100.

Studio op. 25 n. 7: vedi testo a pag. 73.

Notturno in mi bem. op. 9 n. 2: vedi testo a pag. 242.

Notturno in do min. op. 48 n. 1: vedi testo a pag. 243.

Ballata in sol min. op. 23: vedi testo a pag. 243.

Aggiungiamo ora brevi cenni di qualche altra celebre composizione:

La Fantasia in fa min. op. 49, pubblicata nel 1842, è composizione densa di idee, e di stupenda forma, in cui l'estro sognatore del grande poeta polacco spazia sovrano, trasformando in dolcezza di canto purissimo il dolore umano, e ascendendo in uno slancio sublime verso la contemplazione dell'infinito.

Il Notturno in do diesis min. op. 27 n. 1 incomincia con vasti arpeggi sui quali si stende un tema desolato, che passa successivamente ad un movimento drammaticamente concitato. A sua volta questo movimento apre la via ad uno sfogo di intensa passione, per ricadere in breve nel primitivo tema doloroso.

Lo Scherzo in si bem. min. op. 31 ha carattere fortemente drammatico per i contrasti fra il misterioso sussurro del tema iniziale e l'impeto vibrato dei motivi che sembrano determinati dal suo richiamo. Altri motivi alternano nel corso della composizione slanci appassionati ad abbandoni sognanti. Particolarmente poetica è la parte centrale che, per l'eterea leggerezza e vaghezza dei disegni e dei ritmi, sembra fiorita da meditazioni di una fantasia fiabesca.

Lo Scherzo in do diesis min. op. 39 è composizione in cui il tragico e il fantastico si alternano con viva e suggestiva efficacia di contrasto. Verso il centro e su la fine frammenti di un canto grandioso, quasi un racconto di Ballata, intersecato da rapidi svolazzi di note simili a sùbite vampate, danno a questo Scherzo l'impronta di un delirio eroico.

Polacca in la bem. magg. op. 53. Scale cromatiche ascendenti, disegni turbinosi, aprono questa celebre Polacca, in movimento Maestoso, indicazione che già dice l'impressione di grandezza che il compositore si è proposto. Questo preambolo conduce al primo vero motivo della Polacca, slanciato e vibrante, ricco di incisi ritmici energici che producono una gioiosa esultanza, accresciuta anche dagli arpeggi vasti degli accordi e dalle veloci scale ascendenti che congiungono taluni incisi con altri all'ottava superiore, più entusiasti. Un secondo episodio, dato da progressioni incalzanti, porta ad un motivo cantabile largo, sostenuto dal caratteristico ritmo d'accompagnamento proprio delle polonesi:

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Dopo una ripresa del primo motivo appaiono sei accordi fortissimi e arpeggiati, seguiti in pianissimo da brevi scalette di quattro semicrome a ottave discendenti, ripetute come un basso ostinato ossessionante. Su questo ritmo uniforme del basso, che cresce fino al fortissimo come qualcosa di enorme che ingigantisce ed esalta, si disegna per due volte un motivo eroico e vigoroso che esplode poi in ritmi più gai ed elastici. Segue, piano, uno scorrevole motivo delicato e carezzevole, che per contrasto di colore sembra cantato da un oboe. Esso conduce alla ripresa del motivo iniziale che chiude su accordi energicamente martellati, la composizione.

La Sonata in si bem. min. op. 35 per pianoforte si apre (Grave) con drammatici accordi. Improvvisamente il 1° tempo (Doppio movimento) prorompe con un'ansia disperata, un anelare affannoso, solcato da canti soavi come il pianto d'un morente. - Lo Scherzo è anch'esso pervaso da un fremito di tragedia, percorso da ritmi incalzanti, interrotto solamente da un sereno sogno di pace in cui il turbamento dell'anima per un istante si placa. - Ed ecco la poderosa Marcia funebre: un passo pesante marca il ritmo degli accordi tetri, squilli eroici risuonano e si levano verso la luce; poi un canto di una dolcezza ineffabile in cui rimpianto e aspirazione si fondono in una superiore visione di serenità. E riprende il ritmo grave e severo che si estingue come in lontananza. - Il Finale (Presto) è un rapido volo di note, un turbine che si perde: nel nulla o nell'infinito? L'interrogativo rimane senza risposta. Un grido solo, uno spasimo, e tutto è fermo innanzi alle chiuse porte del Mistero.

Per curiosità aggiungeremo che il grande pianista e compositore Antonio Rubinstein vedeva in questa Sonata un'espressione contenutistica assai precisa, ch'egli compendiava nei seguenti momenti: 1° tempo: lotta tragica contro il destino; 2° tempo: feroce danza macabra troncata da una tenera evocazione di ricordi; 3° tempo: Marcia funebre: centro del dramma; 4° tempo: l'urlo del vento turbinante su le tombe.

Gran concerto in mi min. op. 11 per piano e orchestra.

1° tempo: Allegro maestoso risoluto. Di maestoso e risoluto c'è il primo tema, al quale poscia si contrappongono disegni cantabili patetici, melodie frescamente arabescate dove anche l'arabesco è espressione dinamica fervida. Tali motivi sono affidati principalmente al piano che in questa composizione chopiniana predomina, quasi senza dialoghi, su l'orchestra. Questa costituisce uno sfondo sonoro delicato, o intercala preludi o episodi fra una ripresa e l'altra del piano. Manca ogni forma di cadenza finale. - Il 2° tempo. Romanza, svolge una melodia sognante e pensosa, di carattere quasi vocale per la sua estrema cantabilità, spesso con accenti che ci trasportano verso la forma del «Notturno». - 3° tempo: Rondò. Il primo ed anche il secondo tema sono vivaci e balzanti, in un ritmo che trae la sua origine dalla danza polacca detta crakovienne[50]. L'agile gioco pianistico, sostenuto da un brillante strumentale, non si allontana mai da un'espressione intensamente lirica. Manca anche in questo tempo la cadenza.

Concerto in fa min. op. 21 per piano e orchestra. 1° tempo: Maestoso. Dopo una introduzione orchestrale, il piano attacca da solo un cantabile fiorito, lungo, ricco di andamenti passionali o agitati, che l'orchestra intercala di un breve episodio, riducendosi pel resto del tempo a fare da sfondo armonico. - 2° tempo: Larghetto. È un «solo» di piano; largamente melodico e patetico il primo motivo, più forte e drammatico il secondo, sempre in una scrittura pianisticamente florida, con tendenza a un disegno diffusivo. - 3° tempo: Allegro vivace. Il tema arieggia lo stile delle mazurke, dei valzer e degli scherzi chopiniani. È brillante e tenero insieme, con tratti vigorosi, molti dei quali virtuosistici. Anche in questo tempo manca un vero e proprio dialogo tra solista e orchestra, e il pianoforte emerge come strumento a solo con accompagnamento orchestrale.

Ciaicowski Pietro (1840-1893)

Concerto in re magg. op. 35 per violino e orchestra. Il 1° tempo (Allegro moderato) inizia con un'ampia introduzione dell'orchestra, dopo la quale il tema incisivo del violino origina risposte e reazioni dell'orchestra vivaci. Il solista dialoga, lotta, fino a che passa ad un secondo motivo largo, dominatore, di un'espressione intensa e di una tenerezza profonda. Esso viene poi contornato da altri disegni e movimenti di fine eleganza. - Melodica e patetica è la Canzonetta che costituisce il 2° tempo (Andante). Anche il secondo motivo è fine ed elegante, delicatamente poetico. - Il Finale (Allegro vivacissimo) attaccato senza interruzione, a ritmo di danza popolaresca russa, è spigliato e pieno di brio, ma non esente da qualche intonazione volgare.

Il Concerto in si bem. min. op. 23 per piano e orchestra si apre con una introduzione (Allegro ma non troppo e molto maestoso) dal tema incisivo degli archi, su accordi massicci del pianoforte che poi lo raccoglie e ripete con qualche variante. - Questa introduzione conduce all'Allegro con spirito, assai agitato e nervoso, ogni tanto slegato, spesso rumoroso e virtuosistico a vuoto, ma ricco di effetti pianistici, e a contrasti vivaci tra solista e orchestra. - Un Andantino semplice coi suoi pizzicati d'archi ci introduce nel 2° tempo. Segue una melodia di flauto, infiorata e illeggiadrita dal pianoforte, e quindi un Prestissimo a mo' di Scherzo che si chiude in pianissimo. - Nell'ultimo tempo (Allegro con fuoco) il pianoforte attacca un motivo di mazurka; l'orchestra lo riprende, altri temi vi si aggiungono provocando un brillantissimo gioco strumentale, quasi una gara di vivacità fra piano e orchestra.

La Quinta sinfonia in mi min. op. 64 è del 1888. - L'introduzione del 1° tempo espone un tema energico, volitivo, che domina con un senso fatale anche nei tempi successivi, con espressioni mutevoli, fino a ripercuotersi in maniera trionfale nella chiusa della sinfonia. Esso è l'anima attorno alla quale si adunano come immagini minori i motivi degli altri tempi, fra i quali ve ne sono pure di energici e di romanticamente appassionati, di teneri e di flebili, di ardenti e di cupi. Il 1° tempo chiude con espressione sconsolata. - Il 2° (Andante cantabile) si svolge su due motivi entrambi largamente melodici ed elegiaci, il primo, esposto dal corno, più umano; il secondo più serafico. I tromboni ad un certo momento addensano sul primo motivo l'incubo di un fato tragico opponendogli in modo misterioso e minaccioso il tema fondamentale della sinfonia. - Lieve e un po' fatuo ma elegantissimo il Valzer che costituisce il 3° tempo. Ma anche contro questo momento di spensierato oblìo si erge cupo il tema fatale dell'introduzione, come un severo ammonimento. - Il Finale si svolge fra un alternarsi di ritmi solenni e di canti soavi, a vicenda elaborati e contrapposti, fra uno svariare di colori orchestrali, fino a che riappare il tema iniziale della sinfonia che la conclude in maniera grandiosa, ma un po' enfatica, come un inno di vittoria.

Nella Sinfonia n. 6 in si min. op. 74 detta Patetica, la scelta dei motivi e dei ritmi carichi di intensa passionalità, le armonie i cromatismi e le modulazioni languide, lo strumentale colorito e caldo, tutto concorre a creare l'atmosfera «patetica». Eseguita la prima volta il 16 ottobre 1893 nove giorni prima della morte del Maestro, fu ripetuta alla fine dello stesso mese per commemorare lo Scomparso.

Il 1° tempo (Adagio-Allegro non troppo) offre nel primo movimento con accento doloroso lo spunto del tema che formerà la base dello sviluppo dell'Allegro successivo. In questo secondo movimento il tema acquista un'agitazione febbrile, drammatica e si alterna con una larga frase melodica appassionata che passa per varie gradazioni espressive, da quella di un'esaltazione romantica fino a quella di uno sconforto disperato. - Nel 2° tempo (Allegro con grazia) la serena melodia dei violoncelli in tempo 5/4, attraverso a sviluppi vari e al passaggio agli altri gruppi strumentali, gioca con estrema eleganza sui contrappunti pizzicati degli archi, e con la sua aperta cantabilità effonde un senso di letizia primaverile. Tuttavia, nella serenità del tema e dei suoi sviluppi il tempo dispari porta un senso di vaga inquietudine e di squilibrio, accentuato da un episodio centrale particolarmente affannoso e patetico. - Il 3° tempo (Allegro molto vivace) col suo ritmo deciso e marziale e gli squilli e i richiami guerreschi delle trombe, reca nella Sinfonia un elemento di forza e di baldanza gioioso, e, nell'allargamento conclusivo del tempo, anche grandioso ed eroico. - L'ultimo tempo (Adagio lamentoso) dopo la passione del 1°, la grazia del 2°, la marzialità del 3°, sembra parlarci dell' «infinita vanità del tutto». Il motivo iniziale è un desolato recitativo che sfocia in una frase di un dolore pieno di nostalgia e di abbattimento. E, contrariamente al consueto schema delle Sinfonie, la Patetica si chiude in un pianissimo su accenti pieni d'angoscia mortale che affondano in un buio tetro di annientamento.

Lo Schiaccianoci è un balletto il cui soggetto è tolto dal Casse-Noisette di Dumas, che a sua volta sfrutta una bizzarra novella di Hoffmann. Fra i doni di Natale fatti ad alcuni bimbi vi è uno schiaccianoci in forma di omiciattolo. Alla prima esperienza alcuni suoi denti saltano. Una bimba allora lo fascia e lo adagia come un malato in una culla; poi nella notte si alza per vedere come sta, ma un grande prodigio l'attende: tutti i giocattoli hanno preso vita, lottano, giocano, danzano e volano. Lo stesso Schiaccianoci è diventato un bellissimo principe e porta con se la bimba nel palazzo incantato di una Fata ove si svolgono danze fantasmagoriche. - Da questo balletto sono state tolte le danze che costituiscono la suite. Ma anche senza conoscere il soggetto se ne può gustare la freschezza, poiché la musica, come al solito, non precisa nulla. La prova si è che in Fantasia di Walt Disney la musica del balletto di Ciaicowski si gusta ugualmente anche se invece dello Schiaccianoci, di Chiarina, della Fata Chicca, dei soldatini, e simili, si vedono danzare fiori, sciare libellule, piroettare funghi. La grazia della musica di Ciaicowski sta nella vivacità dei suoi ritmi, nell'eleganza delle sue melodie signorili, nello scintillìo originalissimo del suo strumentale fatto di colori giocosi e fiabeschi.

Corelli Arcangelo (1653-1713)

Concerto grosso n. 8 per la Notte di Natale: vedi testo a pag. 255.

La Follia, per violino e «basso numerato» (sul quale s'improvvisava la parte d'accompagnamento pel cembalo), è la 12ª delle composizioni che costituiscono la celebre Opera V, uno dei capisaldi della Scuola violinistica italiana, della quale il Fusignanese è considerato fondatore.

La Follia era una danza portoghese lenta del sec. XVI-XVII. Il motivo di questa del Corelli è largo, nobile e patetico. Esso è seguito da 19 «variazioni», quali languide quali estrose, ora poeticamente sognanti ora capricciose, a volte raccolte e meditative o vibranti di spirito, e formano nell'insieme una collana di gemme di varia e stupenda bellezza.

Debussy Claudio (1862-1918)

La Suite bergamasque per pianoforte è costituita da quattro pezzi: la inizia un fantasioso e sciolto Preludio, cui segue un Minuetto in forma arcaica elegante. Il successivo Chiaro di luna è pagina di squisita intimità e di fine poesia (vedi anche a pag. 236). Chiude la Suite un brillante Passepied[51].

Al 1° libro dei 12 Preludi per pianoforte appartengono le vaghissime impressioni: Danseuses de Delphes, Voiles, Le vent dans la plaine, Les sons et les parfums tournent dans l'air du soir, Les collines d'Anacapri, Des pas sur la neige (vedi testo a pag. 236), Ce qu'a vu le vent d'ouest (vedi testo a pag. 236), La fille aux cheveux de lin, La sérénade interrompue. La Cathédrale engloutie, La dansee de Puck, e Minstrels.

La fanciulla dai capelli di lino, per piano, trae l'ispirazione da una lirica di Lecomte de Lisle. Nella sua linea melodica delicata, nelle sfumature degli accordi, in tutto l'insieme diafano e aereo, desta il sottile fascino del mondo fiabesco.

La Cattedrale sommersa, per piano, fu ispirata da un'antica leggenda brettone secondo la quale, nelle mattine in cui il mare è trasparente, la Cattedrale d'Ys, che dorme sotto i flutti il suo sonno maledetto, emerge lentamente, le campane suonano, e canti religiosi si fanno udire fra gravi armonie d'organo. Poi la visione scompare lentamente sotto le acque.

(Per altri chiarimenti illustrativi, vedi a pag. 236).

Giardini sotto la pioggia, per piano: vedi a pag. 236.

In battello, per piano, è una lirica in cui la colorita e audace armonizzazione debussyana ha ceduto il posto a una semplicità e com-postezza classica. Su blandi arpeggi cullanti si stende una melodia chiara e soave, interrotta solo al centro da ritmi più mollemente balzanti.

Pesci d'oro e Fuochi d'artificio, per piano, rappresentano quanto di più colorito e vivace ha prodotto l'impressionismo lirico di Debussy. Senza descrivere nulla di preciso queste composizioni coi loro guizzi balenanti, coi bagliori e gli scrosci, evocano con stupenda malìa impressioni fugaci suscitate dai soggetti ai quali l'autore si è ispirato.

Children's Corner (Il cantuccio dei bambini), per piano, vuole esprimere musicalmente le impressioni suggerite dai seguenti episodi di vita infantile:

Doctor Gradus ad Parnassum: graziosa visione di un bimbo al piano e della sua lotta per vincere le difficoltà degli esercizi di Clementi. Molte distrazioni, incertezze, e infine uno slancio irresistibile verso i giuochi e la libertà.

Jimbo's Lullaby (La ninna-nanna degli elefanti): il bimbo fa la ninna-nanna grottesca al grosso elefante di panno.

Serénade for the doll (Serenata alla bambola): ha la grazia vivace di un giuoco infantile.

The snow is dancing (La neve danza), e gli occhi dei bimbi la seguono con curiosità e non senza malinconia.

The little shepherd (Il piccolo pastore): è il pastorello che reca con sé la poesia del gregge e dei campi.

Golliwogg's cake-walk: un pulcinella dinoccolato danza con mosse stecchite e provoca risate allegre e fresche.

Il Quartetto in sol min. op. 10 fu composto nel 1893: Debussy aveva 31 anni. - 1° tempo: Animé et très décidé. Il tema, mosso ed energico, origina ricchi sviluppi mentre un altro motivo più patetico si alterna al primo creando una contrapposizione ricca di emozione. Lampi di passione sembrano uscire o affondare nell'ombra vaga e indefinita del mistero. - Nel 2° tempo (Assez vif et bien ritmé) il primo tema del tempo precedente subisce una trasformazione ritmica burlesca, intonato prima dalla viola e ripetuto con ostinazione, passato poi al 1° violino e al violoncello fra una ridda gaia di pizzicati, generando un gioco finemente umoristico. - Il 3° tempo (Andantino doucement expressif) è un «Notturno» sospiroso, in cui il disegno melodico delicato immerso in un'atmosfera suggestivamente sognante per le fluttuazioni armoniche e le sfumature dinamiche, crea un senso di poesia eterea. - Il 4° tempo (Très moderé - Très mouvementé et avec passion -Très vif) ci trasporta dalla calma contemplativa alla gioia, e infine all'ebbrezza entusiastica attraverso motivi ricchi di passione, di colore e di vita ritmica. (Vedi anche testo a pagg. 263-264).

I Notturni, per orchestra, composti nel 1899, comprendono tre quadri (Nuages, Fêtes, Sirènes) di una policromia orchestrale incantevole. L'autore medesimo tracciò per essi i seguenti cenni: «Non si tratta della forma abituale del Notturno, ma di tutto ciò che questa parola contiene di impressioni e di luci speciali. - Nuages: è l'aspetto immutabile del cielo, col cammino lento e malinconico delle nuvole, con baleni corruschi di cirri che finiscono in un'agonia grigia, dolcemente colorita di bianco. - Fêtes: è il movimento, il ritmo danzante dell'atmosfera; è ancora l'episodio di un corteggio (visione abbagliante e chimerica) che passa attraverso la festa e si confonde in essa; ma in fondo resta sempre il medesimo: festa di suoni, pulviscolo luminoso, che partecipano al ritmo generale. - Sirènes: è il mare con il suo ritmo infinito; poi attraverso le nubi argentate dalla luna, si diffonde ovunque, ride e passa il canto misterioso delle sirene». Per quest'ultimo Notturno Debussy ha affidato a un coro di voci femminili i vocalizzi che evocano il canto ammaliatore delle divinità marine.

Il Prelude a l'après-midi d'un faune, composto nel 1892, eseguito nel '94, è un poema sinfonico per orchestra ispirato da una lirica del poeta Stefano Mallarmé. Questo languido e caldo pomeriggio carico di sensualità e di poesia della natura trova nei ritmi cullanti, nel cromatismo dei disegni, nel colorito denso dello strumentale, nella snervante mollezza delle armonie, un'espressione di una potente forza evocatrice. Il sospiro del flauto, prolungato dai successivi interventi del corno, degli oboi, del clarinetto, crea ad ogni ritorno un'atmosfera di una dolcezza misteriosa, come remota nel tempo, suggestiva e affascinante.

Danse sacrée e Danse profane, per arpa e orchestra. Danse sacrée. Un oscillare lento di archi su cui si snodano disegni composti e blandi, poi via via più mossi, dell'arpa, e pur sempre tenuti in un'atmosfera di dolcezza serena e con accenni a tonalità diatoniche arcaiche.

La Danse profane, più mossa, è percorsa da un melodizzare più voluttuoso e da un'animazione di immagini e di ritmi più sciolti e molli.

Iberia: Images per orchestra, n.2; composte tra il 1906 e il 1908. Prima esecuzione ai Concerti Colonne di Parigi nel 1910. Constano di tre parti. Nella prima, Par les rues et par les chemins, il compositore costruisce un quadro sonoro di vaste proporzioni musicalizzando i vari suoni e rumori che sorgono dalla via. Senza materialistiche precisazioni, la multiforme polifonia che sale dalla strada animata, è rappresentata non solo nel suo movimento d'uomini e di veicoli, ma nel movimento delle anime e, si direbbe, nello sfolgorio dei colori e degli aspetti. - Nella seconda parte, Parfums de la nuit, la poesia musicale raggiunge il suo apice. Anche qui nulla di preciso: tutto è evanescente, ma tutto rievoca i caldi profumi sensuali d'una notte sivigliana e i suoi mille canti e bisbigli misteriosi. - Alla terza parte, Au matin d'un jour de fête, si giunge senza interruzione attraverso un festoso scampanio. La luce abbagliante, le canzoni popolari parodiate e ironizzate sottilmente, i ritmi di danza prepotenti, tutto rievoca il tripudio gioioso della festa e crea una vera «visione acustica» di suggestiva potente bellezza. (Vedi anche testo a pag. 235).

La Mer, poema sinfonico per orchestra: vedi testo a pag. 235.

De Falla Manuel (1876-1946)

Sono entrate a far parte dei programmi concertistici talune composizioni di De Falla, anche appartenenti in origine ad opere teatrali. Come le composizioni degli altri suoi connazionali spagnoli moderni, anche quelle di De Falla ci presentano intensità di colore e di vita ritmica, calore di melodia sensuale, tali da evocare fortemente la particolare sensibilità della popolazione e dell'ambiente ispano; tutto ciò in forma artistica preziosa per la ricchezza dell'ispirazione. Così nella Danza del Fuoco dal balletto El amor brujo, come nella Danza del Tricorno, e nelle composizioni staccate, quali la Jota, l'Asturiana, la Canzone gitana, ecc.

La Danza del fuoco del balletto El amor brujo (L'amore maliardo), composto nel 1915, è la danza che, secondo la leggenda ripresa nel soggetto dell'opera, serve a scacciare i cattivi spiriti a mezzanotte. Sono motivi di danza dai ritmi violenti, dal colore esotico, pieni di un fascino sensuale, qua e là solcati da espressioni di languore nostalgico.

Dal balletto El sombrero de tres picos (Il cappello a tre punte) composto da De Falla nel 1917, egli trasse i tre momenti della Suite: I vicini, Danza del mugnaio. Danza finale. Il primo è il preludio della 1ª parte del Balletto, e descrive la «Notte di S. Giovanni». La Danza del mugnaio e la Danza finale (quest'ultima imperniata su una Jota, danza popolare aragonese rapida in 3/4 o 6/8) sono pagine smaglianti per colore strumentale e vita ritmica.

Dukas Paolo (1865-1935)

L'apprendista stregone: vedi testo a pag. 231.

Dvôrak Antonio (1841-1904)

Le Danze slave raccolgono ritmi e disegni melodici ispirati ai caratteri della musica popolare boema, strumentati con colori vivacissimi. Esse si impongono all'ammirazione, oltre che per la ritmica così originale e per la brillantezza delle tinte orchestrali, per quel fondo di sconsolata tristezza che caratterizza in maniera inconfondibile l'anima slava.

Il Dumky-Trio, per piano violino e violoncello op. 90 non ha la struttura consueta del trio classico. È una successione di brevi pezzi tutti costruiti a un dipresso con la medesima forma. Si tratta di canti di origine popolare cèca o di carattere popolareggiante, tessuti a variazioni, ordinati nei vari tempi e movimenti (Lento maestoso. Allegro quasi doppio movimento. Poco adagio. Andante - Andante moderato -Allegro - Lento e maestoso. Vivace) in modo da creare coloriti contrasti di espressione.

Il titolo di Dumky-Trio è dovuto al fatto che l'Andante arieggia la forma della Dumka, canzone slava in tempo assai lento, in tonalità minore e con accompagnamento di strumenti.

È composizione piacevole per la sua impostazione fondamentale popolaresca, melodica e cantabile.

Il Quartetto in la bem. op. 105 di Dvôrak, in 4 tempi, è opera colorita e ispirata, ricca di spunti folkloristici, melodicamente cantante, elegantemente elaborata. Specialmente bello è il 2° tempo, Molto vivace, a ritmo di danza popolaresca, balzante e piena di slancio, con frasi patetiche accompagnate da accordi sospirosi. Si sprigiona da tutta la composizione un senso di poesia nativa che passando attraverso alla spiritualità e alla sapienza del compositore ha acquistato un fascino irresistibile.

Concerto in la min. op. 53 per violino e orchestra. 1° tempo:

Allegro. Dopo tre squilli energici di tutta l'orchestra, il violino solista preludia a corde doppie. La bravura tecnica si scioglie in una frase toccante per chiudersi in uno svolazzo. L'orchestra ancora preludia; il violino ha una ripresa energica nella quale il tema cantabile viene variato in mille guise, generando episodi dall'espressione sempre differente, fra cui episodi di alto virtuosismo. - Dall'Allegro si passa senza interruzione all'Adagio. Il violino canta una melodia dolce e affettuosa contrappuntata dai legni. A questa melodia fa contrasto un secondo motivo vibrato. Dopo vari avvicendamenti e sviluppi questo 2° tempo si smorza e cessa in un delicato piano. - Il 3° tempo, Allegro giocoso, si apre con un tema festoso dal ritmo di danza campestre. L'orchestra lo esalta e lo varia senza però che muti il carattere originale. Il secondo motivo è gioiosamente cantabile. Un terzo motivo più lento e patetico, abbandonata l'espressione danzante, serve di contrasto e dà pretesto a passi virtuosistici a corde doppie. La ripresa del primo motivo conduce, sempre attraverso a passi virtuosistici, ancora al secondo motivo, per concludere con un movimento animatissimo.

Concerto in si min. op. 104 per violoncello e orchestra.

1° tempo: Allegro. L'orchestra preludia esponendo un tema energico e incisivo, che il violoncello riprende. Ad esso lo stesso violoncello fa seguire una melodia ampia e patetica che sfocia in volute virtuosistiche. L'orchestra interviene; il violoncello riattacca il motivo iniziale sviluppandone ora lo spunto in maniera cantabile. Dopo altri episodi vorticosamente concitati, il secondo motivo è riproposto dall'orchestra in modo sonoro e grandioso, ma il violoncello lo riporta all'espressione larga e patetica. Segue un'altra parentesi di vivo movimento, e quindi una nuova esposizione grandiosa del primo motivo, esposizione che conduce alla chiusa. - 2° tempo: Adagio ma non troppo. Proposto dall'orchestra brevemente, il violoncello sviluppa un largo cantabile pieno di tenera malinconia. Più elegiaco, segue un secondo motivo che termina in ripetuti singhiozzi e si scioglie in una frase nostalgica e piangente. L'orchestra aggiunge succinti commenti drammatici. Questi due motivi in varia alternativa concentrano in sé il maggiore pathos del 2° tempo. - 3° tempo: Allegro moderato. L'orchestra espone un primo motivo festoso e quasi marziale, che il violoncello ripete. Un secondo motivo più malinconico si scioglie quasi in un ritmo di canzone spagnola. Dopo un alternarsi variato di questi due motivi, un terzo più patetico e calmo è esposto dal violoncello. Ritornano poi i due precedenti, e dopo un accenno al motivo iniziale del 1° tempo, l'orchestra chiude con enfasi grandiosa.

La Sinfonia n. 5 in mi min. op. 95, intitolata Dal nuovo mondo, fu composta nel 1893 su motivi del folklore americano, non esclusi quelli indiani e negri. - Il 1° tempo è preceduto da un Adagio appassionato in cui viole, violoncelli e corni accennano al motivo che formerà il nucleo essenziale dell'Allegro. Delle tre frasi principali di questo movimento, la prima, proposta dai corni, ritornerà anche nei tempi seguenti, dando alla Sinfonia un carattere che si potrebbe dire ciclico se fosse più sistematico. La seconda è derivazione di un ritmo di danza ed è accompagnata da un'insistente nota bassa dei corni. La terza frase ha analogie liriche e ritmiche con la prima. Incisi della prima e della terza frase servono allo sviluppo degli episodi di collegamento. La sonorità delle trombe e dei tromboni conclude con splendore sgargiante il 1° tempo. - Il 2° tempo (Largo) si inizia con accordi gravi dei legni che preparano al canto nostalgico del corno inglese il quale ripete, con poche modificazioni, uno dei più bei «canti spirituali» dei negri (Massa dear). Si dice che con questo canto Dvôrak abbia voluto esprimere il sentimento di profonda e malinconica poesia suscitato dalla vista della sterminata immensità di una prateria americana. Questa impressione dolente e nostalgica è accentuata dal secondo motivo del flauto e dell'oboe sul tremolo lieve degli archi. - Lo Scherzo (Molto vivace) ha un ritmo originale, balzellante, snello e leggero, e comprende un canto lirico pastorale indiano affidato ai legni. - Nel Finale (Allegro con fuoco), dopo alcuni vivaci accordi preparatori, gli ottoni attaccano un tema energico su robuste strappate degli archi, che si sviluppa quasi come una danza orgiastica. Fra l'impetuoso anelito del tema e dei suoi sviluppi riappaiono, con le loro così varie espressioni, i motivi principali dei tempi precedenti. La Sinfonia si chiude con una ripresa del tema iniziale dell'ultimo tempo portato dal modo minore al maggiore in una sonorità luminosa trionfale e fantasiosa.

Elgar Edoardo (1857-1934)

Le Variazioni sinfoniche su un tema originale furono scritte con l'intento di raffigurare in ciascuna variazione l'indole di un conoscente dell'autore. Perciò ogni variazione porta un'iniziale o un nome. Ne è uscita un'opera che è il parallelo musicale dei «Vari humori» descritti colla polifonia vocale delle Veglie di Siena da Orazio Vecchi. Anche Elgar traccia sinfonicamente caratteri focosi, iracondi, vivaci, bizzarri, dolci, sereni, gravi, malinconici. Una variazione in forma di Romanza porta il nome di una donna; ma la più bella è quella dedicata al celebre organista Nimrod, di carattere austero e solenne, strumentata in modo da riprodurre i più begli effetti di timbro e di sonorità dell'organo. A metà della composizione si trova un Intermezzo, che non ha nulla a che vedere coll'intenzione pittorico-psicologica propostasi dall'Elgar, e serve unicamente, con i suoi ritmi di danza bizzarra, a interrompere per un istante la monotonia della sfilata di ritratti.

Franck Cesare (1822-1890)

Preludio corale e Fuga. La composizione (del 1884) reca le caratteristiche fondamentali del Maestro: squisitezza armonica, cromatismo, enarmonia e profondo sentimento religioso. Nel Corale raggiunge effetti di potente grandiosità e di nobile elevazione. La Fuga col suo tema cromatico discendente per brevi incisi interpausati e dolenti, ha una chiara e monumentale elaborazione nella ripresa del corale e nella sua sovrapposizione alla fuga, che corona degnamente l'opera.

La Sonata in la magg. per violino e piano, è una composizione ciclica, cioè una Sonata in cui, nei successivi tempi di cui è costituita, alcuni temi si ripetono sotto forme diverse, esercitando una funzione specialmente unificatrice. Fu composta nel 1886. - Il 1° tempo (Allegretto ben moderato) inizia con un tema sognante e poetico del violino (che indicheremo con la lettera A) di cui è stato prima appena accennato lo spunto dal pianoforte. A questo tema segue un altro motivo del pianoforte più appassionato, e questi due motivi si alternano, passando dall'uno all'altro istrumento con una vicenda ricca di pathos. - Il 2° tempo (Allegro) è estremamente vario. Incomincia con un disegno tempestoso, cui segue un secondo disegno romantico per le sue vaghe modulazioni, ma sempre agitato. Dopo una ripresa del motivo iniziale (A) del 1° tempo, un secondo motivo si presenta, più largamente espansivo, al quale segue una frase elegiaca e sconsolata (indichiamola con la lettera B). Si innesta a quest'ultima un monologo triste del violino che diviene addirittura drammatico nel piano. Su l'alternativa e le riprese di questi motivi si aggira tutto il 2° tempo, così affannoso, carico di un senso di lotta turbinosa e di scatti passionali veementi. E si chiude sul movimento tempestoso iniziale portato all'estremo limite del parossismo. - Nel 3° tempo (Recitativo-Fantasia) dopo una preparazione fatta dal piano con accordi drammatici, il violino svolge un monologo quasi «toccata» o «cadenza». Il piano riprende il motivo A, con risposte e frasi tristi del violino, cui segue un motivo nostalgico e pensoso del violino medesimo (motivo C), seguito da un tema tragico e disperato (D). I temi C, A e D si alternano, morendo su un flebile lamento del violino. - Il 4° tempo (Allegretto poco mosso) ci presenta un motivo di canzone gaia e serena giocato fra i due istrumenti in forma di cànone. Fra le sue varie riprese (ora per intero, ora a frammenti) ricompaiono sia nel piano che nel violino i motivi C, A (agitatissimo) e D. Dopo un'ultima ripresa del motivo nostalgico C (trasformato ora in motivo quasi scherzoso), il cànone ricompare per la quarta volta, e conduce a una chiusa festosa ed esuberante di gioia. (Vedi anche a pag. 260).

Il Quintetto in fa min. (1878-79), dedicato a Saint-Saëns, ha un 1° tempo (Molto moderato quasi lento-Allegro) drammaticissimo per le vicende contrastanti dei temi appassionati. - Il 2° tempo (Lento con molto sentimento) e costituito da una successione di brevi frasi simili a gemiti soffocati. - L'Allegro non troppo ma con fuoco del Finale riprende il tono lirico-drammatico, a momenti quasi epico, del 1° tempo. - Il romanticismo dell'ispirazione, il nobile soffio mistico che qua e là solleva la vena alle più grandi altezze della poesia, le fluttuazioni armoniche, sono tipicamente franckiani. Come nella Sonata per violino e in altre composizioni di Franck, il ritorno di temi generatori primitivi dà all'opera un carattere ciclico e un grande senso di unità. E data la unità del mondo fantastico di Franck, vi compaiono anche temi che riudremo nella Sonata in la e nella Sinfonia in re min.

Variazioni sinfoniche per piano e orchestra. Agli strappi energici dell'orchestra risponde un tema del piano, breve, melanconico, che ripiega su se stesso. Il tema svaria per diverse tonalità, con vaghissime modulazioni, tutte caratteristiche della maniera franckiana e del suo tipico modo di sognare. A poco a poco il tema si anima, il dialogo con l'orchestra si fa più serrato. E intanto la fantasia del compositore trasforma in mille guise il tema, facendone scaturire sempre nuove luci e nuove emozioni musicali che lo rendono quasi irriconoscibile dopo che da malinconico è divenuto festoso e passionale. E stato giustamente osservato come questa composizione segni un superamento del virtuosismo lisztiano fine a se stesso.

Il poema sinfonico Redenzione esprime, secondo l'interpretazione di Vincent d'Indy, «l'allegrezza del mondo che si trasforma e sorge a nuova vita sotto la parola di Cristo». Dopo la calda melodia degli archi, stupendo di maestosità trionfale è il motivo squillante degli ottoni sul movimento fervido degli archi.

Psiche è un poema sinfonico per orchestra e coro, composto nel 1888 e diviso in sei parti: «1ª» Il sonno e i sogni di Psiche. 2ª Psiche trasportata dagli Zeffiri nel giardino di Eros. 3ª il giardino di Eros. 4ª Psiche ed Eros. 5ª Le sofferenze di Psiche. 6ª Il trionfo dell'amore immortale di Psiche e di Eros». - Nelle due ultime parti entra anche il coro. Una delle parti più note è la quarta, costituita da un canto dolcissimo pieno di trepidazione, ripreso più volte e portato per fasi successive nell'atmosfera di un'estasi delirante e quasi mistica.

Il Cacciatore maledetto è un poema sinfonico ispirato a una ballata di Gottfried August Bürger. Narra il poeta che il Conte del Reno, montato a cavallo e seguito da cani e da fanti, dato fiato al corno, si lancia alla caccia. È l'alba di festa; i sacri bronzi chiamano i fedeli alla messa. Un cavaliere sfavillante di luce divina lo invita ad entrare, ma un altro cavaliere dallo sguardo torvo e tempestoso lo sollecita a seguitare la caccia. Il Conte si getta per boschi e per prati, per monti e per valli, tutto calpestando, e uccidendo fiere. Cadono morti molti dei servi. Un cervo va a celarsi in un campo di grano; il vecchio contadino che vede in pericolo il proprio raccolto si fa innanzi al Conte e lo prega di rispettare il frutto del suo sudato lavoro. Lo stesso consiglio gli dà il Cavaliere splendente, ma l'altro lo aizza a non curarsene. Il Conte scaccia in modo brutale il contadino, lo fa frustare ferocemente dai suoi servi, e continua ad inseguire il cervo calpestando e distruggendo le messi. Il cervo scovato fugge andando ad acquattarsi in mezzo ad un armento. Il pastore si atterra ai piedi del Conte scongiurandolo a risparmiare la sua mandria. Ancora il buon cavaliere lo ammonisce ad ascoltare la preghiera del pastore, ma il Conte dà retta al cavaliere malvagio e s'avventa coi servi sulle bestie mansuete e sul pastore. Il cervo fuggente si ricovera nella cella di un santo romito. Anche la preghiera di questi è disprezzata, ma come il Conte fa per lanciarsi, suonando il corno, nella cella, questa scompare insieme al romito, e scompaiono dietro lui fanti, cavalli e cani. Nell'aria si fa un buio di tomba, e tutt'intorno un silenzio di morte; lo stesso suo corno non suona più e il cavallo è rimasto sotto di lui immobile, insensibile ad ogni stimolo. Nel silenzio, una voce terribile tuona su lui la condanna del Cielo: da questo momento tu sarai cacciato dai demòni come una belva maledetta. E fra vapori di zolfo e fiamme livide, ha principio la caccia infernale che non avrà mai più fine.

Il poema musicale si inizia con squilli fantastici di corno; poi l'orchestra esplode con un accordo vibrato dal quale si alza un canto sacro solenne, mentre le campane rintoccano. È l'episodio presso la chiesa; indi sùbito la caccia selvaggia incomincia: un tema concitato, balzante, di cavalcata fantasiosa scatena il suo ritmo violento. Dopo un attimo di sosta udiamo un motivo sacro degli ottoni, una campana bassa suona mezzanotte, e la corsa riprende con l'animazione fosca di una leggenda demonìaca, tra sibili sinistri, svoli, sfuriate e pizzicati; va calando e finalmente si arresta su un accordo secco.

La Sinfonia in re min. è uno degli ultimi lavori di Franck (1886-88), ed è certamente l'opera più significativa del suo genio. È una composizione ciclica, in quanto tutta la Sinfonia deriva da alcuni elementi tematici ricorrenti. Ricca di un cromatismo quasi morboso, fluttuante fra un perenne modulare da un tono ad un altro, per ritornare sempre alla base, essa presenta nella varietà mirabile degli sviluppi e delle derivazioni tematiche una solidità architettonica ariosa quale troviamo solo nei grandi capolavori. - Il 1° tempo (Lento - Allegro non troppo) inizia con una frase interrogativa grave e misteriosa. Questa frase diventa il primo tema dell'Allegro, irruente, nervoso, specie per gli accordi secchi che lo accompagnano. Il secondo tema cantabile ma inquieto e senza posa, è posto in contrasto con il precedente e determina uno dei più interessanti aspetti di questo 1° tempo, la cui drammaticità è accresciuta dal ritorno a intervalli del tema interrogativo, lento, dell'introduzione. - Il 2° tempo (Allegretto) svolge un cantabile per corno inglese, il cui tema è da prima presentato in modo misterioso dai pizzicati degli archi e dalle arpe. Questo motivo, di un'intensa espressione dolente, non è che un ampliamento del disegno iniziale del 1° tempo. Esso poi acquista maggior colore dai contrappunti agitati delle viole e dei violoncelli. - L'Allegro non troppo finale si svolge su due temi successivi energici, di cui il secondo ha un impeto volitivo pieno di una severa gioia. Il ritorno del tema iniziale della Sinfonia conduce a una chiusa solenne e appassionata insieme.

Franck compose Le beatitudini tra il 1869 e il 1879 su poema della Signora M. Colomb. L'orario per soli, cori e orchestra, in un Prologo e otto beatitudini, non ha una parte di «Storico»; tuttavia un tenore nel Prologo e nella 4ª e 5ª beatitudine ambienta brevemente.

prologo. - Una voce (tenore) narra come il mondo agonizzasse sotto il peso dei propri delitti, allorché una voce si levò e gli sventurati guardarono il cielo. Su la montagna gli Angeli, scesi attorno al Divino Maestro, cantavano: «Benedetto Colui che fa rinascere la speranza nei cuori sconsolati» (coro).

1ª beatitudine. - Un coro terrestre esalta la ricerca della ricchezza materiale e del piacere dei sensi. Un coro celeste risponde ammonendo che in fondo al piacere è la tristezza. I due cori si alternano contrapponendosi. Ma la voce di Cristo (baritono), seguito dal coro celeste, dichiara beati i poveri e i caritatevoli.

2ª beatitudine. -Un coro terrestre lamenta la miseria della vita, l'incertezza del domani e la inanità di ogni rivolta. Un coro celeste, eleva un canto alla bontà come forza che vince la collera, dona la pace e rende lievi le catene della vita terrena. E la voce di Cristo dice beati i buoni, perché possiederanno la Terra.

3ª beatitudine. - Un coro terrestre lamenta l'implacabilità del dolore che ci segue fino alla tomba. Una madre (contralto) impreca contro la morte; un orfano (mezzo soprano) piange la morte della madre; uno sposo (tenore) lamenta la perdita della moglie; una sposa (soprano) lamenta la perdita del marito. Un coro di schiavi invoca la libertà e la patria; un coro di pensatori invoca la rivelazione della verità contro il tormento del dubbio. La voce di Cristo dichiara beati coloro che piangono perché saranno consolati; e un coro celeste ripete le parole del Divino Maestro.

4ª beatitudine. -Una voce (tenore) implora il trionfo dell'Ideale, della Santità, della Giustizia sui mali del mondo. La voce di Cristo proclama beati gli assetati di Giustizia perché il Cielo li disseterà.

5ª beatitudine. - Una voce (tenore) afferma come l'anima umana si riempie d'ira e di fiele per le ingiustizie patite. Un coro terrestre invoca vendetta dal Re del Cielo contro i propri persecutori, e gioisce al pensiero del nemico caduto e sanguinante sotto le percosse del vendicatore. Ma la voce di Cristo invoca il perdono e, seguito dal coro celeste, proclama beati i misericordiosi. L'Angelo del Perdono (soprano) invita gli uomini a rinnegare l'odio e ad apprendere la pietà; e il coro celeste rinnova l'invito a perdonare, e ripete il motto di Cristo.

6ª beatitudine. - Cori di donne Pagane e di Giudee invocano i loro Dei, rèsisi invisibili su la Terra, affinchè si mostrino come un tempo. Un coro di Farisei vanta il proprio zelo religioso e invoca dal Dio d'Abramo una ricompensa. L'Angela della Morte chiede che le porte del Cielo si aprano, ma si domanda chi vi potrà entrare. Un coro celeste invita gli innocenti ad appressarsi alle porte del Cielo; e la voce di Cristo proclama beati i puri di cuore. Il coro celeste riprende consigliando gli uomini devoti a mondare la loro anima nella preghiera.

7ª beatitudine. - Satana (basso) esalta la propria potenza malefica, e chiama a se tutti gli scontenti e i malvagi. Cori di Tiranni e di Sacerdoti pagani vantano la loro perfidia. La folla terrena, incoraggiata da Satana, leva grida violente di ribellione e di vendetta irridendo alla virtù. Ma la voce di Cristo proclama beati i pacifici. Satana è terrorizzato dalla voce del Divino Maestro. Un coro dei pacifici ripudia Satana e la violenza; alla guerra, alla empietà, alla tirannia esso oppone l'amore e la carità.

8ª beatitudine. - Satana non si dichiara vinto, e invita Cristo a guardare come il male, l'ingiustizia, e il delitto trionfino nel mondo. Gli risponde un coro di Giusti i quali dichiarano che morire per la giustizia è dolce. Satana inveisce contro di loro e afferma che saprà piegarli coi tormenti al suo potere. La Mater Dolorosa (mezzo soprano) rievoca la morte del Figlio Divino, e il proprio dolore, e dichiara di offrire il proprio Figlio per la salvezza dell'umanità. Satana è terrorizzato dalla voce della Madre di Gesù; e Cristo dichiara beati coloro che soffrono per la giustizia. Satana si dichiara vinto, mentre Gesù chiama a sé tutti i beati. Il Coro celeste esclama «Hosanna; pace su la terra agli uomini di buona volontà».

L'ispirazione musicale di Franck in questo oratorio, più che nei contrasti violenti e drammatici, raggiunge altissime espressioni di poesia estatica nei momenti lirici. Le forze del male, i sentimenti materialisti ed egoistici, trovano nella musica franckiana una forma spesso convenzionale, anche se robusta. Solo Satana, nel motivo subdolamente strisciante e un po' magicamente affascinante, ha un'espressione indovinata e forte. I cori celesti e le parole di Cristo sono invece pieni di afflato mistico, dominati da una purità di canti davvero commovente. Si noti specialmente l'alta nobiltà del canto affidato a Cristo, l'intensa trepidante affettuosità del preludio orchestrale al quarto episodio, il senso di solenne fatalità che incombe nel canto dell'Angelo della Morte e il superbo volo serafico dei cori successivi (6° episodio), e la dolorosa e spirituale melodia della Madre di Gesù (8° episodio); tutte pagine in cui palpitano un fervore e una fede religiosa che viene dal più profondo del cuore e s'aderge con umiltà devota come una casta aspirazione al ciclo, al perdono e alla pace.

Nel raggiungimento di tale altitudine artistica Franck è sorretto particolarmente da una fluttuante armonizzazione che, attraverso a un cromatismo accentuato, rende spesso il tormento del dubbio, l'ansia della redenzione; mentre la delicata aerea lineatura di certe melodie ci immerge nel dominio di una pace sublime. I giuochi contrappuntistici, specialmente imitativi, si spiritualizzano attraverso una tecnica tutta raffinatezze e disegni lievi, imbevuti di luce serafica. Ma una grande organicità all'opera, strumentata con abbondanza di colori che vanno dalle tinte sfumate alle pennellate sgargianti, proviene dal ritorno ciclico di determinate immagini sonore che, anche senza una significazione tematica precisa, hanno tuttavia un'importanza di raccordo che determina il senso dell'unità di concezione, pure fra i dettagli di un'architettura prospettica varia e libera.

Gershwin Giorgio (1898-1937)

Rapsodia in blue: vedi testo a pag. 248.

Un Americano a Parigi. La composizione orchestrale si apre con un'onda di motivi dai ritmi marcati, brillanti, anche procaci, sincopati e spensierati, di ogni timbro e colore. Sono frammenti di motivi popolari, di ballabili sfrenati, di marcette e di canzoni da baracconi di fiera, da circhi equestri, da suonatori girovaghi; motivi anche sentimentali, fugaci visioni di innamorati. Uno di questi motivi, intonato da una tromba, è anche sguaiatello (la canzone di una chanteuse di caffe-concerto d'infimo ordine). Molti motivi hanno anche andamento, ritmo e strumentale jazzistico. Tutto ciò avviluppa l'anima dell'Americano spaesato. Egli vaga in questo arroventato ambiente sonoro della grande metropoli francese quasi come uno che sente di naufragare in un oceano sconosciuto. La sua anima rievoca allora con nostalgia una cullante melodia di jazz, tenera ed anche poetica, proposta dapprima da una tromba, poi ripresa dai violini, e via via sempre più affermantesi, talvolta con un'insistenza esasperante, a risvegliare in lui la personalità e a ricordargli la vita del suo paese nel tumulto dei colori e dei suoni abbacinanti di Parigi.

Il Concerto in fa magg. per piano e orchestra inizia il 1° tempo (Allegro) con forti colpi di timpani e di piatti, cui segue un motivo ballerino degli archi fortemente ritmato, che d'improvviso si interrompe su uno scroscio delle batterie per lasciare il piano alle prese con un canto rotto e concitato, seguito da commenti jazzistici dell'orchestra. Ha poscia luogo un dialogo tra piano e orchestra su ritmi di canzonetta e di danza, ora espansivi e canori, ora virtuosisticamente rabescanti; ora eccitati ed eccitanti. - Nel 2° tempo (Andante con moto) i legni e poi una tromba espongono un tema malinconico. Ma il piano risponde con un motivo gaio ad acciaccature brillanti trascinando con sé i violini. Poi questi e il piano danno la via ad un canto romantico e patetico, ispirato al gusto delle canzoni tipicamente americane. - Su chiassosi ritmi di danza è costruito il 3° tempo (Allegro agitato); ritmi chitarreschi, sincopati, negroidi o americani, ora frivoli ora orgiastici. Un colpo di tam-tam discioglie una più viva espansione canora, che prepara la chiusa, un po' banale e rumorosa.

Giorgio Federico Ghedini (1892)

Malgrado qualche lineamento melodico e qualche incontro armonico duri, il Concerto dell'Albatro, per violino, violoncello, pianoforte, orchestra e voce recitante, è composizione di nobile spiritualità, specie nella parte centrale, ove la polifonia strumentale raggiunge un intenso grado di energica sonorità sui pizzicati lenti e gravi degli archi. L'ultima parte è a forma di melologo[52]. Mentre la «voce recitante» narra la storia dell'albatro abbattutosi sulla nave, e poscia liberato dal comandante dopo avergli posto al collo un messaggio, e il suo ascendere verso il cielo e perdersi nell'azzurro, il commento dell'orchestra ci fa quasi assistere a questo libero incielarsi dell'albatro e quasi trasfigurarsi e fondersi coll'immensità dello spazio. La composizione è del 1945, e si ispira a un passo del Moby Dick di Hermann Melville.

Gounod Carlo (1818-1893)

Ave Maria: vedi testo a pagg. 75-76.

Marcia funebre in morte d'una marionetta: vedi testo a pag. 231.

Granados Enrico (1867-1916)

Anche Granados, come Albeniz, De Falla ed altri moderni compositori spagnoli, scrisse musiche le quali, senza essere folkloristiche, hanno il profumo caldo e sensuale e i ritmi molli ed elastici propri delle canzoni e delle danze iberiche, specialmente andaluse e catalane. Però in Granados l'ispirazione è imbevuta di un più sottile romanticismo schumanniano. - Fra le pagine di Granados più note per la poesia fine ed elegante delle melodie e dei ritmi imitanti l'accompagnamento della chitarra, e per la vivezza del colore, è la Danza Andalusa.

Goyescas si compone di sette pezzi per pianoforte che traggono la loro origine dalla contemplazione di altrettanti quadri di Goya. L'autore non tenta di rifarci in musica i soggetti dei quadri dell'illustre pittore aragonese, ma ci dà le emozioni poetiche suscitate in lui dalla vista dei quadri medesimi. I sette quadri musicali e i relativi soggetti sono i seguenti:

1. Pelele: è una marionetta espressa da una ritmica vivace.

2. La Maja: è espressione della bellezza femminile elegante.

3. Colloqui en la reja: due innamorati galanti si parlano attraverso una inferriata.

4. Fandango de candil: danza popolare «del lumicino», di forte rilievo ritmico.

5. Requiebros e quejas: viene ripreso il motivo della Maja per descrivere complimenti (Requiebros) e lamenti (Quejas) d'amore.

6. El amar y la muerte: è un bozzetto tra il tragico e l'ironico burlesco.

7. La serenada del espectro: accenti di passione e temi liturgici si annodano in un insieme grottesco.

Da questi pezzi e dai quadri del Goya, Granados trasse l'ispirazione e la musica per un'opera teatrale intitolata appunto Goyescas.

Grieg Edward (1843-1907)

La Sonata in do min. op. 45 per violino e piano incomincia (Allegro molto ed appassionato) con una frase cantabile del violino; altre seguono affidate ora all'uno ora all'altro istrumento, di una elevata e poetica melodicità. - Il 2° tempo (Allegretto espressivo: alla Romanza) è un canto vaporoso e pur profondo con un sentimento che richiama alla fantasia involontariamente solitudini di nordica malinconia, paesaggi da leggenda e da idillio. Interrotto a un certo punto da un Allegretto dal ritmo vivace e originale, riprende poi il primo canto e chiude con nostalgica tristezza. - Il 3° tempo (Allegro animato) alterna a ritmi caratteristici e brillanti frasi di largo respiro melodico e di caldo sentimento.

Il Concerto in la min. op. 16 per piano e orchestra, costruito nella forma tradizionale, ha facile presa per la scorrevolezza elegante delle sue melodie e per il rilievo dei ritmi. Più che un dialogo fra solista e orchestra è una composizione per pianoforte con lo sfondo delle sonorità orchestrali a sostegno. - Il 1° tempo (Allegro molto moderato) presenta i temi più intensamente e nobilmente espressivi (poeticissimo il secondo), anche se appaiono abbastanza notevoli le influenze di Liszt e specialmente di Chopin, mentre l'armonizzazione si muove secondo il modello wagneriano, come appare più evidente nel successivo Adagio. - L'Allegro marcato, che segue senza interruzione, è vibrante; più notevole il finale (Quasi presto) in forma di rondò in cui vivono ritmi e spunti caratteristici delle danze norvegesi.

Il Quartetto in sol min. op. 27 è opera piacevole per la facile melodiosità e per alcuni effetti particolari di sonorità. Nei suoi quattro tempi (1° Un poco andante - Allegro molto agitato; 2° Romanza: Andantino; 3° Intermezzo: Allegra molto; 4° Finale: Lento - Presto al Saltarello) appare poco concertante, un po' frammentario, ma accentuatamente Urico, con temi di danze norvegesi frequenti, specie negli ultimi due tempi.

Le suites, del Peer Gynt sono tratte dalle musiche scritte da Grieg per il dramma omonimo di Ibsen. La 1ª suite (op. 46) contiene i seguenti pezzi: Il mattino, pagina delicata e fresca che ci dà la sensazione di benessere tranquillo propria di un'alba serena e primaverile. - La Morte di Ase, coi suoi gravi accordi costituenti prima un disegno ascendente e crescente dal piano al fortissimo, poi discendente e digradante dal fortissimo al pianissimo, ha un carattere drammatico e fantastico insieme. - Segue l'elegante e molle Danza d'Anìtra. - Il quarto pezzo è la rappresentazione fiabesca e grottesca della reggia del Re dei Troll: Nell'antro del Re della Montagna.

La 2ª suite (op. 55) comprende Il pianto di Ingrid: dopo alcuni scatti rabbiosi si stende una melodia (per due volte ripetuta) dolente e nobile, terminata da un estremo scatto di furore che si spegne nel nulla. - Segue una Danza Araba dai ritmi e dai colori esotici vivaci. Anch'essa vanisce come in lontananza. - La parte successiva riguarda Il rimpatrio di Peer Gynt, ed è caratterizzata dalla descrizione di una Tempesta, con i consueti elementi imitativi: rombi di tuono, temi cavernosi, picchiettamenti di pioggia e di grandine, sibili del vento, schianti di folgori; poi tutto si acqueta su lunghi accordi tranquilli. - L'ultimo pezzo è la nota Canzone di Solveig, serena e dolce, con una seconda parte quasi a ritmo di danza.

Händel Giorgio Federico (1685-1759)

Il famoso Largo di Händel è la melodia di un'aria dell'opera Serse. Il Re pensa all'ombra amica di un albero che protesse i suoi amori, e canta:

«Ombra mai fu
«di vegetabile
«cara ed amabile
«soave più!

A che cosa pensava invece Händel quando musicò questi sciocchissimi versi, che vengono ripetuti stucchevolmente molte volte durante lo svolgimento della melodia? Non certo al Re persiano e al suo albero amico! Il canto si spande largo, solenne, con un senso di sacra elevazione che converrebbe, piuttosto che a reminiscenze amorose, a una nobile preghiera rivolta a Dio, o a una meditazione su la maestà Divina. Certo, data questa sua espressione lirica, il meglio che si poteva fare di questa sublime melodia era, ed è ancora, quello di affidarla alla sola e pura voce di un violino o dell'orchestra, come viene spesso fatto nelle sue frequenti esecuzioni. Una delle più belle trascrizioni per orchestra è quella compiuta da Bernardino Molinari.

I Concerti grossi di Händel sono tutti bellissimi per efficacia di contrasti sonori e larghezza di invenzione. Ne ricorderemo due, a mo' d'esempio.

Il Concerto grosso n. 4 in la min. è una diretta derivazione dei Concerti grossi di Alessandro Stradella. Lo apre un Larghetto affettuoso arioso, con disegni preludianti, quasi di libera improvvisazione, di nobile sentimento. Segue (Allegro) una Fuga condotta con un senso costruttivo grandioso e ricco di vitalità dinamica dovuta al rilievo ritmico potente del soggetto. - Il successivo Largo è di una superba purezza di linee. - Il Finale ci riporta ancora verso la sorgente inesauribile di energia che scaturisce dal ritmo e dalla sua trascinante irruenza.

Concerto grosso in re min. per due cembali e archi. Il 1° movimento è grave e grandioso; il tema si ripercuote dai violini ai bassi con un senso spaziale solenne e sacro. - Segue un «fugato» che conferma anch'esso, con gli inseguimenti del tema, questo senso di spazialità e di grandiosità, anche dove assume carattere giocoso. Esso chiude con una larga «cadenza» lenta e pomposa. - Il Largo successivo è pure di un'austera concezione, ricco di accenti toccanti per religioso fervore, cui le brevi pause interposte tra una frase e l'altra donano un senso meditativo. - Ancora un «fugato» pieno di movimento e di contrapposizioni vivaci fra il «concertino» e il «tutti». - Chiude una specie di canzone gioiosa che crea nuovi contrasti di penembra e di luce nell'alternativa sonora del gruppo minore e del maggiore, conservando un dinamismo entusiastico sino alla fine.

L'oratorio Israele in Egitto (1739) è diviso in due parti. Manca il personaggio dello «Storico», e la narrazione è compiuta da solisti e dal coro in alterna vicenda.

parte 1ª. - Una voce di tenore (recitativo) racconta come il popolo ebreo venisse spietatamente oppresso dal re dell'Egitto; e il coro ricorda il dolore degli Ebrei nella dura schiavitù. Il tenore (recitat.) narra il prodigio compiuto da Mosè tramutando l'acqua in sangue; e il coro dice come nessuno potesse più bere. Un contralto (aria) racconta i prodigi dell'invasione delle rane, della diffusione della peste e delle ulcere. Il coro narra poi l'invasione delle mosche, delle zanzare e delle cavallette, la violenza della grandine e dei fulmini, la profonda oscurità, e la morte dei primogeniti Egiziani, e aggiunge come dai flagelli Dio salvasse tutti gli Ebrei, i quali partirono; e ricorda il terrore degli Egiziani. Infine il coro narra come Mosè conducesse gli Ebrei attraverso al mare prosciugato, mentre i flutti sommersero le schiere degli inseguitori nemici. Gli Ebrei esaltarono allora la potenza del Signore e del suo servo Mosè.

parte 2ª. - In otto cori, due duetti di bassi, un duetto per contralto e tenore, un'aria per tenore, una per saprano e una per contralto, il musicista esprime il Canto di grazie di Mosè. Un recitativo di tenore ripete la notizia della distruzione dell'esercito di Faraone e della salvezza del popolo Ebreo. Dopo una ripresa del Coro «Der Herr ist König» («Il Signore regna per sempre»), il tenore aggiunge come la profetessa Miriam, sorella di Aronne, e le donne d'Israele, danzando e percuotendo timpani, cantassero anch'esse la gloria e il trionfo del Signore (coro).

Mentre i recitativi sono brevissimi e in forma «secca», il maggiore interesse si concentra nei numerosi e vasti cori polifonici, talora fugati, di smisurata forza e grandiosità, e nelle descrizioni orchestrali dei prodigi operati da Mosè. Le pochissime arie e i duetti aggiungono all'esaltazione della grandezza e della forza divina e all'elemento descrittivo accenti drammatici ed effusioni liriche.

Le espressioni corali sono estremamente varie: il primo coro, con un canto greve e lamentoso, ricorda che Dio udì il pianto degli Ebrei. Poscia, su un fugato, il coro narra come l'acqua fu convertita in sangue. Quindi l'orchestra descrive con un tema saltellante, sotto la narrazione del contralto, l'invasione delle rane. Squillano le trombe. Iddio ha parlato; e l'irrompere delle enormi nubi di mosche e di zanzare è descritto dal movimento rapido e ronzante dei violini, movimento che si propaga ai bassi con effetto impressionante. Duro e pesante è il commento alla grandine e ai fulmini che colpirono poi l'Egitto. Voci isolate, come perdute, in tessitura bassa, su accordi opachi di violini e fagotti, descrivono il flagello dell'oscurità; mentre la morte dei primogeniti degli Egiziani trova nel canto e in orchestra un commento a strappi violenti come di una falce distruttrice. Ma, come un pastore porta in salvamento il suo gregge, così Iddio porta a salvamento il popolo d'Israele; e la musica si fa idillica e agreste negli episodi alterni dei flauti, degli oboi e dei fagotti. La traversata del Mar Rosso è resa da un vigoroso fugato, poi, su le grida angosciose del coro, si alzano dai bassi le onde che avanzano per travolgere gli Egiziani. Un toccante e raccolto inno si diffonde sereno a ringraziare Iddio per la salvezza degli Ebrei.

Con un ritmo gioioso e balzante degli archi incomincia la 2ª parte; e tutta la musica di questa è piena di immensa gioia e di solenne fede, in una esaltazione trionfale della divinità. Una sosta quasi paurosa, e non scevra da un sentimento di pietà per le vittime, è nel coro: «Die Tiefe deckte sie» («L'abisso si schiuse»), in cui è descritta la fine delle schiere egizie che il mare sommerse. Una pagina finemente ironica è l'aria del tenore che racconta i discorsi tracotanti e baldanzosi del nemico prima della sconfitta; ma pieno di ritmi e d'atteggiamenti agitati è il coro in cui si rammenta il terrore che colpì ogni popolo alla notizia dei prodigi compiuti da Mosè. Nelle ultime pagine, specie dopo l'invito di Miriam a danzare e cantare, l'espressione innica riprende con un ritmo fieramente scattante ed entusiastico.

L'oratorio Il Messia di Händel fu eseguito la prima volta a Dublino nel 1740. Esso è diviso in tre parti. Non esiste il personaggio dello «Storico», e le narrazioni, come gli inni e le laudi, sono affidate a varie voci di solisti e al coro.

parte 1ª. - Si annunzia, la venuta del Messia e si inneggia all'atteso evento che porterà gioia e pace al mondo e sterminerà i Pagani. Quindi una breve sinfonia pastorale precede la descrizione (soprano) della nascita di Gesù, e tosto il coro leva un inno di Gloria a Dio. Seguono due arie: una di giubilo e la successiva pastorale (soprano), e quindi chiude la 1ª parte un coro festoso.

parte 2ª. - Si glorificano i patimenti di Cristo per la salvezza dell'uomo. Poi ancora un canto pastorale (soprano) annunzia la pace, l'invito ai popoli a scuotere il giogo del paganesimo (coro), e un entusiastico «Alleluja» (coro) conclude la parte.

parte 3ª. - Si inneggia alla resurrezione di Cristo e degli uomini, alla vittoria su la morte, e se ne rende grazie a Dio.

L'intero oratorio è costituito da una alternanza di arie e di cori, con una prevalenza di questi, la maggior parte in forma di vaste fughe.

La Sinfonia è aperta da un motivo solenne, cui segue un fugato pieno d'animazione.

I recitativi sono brevi, ora secchi, ora strumentati; le arie ampiamente sviluppate, ricche di vocalizzi, particolarmente commosse nei tempi lenti. Citiamo specialmente le due arie pastorali per soprano: «Er weidet seine Herde» («Ei pascola il suo gregge») (1ª parte), «Wie lieblich ist der Boton» («Com'è piacevole dei messi il passo») (2ª parte), quella precedente per basso «Du fuhrest in die Höh» («Tu salisti in alto»), e l'altra per soprano «Ich weiss, dass mein Erlöser lebet» («Io so che il mio Redentore vive») (3a parte), forse la più bella di tutto l'oratorio. In molte arie il canto dialoga con l'orchestra, la quale è strumentalmente varia e colorita, nonché ricca di elementi ritmici e melodici descrittivi (battiture di Cristo, movimento di fiamme, duri o lamentosi movimenti di scherno o di dolore, impressioni aspre di qualcosa che si frange, disegni violenti su le parole «ribellione», «ira», squilli di tromba che annunziano la resurrezione dei morti).

Le due pagine sinfoniche di più vivo rilievo sono la citata sinfonia d'apertura e la delicatissima sinfonia pastorale intessuta su melodie di flauti e oboi, che, nella 1ª parte, descrive l'arrivo dei pastori a Betlemme nella notte di Natale. Ma il maggior interesse artistico dell'oratorio si concentra nei numerosi cori (21 su 52 pezzi), costruiti quasi sempre su movimenti imitativi o in forma di fughe di amplissimo sviluppo, su temi energici o gravi, spesso ricchi di estesi vocalizzi simili a lussureggianti decorazioni; vere cattedrali sonore di grandiosa potenza espressiva trascendentale.

Händel raggiunge con la polifonia corale effetti di smisurata solennità, quali mai mente di musicista seppe conseguire. Fra i più mirabili citiamo il robusto primo coro: «Denn die Herrlichkeit Gottes» («La magnificenza del Signore»); quello più alato che chiude la 1ª parte: «Sein Joch ist sanft» («Il suo giogo è dolce »); quello della 2ª parte: «Durch seine Wunden» («Mercé le sue ferite noi siam salvi»), che esprime una fede vigorosa ed alta. Ma il più possente è l' «Alleluja» che chiude la 2ª parte, nel quale il grido di giubilo si ripercuote da una voce all'altra con un senso di festività inebbriante, intercalato da versetti austeri e da movimenti fugati solenni. A un certo punto il martellare vibrato di una nota, che si ferma a lungo in alto come scia di luce intensa sul movimento incessante delle altre parti, crea un contrasto dinamico che esalta e trasporta. È una pagina di un'arditezza sublime nella libertà completa e originalissima della sua forma. Ricordiamo ancora il coro finale dell'Oratorio: «Würdig ist das Lamm» («Santo è l'agnello»); preceduta da movimenti ora larghi, ora concitati, si svolge una «fuga» superba, inneggiarne alla potenza divina. La chiusa su la parola «Amen» dà origine a un'altra «fuga» di luminoso effetto sonoro e dinamico, in cui la forza della fede risplende con inaudita grandiosità.

Haydn Giuseppe (1732-1809)

I circa 80 Quartetti di Haydn, in una varietà di ritmi e di movenze illimitata, in una serenità fresca e gioiosa incomparabile, racchiudono una ricchezza d'ispirazione ed una sapienza di fattura che li rende immortali e superiori ad ogni cambiamento di gusto. Il brio scintillante e leggiadro che li pervade, gli accenti a quando a quando teneri o austeri, la robusta quadratura della forma, il cesello delle parti e l'abilità sorprendente degli intrecci e degli sviluppi tematici, donano allo spirito una gioia senza pari. La forma quartettistica concertante del Cambini e del Boccherini è da lui ripresa, ampliata e resa più solida. - Ci basterà dare pochi esempi.

Quartetto in fa magg. op. 3 n. 5 (1765). È una delle prime opere del Maestro, in cui la forma quartettistica viene da lui meglio fissata secondo lo schema già tracciato dai maestri italiani. - Il 1° tempo (Presto) ha lo sviluppo ampio e caratteristico della prima parte d'ogni forma da camera e sinfonica (Sonata, Quartetto, Sinfonia). - L'Andante cantabile è melodiosamente aggraziato e sentimentale, e costituisce la nota Serenata. Nella forma di «canto accompagnato», senza dialogo concertante, e nell'ideazione melodica, tiene delle concezioni primitive dei precursori italiani, ma ha una finezza di lineatura che non è stata mai raggiunta né prima né poi. - Dopo il vario e originale Minuetto, lo Scherzando finale ci porta in un'atmosfera di serena e briosa vivacità, tutta haydniana.

Il Quartetto in re magg. op. 64 n. 5 (1790), detto «delle allodole» forse per qualche apparenza imitativa del canto di questi uccelli, nel 1° tempo (Allegro moderato), tutta grazia e spirito, rispecchia i ben noti caratteri di limpida ispirazione, tendente al campestre, del Maestro, in una forma schietta, elegante e naturale. - A un sereno e patetico Adagio cantabile segue un signorile e un po' sentimentale Minuetto. - Il Finale si svolge su un prestissimo da moto perpetuo, al quale è intramezzato un vivace fugato. - Nel complesso è opera delle più dense e mature.

Il Quartetto in sol magg. op. 76 n. 1 (1797) inizia con un 1° tempo festoso, e, come dice l'indicazione di movimento, allegro con spirito. - Il 2° tempo è raccolto e arioso. - Da notare nel Minuetto un «trio» con carattere di valzer villereccio. - Il Finale è molto gaio, e, alla fine, anch'esso popolaresco.

Su la via delle forme architettoniche, Haydn creerà nel Quartetto in re min. op. 76 n. 2 un Minuetto a forma di cànone.

Il Quartetto in do magg. op. 76 n. 3 (1797), è quello che reca la denominazione di Quartetto dell'Imperatore per il motivo del 2° tempo. - Il 1°, Allegro - pastorale rustica, è costruito su un tema leggero, senza un corrispondente secondo motivo. La «pastorale rustica» non è che una variante originale del tema proposto, e compare come episodio solo nella seconda parte. - Il motivo del 2° tempo Andante, ha carattere sacro, dolcemente delicato, ed è stato sfruttato come motivo dell'inno nazionale austriaco «Dio salvi l'Imperatore». Esso dà luogo a quattro diverse variazioni dell'accompagnamento, nelle quali il tema passa di volta in volta immutato al 2° violino, al violoncello, alla viola, e infine viene distribuito a tutti e quattro gli istrumenti, per terminare in una bella cadenza sul «pedale» del basso. - Il Minuetto è garbato e scherzoso. Nel «trio» è notevole l'elegante e luminoso passaggio al modo maggiore. - Il Presto finale, drammatico negli strappi degli accordi, vivacissimo nel movimento, si sviluppa nella seconda parte in un «fugato» ricco d'animazione. Il tempo si conclude con una deliziosa coda dall'espressivo melodioso contrappunto, che porta a una brillante cadenza.

Le oltre 100 Sinfonie di Haydn non sono che stupendi ampliamenti strumentali e sinfonici della forma quartetto. Esse derivano dall'arte del Sammartini di cui, come osservò il Carpani, si avvertono talora non solo i modi tecnici, ma il sapore, se pure animati da tutt'altro spirito.

La Sinfonia in mi bem. magg. n. 103 (1795), detta Pauken-wirbel (Rullo di timpani) incomincia con un'introduzione (Adagio) costituita da un tema grave esposto dai bassi all'ottava e preceduta da un rullo di timpani che da appunto il nome alla Sinfonia. Subito dopo viene attaccato il 1° tempo (Allegro con spirito), il cui motivo gaio e spigliato passa per i vari istrumenti e dà luogo a imitazioni estrose. Più vivace e quasi burlesco il secondo motivo. Verso la fine ricompare il tema dell'introduzione che viene poi trasformato in un ritmo gaio per chiudere ancora in movimento Allegro con spirito. - L'Andante ha un'espressione di gravità serena, ed è sottoposto a modificazioni che lo rendono più vario anche per l'intervento di contrappunti sempre differenti. Al primo motivo ne segue un secondo di carattere più marziale, anch'esso soggetto a variazioni di diversa natura - L'elegante e giocoso Minuetto sembra accennare già a quella che sarà la forma dello Scherzo beethoveniano. - Il Finale (Allegro con spirito) inizia con un tema dei corni quasi subito contrappuntato da un motivo vispo che da origine a trasformazioni tematiche e a sviluppi notevoli. È uno scintillìo che sembra cercare perennemente nuove fonti di gioia serena.

Un'altra Sinfonia, quella in sol magg. n. 94 (1791) è detta Paukenschlag (Colpo di timpani), più comunemente indicata col titolo La sorpresa. Inizia con una breve introduzione Adagio cantabile cui segue il 1° tempo (Vivace assai) dai motivi arguti e scherzosi, rimbalzanti dal basso all'acuto con un gioco serrato e pieno di humor. - L'Andante e una derivazione dall'aria de Le Stagioni «Va lieto il contadino», che nella Sinfonia acquista una espressione decisamente burlesca. Esso origina alcune variazioni in cui l'espressione passa dallo scherzoso al maestoso. - Il Minuetto (Allegro molto) è fresco e scorrevole, e interessa anche per il rincorrersi a contrattempo dei motivi. - Il Finale (Allegro molto) scatena coi suoi ritmi vivaci e la giocosità degli intrecci tematici una gioia sana ed esuberante.

La Sinfonia in re magg. 104 (Londinese) (1795) inizia con un'introduzione (Adagio) in cui si alternano un tema maestoso ed uno sottovoce per accenni timidi. Essi conducono all'attacco dell'Allegro, dal motivo franco e dolce insieme. La vivacità degli sviluppi mantiene per tutto il tempo lo spirito iniziale. - L'Andante ci presenta un motivo elegante e sorridente, al quale conferisce maggior vita la varietà degli accompagnamenti. - Anche il Minuetto è spigliato e fresco. - Il Finale (Allegro spiritoso) ha un tema pieno di buon umore, con molti tratti comici, taluni delicatamente poetici o civettuoli, che donano a questo tempo una grande mobilità di atteggiamenti.

La Sinfonia in sol magg. n. 100 (1794), detta la Militare, per i suoi ritmi incisivi, ma niente affatto militareschi e men che meno eroici, incomincia con un'introduzione Adagio la quale presenta subito una grande nettezza di ritmi che accennano ad un motivo quasi di marcia, per quanto sottovoce e con fare sostenuto, come esige il movimento segnato - L'Allegro presenta la solita vivacità di disegno sereno e un po' campagnolo, tipicamente haydniano. - Il 2° tempo è un Allegretto settecentescamente aggraziato. Ed ecco la trovata... militaresca. A un certo punto, verso la fine dell'Allegretto, una tromba «a solo» dà un segnale di tipo militare cui segue un rullo di timpani in crescendo il quale termina con un accordo fortissimo di tutta l'orchestra, subito digradante e diminuendo. Esso riconduce al motivo grazioso dell'Allegretto, a sua volta chiuso da squilli energici dell'intera orchestra. La serena ingenuità dell'Allegretto annulla ogni intenzione eroica, e riduce la cosa a una trovata tutt'al più umoristica: un contrapposto burlesco. - Ancor più aggraziato è il Minuetto (Moderato) seguente. - Il Finale (Presto) ha un tema effervescente, di marca prerossiniana. Le consuete alterazioni e gli sviluppi accrescono animazione e mantengono per tutto il tempo un brio vivacissimo.

La Sinfonia in re magg. n. 101 (1794) è stata detta della campana o della pendola per un effetto ritmico dell'accompagnamento dell'Andante. Incomincia con un breve Adagio grave e soave insieme, quasi religioso. Inaspettato, e con un contrasto vivissimo, si stacca all'improvviso il Presto con la leggerezza di una danza festosa che col suo ritmo agile, con gli intrecci mirabili a cui dà origine, con le risposte che provoca, domina tutto il 1° tempo. - L'Andante ci presenta una melodia serena, ora più ora meno animata dalle varianti ritmiche a cui va soggetta durante il suo sviluppo, mentre l'accompagnamento scandisce un battito isocrono come di campane, o meglio di un pendolo d'orologio. Questo accompagnamento, per contrasto con la melodia, ci suggerisce il fluire inesorabile del tempo mentre fioriscono i sogni leggiadri della giovinezza. Ma probabilmente Haydn a ciò non ha mai pensato, non ostante la parte in «modo minore» che sembra accennare ad un momento di malinconia, sùbito eliminato dalla ripresa del «modo maggiore». - Il Minuetto, pomposo nel primo tema, quasi malinconico nei cromatismi del secondo, assume il ritmo di una danza villereccia nel trio, mentre il flauto lancia all'aria una melodia gioiosa, che poi, rovesciata, provocherà burlesche risposte del fagotto. - Il Finale (Vivace) è svolto in forma di ampio Rondò con sorridente allegria, con effetti coloriti di contrasto tra enunciazioni sottovoce e riprese espansive. Un fugato, verso la fine, dà al tema un'animazione nuova come di un gioco denso e complesso, ma sempre sereno. Da ultimo il tema abbreviato e affidato alle trombe e ai corni conclude la Sinfonia con terso splendore.

Le Stagioni di Haydn sono una specie di oratorio profano per soli, coro e orchestra. Composto tra il 1799 e il 1800, ed eseguito nel 1801, questo lavoro si accosta al nostro sentimento per l'umanità e l'ingenuità dell'interpretazione musicale, talora drammatica, di un testo idillico-arcadizzante scritto da Gottfried van Swieten traendone l'argomento dal poema di James Thomson. Questo essere riuscito a conferire senso di umanità alla gracile pastorelleria del Van Swieten, basta a dirci la forza trasfiguratrice della musica di Haydn, che, pur conservando le tinte campestri, non ha calcato la mano sul lato arcadico, ravvivando invece quanto aveva vigore di vita.

I personaggi sono tre: Simone, affittuario (basso); Anna, sua figlia (soprano); Luca, contadino (tenore). I cori figurano contadini e cacciatori. Manca un qualsiasi personaggio «narratore», cosicché Le Stagioni sono da ascrivere piuttosto alla «Cantata drammatica» che all' «Oratorio»; ed anche le forme musicali adottate (recitativi, arie, duetti, ecc.) sono quelle proprie della Cantata e del Melodramma. Quest'opera si divide in quattro parti: la Primavera, l'Estate, l'Autunno e l'Inverno.

parte 1ª. La Primavera. - L'argomento, se di argomento si può parlare, è il seguente. Luca e Anna osservano i fenomeni che annunziano la fine dell'inverno. Un coro di campagnoli invoca la primavera; e Simone canta l'allegria del contadino che si affretta al lavoro. Il fresco senso della vita campestre che riprende si afferma nell'intervento di Luca, di Anna e del coro. Già spirano gli zeffiri primaverili, il contadino semina e invoca la pioggia e i favori del Cielo. Si ammira la bellezza dei prati e dei fiori, e si invitano i compagni a godere le bellezze della natura e della vita che rinasce; e un canto di lode si innalza a Dio.

parte 2ª. L'Estate. - Si leva il sole e tutti ne esaltano lo splendore e la forza di vita. I contadini procedono alla mietitura del grano. Ma a mezzogiorno, quando il calore incombe, il pastore e il gregge posano stanchi al suolo, e Anna fa le lodi dell'ombra fresca dei boschi. Nel pomeriggio afoso Simone avvista una nube minacciosa, ed ecco, il temporale sopraggiunge e scoppia violento con grande terrore di tutti; passa, il cielo torna, sereno, scende la sera, e tutti si avviano a riposare.

parte 3ª. L'Autunno. - Alla vista del raccolto abbondante i contadini inneggiano alla virtù del lavoro. Luca e Anna si parlano del loro amore. Ora gli uomini si danno al piacere della caccia, di cui sono narrati gli episodi salienti. Viene poi il giorno della vendemmia, che dà luogo a canti bacchici e ad allegre danze al suono di istrumenti campestri.

parte 4ª. L'Inverno. - Cala l'inverno con le nebbie e il gelo. Il viandante perde il sentiero sepolto sotto la neve; allorché un lume lontano lo guida verso una casa di contadini ove, al caldo, si scaccia la noia della lunga sera lietamente conversando, cantando e attendendo a lavori casalinghi. Poi Anna racconta una storia. Simone dalla vicenda delle stagioni trae un parallelo con le vicende della vita che va dalla spensieratezza giovanile al gelo della morte, per concludere che di tutto resta la sola virtù. E il coro fa eco affermando che solo i giusti conquisteranno in Cielo l'eterna Primavera, e invocano a questo fine l'aiuta di Dio.

La musica di quest'opera affascina per quella sua sincerità schietta con cui dipinge a tratti così vivamente e poeticamente realistici la vita campestre, senza cadere mai nel banale. Ogni parte è preceduta da un preludio descrittivo secondo un apposito cenno programmatico. La ouverture, con la sua vivacità fresca e le volatine simili a folate di vento, esprime «il passaggio dall'Inverno alla Primavera». Il preludio alla 2ª parte, cui è intercalato il recitativo di Luca, descrive la «foschia di un'alba estiva», il volo dei gufi ai loro covi e, attraverso a brevi episodi dell'oboe, il risveglio dei pastori. Il preludio all'Autunno, col suo motivo gaio, quasi di minuetto (Haydn qui si mostra ancora artista settecentesco), evoca «il sentimento di gioia dei contadini per la messe abbondante». Infine il preludio all'ultima parte, con i suoi accenti velati e malinconici e i suoi cromatismi quasi romantici, ci raffigura «la tristezza delle grandi nebbie con cui l'Inverno incomincia».

Le pagine vocali sono parte soliste e parte corali, talvolta intimamente intrecciate fra loro. Ve ne sono di carattere idillico, come nella 1ª Parte il coro: «Komm holder Lenz!» («Vieni dal cielo, o vaga Primavera»), l'aria di Simone nell'Estate: «Der munt're Hirt» («Già raduna il pastorello») di intonazione pastorale, anche per il canto del corno che si direbbe Beethoven abbia avuto presente in un momento della 6ª Sinfonia, o come il calmo e dolce «Lied» con coro dell'Inverno: «Knurre, schnurre» («Gira, gira, o molinel»), con quel movimento descrittivo dell'arcolaio che accresce il senso di raccolta intimità. Ve ne sono di andamento popolaresco, come nella Primavera il gioioso e schietto «Schon eilet froh der Ackersmann» («Va lieto il contadino il campo a lavorar») che contiene un tema usato da Haydn anche nell' «Andante» della Sinfonia in sol magg. (n. 94) detta La sorpresa (Mit dem Paukenschlag), e il festante e gaio coro che chiude l'Autunno: «Iuhne, der Wein ist da» («Viva viva il buon vin»), così pieno di allegrezza bacchica, e che sbocca in una danza orgiastica sfrenata.

Poi vi sono le pagine che non tanto descrivono o imitano quanto danno vita (una vita che è poesia, cioè realtà trasfigurata) a fenomeni naturali e agli stati d'animo da essi determinati. Tal'è quel senso di languore e di stanchezza che è nell'aria di Luca: («Dem Druck erlieget die Natur» («Langue oppressa la Natura») nell'estate, e che proviene dall'andamento della melodia e dalle spezzature sincopate e affannose dei ritmi. Così è pure dell'impetuoso temporale con le grida della gente impaurita e quel fugato del tema cromatico discendente così pieno di smarrimento. E tale è ancora il successivo terzetto che chiude questa parte riconducendo nei suoni la freschezza e il sorriso del sereno dopo la tempesta.

Pagine tutte in cui atmosfera ambientale e stato d'animo dei personaggi sono fusi in una potente ed efficace unità. Anche la descrizione che Simone fa della caccia (Autunno), piena di un'animazione ritmica realistica che non cade mai nel verismo, il seguente recitativo di Luca (molti recitativi delle Stagioni sono ricchi di espressività per il realismo dei commenti orchestrali) e il successivo vivacissimo coro dei cacciatori, sono squarci di alta pittura musicale. Qui tutto, dalle fanfare vigorose dei corni da caccia alle esclamazioni dei cacciatori, alla rapida corsa del cervo, all'inseguimento dei bracchi e alla danza finale, è suggestivamente evocativo. Ma forse la perla melodica di tutta l'opera è la canzone-ballata di Anna: «Ein Mädchen, das auf Ehre hielt» («Fanciulla onesta e savia») (Inverno), di una grazia così semplice, arguta e lieta che incanta. I commenti del coro intercalati alle strofe della canzone rendono la scena viva e, quasi diremmo, visibile. Ecco una pagina di una impareggiabile geniale freschezza che non teme il passare dei secoli e degli stili.

Di fronte a tutto ciò le pagine d'espressione religiosa e moraleggiante - e ve ne sono di bellissime come il coro e soli: «Sei nun gnädig» («Sii propizio, amico Cielo») (Primavera), pieno di calma fede, e il finale della 1ª Parte: «Ewiger, mächtiger» («Eterno, Potente, buon Dio Signor»), dall'esordio maestoso cui segue un'entusiastica «fuga» in lode a Dio, ed anche l'esultante finale dell'oratorio - appaiono, pur nella loro impeccabile costruzione, meno alate e quasi convenzionali.

Hindemith Paul (1895)

Le opere di Hindemith presentano durezze melodiche e armoniche, tipiche di tutti quei musicisti del nostro tempo, i quali temono di apparire romantici e sentimentali, e pensano che l'atonalismo e il politonalismo siano conquiste atte a generare un rinnovamento nella musica. Tuttavia Hindemith è un grande costruttore, la cui sapienza lo ha fatto da taluno accostare a Bach (accostamento che ha valore, s'intende, soltanto per ciò che concerne la tecnica). - La Sonata 1932 per viola e pianoforte (Hindemith, oltreché compositore famoso è anche un ben noto violista), anch'essa politonale, e perciò dissonante, presenta tuttavia idee semplici e chiare, esposte ed elaborate secondo lo stile imitativo classico, in una robusta e ariosa architettura.

La Kleine Kammermusik op. 24 n. 2 per cinque strumenti a fiato non manca nell'insieme, pur fra le consuete durezze, di una maggiore affabilità di disegno, di un più spontaneo abbandono lirico, e di un vivo scintillio di colori, in una forma equilibrata e solida.

Honegger Artur (1892-1955)

1ª Sonata per violino e piano. 1° tempo: Andante sostenuto. Dopo una breve introduzione del piano, il violino attacca un motivo cantabile, calmo e tenero, che sale poi ad accenti concitati, mentre il piano commenta con adeguata espressività. L'emozione melodica dà una sensazione di inquietudine ansiosa per il continuo modulare tonale. Infine il motivo del violino sfuma nelle note sovracute. - 2° tempo: Presto. Movimento vivace e burlesco; al centro un cantabile blando, poi riprende il primo disegno vivacemente ritmico. - 3° tempo: Adagio . Su un «basso ostinato» del piano, dal ritmo funebre, si svolge un'ampia melopèa del violino, dolorosa e sconsolata. Segue (Allegro assai) un lungo episodio drammaticamente sconvolto. Una breve ripresa del «basso ostinato» termina la sonata.

Pastorale d'estate, per orchestra. È una delicata pagina idillica. Il canto del corno, ampio, sereno, con cui il pezzo si apre, è sviluppato dai violini su contrappunti che sono tutto un brusìo fresco ed agreste. Seguono ritmi più vivi degli archi con accompagnamenti pittoreschi di corni che danno un'impressione di accrescimento spaziale. Quindi fra giuochi gai dei legni riprende il primo canto del corno solo, che sfuma e si perde con un senso molle di lontananza e di riposo tranquillo.

Pacific 231. Come s'è detto a pag. 221, è la descrizione del viaggio di un treno. S'ode dapprima il movimento lento degli stantuffi della locomotiva, cui seguono i soffi vibrati del vapore, in un moto accelerato man mano che il treno acquista velocità. Un motivo dal ritmo gaio si insinua per dirci la gioia del viaggio. Il canto dei corni è fiero e gioioso. Ma il treno giunge alla stazione: il movimento rallenta e si arresta.

La 4ª Sinfonia chiamata Deliciae Basilienses si apre con un Lento misterioso di una dolce serenità, intersecato da motivi giulivi o teneramente cantabili, e da strappi rudi. Il tema iniziale chiude anche il tempo su un «pianissimo» sfumato. La struttura è prevalentemente polifonica. - Il 2° tempo (Larghetto) si svolge sul tema di una vecchia canzone di Basilea, a note uguali interpausate, con un senso di mistero. Su di esso si stendono poi frasi cantabili e voli di flauto. L'ultimo tempo (Allegro: Rondò, Passacaglia e Fuga) è burlesco e lieto, ed anche grottesco nel tema fugato dei fagotti.

Janacek Leo (1854-1928)

Janacek è stato uno dei migliori rappresentanti della musica boema nel periodo tra la fine del sec. XIX e l'inizio del XX. Autore di varie opere teatrali, di cui la più nota è Jenufa, compose pure molta musica da camera, nella quale è fortemente impresso il carattere slavo. Il 2° Quartetto per archi (senza indicazione di tono), dal titolo: Pages intimes, scritto nel 1928, a breve distanza dalla morte, un po' slegato e frammentario, sembra porre le basi della moderna musica cèca da camera, utilizzando in modo rilevante l'elemento originale folkloristico con suggestiva poesia e vivo colore. I suoi tempi, Andante con moto -Allegro; Adagio - Vivace; Moderato - Adagio - Allegro; Allegro - Andante - Adagio, col frequente mutamento dei movimenti, coi rapidi passaggi da disegni sfumati a tratti di rude veemenza, dalle ninne-nanne cullanti ai ritmi di danza campestre, dimostra non solo una libera indipendenza dalle forme tradizionali, ma una mobilità inquieta di stati d'animo che accresce il pathos della composizione. Il Quartetto inoltre contiene difficoltà strumentali solistiche d'esecuzione non indifferenti, e ciò proprio nei momenti più pericolosi, allorché, come spesso avviene, gli strumentisti rimangono isolati e scoperti.

Kodaly Zoltan (1882)

Danze di Galanta, per orchestra. - Galanta è il paese della fanciullezza di Kodaly, tra Vienna e Budapest, ov'era una carovana di zingari le cui musiche impressionarono il ragazzo, il quale, divenuto musicista, ad esse si è ispirato in queste Danze. Sono disegni ora caldi e sensuali, ora di una ricca fantasiosità orientale nei ritmi vivaci, nelle armonie di sapore esotico, nei colori strumentali intensi, e nella vertiginosa allegria con cui si chiudono.

Non meno vivaci e caratteristiche sono le Danze di Marosszék, sonoramente e robustamente pittoresche nello strumentale, popolaresche nell'ispirazione che fa tesoro del motivo di un'autentica danza del distretto di Marosszék. Questo motivo viene ripetuto con insistenza in un crescendo ossessionante, accanto ad altro tema fondamentale, grandioso, esso pure esposto con forza sempre maggiore. Un episodio più lieve e scorrevole si inframette con garbo nella foga dei crescendo clamoroso e trionfale.

La Suite Hàry Janos, per orchestra è tratta dall'omonima leggenda musicale in cinque avventure, rappresentata all'Opera Reale di Budapest nel 1926. Contadino ed ex soldato Hàry Janos, nell'osteria del villaggio natìo, racconta ogni giorno le sue imprese meravigliose che, attraverso le espressioni rozze ed ingenue del protagonista, producono, come dice lo stesso autore, «la più curiosa mescolanza di commedia e di pathos». Hàry, in apparenza mentitore, è in realtà un entusiasta, un fanatico, un sognatore. Egli sogna cose impossibili come tutti noi, ma la sua ingenuità gli dà il coraggio di parlarne ad alta voce. Una credenza ungherese vuole che un'asserzione seguita da uno sternuto di un ascoltatore sia presa come l'affermazione stessa della verità. Fra gli ascoltatori c'è uno scaltro scrivano che starnuta ad ogni mirabolante affermazione dello pseudo eroe. È con questo sternuto che incomincia (1° episodio) l'immaginoso racconto. - 2° episodio: Hàry si trova dinanzi al castello imperiale di Vienna. Da un'alta torre suona il carillon dell'orologio. Escono fuori statuine di soldati vestiti con tutte le uniformi dei reggimenti ungheresi. Hàry guarda e fantastica. - 3° episodio: Hàry e la sua innamorata ricordano con nostalgia il piccolo villaggio pieno di canti d'amore e di desiderio. Il tema è un canto popolare ungherese. - 4° episodio: battaglia e sconfitta di Napoleone. Non appena il glorioso esercito francese appare, Hàry non fa che brandire la sua forte spada, ed ecco lo sterminio dei francesi che cadono come soldatini di piombo. Napoleone stesso è costretto ad arrendersi dinanzi a sì fortunato ardimento. L'ironica gran marcia si cambia in marcia funebre. - 5° episodio: Gli Ungheresi tornano in patria dopo la guerra. Canti e danze di giubilo vittorioso. - 6° episodio: entrata dell'Imperatore e della sua Corte. Marcia ironica, simbolo dello splendore della Corte di Vienna, vista però attraverso alla mentalità deformante di un povero contadino. La musica è tutto un succedersi di tratti umoristici, satirici, grotteschi, in una colorita avvincente veste strumentale.

Il Salmo ungarico, composto nel 1923 su un testo del secolo XVI, ci presenta taluni aspetti primitivi dell'arte musicale ungherese antica che Kodaly è riuscito a far rivivere con una sensibilità intensa. Lo slancio lirico di un eroico popolo duramente e lungamente lottante per la propria grandezza è rievocato in questa musica, volta a volta barbarica e moderna, aspra e grandiosa. - Si apre con un'introduzione orchestrale impetuosamente selvaggia. Un gemito degli oboi poi dei flauti e dei clarinetti conduce all'attacco del coro (contralti e bassi) su un motivo profondamente triste, a mo' di salmodia gregoriana. Risponde uno scatto violento dell'orchestra, simile a un grido disperato, e un appello altrettanto disperato del tenore, mentre l'orchestra con armonie dissonanti accentua il colorito tragico dell'espressione. Tenori e soprani riprendono il tema di prima. Frattanto un disegno delle viole, sviluppato a cànone, si sovrappone agli altri strumenti e al canto del tenore; poscia anche il coro aggiunge un inno grandioso, pure nel dissonantismo barbarico che lo pervade. Dopo una inaspettata sosta che tiene l'animo sospeso, l'orchestra riprende con delicati accordi di arpe e pizzicati d'archi, e con un crescendo vibrante, attraverso a disegni solisti del clarinetto e di un violino, sbocca in un canto nostalgico del tenore, sostenuto da vaghissime armonie degli archi in sordina e dei legni. Su ritmo e armonie nuove il coro riprende il motivo iniziale che si perde nei suoni profondi dei contrabassi.

Lalo Edoardo (1823-1892)

La Sinfonia spagnola, per violino e orchestra, deve la sua notorietà alla facile e melodiosa vena che ne costituisce l'essenza prima e in cui un piacevole brio si alterna ad accenti di un tenero e appassionato languore. - Nel 1° tempo (Allegro non troppo), dopo l'attacco fortissimo di archi e corni all'unisono, rinforzati dai timpani, il violino espone il tema principale. Seguono vari episodi, ricchi di colori strumentali iridescenti; poi il violino espone un secondo motivo pieno di fascino, su accompagnamento degli archi in sordina. Dopo gli sviluppi e un alterno ritorno dei due temi, il 1° tempo, robusto e ampio, si chiude con vigore. - Lo Scherzando ci presenta un motivo cantabile del violino su accordi a pedale degli archi e dei legni. Un ritornello a ritmo di seguidilla degli archi in pizzicato apre e chiude il tempo come in una cornice. - L'Andante contiene un canto malinconico e sensuale del solista, che rammenta il fare di certe canzoni dei Pirenei. -Nel Rondò (Allegro) finale il dialogo fra solista e orchestra è più vivo, più variati gli effetti timbrici dell'orchestra, mentre i motivi affidati al violino sono più brillanti e capricciosi. Dopo vari ritorni, il violino intona a contrasto una molle Malagueña (danza affine al Fandango, originaria di Malaga). La ripresa del tema iniziale porta a una chiusa delicata e di grande effetto.

Liszt Francesco (1811-1886)

3° Notturno «Songes d'amour»: vedi testo a pag. 74.

La celebre Campanella è composizione di facile melodicità, costruita su l'imitazione appunto del suono di una campanella, il cui tema Liszt prese da un'analoga e omonima composizione di Paganini. Essa interessa specialmente per gli effetti di colore e di sorpresa tratti dall'imitazione strumentale e per la bravura tecnica che la esecuzione richiede.

La Sonata in si min. per piano (1853) consta dei seguenti movimenti: Lento assai. Allegro energico, Grandioso, Andante sostenuto, Allegro energico, Andante sostenuto. Allegro moderato, Lento assai; tutti fusi in un sol tempo senza interruzione, il che dona alla Sonata l'aspetto di un poema drammatico. La tecnica trascendentale, al servizio della fantasia, amplia l'orizzonte espressivo dell'istrumento che, con alta lena romantica, con armonizzazione di un gusto aristocratico, trasporta l'animo dell'uditore dagli estremi di impetuose sonorità violente e tragiche - qualche volta non scevre di enfasi - alla contemplazione del sentimento religioso e alle oasi della più sognante poesia.

Il Concerto in mi bem. magg. per piano e orchestra, composto nel 1885, pone in rilievo le maggiori qualità di Liszt come compositore e come virtuoso. Per merito appunto del suo virtuosismo rinnovatore della tecnica pianistica, Liszt potè raggiungere in questo Concerto effetti di sonorità senza riscontro in tutta la letteratura pianistica precedente. - Il 1° tempo (Allegro maestoso) si apre con un tema breve, energico, incisivo, enunciato dapprima dagli archi, ripreso dal piano, e sviluppato in un drammatico dialogo fra solista e orchestra, qua e là esuberante, ma sempre ricco di una musicalità intensa. - Il 2° tempo (Quasi Adagio) è una specie di Notturno, breve e poeticamente assai commosso. Ad esso seguono, senza interruzione, l'Allegretto vivace: uno «Scherzo» leggero e scintillante, alla fine del quale è richiamato il tema del 1° tempo; e l'Allegro marziale che riassume in forma ciclica e con espressione brillante i temi dei tempi precedenti.

I Preludi sono un poema sinfonico ispirato a una lirica di Lamartine. I più importanti momenti della musica si riferiscono ai seguenti versi:

«Tout naît, tout passe, tout arrive
«Au ferme ignoré de son sort:
« L'amore au soir, l'homme à la mort, ...
«...
«Eh! qui m'emportera sur des flots sans rivages? ...
«...
« La trompette a jeté le signal des alarmes:
«'Aux armes!' et l'écho répète au loin: 'Aux armes!'...
«...
«N'as-tu point sur la lyre un chant consolateur? ...
«....
«Oui, je reviens à toi, berceau de mon enfance...

(Vedi anche a pag. 227).

Le Rapsodie Ungheresi, per pianoforte (trascritte anche per orchestra), anche se l'elemento folkloristico vi appare alterato, più come gusto generico che come tematica originale, in un'elaborazione pianistica in cui il virtuosismo ha larghissima parte, non mancano di efficacia coloristica e di momenti poetici. La più nota è la 2ª Rapsodia.

La leggenda di S. Elisabetta, oratorio per soli, cori e orchestra, in due parti. Il libretto di Otto Roquette è costituito da una successione di episodi staccati della vita di S. Elisabetta (nata nel 1207 e morta nel 1231), ispirati ai sei affreschi che Moritz von Schwind dipinse nel Wartburg in onore della Santa.

parte 1ª. - N.° 1. Il coro, il Langravio Hermann, un magnate ungherese, salutano l'arrivo al Wartburg di Elisabetta, bimba di 4 anni, promessa al Langravio Lodovico. Anche un coro di fanciulli si associa alla gioia di tutti e invita Elisabetta a giuocare. - N.° 2. Elisabetta, già adulta, incontra lo sposo Lodovico mentre questi andava a caccia. Egli vuol sapere da lei dove sia diretta e che cosa rechi nel canestro. Confusa, Elisabetta, alla quale era stato proibito di fare opere di carità, racconta che ha raccolto rose. Infatti il canestro ne risulta colmo. A tale vista Elisabetta confessa la verità: nel canestro recava a certi poveri pane e vino, ora miracolosamente trasformati in rose. Lodovico e il coro inneggiano alla gloria divina. - N.° 3. Lodovico parte per la Crociata in Terra Santa, ma Elisabetta è accasciata dal dolore perche un presentimento le dice ch'ella non vedrà più lo sposo.

parte 2ª. - N.° 4. È giunta la notizia della morte sul campo di Lodovico. La Langravia Sofia per poter regnare impone al Siniscalco di mandare in esilio Elisabetta. Invano questa implora. Sofia non ha pietà e la caccia di casa coi figli mentre infuria una tempesta. - N.° 6. Elisabetta nell'ora della morte raccomanda a Dio sé e i figli. Numerose voci inneggiano alla sua bontà e ricordano la carità da lei usata verso i poveri. Elisabetta muore consolata da una visione celeste. Gli Angeli cantano la sua gloria. - N.° 6. L'imperatore Federico annunzia che gli usurpatori del trono d'Ungheria sano stati rovesciati e banditi, e con i vassalli prende parte ai funerali di Santa Elisabetta. Popolo, soldati e vescovi cantano le sue lodi.

L'oratorio fu composto nel 1867. In esso figurano alcuni temi liturgici che Liszt tolse da libri corali sacri. Uno di essi è il canto «Quasi stella matutina», che apre il preludio alla 1ª Parte, e ritorna poi spesso come «tema di Elisabetta». Un altro, preso da un'aria nazionale ungherese, diventa il «tema dell'Ungheria», e appare la prima volta nel coro in cui si esalta l'origine ungherese di Elisabetta. Un'intonazione gregoriana simboleggiante la croce è sfruttata per la Marcia e Coro dei Crociati. Nel «trio» della Marcia compare poi un altro motivo che deriva da un vecchio canto di Pellegrini. Infine un quinto motivo, introdotto nel coro dei poveri (n.° 5) e sull'inizio dell'ultimo episodio, deriva da un vecchio canto sacro per S. Elisabetta contenuto nella «Lyra Coelestis».

Manca lo «Storico». Le parti soliste dell'oratorio (arie, recitativi e duetti) sembrano ispirarsi a una concezione teatrale, anche se nobilmente sentita. Ma certe parti corali e le pagine strumentali recano un vigore di vita sano nella perfetta costruzione architettonica e nelle belle sonorità timbriche. Il preludio, ad esempio, svolto sul tema di S. Elisabetta, porta negli sviluppi un senso di poesia che dalle dolcezze serafiche sale gradatamente all'affermazione solenne della fede e al trionfo della Santità di Elisabetta, per ripiegare poi verso una espressione di soave purità. Con nuovi sviluppi, e associato alle sonorità ora sottovoce ora piene e possenti del coro, questo motivo serve a descrivere «il miracolo delle rose». La presentazione stupita e piena di mistero dà il senso del miracolo, che per un accrescimento di movimento nei ritmi e di luminosità orchestrale acquista calore di entusiasmo, anche questa volta, come nel preludio, per chiudere su arpeggi sfumati con un senso di raccolto mistico fervore. L'addio di Lodovico e di Elisabetta nei suoi accenti commossi e agitati è improntato a nobiltà spirituale.

Se la marcia dei Crociati è un po' prolissa e convenzionale, non mancano invece momenti di robusta espressione eroica nei cori, specie per quel tema della croce così fermo e solenne.

Nella 2ª Parte va segnalata per la sua forza drammatica la «scena» fra la Langravia Sofia ed Elisabetta, per il violento contrasto fra il tema aspro e imperioso di Sofia e il canto pieno di affanno dolente e implorante di Elisabetta. «Scena» sembra la definizione più idonea di questo dialogo in cui l'azione scenica, anche se mancante, è tuttavia sottintesa e, si direbbe, quasi visibile attraverso alla musica. Fa seguito la potente descrizione orchestrale della tempesta. Di grande soavità, per la leggerezza delle armonie e il senso aereo dei cori angelici, l'episodio della morte di Elisabetta. Bello, infine, il funerale di Elisabetta che chiude l'oratorio col suo tema portato a incielarsi in un effetto di sonorità grandiosa.

Lualdi Adriano (1887)

La Suite Adriatica è costituita di tre parti, tratte dall'opera in un atto La Grançèola. La 1ª Parte, dal titolo Ouverture per una commedia, è la sinfonia della Grançèola: briosissima, ricca di spirito e di humor nei ritmi vivaci e nei canti spigliati, in una veste strumentale scintillante. Nei concerti essa viene anche eseguita da sola, appunto come ouverture tolta dall'opera. - La 2ª Parte ha per titolo Tramonto fra pasture e marine: motivi di grande soavità passano lenti, incantati, dai legni agli archi, fra rintocchi bassi di campane lontane. Al centro (e questo non apparteneva alla Grançèola) un motivo svolto a cànone. Da tutto spira un gran senso di poesia. - La 3ª Parte è un Kolo: danza nazionale dalmatica. Sul ritmo ostinato originale del basso pag373_01 il musicista ha disegnato un motivo di danza che ha per base una scala col 4° e 7° grado aumentati, di sapore orientale. Essa inizia lentissima, accelerando a poco a poco e crescendo di sonorità, per concludere con un movimento vertiginoso di gioia orgiastica. È la danza che chiude l'opera La Grançèola.

Giovan Francesco Malipiero (1882)

Stornelli e Ballate. È una composizione per quartetto d'archi dalla forma liberissima e ben lontana da quella del quartetto classico. Non vi sono i diversi tempi ne la forma-sonata con i suoi due temi, gli sviluppi, i ritornelli. Sono quattordici momenti lirici, tutti fusi fra loro quasi senza interruzioni, che traggono origine da spunti che si riferiscono alle forme popolari degli stornelli e delle ballate. Ma questi spunti servono più che altro come eccitamenti della fantasia, la quale ne trae luci, colori ed emozioni. Cosicché gli spunti si risolvono felicemente in altrettanti brevi quadretti in cui gli strumenti cantano seguendo l'impulso lirico del momento, ora bizzarro ora sentimentale, ora rude, ora morbido, ora asprigno, ora burlesco. Il ritorno, in due momenti, del tema iniziale, sembra voler imprimere un concetto unitario alla composizione, che scorre come un perenne fluire di immagini sonore.

Nella composizione dal titolo: Rispetti e Strambotti, l'autore, prendendo lo spunto dal carattere dell'antica poesia popolare italiana, si vale delle infinite risorse degli strumenti che costituiscono il «Quartetto d'archi» per uscire dai limiti delle forme classiche da camera e portarci a respirare l'aria libera e sana delle strade e delle campagne. Le 20 strofe che compongono questo originale «Quartetto» sono legate fra loro da un tema che ha quasi l'apparenza di un ritornello. La novità dell'intuizione poetico-musicale, la chiarezza italiana della sua ispirazione e costruzione, l'estrosità popolaresca della composizione ne costituiscono i pregi principali.

Mancinelli Luigi (1848-1921)

Cleopatra: ouverture: vedi testo a pag. 226.

Le Scene Veneziane, scritte nel 1888, comprendono cinque momenti: Carnevale, Dichiarazione d'amore. Fuga degli amanti a Chioggia, Ritorno in gondola, Cerimonia e Danze nuziali. Di essi la Fuga degli amanti è la più nota e la più frequentemente eseguita. Due giovani innamorati, ribellandosi all'opposizione dei loro genitori, fuggono in bragozzo da Venezia. Il vento gonfia le vele, e la navicella fila rapidamente sul mare. Il cannone tuona dai forti, e la trepidazione fa palpitare gli amanti come se l'allarme fosse stato dato per loro. Ma Chioggia è in vista, è raggiunta. I fuggiaschi balzano a terra e si allontanano. La navicella vuota dondola inerte e malinconica su le onde, quasi come un moto perpetuo.

Marcello Benedetto (1686-1739)

Con la denominazione di Estro poetico-armonico Benedetto Marcello pubblicò una raccolta dei Cinquanta Salmi di Davide da lui musicati su le parafrasi poetiche di Girolamo Ascanio Giustiniani.

Essi furono composti per una o più voci (non più di quattro), intercalando alle parti corali, di andamento ora polifonico, ora omofono, parti in istile recitativo largamente melodico.

Sotto il canto è segnato solo il «basso cifrato», e, in qualche caso, un accompagnamento di violette e di violoncello. All'espressione drammatica o narrativa dei recitativi si alternano preghiere soavi, descrizioni dell'ira divina, gentili idilli campestri, imprecazioni contro il peccatore, inni d'esultanza e di glorificazione. Ne nasce un insieme pieno di varietà e di alto fervore religioso, poiché l'ispirazione è sempre nobile e austera, anche là dove il canto si esprime in forme quasi popolari di melodia.

L'espressione musicale, ricca spesso di tratti fortemente realistici, nella semplicità della concezione attinge una solenne grandiosità biblica, uno slancio spirituale, e una purezza melodica che fanno di queste composizioni dei monumenti imperituri di bellezza.

Raramente eseguiti, ma di grande importanza e bellezza sono i Concerti per vari istrumenti del Marcello. È in essi il fervore dinamico e la vita ritmica che formano le caratteristiche salienti delle opere di Vivaldi e di Bach, il quale ultimo ne trascrisse parecchi per il clavicembalo.

Martucci Giuseppe (1856-1909)

Notturno in sol bem. op. 70 n. 1: vedi testo a pag. 243.

Lo Scherzo in mi magg. op. 53 n. 2 per piano è una pagina piena di movimento, leggiadrissima per la leggerezza elegante e capricciosa dei ritmi e dei disegni. Essa è solcata da accordi armoniosi e legati, e chiusa dai medesimi accordi che sfumano e si perdono lievi come un sogno.

La Tarantella op. 44 n. 6 per piano (trascritta dallo stesso Martucci anche per orchestra) sfrutta il caratteristico ritmo della danza popolare per una forma di «Scherzo». Chiara nelle idee, ampia nello sviluppo, indovinata nel colore, capricciosa nel gioco ritmico vivace, la composizione mantiene una aggraziata signorilità di fattura.

La 1ª Sinfonia in re min. op. 75 è del 1895; si apre con un 1° tempo Allegro il cui motivo iniziale, energico e vigoroso, è in contrasto col secondo dolce e fluido. Gli sviluppi di questi due temi hanno un'espressione di viva angoscia drammatica, senza peraltro che il soffio romantico che li anima alteri la solidità classica della costruzione sinfonica, la quale, per quanto risenta dell'influsso di Beethoven e di Brahms, tuttavia afferma la forte personalità artistica del Martucci. - L'Andante è basato principalmente su un canto elegiaco affidato al violoncello. - L'Allegretto, incomincia con un tema formato da pizzicati lievi di viole, ed è tutto una sfumatura delicata di sonorità e di armonie leggiadre. - Il finale (Mosso) riprende il tono drammatico; accenti gravi si alternano a soavi disegni, colori cupi a tinte delicate. È ripreso il tema del 1° tempo, ma in forma solenne e grandiosa.

Massenet Giulio (1842-1912)

Le Scene Alsaziane, composte nel 1881, comprendono quattro pittoreschi quadretti orchestrali. - 1°: Domenica mattina: il popolo di un villaggio alsaziano è in chiesa. Un motivo campestre, passando dal flauto all'oboe al clarinetto, si alterna e si sposa con un corale sacro, diffondendo un gran senso di serenità e di pace. - 2°: All'osteria verso il mezzogiorno: un'allegra canzone delle guardie forestali si alterna a una danza turbinosa. - 3°: Pomeriggio: una coppia di fidanzati siede all'ombra degli alberi di un viale. Violoncello e clarinetto dicono i loro pensieri d'amore; una campana lontana spande nell'aria una dolce malinconia. - 4°: La sera: nella piazza del villaggio c'è grande allegria: canti villerecci e danze; le truppe rientrano in caserma al suono delle trombe e dei tamburi fra il chiasso della folla.

Mendelssohn Felice (1809-1847)

Il Concerto in sol min. per piano e orchestra op. 25 è degli anni 1830-31. Il 1° tempo (Allegro) è aperto energicamente dall'orchestra alla quale si allaccia il pianoforte con scale ascendenti slanciate. Questo impeto iniziale si trasforma in moto turbinoso fino a che si placa in accenti delicatamente cantabili. Poscia il canto si fa via via appassionato e porta a una ripresa dei disegni turbinosi alternantisi con tratti energici dell'orchestra. Improvvisi squilli di trombe, seguiti da passaggi meditativi del piano, conducono senza distacco al 2° tempo (Adagio) che si annunzia con l'esposizione di un canto soave degli archi, canto ripreso dal piano con larga ed espansiva espressività. Esso ritorna ai violini, mentre il piano sviluppa e commenta con accentuata passionalità, per concludere con un'altra ripresa del motivo da parte degli archi, e frattanto il piano contrappunta con disegni floreali. Il tempo conclude con un'ultima esposizione del piano su accordi pacati degli archi. - Il 3° tempo (Presto) è annunciato da nuovi squilli degli ottoni e da progressioni vibrate di tutta l'orchestra. Il tema del finale scatta poi nel piano con animazione festosa e volubilità di giochi decorativi. Alternativamente il motivo ora passa all'orchestra, ora ritorna al piano, mantenendosi sempre scherzoso e gaio, e chiude in una arabescata frenesia sonora.

Dal Concerto in mi min. op. 64 per violino e orchestra emana una forza di suggestione incantevole per la poesia sognante di cui sono imbevute le sue melodie e per la vivacità dei suoi ritmi. La spontaneità dell'emozione da cui sgorga ogni pensiero musicale è uguagliata dalla eleganza sapiente dello stile. - Dalla sottile poesia del 1° tempo (Allegro molto appassionato) in cui ogni motivo sprigiona un intenso fascino romantico, reso più vibrante dalle loro contrapposizioni, dai sùbiti languori e dagli slanci impetuosi che mantengono l'animo in un continuo palpitare di emozioni, passando attraverso al soavissimo, pensoso Andante, quasi visione di una beatitudine celestiale, sogno ideale di felicità sovrumana, si giunge allo scintillìo signorile del finale (Allegro non troppo - Allegro vivace) in cui la felicità delle idee spigliate, vibra in un gioco estroso con un senso di vita fresca e giovanile.

Il Trio in re min. op. 49 è dominato da un signorile senso di eleganza che si associa al prestigio di un'espressione romanticamente affettiva. Al 1° tempo fortemente passionale, si contrappone nell'Andante successivo un'intonazione seraficamente estatica, la quale richiama alla mente lo stile e l'ispirazione dei migliori adagi beethoveniani. Il bellissimo Scherzo ha la leggerezza e la leggiadria di quello di Un sogno di una notte d'estate. Ben costruito, vivacemente robusto è, come dice l'indicazione dell'autore, «appassionato» il Finale.

Il Quartetto in re magg. op. 44 n. 1 ha un 1° tempo (Molto allegro vivace) vigorosamente nervoso e dinamico. - Il 2° (Minuetto: un poco Allegretto) è fluido e aggraziato, quasi variazioni di flauto. - Il 3° tempo (Andante espressivo ma con moto) è assai delicato e fine; festosamente gioioso e turbinoso il 4° tempo (Presto con brio).

La ouverture «La grotta di Fingal» op. 26 (1830-32) ha, se non la forma, lo spirito di un poemetto sinfonico, nel quale il musicista rievoca il fascino misterioso dell'antichissima grotta e la poesia delle leggende che a lei si collegano. Il primo tema dei fagotti, delle viole e dei violoncelli sul lungo pedale dei violini e dei legni ci introduce nell'elemento favoloso. Il tema è poi raccolto dai violini, sul mormorio delle viole e dei violoncelli. Ripreso da questi si contrappone a un disegno delicato dei fagotti oboi e flauti, cui segue come un'eco di onde che si frangano, uno squillare fantastico di trombe lontane, fino a che i fagotti enunciano un secondo tema cantabile, di una dolcezza nobile e patetica. Ed ecco che, dopo una ripresa del primo tema da parte dei legni, tutta l'orchestra echeggia di squilli sonori ed eroici. Fra questi elementi si muove tutta la composizione che gradatamente svanisce come una visione.

La ouverture per il Sogno d'una notte d'estate, op. 21, composta nel 1826 (a diciassette anni!) è un ricamo aereo leggiadrissimo. Dopo i primi lunghi accordi quasi incorporei, un disegno rapido degli archi si snoda come un moto perpetuo, alternandosi in seguito con altri motivi cantabili, alcuni assai espansivi. Vi si innesta una specie di gaia danza di spiritelli, dal ritmo balzante. L'avvicendarsi di questi motivi riconduce alfine di nuovo agli accordi iniziali, tenui, sfumati, sui quali l'incantesimale rievocazione ha fine.

Lo Scherzo per il Sogno di una notte d'estate, op. 61, che fa parte dei 12 pezzi composti per illustrare la commedia shakespeariana, è anche più aereo della ouverture. Nel giuoco lieve degli istrumenti, e principalmente dei flauti, l'espressione raggiunge l'etereo. Ritmi, disegni, colori strumentali, giucco delle parti, tutto concorre a fare di questa composizione una delle pagine più leggiadre e spirituali che genio umano abbia creato.

Sinfonia n. 3 in la min. detta La Scozzese (1829-1841). - Introduzione: Andante con moto: il motivo iniziale è quello che Wagner adoperò nel 2° atto della Walkiria a simboleggiare il «canto di morte di Sigmondo». È pieno di nobile malinconia e si sviluppa in un'ampia frase dei violini. Attraverso questa introduzione si passa pianamente all'Allegro poco agitato. Il primo tema, romanticamente appassionato quasi con ritmo di ballata, fremente negli sviluppi, solcato qua e là da squilli energici, passa poi nei bassi, mentre i violini vi gettano sopra patetici sospiri. Il tema subisce poi varianti che costituiscono episodi i quali intensificano l'espressione in contrasto col secondo tema dolcemente ondulato e blando. Verso la fine sopraggiunge un episodio dal carattere tempestoso, quasi descrizione temporalesca. Dopo un ritorno dell'Introduzione, segue un Vivace non troppo di espressione più marziale e balzante. Iniziato misteriosamente sotto voce, crescendo a poco a poco di intensità, il movimento diviene scherzoso nel gioco leggero del flauto, poi agitato e nervoso, finché sfuma con la levità d'una danza di spiriti aerei, con espressione leggendaria. - L'Adagio svolge un canto spiegato di forte espressione patetica e poetica. Un secondo motivo di ritmo eroico e funebre, che si ricollega poi di nuovo al canto primitivo, conserva alla sinfonia l'atmosfera di leggenda anche in questo tempo. Il canto ampio e il ritmo eroico si alternano spezzati, acquistando carattere più drammatico, per placarsi di nuovo nella larga melodia ripresa dai violoncelli. - Il 3° tempo è un Allegro vivacissimo dal tema energico e staccato. Coi suoi scatti improvvisi dal piano al forte, col suo ritmo sempre teso esso mantiene un'animazione senza soste, che il secondo tema, pure concitato, non diminuisce. Questi due temi principali lottano, si inseguono, giocano, assumono di tanto in tanto accenti ora fantasiosi ora drammatici, con brevi oasi di soavità. Su un lungo pedale mi-la si passa al movimento Allegro maestoso che ha un'espressione sostenuta e a poco a poco sempre più grandiosa, e, su la fine, trionfale.

La Sinfonia n. 4 in la magg. op. 90 (1830-33) fu detta Italiana, perché ispirata all'autore da un suo viaggio in Italia. Mendelssohn stesso così ne scriveva a un amico: «È il lavoro più gaio che io abbia fino ad ora composto, specialmente nel finale». - Il 1° tempo (Allegro vivace) attacca con brio e slancio; e questi caratteri si conservano, attraverso alla freschezza melodica, alla grazia dei giuochi ritmici e contrappuntistici, e ai suggestivi ritorni del motivo fondamentale, fino alla fine. - Il 2° tempo (Andante con moto) è una pagina di delicata fattura il cui tema principale sta fra il corale sacro e la canzone, ma è ricco di sentimento nostalgico e di tenerezza. - Il 3° tempo (Con moto moderato) ha l'eleganza leggiadra di un Minuetto liberamente condotto, in cui - nella seconda parte - un tema dei corni e dei fagotti aggiunge una pittoresca nota agreste. - L'ultimo tempo (Presto) è un vivace saltarello, danza romana antica, assai caratteristica per la forza tutta italica e meridionale, e per le rapide figurazioni musicali, fortemente accentate.

L'oratorio Paulus di Mendelssohn fu composto su testo di Julius Schubring tra il 1834 e il 1836, ed eseguito nel maggio di quest'ultimo anno. Dopo la sua esecuzione a Düsselford, la composizione fu rielaborata. Il Paulus si divide in due parti.

parte 1ª. - I Pagani portano Stefano davanti al Tribunale accusandolo di predicare le dottrine del Nazareno; condannato a morte vien lapidato. Saulo, che aveva approvato la condanna di Stefano, è inviato a Damasco per arrestare e perseguitare i cristiani. Ma lungo la via è abbagliato da una luce celeste e ode la voce di Gesù che gli ordina di andare in città e attendere ivi i suoi ordini. Saulo è condotto a Damasco convertito e cieco. Gesù manda Anania da Saulo affinchè gli ridìa la vista. Da questo momento Saulo predica la gloria di Cristo, e battezzato prende il nome di Paolo.

parte 2ª. - Paolo e Barnaba vanno di terra in terra predicando e convertendo i Gentili. E a Lystra Paolo guarisce un paralitico. I Gentili li credono Giove e Mercurio scesi in Terra, e vogliono fare sacrifici in loro onore. Paolo e Barnaba allora si oppongono e chiamano idoli menzogneri gli Dei pagani. La moltitudine si rivolta. Paolo e Barnaba salutano gli Anziani e si avviano sereni verso Gerusalemme ove li attende il martirio e la morte per la gloria di Cristo.

L'Oratorio non ha una parte di «Storico». Il racconto vien sostenuto, come nel Carissimi, da diverse voci; nel Paulus a volte da un soprano, altre volte da un tenore. Paolo (Saulo) è rappresentato da una voce di basso; tenori sono Stefano e Barnaba. Due bassi sono i falsi testimoni; un tenore è Anania. La voce di Cristo è rappresentata una volta dal coro, altre volte da un soprano e da un tenore. Gli interventi della folla sono affidati al coro, il quale ai recitativi dei narratori e a qualche aria religiosa alterna anche corali alla maniera di Bach, e grandiosi inni.

L'architettura polifonica del Paulus si riallaccia, con gusto ormai ottocentesco, alla più pura tradizione di Händel e di Bach, mentre i recitativi oscillano tra lo stile di Bach e quelli secenteschi di Carissimi, ma con assai minore drammaticità. Quanto allo strumentale, vi si nota una dovizia di colore e di impasti del tutto personale e romantica.

L'unica pagina orchestrale è l'ouverture che si apre col corale «Wachet auf, ruft uns die Stimme» («Dormienti, sorgete; una voce chiama»), cui segue una fuga ampiamente sviluppata, alla quale si innesta e si sovrappone il corale precedente secondo la maniera grandiosa a effetto di contrasto propria di Bach.

Nelle arie, il canto, se pure talvolta tiene della larghezza händeliana, si accosta molto per la dolcezza, allo stile liederistico. Questo fa sì che varie pagine, belle in sé per il disegno della linea melodica, siano concepite secondo lo spirito della musica da camera, più che secondo il sentimento religioso.

Comunque, il giudizio datone da Schumann è esatto: «Il Paolo è un'opera di vena purissima, di pace e d'amore». In questo giudizio rientrano, per esempio, nella 1ª parte, l'aria per soprano «Jerusalem !», di una dolcezza severa, quasi fatale; quella per basso: «Gott, sei mir gnädig» («O Signore, abbi pietà di me»), nella cui linea austera vibra un sentimento di implorazione così umile e devoto. Nella 2ª parte, la cavatina per tenore (raffigurante la voce di Cristo): «Sei getreu bis in den Tod» («Sii fedele sino alla morte»), nobile e serena, piena di un alto senso di fede e di amore: nobile anche nel volubile contrappunto del violoncello e nelle armonie di clarinetto, fagotto, corno e viola.

Ma forse le pagine più grandi sono i cori: nella 1ª parte il «Siehe! wir preisen selig» («Guarda, noi esultiamo beati»), di una soavità mistica su lo scorrevole disegno dei violini. L'esultante e grandioso: «Mache dich auf!» («Sorgi»); l' «O welch eine Tiefe» («Oh che profondità»), di una così viva gioiosità. Nella 2ª parte il «Der Erdkreiss ist num des Herrn» («Le Nazioni sono ora del Signore»), di una festosità entusiastica nel ritmo del tema incisivo ascendente, e negli intrecci delle imitazioni fugate; il «Wie Lieblich sind die Boten» («Come amabili sono i messaggeri») che spira tanta serena letizia; il vigoroso «Ist das nicht» («Non è ciò»), seguito dal corale «Jesu Christe, wahres Licht» («Gesù Cristo, vera luce»), al quale si associa con un delicato ricamo l'orchestra; la fuga «Aber unser Gott ist im Himmel» («Ma il vostro Dio abita in Cielo»), luminosa e piena di fervore dinamico; il «Sehet, welch eine Liebe» («Vedete quale amore»), uno dei più religiosamente sentiti nella sua raccolta intimità; e la fuga finale «Lobe den Herrn» («Benedici il Signore»), di una animazione solenne. Ma potenti sono pure alcune espressioni drammatiche, quali il coro «Steinighet ihn» («Lapidatelo!») nella 1ª parte, dai ritmi duri e violenti; e, nella 2ª parte, il coro «Hier ist des Herren Tempel» («Questo è il tempio del Signore»), così agitato e di un'intonazione fanatica rovente.

Milhaud Darius (1892)

Scaramuche: Servendosi del sistema armonico e di una tecnica consacrate dal tempo e prettamente ottocentesche, con ricchezza di coloriti tipicamente iberici, l'autore dipinge la vivace maschera di Scaramuccia, una specie di Capitan Spaventa, gradasso e mirabolante negli atteggiamenti, ma in realtà pusillanime. La macchietta spavalda e musicalmente indovinata risulta piacevolissima. I tempi sono: Vivo, Moderato, Brazileira.

Mossolow Alessandro (1900)

Fonderie d'acciaio: vedi testo a pag. 221.

Mozart Wolfango Amedeo (1756-1791)

Le Sonate per piano, come quelle per violino, di Mozart, sono gioielli di grazia e di eleganza. - Esaminiamo brevemente, ad esempio, la Sonata in re magg. per piano K. 576[53]. Il 1° tempo (Allegro con spirito) è tutto brio deciso e insieme garbato, ove i legati e gli staccati, i piani e i forti, le frasi giocose e quelle mollemente cantabili, si alternano producendo un continuo svariare di disegni, di colori, di ritmi, di emozioni. - L'Andantino con espressione raduna melodie e accenti in cui la lagrima si fonde al sorriso; lagrima non di dolore ma di tenerezza, talvolta di nostalgia, subito cancellata da un sorriso di speranza e da un sentimento di bontà. - Il Rondò finale (Allegro) è spigliato e apertamente gaio, e alterna anch'esso a momenti di felicità serena, accenti di vaga ansietà, modi scherzosi e sospiri deliziosi. A metà, una breve cadenza ci reca una nota più intensamente passionale e meditativa. Poi l'allegria fresca riprende e non ci lascia più sino alla fine.

La Sonata in la magg. per piano K. 331 ha un 1° tempo (Andante grazioso) costituito da variazioni. Il tema ha l'andamento di una danza molle e lenta; le sei variazioni ritmiche lo illuminano di colori e luci sempre diverse: ansiosa la prima, gaia la seconda, un po' mesta (in minore) la terza, capricciosa la quarta (di nuovo in maggiore), appassionata la quinta (Adagio), tutta brio (Allegro) l'ultima. - Il Minuetto è elegante, e nella seconda parte ha accenti di una passionalità agitata e dolorosa insolita nella serena danza settecentesca. Ma la serenità blanda, cullante ritorna nel trio. - La Sonata termina col famoso Allegretto «Alla turca», dove di turco non c'è veramente niente, ma c'è, soprattutto per effetto dei gruppetti e delle acciaccature, un lieve sentore esotico, e una colorita vivacità di ritmi, che può far pensare a qualche cosa di vagamente orientale profumato di grazia settecentesca.

La Sonata in do magg. per violino e piano K. 296 consta di un brillante Allegro vivace, di un sereno e forse un po' scolastico Andante sostenuto e di un vivace Rondò (Allegro). - Lo spirito finemente galante e la soavità melodica lievemente malinconica dominano l'intera composizione.

La Sonata in si bem. magg. K. 454 per violino e pianoforte è forse la più bella delle Sonate del Salisburghese per questi strumenti: già nettamente prebeethoveniana nei procedimenti e per certo soffio drammatico dominante. Composta nel 1784, è dunque di due anni posteriore alla prima conoscenza che Mozart fece delle opere di Händel e di Bach, dei quali appare l'influenza nella maggiore densità contrappuntistica. In questa Sonata, che Mozart scrisse per la famosa violinista mantovana Regina Strinasacchi, tenerezza e grazia, nobiltà di pensiero e virtuosismo si fondono in una forma armoniosamente suggestiva.

Il Concerto in do magg. per piano e orchestra K. 503 inizia il 1° tempo (Allegro) presentando e sviluppando in orchestra con ampiezza di linee il primo tema. Anche il secondo tema ha una presentazione ampia e sviluppi ricchi, con episodi smaglianti per gli effetti pianistici vivaci. - L'Andante, esposto esso pure prima dall'orchestra, poi ripreso dal piano, è dolce e sereno con una vaga intonazione di «Notturno». - Il Rondò finale è di un brio sorprendente per leggerezza e irrequietezza giovanile e gaia di movimenti.

Concerto in la magg. per piano e orchestra K. 414. - Il 1° tempo, Allegro, inizia con un motivo gaio, fresco di grazia, esposto dagli archi, ripreso dall'oboe, seguito da altri di pari gioiosa serenità. Il piano poi li ripete e li rende più briosi per un agile vivace gioco di arabeschi fioriti, in un dialogo fra solista e orchestra senza contrapposizioni drammatiche, ma anzi con una perfetta coesione e identità di emozioni. - Nell'adagio il piano espone da solo un motivo pensoso e soffuso di malinconia. Segue l'orchestra con una frase più elegiaca, che il piano poscia varia mantenendole un'espressione intensamente commossa. Anche in questo 2° tempo il piano rimane spesso solo a cantare la sua poesia sognante, in alternanza con l'orchestra, il cui intervento non è mai contrastante, ma di consenso. Interessante è in particolare il sommesso accompagnamento pizzicato degli archi al tenero canto del solista che chiude il tempo. - Il motivo gioioso ed energico dell'Allegro molto finale è attaccato con decisione dal piano, palleggiato tra il piano e l'orchestra in un ritmo balzante e festoso. Con eguale alternativa e pari gaiezza è presentato il secondo motivo.

In tutta la composizione è una divina scorrevole facilità e una felicità d'ispirazione sempre signorile, in una fattura di elegante trasparenza.

Il Concerto in re magg. per violino e orchestra K. 271 inizia con una solenne introduzione orchestrale alla quale seguono i due motivi principali del 1° tempo (Allegro), aggraziato il primo, più patetico il secondo. Dall'esposizione, dagli sviluppi e dall'alternarsi di questi due motivi, nasce uno stretto dialogo fra solista e orchestra; dialogo che talora appare, così nei commenti come nel modo di rimandarsi e quasi di rimbeccarsi la frase, arguto e malizioso. - Il 2° tempo (Andante cantabile) si impernia su un'ampia e tenera melodia del violino, non scevra di accenti malinconici, ma nel complesso nobile e serena. L'orchestra si ritira al rango di accompagnatrice delicatissima e discreta. - L'ultimo tempo è un Rondò il cui motivo si compone di due parti: la prima (Andante grazioso) ha il sapore di una canzonetta elegante e insinuante con malizia; la seconda (Allegro ma non troppo) contrappone un ritmo vivace di danza. Tutto l'ultimo tempo vive di questo contrasto brioso, con un energico scintillio festoso che si chiude con garbo, senza perorazioni sonore, come chi si ritiri con un grazioso e furbesco inchino.

Il Trio in sol magg. per violino, violoncello e piano K. 496 è di una limpida e serena freschezza, di una grazia festevole nel 1° tempo (Allegro), galantemente soave nel 2° (Andante), mentre il 3° tempo (Allegretto) è costituito da finissimi ed eleganti variazioni poetiche ed anche umoresche.

I Quartetti di Mozart, venuti poco dopo quelli del Cambini, del Boccherini e dell'Haydn, ne sviluppano le forme in un dialogo strumentale pieno di delicata espressività e di armoniosa vaghezza. Lo stile concertante di Mozart è l'espressione compiuta del suo ricco spirito, che oscilla tra la più fine grazia settecentesca e il nascente romanticismo, con un senso di musicalità intenso, che si accompagna a un'impareggiabile sapienza tecnica. La spontanea felicità melodica, la signorile eleganza dei particolari sono pregi riscontrabili in ogni momento, attraverso ai quali splende la sensibilità tutta mozartiana, in cui la serenità e un pacato dolore si fondono con un senso strutturale perfetto, creando un'atmosfera di poesia estatica incantevole.

tavola21
XXI. Strawinski. (Disegno di Picasso).

tavola22
XXII. Angeli musicanti. (Agostino di Duccio).

Il Quartetto per archi in do magg. K 465 è una delle opere mozartiane che rivelano il tormento di uno spirito che aspira ad evadere dalle formule consuete e ricerca una nuova profondità di sentimento, in qualche momento nettamente prebeethoveniano. La denominazione di «Quartetto delle dissonanze» sotto la quale è generalmente nota questa composizione, è dovuta a qualche ardimento armonico che si riscontra nell'Adagio che serve da introduzione al 1° tempo. In ciascuno dei quattro movimenti (Adagio - Allegro; Andante cantabile; Minuetto: allegro; Allegro molto) le voci degli strumenti dialogano con fusione perfetta, pur mantenendo una loro indipendenza di canto che ne rende più ammirevole la struttura polifonica aderente a un'alta, serena e intima nobiltà espressiva.

Il Quintetto in sol min. per archi e piano K. 478 è pervaso da un sentimento di malinconia, fino alla fine quando, per antitesi, si sprigiona dagli istrumenti un'ammaliante forza di letizia. - I due motivi del 1° tempo (Allegro) sono entrambi di carattere dolente, pieni di tenerezza e, fatto inconsueto, sono entrambi nello stesso tono. All'esposizione del primo tema, fatta dal violino e dalla viola, seguono alcune battute di ricco contrappunto, poi appare il secondo motivo pieno di penetrante mestizia espressa da salti di nona maggiore e minore. Nuove idee melodiche, imitazioni, inversioni formano un tessuto stupendo anche per la ricchezza dell'armonizzazione. - Il Minuetto: Allegretto, è ancora imbevuto di lacrime; ma il «trio» è deliziosamente trasparente come un cristallo. Il ritmo spezzato dell'accompagnamento lascia primeggiare il 1° violino nell'esposizione del canto. - L'Adagio ma non troppo è pagina superba per la squisitezza toccante delle melodie. - L'Allegro finale è introdotto da un breve Adagio simile a un recitativo triste e desolato. Ma una luce appare e il cuore balza rallegrato dalla gioia. Per tutto questo movimento Allegro in 6/8 l'interesse maggiore è sostenuto ancora una volta dal primo violino, con una profusione di belle melodie dall'espressione gaia che sono come un ritorno alla vita serena dopo una lunga sofferenza, un ritorno alla luce dopo una penosa oscurità.

I Divertimenti, le Serenate, fra cui l'impareggiabile Kleine Nachtmusik in sol magg. K. 525 per archi, sono deliziose rivelazioni della eccezionale genialità melodica e della squisita sapienza di Mozart, ove i vari aspetti della sua sensibilità si plasmano in forme di una signorilità elegante rimaste uniche al mondo. In particolare la «Piccola Serenata», espressione, stupendamente cesellata, di una grazia primaverile di serena e fresca giovinezza. I movimenti sono: Allegro; Romanza (Andante); Minuetto (Allegretto); Rondò (Allegro).

La ouverture de Le Nozze di Figaro è costruita secondo lo schema bitematico del 1° tempo di Sonata. I temi della ouverture non hanno a che fare con i motivi dell'opera, e presentano carattere vivace e snello, tutta grazia e brio, atto ad ambientarci pienamente alle vicende allegre della commedia. La rapidità del movimento (Presto) è in perfetto accordo con la velocità dei disegni e col gioco scintillante delle proposte, delle risposte, dei contrasti che distinguono lo stile effervescente di questa ouverture.

La ouverture del Flauto Magico si apre con una breve introduzione in movimento Adagio, di carattere grave. L'Allegro che segue è una fuga il cui soggetto è tolto dalla Sonata op. 47 n. 2 del Clementi; la Sonata che il Clementi eseguì in una celebre gara pianistica col Mozart. Il tema è pieno di un fervore dinamico prodigioso. Gli sviluppi e le ripercussioni tematiche mantengono quest'animazione con una lena e uno spirito indicibili. La fuga non ha uno sviluppo regolare, e a metà circa si interrompe per una ripetizione degli accordi maestosi introduttivi; dopo di che riprende con la medesima verve.

La Sinfonia in do magg. K. 551 detta Giove, fu composta nel 1788. Fino dalle prime note del 1° tempo (Allegro vivace) è affermata la tonalità fondamentale di do maggiore. I disegni melodici e i movimenti ritmici di questo tempo sono improntati ad energia e decisione con un'ansia di aspirazione che il tema ascendente iniziale nei suoi sviluppi e nelle progressioni consolida sempre più. Un secondo motivo si contrappone al primo per la delicata grazia e l'affettuosità, facendo spiccare ancor più la risolutezza vigorosa del primo, che domina tutto il tempo. - L'Andante cantabile, dopo un inizio a contrasti fra proposte piano e strappate forti, sviluppa nei bassi gravemente il tema proposto, alternandolo con leggeri ricami dei violini. Ma ben presto questi accenni a una lotta fra elementi sereni e drammatici lasciano il posto a movimenti sincopati e ad incisi piangenti con un'intonazione tragica, quasi funebre, piena di un senso sconsolato, che conducono a una chiusa tenera e malinconica. - Il Minuetto (Allegretto) è settecentescamente signorile e galante. - Il Finale (Allegro) ha un motivo di una serena festività, che determina iridescenti sviluppi per mezzo di contrappunti eleganti e giocosi e delle risonanze del fugato che ne dilata l'espressione in una sfera di superiore letizia.

La Sinfonia in sol min. K. 550 è una delle più fulgide meraviglie uscite dal genio di Mozart. Fu composta anch'essa nel 1788, per piccola orchestra: il quartetto d'archi, un flauto, due oboi, due fagotti e due corni (niente trombe né tromboni, né clarinetti, né timpani). Eppure, dal minuscolo complesso mai forse è stata tratta così ricca varietà di timbri e tanto scintillìo di luci. A ciò si aggiunge la freschezza di una ispirazione che vola alta e serena con una grazia e una leggerezza più divina che umana da cima a fondo dell'equilibrattissima composizione. - Il tema iniziale del 1° tempo (Allegro molto) è fluido e gentile, con un'espressione di malinconica gaiezza, ove la gaiezza è data in particolare dal ritmo vivace, quasi di tamburello, e la malinconia dal disegno della melodia in modo minore. Tale carattere gaio e malinconico insieme è accresciuto dal secondo motivo cromatico discendente. Ma è soprattutto il primo che fa le spese degli sviluppi principali di tutto il tempo. - L'Andante accentua la nota elegiaca con una melodia pensosa ed elegante, alla quale si inframettono brevi movimenti simili a passi cauti e misteriosi. Le voci dei diversi strumenti accrescono, con lo svariare successivo delle tinte, la vaghezza poetica dell'insieme. - Il Minuetto (Allegro) ha un fare deciso che le imitazioni illeggiadriscono. Il ritmo si fa più apertamente danzante nel trio. - Il Finale (Allegro assai) è di un'animazione sorprendente; animazione che annulla quasi interamente l'espressione lievemente immalinconita del modo minore. Tutt'al più si può dire che l'animazione dei motivi, dei contraccanti e degli sviluppi riceve dal modo minore una più acuta sensibilità romanticheggiarne, che il languido secondo motivo fa più accentuatamente vibrare.

La Sinfonia in re magg. K. 385, nota col nome di Haffner Symphonie, è la trasformazione di una Serenata composta nel 1782 in occasione di una festa famigliare del borgomastro di Salisburgo Siegmund Haffner. Nello stesso anno Mozart modificò questa Serenata facendone una Sinfonia. - Essa ha un'impronta generale di giovanile allegrezza e di energia che si impone fino dall'inizio del 1° tempo (Allegro con spirito) col tema a rapidi scatti d'ottava dal ritmo vigoroso, tema il quale domina in ogni momento col suo dinamismo potente e con la fantasiosità ariosa del suo respiro e dei suoi sviluppi. - Il 2° tempo (Andante) è una canzone, un Lied sereno, con qualche lieve accento di tenera malinconia, di una limpida cantabilità. - Il Minuetto inizia deciso e pomposo per ripiegare su la linea della più elegante leggiadria, con qualche momento quasi discorsivo. Il trio dolce e fluido fa maggiormente risaltare lo slancio della ripresa Da capo. - Il Finale (Presto) è di una briosità iridescente che ci riporta, specie per l'originalità del tema, ai modi burleschi propri di Haydn. Lo sviluppo si avvicina alla forma del «Rondò». Le scorribande degli archi, ora negli acuti, ora nei bassi, i disegni rapidi e agili ci danno l'impressione di una gioia incontenibile e conservano quel senso di spazialità che era già nel motivo fondamentale del 1° tempo.

Com'è noto, Mozart compose il suo Requiem per soli, coro e orchestra fra il luglio e il dicembre del 1791, dietro ordinazione di uno sconosciuto. Mozart, sofferente e stanco, fu sinistramente impressionato dalla figura del misterioso ordinatore, e dal fatto che non volesse rivelargli il suo nome. Ancora pochi giorni prima di morire, Mozart scriveva al suo poeta Lorenzo Da Ponte queste tragiche parole: «Sono al termine delle mie forze e non posso scacciare dai miei occhi l'immagine dello sconosciuto. Lo vedo continuamente che mi prega, mi sollecita, mi reclama impaziente il lavoro Non voglio prendere più nulla a cuore. Sento che la mia ora sta per suonare Sono sul punto di spirare. Finisco prima di avere profittato del mio talento E la vita è così bella!... È il mio canto funebre, e non devo lasciarlo incompiuto». Lavorò di gran lena, ma morì il 6 dicembre senza aver compiuta l'opera, che nelle ultime parti fu completata dal suo allievo Franz Süssmayer (1766-1803) su gli appunti lasciati dal Maestro e i suggerimenti ch'egli potè dargli fino al giorno della morte.

Il Requiem di Mozart non è se non in minima parte opera drammatica. Nella sua espressione generale è lirica, e lirica altissima. È un canto funebre in cui la paura della morte e le minacce del dies irae sono superate da una serena e fidente visione dell'al di là. È un'alta e dolce preghiera per la pace eterna. Un senso di profondo distacco dalla vita è in ogni pagina di quest'ultima opera del Musicista, e un senso di elevazione soprannaturale prende ad ogni nota l'ascoltatore ancora oggi, dopo oltre un secolo e mezzo.

L'Introito (n. 1) è composto parte a imitazioni parte a omofonia, con un'espressione di grande serenità. Alle parole «Te decet hymnus» Mozart fa uso del tema dell'antico corale funebre «La mia anima s'innalza al Signore». Il Kyrie e il Christe sono intrecciati l'uno all'altro e sviluppati in forma di «fuga», il primo come «soggetto» con un disegno energico, il secondo come «contrassoggetto», con un disegno volubile. È da notare che, come in ogni altro momento dell'opera, parti corali e parti soliste non costituiscono mai pezzi separati, ma si innestano sempre fra loro, sviluppandosi liberamente le une dalle altre secondo la sola legge dell'espressione e della varietà formale.

Il Dies irae (n. 2) è tutto omofono, dominato da un'espressione di tremito e di drammaticità veemente.

Il tema del Tuba mirum (n. 3), annunziato da un trombone, è cantato dal basso, ripreso dal tenore sulle parole «Mors stupebit», cui seguono, con altri motivi, il contralto («Judex ergo») e il soprano («Quid sum miser»). Poi, su le parole, «cum vix justus sit securus?», l'intero quartetto dei solisti chiude a frasi tronche, quasi spaurite.

La parola «Rex» del Rex tremendae majestatis (n. 4) è per tre volte gridato con forza dal coro su un energico maestoso motivo di tutta l'orchestra, che poi si sviluppa, unitamente al coro, in forma imitativa sempre con grande vigore.

Il Recordare (n. 5) è una melodia malinconica, che nelle voci si sviluppa ora in forma polifonica, a cànone, ora in forma omofona, con particolare accentuazione triste alle parole «Ingemisco tamquam reus». Il Confutatis maledictis (n. 6) presenta un drammatico contrasto tra le voci virili, che, sostenute dai tromboni, gridano con forza la maledizione, e le voci femminili, che sostenute dai violini, pregano sottovoce: «voca me».

Il Lacrymosa (n. 7) è la pagina più patetica del Requiem per il sentimento dolente della melodia che le voci del coro cantano sommessamente, ora in tono di lamento, ora come rotte dal pianto, con estrema semplicità di linee, sopra un lene accorato singhiozzare degli archi. Le prime otto battute sono state scritte da Mozart, fino al grido d'orrore: «judicandus homo reus». A questo punto la mano del Maestro si è fermata per sempre; il resto fu completato dal Süssmayer con la maggiore fedeltà per le intenzioni e lo stile del Maestro.

Dell'allievo è anche la strumentazione del Domine Jesu (n. 8) in cui espressioni maestose si alternano a implorazioni piene di tristezza e a forme fugate («Quam olim Abrahae»).

L'Hostias (n. 9) è un raccolto canto di preghiera, che si conclude nella ripresa del «Quam olim Abrahae». Pare che anche questo pezzo sia stato solo strumentato dal Süssmayer.

Il Sanctus (n. 10) dall'inizio solenne e lento, terminato da un fugato in movimento Allegro su le parole «Osanna in excelsis», è tutto composto dal Süssmayer, forse su appunti di Mozart, certo con fedeltà di stile.

Pure dal Süssmayer fu scritto il Benedictus (n. 11). Vi si alternano parti «a solo» e parti polifoniche. Lo stile e la melodia aggraziata sono certamente mozartiani, ma sembra quasi una pagina delle Nozze di Figaro. Il pezzo si conclude con una ripresa dell'»Osanna».

L'Agnus Dei (n. 12) è pure composto dall'allievo di Mozart, ma la semplicità e, specialmente alle parole «dona nobis pacem», la dolcezza e la bellezza del pensiero e della costruzione inducono a credere che non solo siano state rispettate le intenzioni ideali del Maestro, ma sia steto riportato un più ampio e preciso frammento da lui lasciato.

A conclusione del Requiem il Süssmayer riprende, su le parole «Lux aeterna», il Te decet hymnus dell'Introito, e pel Cum sanctis tuis la «fuga» del Kyrie.

Diciamo pure che un allievo non poteva dimostrare maggiore umiltà e affetto e rispetto pel Maestro di quanto abbia fatto questo venticinquenne alunno del sublime Mozart!

Mussorgski Modesto (1839-1881)

Quadri di un'Esposizione: vedi testo a pagg. 237-238.

Le Danze delle Persiane dell'opera Kovàncina (atto 4°) vengono spesso eseguite come pezzo da concerto. La scala dalle 4e aumentate e le 7e diminuite, l'andamento molle e sensuale della prima melodia, la vivacità frenetica del movimento seguente, in cui insistono particolari cellule ritmiche, evocano l'impressione di un ambiente esotico orientale. Impressione accresciuta dal colorito sgargiante dello strumentale che aggiunge fascino a fascino.

Una notte sul Monte Calvo. È un poema sinfonico che, nella versione più di frequente eseguita, è stato istrumentato da Rimsky-Korsakoff, poiché Mussorgski lo lasciò incompiuto. Esso è preceduto dalla seguente didascalia: «Rumori sotterranei di voci soprannaturali - Apparizione degli spiriti delle tenebre e del Dio Cernobog - Glorificazione di Cernobog - Sabba - Nel pieno infuriare della tregenda risuona lontano la campana della chiesa di un villaggio, suono che disperde gli spiriti demoniaci - Spunta l'alba». (Vedi anche a pag. 230).

Paganini Niccoló (1782-1840)

Nei 24 Capricci per violino solo e nelle Sonatine, nelle Variazioni, ne Le Streghe, come nelle opere di maggior mole - ma non di maggiore ispirazione - quali le Sonate e i Concerti (notissimo il 3° in Re magg.), Paganini infuse l'indiavolata tecnica che lo tramandò alla storia come il mago del violino. I più semplici motivi si trasformano attraverso il suo estro fantastico in trascendentali variazioni ed arabeschi sonori. Una delle composizioni dall'ispirazione fluida e dagli atteggiamenti armonici più vari, è il Moto perpetuo op. 11, eseguito spesso anche per orchestra d'archi, e pietra di paragone della particolare precisione di essa e della bravura dei suoi elementi.

Pergolesi Giovan Battista (1710-1736)

Lo Stabat Mater, composto poco prima della morte, è una soavissima elegia, in cui la musica esprime un dolore sublimato dalla fede, una malinconia terrena cui sorride la luce dell'al di là. Il dolore della Madre di Cristo è reso con accenti di tenerezza e di tristezza che si alternano a scatti gioiosi, quasi presentimento della redenzione, e a moti di stupore per l'orrenda tragedia.

Il canto è affidato alle voci di un soprano e di un contralto, ora unite insieme, ora separate in forma solistica. L'accompagnamento (più che accompagnamento, vero e proprio commento espressivo) è sostenuto dal quartetto degli archi, talora sostituito nelle esecuzioni dall'organo. Anche talvolta, nelle esecuzioni, alcune parti «a due», specialmente se di carattere imitativo, come ad esempio il primo versetto (Stabat Mater), l'ottavo (Fac ut ardeat), e l'Amen finale, sono passate a un coro di voci femminili, per accrescere varietà. Dobbiamo dire che questa consuetudine non è una profanazione, perché le parti sopracitate hanno veramente carattere corale.

Le parti la cui allegrezza ritmica appare in un certo dissenso con il testo sono il versetto n. 4 (Quae moerebat), il n. 7 (Eja Mater) e il n. il (Inflammatus), per quanto in quest'ultimo caso la vivacità del ritmo e la festosità energica del motivo possano essere giustificati come un impetuoso slancio di fede.

Per contro sono altissime espressioni di dolore gli altri versetti, che si adergono a manifestazioni di intima religiosità nel Vidit suum dulcem natum (versetto 6°) il più tragico; nell'ardente invocazione del Fac ut ardeat cor meum (versetto 8°); nello spasimo dell'implorazione del Fac me vere tecum fiere (seconda metà del versetto 9°); nella solenne affermazione di desiderio del martirio del Fac ut portem Christi mortem (versetto 10°); e finalmente nell'ultima diafana e spirituale preghiera del Quando corpus morietur, in cui pianto e rassegnazione, tristezza e fede, si congiungono in un canto della più commossa purità.

Il Radiciotti ha trovato qualche segno di fretta nelle ultime pagine: è la tragica fretta di chi sente ormai che la morte è imminente. E l'ultimo versetto è già tutto immerso in quest'ombra fonda col senso di un mesto distacco e insieme di una mistica trasfigurazione.

Perosi Lorenzo (1872-1956)

La risurrezione di Lazzaro, oratorio per soli, cori e orchestra composto nel 1898, è uno dei più belli del Maestro tortonese. Gli oratori di Perosi riprendono la struttura originaria del Carissimi, con testo latino, con la parte dello «Storico» e dei personaggi interlocutori da lui chiamati in causa, e con l'intervento del coro sia come personificazione di folle, sia per elevare preghiere ed inni.

Il testo della Risurrezione di Lazzaro svolge in due parti l'episodio miracoloso narrato nel Cap. XI del Vangelo di S. Giovanni.

parte 1ª. - Lo storico annunzia la malattia di Lazzaro da Betania, le cui sorelle, Marta e Maria, mandano un servo ad avvertire Cristo, il quale afferma che tale infermità non è per la morte, ma per la gloria di Dio. Come Gesù giunse a Betania, Lazzaro era già sepolto da quattro giorni, ma Gesù confortò le sorelle assicurandole che Lazzaro sarebbe risorto. Il coro intona un'alta preghiera.

parte 3ª. - Gesù si fece accompagnare alla tomba di Lazzaro e pianse; fece aprire il sepolcro e chiamò a gran voce il defunto. Lo Storico narra poi come Lazzaro al richiamo di Cristo si levasse e uscisse risuscitato dall'avello. I cori inneggiano alla gloria del Signore.

Il preludio alla 1ª Parte con la sua malinconia sembra volerci preparare a un avvenimento triste. Ed ecco infatti, subito dopo, lo «Storico» (tenore) informarci della malattia di Lazzaro. Un episodio orchestrale fugato, col suo tema faticoso, doloroso e cromaticamente discendente, coi suoi avvolgimenti tormentosi, gli accenti spasmodici, descrive la malattia. Dopo l'annunzio che un servo (basso) dà a Cristo della malattia di Lazzaro, l'affetto di Gesù per il defunto e per le sorelle trova pure nell'orchestra una sua espressione in un altro episodio fugato, dal tema affettuoso e gentile. Più patetica la pagina strumentale che descrive la consolazione recata dai Giudei alle sorelle di Lazzaro. Al momento in cui, con accento solenne, Cristo (baritono) annunzia a Marta: «Ego sum resurrectio et vita», appare in orchestra per la prima volta (corni) il tema grandioso della risurrezione. Il coro a voci sole annunzia soavemente l'andata di Maria alla tomba di Lazzaro per piangere; indi intona per tre volte un corale intercalato da varianti orchestrali.

Un preludio religioso, di sapore bachiano, apre la 2ª Parte; poscia lo Storico riprende il racconto. Allorché narra come, vedendo Maria piangente, Gesù «infremuit spiritu et turbavit seipsum», i violoncelli fanno udire un motivo pieno di commozione, che verrà ripreso ancora allorché Gesù si avvia verso la tomba di Lazzaro; e lo Storico avverte, su un motivo lamentoso: «Et lacrymatus est Jesus». A questo punto, i violini con sordina attaccano una frase acuta e dolcissima: «Il pianto di Gesù»; e subito i violoncelli, poi i corni, una tromba, e infine ancora i violoncelli insieme ai violini, riprendono e sviluppano in un lungo episodio strumentale il motivo doloroso del turbamento di Cristo. Il coro, a voci sole, commenta l'amore di Cristo per Lazzaro. Giunto innanzi alla tomba, Gesù ordina, su un vivo movimento degli archi: «Tollite lapidem»; gli rispondono con accenti rotti e dolenti: «quatriduanus est... iam foetet». Ed ecco ricomparire nei corni il motivo della risurrezione. L'orchestra poscia descrive lo sforzo di coloro che sollevano la pesante lapide tombale; su disegni melodici degli oboi, dei violini e dei violoncelli Gesù alza al Padre un'umile preghiera, quindi chiama a gran voce: «Lazare, veni foras». Un fremito d'archi sale dal basso all'acuto, un vibrante largo arpeggio delle trombe annunzia il miracolo, tutta l'orchestra prorompe in un canto di entusiasmo e di stupore. Lo Storico riprende il racconto della risurrezione, commentata da un agitato movimento dell'orchestra. I cori attaccano per due volte un altro motivo di corale, intercalato da una variante orchestrale, indi dispiegano il solenne corale gregoriano: «Benedicamus Domino», su animati contrappunti dell'orchestra, fino a che questa, in un «fortissimo» trionfale, chiude l'oratorio con una ripresa del tema della risurrezione.

Il Natale del Redentore è un oratorio in due parti per soli, cori e orchestra, la cui narrazione è tolta dai Capitoli I e II dell'Evangelo di S. Luca. Fu composto nel 1899.

parte 1ª. L'Annunciazione. - Lo storico narra come alla Vergine Maria, sposa di Giuseppe, si presentasse l'Angelo Gabriele annunziandoLe il concepimento di Gesù per opera dello Spirito Santo. Il coro esalta la grandezza del Signore.

parte 2ª. Il Natale. - Lo Storico ricorda il censimento ordinato da Cesare Augusto, e il viaggio di Giuseppe e Maria a Betlemme ove Gesù nacque. Riprende lo Storico a narrare come l'Angelo annunzio ai pastori la nascita del Salvatore, e come essi andarono a rendere omaggio al Figlio di Maria. Il coro intona inni di adorazione e di esultanza.

Senza preludio, il coro inizia religiosamente l'oratorio con la formula: «In nomine Jesu Christi, Amen». In un breve prologo lo Storico (baritono) e il Coro, alternati, annunziano che sarà narrata la storia evangelica della nascita di Gesù. Narra poi lo Storico la discesa dell'Angelo; e questi (tenore) fa dolcissimamente a Maria il mistico annunzio (il testo è quello delle prime frasi dell'Ave Maria), e il coro ripete con un grande afflato lirico: «Ave Maria». Tutto l'episodio è improntato a senso di religioso mistero, che divien gioia balzante alla notizia: «Spiritus Sanctus superveniet in te». Il ritmo gioioso continua sotto il commento del coro: «Et Verbum caro factum est»; quindi il coro prorompe in un esultante «Magnificat» esposto in alternanza con un gruppo di quattro solisti. La chiusa della 1ª Parte avviene su una ripresa del ritmo di gioia.

Un motivo pastorale dei corni e degli archi apre la 2ª Parte e chiude poi il seguente soave coro «Jucundare, filia Sion». Al racconto del viaggio a Betlemme di Giuseppe e Maria si intercalano altri brevi frammenti corali e movimenti fugati dell'orchestra, tutti intonati a elevato senso religioso. Ma all'annunzio del parto, un corno inglese, seguito da un clarinetto e da un corno, fa udire il motivo doloroso della «Passione», che forma il preludio della 3ª Parte dell'oratorio La Passione di Cristo, e che Gesù stesso canterà alle parole: «Eloi, Eloi, lamma sabacthani?». Un coro sottovoce invita a adorare «Christum natum», coro concluso da una ripresa del motivo del «Jucundare» da parte dell'oboe e del corno inglese.

A questo punto un interludio orchestrale descrive la «Notte tenebrosa»: il corno inglese e poi l'oboe espongono un motivo dolcemente malinconico; archi legni e ottoni vi sostituiscono un loro tema grave, ripreso dai legni su un misterioso pizzicato degli archi. Ed ecco un oboe e un flauto intrecciano un mesto dialogo pastorale. Sembra che tutta la natura si rattristi nel presentimento della Passione che attende il Neonato. All'invito dell'Angelo ai pastori affinchè cerchino il Salvatore e si rechino ad adorarlo, l'orchestra acquista movimenti più vivi a appassionati, e il coro angelico intona: «Gloria in altissimis Deo». Le viole e una tromba, poi i violini, fanno risentire il motivo: «Jucundare». Solenni si levano gli inni dell'Adorazione: «Jesu, Redemptor omnium», e del Ringraziamento: «Te Deum laudamus», il quale ultimo si svolge sul motivo gregoriano, variamente contrappuntato dall'orchestra.

L'oratorio si conclude con una ripresa corale del canto «Jucundare». I corni ripetono il disegno pastorale con cui si apriva la seconda parte, i violini e le arpe incielano un motivo ascendente che sfuma pianissimo, mentre il coro mormora, come un'eco di voci che scendano dal cielo: «Gloria» !

La Risurrezione di Cristo è un oratorio in due parti per soli, cori e orchestra, il cui testo è tratto da vari capitoli dei Vangeli. Fu composto nel 1898, lo stesso anno della Trasfigurazione e della Risurrezione di Lazzaro.

parte 1ª. Dalla morte al Sepolcro. - Lo Storico (tenore) annunzia la morte di Cristo e descrive il terremoto che seguì e la commozione dei presenti. Narra poi lo Storico la deposizione di Gesù dalla Croce, il Suo trasporto nel sepolcro e il pianto delle due Marie. I Farisei ricordano a Pilato come Cristo avesse profetata la propria risurrezione e gli chiedono di farne custodire il sepolcro, al che Pilato acconsente. Un coro di fedeli piange la morte del Pastore.

parte 2ª. La Risurrezione. - Lo Storico narra come Maria Maddalena trovasse aperto e vuoto il sepolcro di Cristo. Essa corre a dirlo a Simon Pietro e ritorna con lui al sepolcro; dall'alto un coro d'Angeli canta «Alleluja». Mentre Maria davanti al sepolcro piange, prima due Angeli, poi Gesù medesimo le chiedono il perché. Riconosciuto il Maestro, questi le ordina di annunciare ai fratelli la sua ascesa al Padre. Lo Storico narra infine come a sera Gesù si recasse a parlare ai discepoli. Il coro e Maria inneggiano alla risurrezione di Cristo.

È questo il capolavoro di D. Lorenzo Perosi, in cui ispirazione e fattura raggiungono un'uguale altezza. Il preludio alla 1ª Parte, col suo respiro melodico dolorosamente ansimante, i suoi accenti faticosi, esprime «Gli ultimi istanti dell'agonia di Cristo». Lo Storico (tenore) annunzia la morte di Gesù: tetri suoni vanno estinguendosi. E subito, con un urto violento, una successione di sussulti rapidi e un tremito solcato da sinistri suoni di corni e di trombe e da rapide e ripetute brevi scale discendenti degli archi, l'orchestra descrive il terremoto che seguì alla morte di Cristo. Cornette interne, poi tromboni, lontani, sembrano esprimere qualcosa di dolorosamente fatale, e terminano con lunghe note sincopate insistenti su un movimento misterioso dei bassi, con un senso di stupefazione e di orrore. Le donne presenti elevano a fior di labbra un mesto e dolce inno alla Croce. Il racconto della deposizione e del seppellimento di Gesù si svolge su una «fuga» lenta e mesta. Di una dolcezza infinita è il pianto delle due Marie. Il coro con cui i Farisei chiedono a Pilato di far custodire il sepolcro si svolge su un ritmo duro e deciso, ma allorché vengono apposti i sigilli alla tomba di Cristo, l'orchestra riaccenna al motivo del terremoto e le cornette e i tromboni interni ripetono i lunghi squilli sincopati fatali: «la natura - commenta l'Autore - prorompe nuovamente nel suo grido di dolore». Il coro dei fedeli al Sepolcro, alternato a frasi di un baritono solo, riflette ancora questo senso di dolore e di smarrimento.

Il preludio alla 2ª Parte descrive «L'alba del trionfo». Su un tremolo d'archi pianissimo, delle cornette lontane cantano il motivo dolce e solenne della risurrezione, un motivo pieno di un'alta forza di trascendenza. Il motivo è ripreso poi dalle trombe e infine dai tromboni. Succede un grande scroscio trionfale di tutta l'orchestra, e su ampie onde delle arpe, il cantico celeste «Alleluja»; preludio suggestivo e possente il quale, coi suoi echi, che sembrano venire dall'al di là, coi suoi squilli, i suoi cantici, ci preannunzia il miracolo dei miracoli. Lo Storico narra la scoperta della tomba vuota fatta da Maria Maddalena (soprano); l'orchestra descrive la sua corsa affannosa da Simon Pietro. Al suo stupore risponde ancora dall'interno il motivo della risurrezione e il gioioso grido «Alleluja» degli Angeli e dei Cherubini. La narrazione che segue è piena di agitazione e di turbamento, ad eccezione della dolce interrogazione degli Angeli a Maria: «Mulier, quid ploras?». All'apparire di Cristo, all'orchestra si sostituisce l'austera voce dell'organo, il quale propone un nuovo motivo, ripreso poi dall'orchestra. Gli archi ripetono le lunghe sincopi del «grido di dolore della natura», solcato dal suono dei tromboni interni che cantano il tema della risurrezione. Ed ecco che Cristo medesimo (baritono) domanda con dolcezza a Maria perché pianga. Con voce desolata Maria, che crede di parlare all'ortolano, gli chiede ov'abbia posto il corpo del Maestro. Ma Gesù la chiama con solennità d'accento; i tromboni ripetono il tema della risurrezione, Maria stupita esclama: «Rabboni!» (Maestro), e la gioia traboccante si esprime in un lungo vocalizzo cromatico, a cui risponde dall'alto l' «Alleluja» celeste; squillano le trombe, e tutta l'orchestra prorompe di nuovo in un grido trionfale. A questo punto Cristo avverte Maria: «Noli me tangere» e le ordina di annunziare ai fratelli ch'egli ascende al Padre. Il canto è di una nobiltà e di una forza sovrumana, coronato alla fine nuovamente dal lontano grido «Alleluja» e dal motivo (trombone) della risurrezione. Dopo la grandezza del canto precedente di Cristo, il suo discorso ai fedeli, «Pax vobis», benché sempre assai dolce e nobile, appare meno ispirato. Ma con l' «Alleluja» finale la vena del compositore si risolleva a un grande volo. Dopo l' «Alleluja» del Messia di Händel non era più stata scritta pagina di sì fervido giubilo, di così luminosa animazione e di tanto entusiasmo religioso. Il tema della risurrezione conquista ora anche il coro che lo ripete all'unisono con gli ottoni, chiudendo con potente senso di glorificazione l'oratorio.

Il Giudizio Universale è un poema sinfonico-vocale, per soli, cori e orchestra, composto nel 1904. Il testo «curato - dice un avvertimento - da Piero Misciatelli seguendo il pensiero del Maestro» è in latino, ad eccezione delle didascalie intese a spiegare agli uditori gli avvenimenti, in sostituzione della parte di «Storico» mancante, ed anche a suggerire immagini visive di quadri non realizzabili, che sono in italiano. E sono pure in italiano gli inni della Pace e quello della Giustizia, i cui versi furono scritti da Giulio Salvadori.

La vicenda si svolge attraverso ai seguenti episodi: In una specie di preludio due solisti (soprano e contralto) in unione al coro cantano il versetto del Dies irae «Recordare, Jesu pie». Segue un lungo episodio orchestrale che descrive «La risurrezione dei morti», diviso in due episodi minori: «La risurrezione dei giusti» e «La risurrezione dei malvagi», che si salda con l'episodio della «Corte celeste» e con quello de «La croce».

Dice la didascalia: «In alto sul monte degli Olivi, che domina la valle, appare la Croce recata trionfalmente dalla Corte celeste». E appare «il Redentore». Lo Spirito della Giustizia ripete «La Profezia» del giudizio universale; un Coro di Angeli intona (diviso in coro e 4 solisti) «Le beatitudini». Poscia segue l'episodio della «Benedizione» in cui Cristo chiama a sé gli eletti, l' «Inno di ringraziamento» dei Beati, e la «Processione dei Beati», durante la quale l'Angelo della Pace canta l' «Inno della Pace», unendosi a lui su la fine anche il Coro dei Beati. Ora Cristo si leva pronunciando «La Maledizione» dei malvagi. A questo episodio fanno seguito quello sinfonico-corale della «Discesa dei dannati», e l' «Inno della Giustizia» intonato dallo Spirito della Giustizia e dal Coro.

Musicalmente Il Giudizio Universale è una delle opere più significative del M.° Perosi, e quasi tutte le parti di esso sono segnalabili per particolari bellezze formali e di ispirazione. Il preludio inizia con estrema delicatezza, in un'atmosfera di tinte pallide e trasparenti in cui si snoda, sopra leggeri arpeggi, il canto umile del Recordare. Episodio splendente di luce, di colore e di vita è, a contrasto, quello della Risurrezione dei morti. Un murmure tranquillo e via via sempre più agitato si leva: le trombe squillano, distanziate in differenti piani, in diversi aggruppamenti, chiamando i giusti. Alla risurrezione dei malvagi si scatena un movimento violento, costruito con temi aspri, trilli e sibili diabolici, cui sovrasta nelle trombe il tema della maledizione. Rispondono poi gli squilli esultanti che evocano i beati in un fervore sempre più entusiastico che sfocia in un inno solenne all'apparire della Corte celeste. Poi, alla vista della croce, l'oboe e le viole fanno udire il tema piangente della passione (dal preludio alla 3ª Parte dell'oratorio La Passione di Cristo). Infine la comparsa del Redentore è sottolineata da un canto dei violini sereno e solenne insieme.

Calma e serena è La profezia cantata dallo Spirito della Giustizia (contralto); mosso ed esultante il coro delle «Beatitudini»; melodioso con dolcezza e insieme con maestà il canto col quale Cristo (tenore) chiama a sé i Beati, particolarmente patetico allorché ne proclama le virtù. L' «Inno del Ringraziamento» è intonato dal coro con solennità su energici ritmi dell'orchestra. Durante la Processione dei Beati l'Angelo della Pace (soprano) canta un inno di particolare dolcezza, che diventa più largamente espansivo alle parole del coro: «Esultino i redenti». La maledizione dei malvagi esplode tonante e veemente nelle espressioni vocali del Cristo, mentre la discesa dei dannati ha un ritmo come di cavalcata infernale, avvolgimenti melodici e dissonanze che sembrano spalancare vortici di fuoco in cui si perde il loro grido disperato. A questo episodio pauroso si contrappone l'Inno alla Giustizia, dapprima calmo e sereno, ma, dopo la ripresa vocale del motivo della risurrezione («L'eterno solo è»), più commosso, passando al coro che conclude con una grandiosa ed ampia linea sonora, mentre le trombe ripetono gli squilli trionfali della risurrezione dei giusti.

Il Transitus animae è un oratorio per mezzo soprano, coro e orchestra, composto nel 1907. Manca la parte dello Storico, essendovi rappresentati soltanto l'Anima di un agonizzante e l'Umanità pregante. Perciò si accosta di più alla forma di una Cantata di ampie proporzioni. Le preghiere latine per gli agonizzanti e per i defunti ne formano il testo.

Il momento che costituisce il soggetto dell'oratorio è il seguente: l'Anima, giunta al transito supremo, implora la misericordia divina, mentre l'umanità accompagna il trapasso cantando le preghiere per i moribondi e invocando l'intercessione della Vergine e dei Santi. L'Anima passa alla vita eterna e gli Angeli la conducono fra cantici a Dio.

Lo stile del Perosi in questo oratorio ha la consueta chiarezza italiana; la melodia fluisce spontanea e appassionata; l'orchestrazione è di una coloritura anche più fine e sensitiva del consueto; la concezione austera, nobilissima. Il dramma dell'Anima al trapasso è sentito ed espresso con intensa commozione. L'alterna vicenda delle implorazioni dell'Anima e delle preghiere del Coro, ora sommesse ora ardenti, danno tutto il senso tragico e tormentoso dell'agonia. Il recitativo dell'Anima è pieno di un'ansietà trepidante profondamente umana. Particolarmente felice per forza espressiva e per bellezza di melodia è il Miserere intonato dal coro. Il Libera me, Domine dell'Anima, contiene accenti di impetuosa drammaticità. La voce sembra dibattersi violentemente fra il terrore della condanna e la speranza nel Paradiso. Le ultime pagine, dalle soavissime litanie, solcate dalle grida insistentemente ripetute ora pro ea, al dolente e purissimo coro: Maria, Mater gratiae, l'episodio strumentale realistico del trapasso, fino al celestiale coro di chiusa: In Paradisum deducant te Angeli, portano tutte il segno della perfezione formale e di una eterea ispirazione.

Petrassi Goffredo (1904)

Coro dei morti: madrigale drammatico per voci d'uomini, tre pianoforti, ottoni, contrabassi e percussione, su testo di G. Leopardi. Il testo è quello del canto delle mummie nel dialogo leopardiano Federico Ruysch e le sue Mummie. - I tre piani scandiscono ritmi staccati, pesanti, quasi di passi fantastici. Dopo una nota lunga di corno e un accordo secco di piano, il coro, sottovoce, tetro, lento, inizia il suo canto. Di tanto in tanto si odono dissonanze e ritmi cupi di cassa o timpani. I ritmi si fanno via via tempestosi; poi una tromba annunzia un tema strambo che serve ad un fugato strumentale che presto si estingue in accenti spezzati. Tutto ciò è forse ben lontano dal darci la profondità di emozione poetica che sorge dai soli versi nudi del Recanatese. Nella ricerca dei motivi forzati e duri c'è del macabro, ma non c'è «l'al di là». C'è però il senso dell'impossibile pace anche nella morte. «Esser beato niega ai mortali e niega ai morti il fato». La visione macabra si dilegua, e il ritmo sordo si estingue.

Pick Mangiagalli Riccardo (1882-1949)

La Danse d'Olaf, tratta dai Lunaires, nei ritmi, negli spunti melodici e negli incontri armonici ha tutta la leggerezza aerea fiabesca del leggendario Re degli Elfi.

Il Preludio e Fuga op. 47 per orchestra (1897) è opera di classica struttura e di effetto brillante. Il Preludio è costruito su un movimento rapido e fluttuante degli archi, su cui un tema robusto di tromba e una frase melodiosa dei legni dominano, e alla fine si fondono in una chiusa sonora. - La Fuga ha per soggetto la scala di do maggiore, cui si innesta un contrassoggetto ricco di vita ritmica. Le figurazioni, passando attraverso ai vari gruppi strumentali acquistano in sonorità, e concludono in uno stretto impetuoso ed efficacissimo.

Pizzetti Ildebrando (1880)

I Tre canti (1° Affettuoso; 2° Quasi grave; 3° Appassionato) per violoncello e piano, furono scritti per la figlia che andava sposa, e alla quale volevano dire qualche parola di malinconica tenerezza paterna. Sono soliloqui lirici, meditazioni intime, a cui la naturalezza di fraseggio del violoncello conferisce il senso di una voce umana sotto l'imperio di una forte emozione. Il terzo specialmente conquista subito per il calore dell'ispirazione.

La Sonata in la per violino e piano fu composta nel 1919, ed è un'espressione delle varie disposizioni d'animo in cui il compositore si trovò durante la guerra 1915-18. - Il 1° tempo (Tempestoso) descrive l'accasciante conflitto di pensieri che determinò la guerra. In esso il piano ci dice il cozzo dei pensieri più torbidi e violenti, mentre il violino esprime emozioni doloranti ed è tutto gemiti e ansimare drammatico. - Il 2° tempo (Preghiera per gli innocenti) è un lamento per coloro i quali attraverso colpe non proprie debbono sopportare le immani sofferenze recate dalla guerra. Il tema, esposto largamente dal piano, è raccolto dal violino e sviluppato con accenti che oscillano tra l'implorazione e la disperazione. - Il 3° tempo (Vivo e fresco) è un'espressione di gioia per la pace raggiunta. Il motivo iniziale è gaio, popolaresco, festevole, con espressione di pace e di serenità. Alla gioia però contrastano pensieri dolorosi e drammatici, quasi uno sguardo retrospettivo al pauroso passato. Poi la gioia si risolleva e trionfa.

La Sonata in fa per violoncello e piano fu composta nel 1921. Il 1° tempo (Largo) è un po' tormentato. Il violoncello ha declamati rotti e brevi; il piano è dolorante e agitato. - Il 2° tempo (Molto concitato e angoscioso) raggiunge una forte drammaticità per le frasi acute e violente del violoncello. - Il 3° tempo (Stanco e triste) inizia con un monologo sconsolato del violoncello. Poi tra questo e il piano ha luogo un dialogo a frasi ora agitate ora desolate. Un'ampia melodia drammatica si ripete due volte e chiude la Sonata con angosciosa tristezza.

Trio in la per violino, violoncello e pianoforte. I larghi fraseggi melodici, dominati nel 1° tempo (Mosso arioso) dal tormento di una profonda ricerca interiore, si schiariscono ed espandono nel sereno idillio del Largo, per trionfare in una possente melodicità nell'ultimo tempo (Rapsodia di settembre) attraverso la freschezza dei canti settembrini gioiosi.

I Canti della Stagione alta, composti nel 1930 ed eseguiti la prima volta nel 1933, sono un Concerto per piano e orchestra. - Il 1° tempo (Mosso e fervente, ma largamente spaziato) inizia con un'ampia melodia affidata al pianoforte, seguita da altra dolce e affettuosa pure esposta dal piano. Queste due melodie, e altri elementi tematici derivati da esse offrono il materiale per un ricco sviluppo. La melodia prima, seguita da frammenti della seconda, ripresa alla fine in movimento un poca più largo che in principio chiude il tempo in un pianissimo sfumato. - Il 2° tempo (Adagio) inizia con un'appassionata frase del piano accompagnata dagli archi. Un tema breve presentato da fagotti e corni, al quale il piano aggiunge fini arabeschi sonori, da luogo a sviluppi che interessano l'intera orchestra. Poi il motivo iniziale è ripreso dai violini, accompagnati dal piano, dai violoncelli, contrabassi, corni e legni. Infine il piano riprende egli stesso il motivo, e origina una cadenza che forma come un ponte di passaggio al Rondò finale. - Il motivo di questo è vivace e fresco. Attaccato dall'orchestra, viene proseguito dal piano. Al Rondò si intercala un espansivo e intimo canto Lento; quindi il movimento vivace riprende e porta a una cadenza del piano che si collega (Largo) a una più ampia frase melodica (sovrapposta e intrecciata a incisi del 1° tempo) per concludere in una luminosa sfera di serena letizia.

Il Concerto dell'Estate (1927-28) è un poema per orchestra ispirato alla vita campestre estiva. Esso consta di tre tempi: 1° tempo: Il Mattutino (Vivace e arioso) è costruito su due ampie melodie, la prima luminosa e lieta quasi scampanìo festoso, la seconda languida e pensosa: oboe, fagotto e flauto ne accentuano il senso agreste ed intimamente poetico. - Il 2° tempo è un Notturno suggestivamente evocatore per il brusìo di mormoni, di sciacquii, di fruscii, vagamente accennati sotto il canto dolce e malinconico dei violini in sordina e dei legni, specie del flauto. Un remoto squillo di corno genera un'impressione di spazialità enorme e quasi incantesimale. - 3° tempo: Gagliarda. Gli archi la incidono con vigore; passa ai legni, poi a tutta l'orchestra in piena sonorità; una sonorità ardente, che si direbbe affocata dal sole d'agosto. A poco a poco decresce e cede il posto a un motivo popolaresco (corni e fagotti accompagnati dai timpani). Il clarinetto quindi espone un tema più malinconico. Il motivo popolaresco insiste, finché, afferrando le trombe il motivo della danza, il poema si chiude con una dolce sonorità crepuscolare sul motivo del Notturno che poeticamente sfuma e si perde.

Dalle musiche scritte per La Pisanella di D'Annunzio, il Pizzetti trasse alcuni episodi che costituirono una Suite. Essa incomincia con un Preludio intessuto su due temi, uno dolce e misterioso, il secondo appassionato e malinconico («Sire Huguet... semble suivre son songe et écouter son chagrin»). - Il 2° tempo della Suite è intitolato: Sul molo di Famagosta. In esso la musica descrive una vivace scena marinaresca: bandiere al vento; una via che conduce al porto impregnato d'aromi, affollato di navigatori; in mezzo a un grande ammasso di ricchezze e mercanzie, la rosa del bottino: «une jeune femme, presque nue, merveilleusement belle, liée par des cordes de sparte». Al ritmo vivace della descrizione si intercala il canto mesto e appassionato della Pisanella. - 3° tempo: Nel castello della Regina spietata: la Regina medita la morte della Pisanella; un tema cupo incombe fatale e tortuoso (la Regina), alternato da altro fluttuante e misterioso (le rose). - 4° tempo: La danza dello Sparviero: la Pisanella rievoca nella danza la novella del Boccaccio in cui Messer degli Alberighi, consumato ogni suo avere per amore d'una donna che non lo riama, essendosi ella recata a casa di lui e non avendo egli da offrirle alcun cibo, uccide e le offre in pasto l'unico falcone rimastogli. Saputolo la donna, vinta da tanta costanza e da sì grande affetto, lo sposò e lo fece ricco. - Il tema delle viole, ampio e commosso si svolge nel ritmo di una sarabanda[54] passando poi agli altri archi, con espressioni mutevoli: languore, dolore, tenerezza, amore. - 4° tempo: La dama dell'Amore e della Morte profumata. La Pisanella si abbandona alla danza dell'Amore su un ritmo ondeggiante e molle. Le schiave della Regina la circondano di rose il cui profumo l'uccide. Il tema della Morte si ripercuote con inesorabile insistenza (tema delle rose del 3° episodio); altri motivi ancora vi si intrecciano. Da ultimo si leva il motivo della Pisanella, soave dapprima, con dolore e disperazione implorante alla fine.

Ne La Sacra Rappresentazione di Abramo e Isacco, Ildebrando Pizzetti ha musicato il testo quattrocentesco omonimo del fiorentino Feo Belcari, adattato da Onorato Castellino.

Le musiche composte per l'esecuzione della Rappresentazione del Belcari a Firenze nel 1917, furono accresciute come «oratorio scenico», come tale eseguito il 18 marzo 1926 al «Teatro di Torino». Più tardi l'Autore completò l'opera sottoponendo la musica anche ai recitativi parlati.

La Sacra Rappresentazione si compone dei seguenti episodi:

1°) L'Annunzio. - Un Angelo ricorda che Dio, volendo provare l'ubbidienza del patriarca Abramo, gli ingiunse di sacrificargli il figlio unigenito Isacco, e come questi, condotto al luogo del sacrificio, chiedesse al padre ove fosse l'animale da sacrificare, e Abramo gli rispondesse: «Iddio provvederà». Levatosi il velario un altro Angelo ripete ad Abramo l'ordine del sacrificio di Isacco.

2°) Il viaggio al monte del sacrificio. - Abramo s'avvia col figlio al monte.

3°) Il pianto di Sarra e dei famigliari. - Brano orchestrale che esprime la disperazione di Sara (Sarra la chiama l'antico testo del Belcari).

4°) Il sacrificio sul monte e il miracolo. - Mentre Abramo s'accinge al sacrificio del figlio, un coro celeste lo chiama, e un Angelo gli annunzia che Dio, pago della prova di obbedienza datagli, gli ordina di non uccidere Isacco.

5°) Il sacrificio. - Abramo sacrifica il montone inviatogli a questo scopo da Dio (breve brano orchestrale).

6°) Il ritorno dal monte. (Brano orchestrale descrittivo).

7°) Coro e danza finale. - Si ringrazia e si loda Dio. L'Angelo annuziatore avverte che Abramo fu compensato con benefici da Dio per la sua obbedienza.

La musica di questa Rappresentazione sacra, nella semplicità spontanea della costruzione vocale, e nella trasparenza del commento orchestrale, ha saputo cogliere la giusta nota di poesia religiosa e umana. Si adegua alla ingenua primitività del testo senza cadere in pose rettoriche: è di sapore remoto, se non proprio arcaizzante, senza voler tentare una vana rievocazione archeologica; pastorale senza essere manierata; con un senso di atmosfera primitiva senza cadere nel rozzo, anzi mantenendo una linea sempre di grande nobiltà.

Una spiritualità aerea e penetrante per castità e candore di invenzione melodica è nei canti dell'Angelo annunziatore. Questi canti, e la descrizione della mite serenità della notte e della quiete pastorale intorno alle case di Abramo, bastano già a creare l'ambientazione suggestiva del racconto sacro. Seguono poi, fra le pagine più indovinate, la descrizione del viaggio al monte del sacrificio, con quel ritmo cadenzato di passi sicuri e fidenti sotto il canto villereccio; l'espressione del desolato accoramento di Sarra; la dolcezza dei canti angelici dopo l'animato episodio del miracolo; il gioioso e fresco ritorno alle case, e infine la danza campestre fervida e la grandiosa chiusa corale che conclude con senso di elevazione religiosa la Rappresentazione.

Poulenc Francesco (1899)

Moderno, ma non distaccato dalla tradizione, anzi spesso come affascinato dal desiderio di rivivere lo stile del più puro settecento francese, dette nel balletto Aubade una delle prove più felici di tale sua capacità di fondere l'antico al moderno in una cornice di eleganza raffinata e sensitiva. Aubade, balletto-concerto per 18 istrumenti e pianoforte, svolge un delicato soggetto mitologico: un amore di Diana che la rende triste per le nuove emozioni che turbano in lei il sentimento della sua invitta castità. Fatta insofferente della caccia, un tempo suo passatempo prediletto, e della compagnia delle amiche, essa corre a celare in una foresta il proprio dolore e il proprio scorno. - Il balletto si compone di otto episodi. Fra i più significativi sono la Toccata iniziale e il Recitativo che descrivono l'alba e il risveglio delle compagne di Diana: pagine dai tratti drammatici per vigoria di ritmi. Vaporoso e settecentescamente incipriato il Presto dal titolo La toeletta di Diana; tutto poetica malinconia l'Andante che esprime il dolente tormento della Dea, e infine l'Allegro feroce e il Finale dove tutto sembra compenetrato di un senso di fatalità tragica negli accordi gravi e solenni, nelle melodie stupite, negli accenti disperati, nello scatenarsi rapido degli arpeggi che descrivono l'ultimo spasimo del cuore di Diana e la sua fuga nella foresta.

Prokofieff Sergio (1891-1954)

La Settima Sonata per pianoforte è composizione di derivazione strawinskiana. Il primo tempo (Allegro inquieto) e l'ultimo (Precipitato) sono sostenuti da una ritmica nervosamente robusta, in qualche momento barbaricamente marcata. Essa forma l'ossatura di brevi spunti tematici dai disegni di un elementare primitivismo, ribattuti con insistenza ostinata in un'atmosfera armonica e tonale di assoluta libertà. Il tempo centrale (Andante caloroso) offre con gli altri un contrasto sensibilissimo per la sua concezione da notturno romantico di una diffusa cantabilità, che si accende e si impenna in accenti lirici di un calore enfatico, per ripiegare in dolenti ripetuti gemiti e sospiri. E stata composta nel 1943.

La Suggestione diabolica, per pianoforte, esprime esattamente ciò che il titolo annuncia, attraverso a una ritmica e a un'armonizzazione davvero di efficacia suggestivamente infernali.

Il Quartetto n. 2 op. 92 in fa magg. fu composto nel 1942 mentre l'autore si trovava a Nalchik nel Caucaso, e dal folklore dell'ambiente caucasico il musicista prese i temi per questa sua opera, che per ciò riflette un carattere d'ispirazione evidentemente orientale e popolareggiante. - Il 1° tempo è costruito secondo il tipo classico della «forma-sonata». - Il 3° è un Adagio basato su un canto d'amore del Caucaso. - Il Finale è selvaggio, impetuoso, e sfrutta ritmi di danza popolari della regione di Nalchik.

Pierino e il lupo: fiaba musicale. È una composizione di forma originalissima che tiene le veci delle illustrazioni a colori di una favola; se non che la favola non è letta, ma narrata, e le illustrazioni intercalate alla narrazione sono musicali anziché figurative.

La fiaba è assai semplice e ingenua. Pierino, levatosi di buon mattino, esce dal cancello del giardino e s'avvicina a un albero presso uno stagno. Un'anitra lo segue e si tuffa nell'acqua, mentre dall'albero un uccellino cala a vederla. Ma si avvicina un gatto. L'uccellino, avvisato da Pierino, rivola sull'albero. Frattanto è comparso il nonno di Pierino che lo sgrida per essere uscito e lo riconduce in giardino. Ed ecco, appena richiuso il cancello, apparire sul limitare della foresta un grosso lupo. Il gatto si arrampica svelto sull'albero, e il lupo, dopo aver fatto dell'anitra un solo boccone, gli gira attorno. Pierino allora sale sul muro del giardino e fatto un nodo scorsoio ad una robusta corda, acchiappa il lupo per la coda. Sopravvengono dei cacciatori che sparano, ma Pierino li avverte che è inutile: il lupo è già preso; non c'è che da portarlo al Giardino zoologico. E il corteo si avvia, Pierino in testa. «Se ascoltate - dice il narratore - sentirete anche il qua qua dell'anitra, perché il lupo l'ha ingoiata intera, ed essa vive ancora nello stomaco del lupo».

La narrazione si interrompe di quando in quando per lasciare posto alle illustrazioni musicali, proprio come noi ci fermeremmo nel leggere per guardare le figure. Naturalmente le illustrazioni hanno un fondo descrittivo, ma ciò che le salva artisticamente è lo spirito umoristico che le anima, e il tono graziosamente infantile in cui sono tenute. Sono piccoli schizzi musicali nei quali l'ingenua e balda spensieratezza di Pierino, la gioiosità gorgheggiante dell'uccellino, la stupidità dell'anitra, l'insidiosa agilità del gatto, la gravità del nonno, la goffaggine malvagia del lupo, la spareria dei cacciatori, il pomposo corteo, tutto è presentato con scorrevole e leggero umorismo, in una dipintura orchestrale a pennellate vivide e rapide, senza pesantezza e con un gusto aristocratico.

Rabaud Enrico (1873-1949)

La Processione notturna è un poema sinfonico ispirato a un brano del Faust di Lenau. In una notte in cui il respiro della primavera comincia a farsi sentire con dolcezza, Faust erra, solo e triste, in una foresta. A un tratto il bosco s'illumina: passa la processione di S. Giovanni. Fra cantici religiosi sfilano fanciulli con torcie, fanciulle inghirlandate di fiori, e monaci. Il cuore del peccatore si commuove e rimpiange la fede perduta. Disperato egli scoppia in singhiozzi. - La composizione, logica e chiara negli sviluppi, è ricca di colorito strumentale.

Rachmaninoff Sergio (1873-1943)

Il noto Preludio in do diesis min. per pianoforte appartiene ai cinque Morceaux de fantaisie op. 3. La prima parte ha il ritmo e il disegno d'una lenta e drammatica processione funebre in cui par quasi di sentire l'eco di gravi campane. La parte centrale (Agitato) è tutta un ansimante pianto, ora nostalgicamente sconsolato, ora disperato. Poi il movimento funebre lento e triste riprende, s'allontana, si perde...

Il Preludio in sol magg. op. 32 per piano ha il carattere di un soavissimo «Notturno» e un'espressione infinitamente limpida, soffusa d'intima poesia contemplativa.

2° Concerto per piano e orchestra op. 18 in do min. (1901). - Il 1° tempo (Moderato) inizia con una serie di accordi su pedale, in crescendo, a cui fa seguito un motivo largo e drammatico degli archi, che il piano raccoglie con passione. Il secondo tema, enunciato dal piano, è più cantabile e patetico. Negli ampi sviluppi ai quali danno origine questi due temi il virtuosismo pianistico ha larga parte, pur lasciando libero sfogo a una schietta cantabilità romantica. Il secondo motivo acquista carattere più sentitamente patetico allorché lo intona un corno. Un nuovo ampio sviluppo conduce a una secca chiusa. - Il 2° tempo (Adagio sostenuto) è aperto da arpeggi del piano, i quali schiudono la via a una melodia tenera e nostalgica del clarinetto, ripresa poi dal pianoforte. Il motivo passa attraverso a diverse tonalità e a differenti timbri strumentali che lo presentano ogni volta con tinte poetiche sempre nuove; anche fra passi virtuosistici che originano una breve cadenza e portano a una ripresa della melodia, che il piano chiude dolcemente. - 3° tempo: Allegro scherzando: a una proposta vivace dell'orchestra il piano risponde con arpeggi, intonando quindi un tema scherzoso. A questo segue, enunciata prima dagli archi e ripresa poi dal piano, una larga sognante e calda melodia. I due motivi, lo scherzoso e il sognante, si alternano in una felice vicenda di contrasti, e alfine il secondo motivo viene ripreso un po' enfaticamente, e chiude il Concerto in un movimento rapido e vivacissimo.

Ravel Maurizio (1875-1937)

La Pavana per un'Infanta defunta è una pagina delicata, di una tristezza calma e soave, come si conviene a rievocare l'immagine della Principessina morta. Nella tristezza nulla di funebre, ma un senso vivo di tenerezza e di poesia spirituale.

L'Alborada del Gracioso (La mattinata del galante) è una fine e un po' caricaturale evocazione di un saluto mattiniero alla bella. Atmosfera comico-sentimentale e color locale ne formano il nucleo vitale.

Quartetto in fa magg.: vedi testo a pag. 264.

Concerto (in sol)[55] per piano e orchestra (1931). È opera discussa (specie il 2° tempo), e pure di frequente eseguita. Forse Ravel scrisse cose più belle e significative, non certo più sapienti. - Il 1° tempo (Allegramente) inizia con un colpo di frusta e un brusìo del piano seguito da scorribande. Poco dopo l'entrata sonora dell'orchestra, un ottavino espone un tema allegro ripreso da una tromba e accettato dagli archi. Il piano ora medita e sogna. Dopo breve ripresa del motivo sognante da parte dell'orchestra, il piano scatena nuovi ritmi gai e animati, disegni turbinosi. Il piano ricanta un nuovo sogno, poi prorompe in violenti arpeggi. Il canto passa nella voce di un corno, e ancora nel piano, seguito da trilli; indi orchestra e piano insieme entrano in un'estasi appassionata. Infine il piano si anima nuovamente e trascina con sé l'orchestra. - Nel 2° tempo (Adagio assai), su un accompagnamento da vecchio melodramma ottocentesco il piano canta una melodia dolce, quasi bachiana, lungamente da solo. Poscia i 1i violini alternano canti loro, e il piano si anima e sviluppa ricami, senza però abbandonare l'accompagnamento chitarresco. La melodia di ampio sviluppo e di contorni evanescenti si chiude dopo un breve accenno canoro del flauto su un fievole trillo del piano, con lievi accordi degli archi con sordina. - Il 3° tempo è un Presto in forma di Toccata. Un violento strappo, e il piano inizia un movimento agitatissimo; i corni gemono accordi acuti, i fagotti propongono nuovamente disegni agitati che sono ripresi dal piano e condotti a un crescendo colorito, tra guizzi, pizzicati, arpeggi travolgenti, veloci scale dell'orchestra e schiocchi di frusta, fino alla rapida chiusa su secchi e bruschi accordi del piano e dell'orchestra insieme.

Concerto per la mano sinistra, per pianoforte e orchestra. Gli ottoni annunciano un tema grave e mesto, ripreso dagli archi i quali conducono all'attacco del piano in un crescendo di eccitazione che si trasmette all'istrumento solista. Questo prosegue isolato in una foga d'improvvisazione estrosa e drammatica insieme. Anche l'orchestra ne è presa, ma il piano contrappone un motivo poeticamente meditativo, per passare poi ad un nuovo stato di eccitamento che sfocia in brevi ripetute scalette doppie discendenti, quasi irose. Ma subito il piano stesso attacca un nuovo motivo scherzoso e ruvido che l'orchestra commenta e prolunga con un sentimento gioviale e fresco di danza. Ma su un ritmo sordo improvvisamente il fagotto, poi altri istrumenti, ripetono una frase dolente cui si oppongono la perseverante concitazione e i festosi arabeschi del piano. Indi la gioia riprende, si fa più sfrenata, prorompe in grida entusiastiche.

La figurazione dolente ripassa al piano, originando un'altra oasi, dapprima raccolta ed estatica, poi via via sempre più fantasiosa e drammatica per chiudere in ripetuti energici scatti di tutta l'orchestra.

Bolero: vedi testo a pagg. 36 e 62.

La Rapsodia spagnola è una Suite per orchestra in cui temi melodici, ritmi caratteristici e coloriti orchestrali esercitano un potente fascino evocatore. - La 1ª parte è un Preludio alla notte, in cui quattro note in scala discendente, ripetute con insistenza, creano l'atmosfera di monotonia malinconica e calma del giorno morente. - Segue, senza intervallo, una Malagueña voluttuosa, attraversata dall'incanto notturno. - La 3ª parte è un'Habanera originale e pittoresca. - La 4ª parte descrive una festa abbagliante, di un dinamismo prodigioso.

La Suite Ma mère l'Oye, scritta dapprima per piano, fu poi istrumentata da Ravel e trasformata in balletto. - È divisa in cinque parti: La Pavana della Bella addormentata nel bosco. - Puccettino desolato (canto dell'oboe e poi del corno inglese) perché gli uccellini hanno mangiato le briciole di pane ch'egli aveva seminato dietro di sé nel bosco per non perdere il sentiero. - Laideronette, Imperatrice delle Pagode mentre prende il bagno (un primo tema esposto dall'ottavino; un secondo dall'oboe e ripreso dal flauto) ed ascolta una serenata orientale con tiorbe fatte di gusci di noci e viole fatte di gusci di mandorle: l'orchestrina stravagante e fiabesca è affidata all'unisono al fagotto, all'arpa e alla celeste. - I dialoghi della Bella e della Bestia: la pietà della Bella trasforma la Bestia in Principe Grazioso. La voce della Bella è affidata al clarinetto; quella della Bestia al contrafagotto. Un violino solo chiude il quadretto ripetendo la melodia del clarinetto. Questa parte è in tempo di Valzer. - Giardino incantato: poetica apoteosi dell'elemento favoloso. Incomincia con un tema grave e lento, ripreso e svolto dagli altri istrumenti, sempre variato di disegni e di tonalità.

I Valses nobles et sentimentales per pianoforte furono scritti nel 1911. «Il titolo - scrisse l'autore - indica abbastanza chiaramente la mia intenzione di comporre una catena di valzer sull'esempio di Schubert». I sette valzer, scritti - dice sempre Ravel - per «il piacere delizioso e sempre nuovo di una occupazione inutile», si seguono con caratteri differenti, in un'armonizzazione ricercata e sottile, quasi sempre un po' dura, con difficoltà d'esecuzione notevoli. Celebre è il pedale dell'ultimo valzer. Più tardi, col titolo di Adélaïde ou le langage des fleurs Ravel li orchestrò facendone un fortunato balletto.

Lo stesso tema Ravel riprese nel 1919 componendo il poema sinfonico per orchestra La Valse: successione di ritmi e spunti di valzer che turbinano come in un'atmosfera di sogno, esposti in una veste armonica e strumentale preziosa. La composizione non è scevra di una punta di nostalgia, e assurge a una vera apoteosi della caratteristica danza viennese.

Respighi Ottorino (1879-1936)

Antiche Danze ed Arie per liuto. Sono pagine vivaci, aggraziate e pittoresche di liutisti dei secoli XVI e XVII, trascritte per orchestra con gusto arcaico dell'armonizzazione, e ricerca dei sapori strumentali atti a rievocare i timbri degli strumenti medievali. Tutto ciò senza voler fare di proposito una impossibile e pedante ricostruzione archeologica, anzi senza rinunziare alla nostra sensibilità e ai mezzi orchestrali moderni, riuscendo ad una fusione dell'antico e del nuovo signorile, interessante, equilibrata, spesso originale, e sempre persona'issima. - La 1ª Suite comprende: Il balletto detto «Il Conte Orlando» di Simone Molinaro (1599); una Villanella di ignoto del sec. XVI, al centro della quale si innesta un'altra pagina pure di ignoto dello stesso secolo. Seguono la Gagliarda di Vincenzo Galilei (1533-1591) a cui si inserisce un altro motivo di danza quasi pastorale; un'Italiana e una Siciliana di ignoti del sec. XVI, e infine la vigorosa Passacaglia di Lodovico Roncalli (1692). - La 2ª Suite comprende: il balletto Laura Soave di Fabrizio Carosio (1531) che include una Gagliarda, un Saltarello e un Canario (danza originale delle isole Canarie o della Spagna, simile a una giga in movimento moderato); una Danza rustica di Giov. Battista Bésard (1617), le suggestive Campanae Parisienses d'ignoto (1600), un'Aria di Mersenne Marin (1636), e infine una Bergamasca (danza popolare antichissima della Provincia di Bergamo, in tempo binario e di movimento vivace) di Bernardo Giannoncelli (1650). - Nella 3ª Suite sono raccolte: Un'Aria d'ignoto italiano; un'Aria di corte di Giovan Battista Bésard; una Siciliana e una Passacaglia. La trascrizione di questa 3ª Suite è per archi soli.

Nel poemetto per orchestra Gli uccelli il sentimento della natura, che il Musicista possedeva come poesia-colore, si sposa a un leggero spirito umoristico e al forte amore per le musiche antiche. Rivivono infatti in queste pagine i temi musicali di composizioni del passato, ispirate al canto degli uccelli, rielaborate orchestralmente con gusto signorile. Esse sono: La Colomba di Jacques de Gallot (sec. XVII), La Gallina di Filippo Rameau (1683-1764), L'Usignolo di un anonimo del '600, e il Cucù di Bernardo Pasquini (1637-1710); il tutto inquadrato entro un gagliardo Preludio dello stesso Pasquini.

Nel poema sinfonico Fontane di Roma (1916) la 1ª parte ci porta innanzi alla Fontana di Valle Giulia nell'alba rosea. Fra le sfumature lievi degli archi circola un tema dolce affidato ai legni; mandre di pecore passano e dileguano nella fresca bruma mattutina. - La 3ª parte evoca la Fontana del Tritone al mattino. Sui trilli fortissimi di tutta l'orchestra prorompe improvviso e insistente lo squillare vibrato dei corni. Allo zampillare violento dell'acqua, all'acuto richiamo sonoro, frotte di naiadi e di tritoni accorrono, inseguendosi e sfrenando una danza vivace fra risa e spruzzi d'acqua. - Ed ecco, all'inizio della 3ª parte, un tema grave e solenne dei fagotti ed oboi, poscia dei corni e degli altri istrumenti d'ottone, su un continuo fluire degli archi, rappresentarci alla fantasia l'imponente Fontana di Trevi al meriggio. Sull'echeggiare delle fanfare trionfali, un corteo di deità marine sembra sfilare innanzi al carro di Nettuno. Le sonorità piene e robuste dell'orchestra danno al corteo una grandiosità luminosa, mentre le campane del mezzogiorno dominano dall'alto la scena. Il corteo procede e s'allontana, le campane osannano velate da lontano. - È il tramonto: la Fontana di Villa Medici spande il suo blando chioccolìo attraverso il suono di arpe, celeste e campanelli. Un tema nostalgico, triste, del corno inglese sembra piangere il giorno morente. Stormire lieve di fronde, qualche cinguettìo d'uccelletti fra i rami; ancora lenti, mesti rintocchi di campana, poi scende con la sera il silenzio e la pace.

Vedi anche testo, a pagg. 236-237.

Il Poema sinfonico Pini di Roma (1924) si ispira ai seguenti quattro momenti: «1° I Pini di Villa Borghese: Giuocano i bimbi nella pineta della Villa a giro tondo, fingono marce soldatesche e battaglie, s'inebriano di strilli come rondini a sera, e sciamano via al ripetuto allarme d'una tromba d'automobile. Improvvisamente la scena si tramuta... - 2° Pini presso una catacomba...: sale dal profondo una salmodia accorata, si diffonde, solenne come un inno e dilegua misteriosa. - 3° I Pini del Gianicolo. Trascorre nell'aria un fremito: nel plenilunio si profilano i pini del Gianicolo. Un usignolo canta. - 4° I Pini della Via Appia. Alba nebbiosa sulla via Appia. La campagna tragica è vigilata dai pini solitari. Indistinto, incessante, il ritmo d'un passo innumerevole. Alla fantasia del poeta appare una visione di antiche glorie: squillano le buccine e un esercito consolare irrompe, nel nuovo sole, verso la Via Sacra, per ascendere al trionfo del Campidoglio».

Queste, con qualche maggior precisazione, le didascalie poste dallo stesso Maestro su le pagine della partitura.

Vedi anche testo, a pag. 237.

Il Trittico Botticelliano (1928) è un poema sinfonico che si ispira a tre quadri di Sandro Botticelli. Il 1° episodio fu suggerito dalla Primavera. Aleggia nell'orchestra un'atmosfera lirica quattro-cinquecentesca in cui le figure botticelliane sembrano muoversi negli atteggiamenti suggeriti dal quadro famoso. - Nel 3° episodio il musicista ci presenta un'antica cantilena popolare natelizia intesa a rievocare il viaggio dei Tre Re Magi che la luce blanda di una cometa guida al Presepe. - Il 3° episodio commenta la Nascita di Venere: un tema cantabile sorge e passa dai violoncelli agli altri istrumenti fra un ondeggiare d'acque e un sospirare di zeffiri odorosi, attraverso modi e scale musicali della Grecia antica, in uno svariare di colori orchestrali caldi e sensuali.

Rimski-Korsakow Nicola (1844-1908)

La Suite Shéhérazade (1888) per orchestra è costituita da quattro episodi riguardanti ciascuno un avvenimento della nota leggenda. In testa alla partitura l'autore ha scritto questo chiarimento: «Il Sultano Schariar, convinto della falsità e dell'infedeltà delle donne, aveva giurato di mandare a morte ciascuna delle sue mogli dopo la prima notte. Ma la Sultana Shéhérazade riuscì ad aver salva la vita raccontandogli per la durata di mille e una notte le sue fantasiose novelle. Spinto dalla curiosità di sentirne sempre delle nuove, il Sultano rimandava da un giorno all'altro il supplizio, e alla fine rinunziò al sanguinoso proposito. Molte cose meravigliose furono narrate a Schariar da Shéhérazade. I versi dei poeti e le canzoni del popolo glie ne fornivano gli argomenti, ed essa intrecciava l'uno all'altro i racconti di mille storie avventurose». - I quattro episodi si svolgono sui seguenti argomenti; «1°. Il mare e la nave di Sindbad. - 2°. Il racconto del principe Kalender. - 3°. Il giovane principe e la giovane principessa. - 4°. Una festa a Bagdad: il mare; la nave s'infrange contro una roccia sormontata da un guerriero di bronzo. - Conclusione». Però Rimski-Korsakow nella sua «Autobiografia» consiglia di non prendere questo programma troppo alla lettera, avvertendo che gli argomenti della fiaba non sono che spunti per la costruzione di un quadro sinfonico di libera elaborazione tematica.

Ogni episodio contiene una cadenza, che è come una specie di ritornello fiabesco affidato per lo più al violino. La ricchezza fantastica dell'invenzione melodica è sorretta da un pittorico senso strumentale e da un fastoso sinfonismo che aggiunge colore a colore secondo un gusto tipicamente orientale e leggendario.

Rossini Gioacchino (1792-1868)

Le sinfonie delle opere di Rossini sono costruite quasi tutte secondo il seguente schema: 1°. Un Andante introduttivo, il quale rimane quasi sempre sospeso su un accordo di dominante. 2°. Segue un Allegro che consta di due temi il primo brillante, il secondo in generale più cantabile, ma sempre di carattere gaio, il quale mette capo al crescendo, costituito dalla ripetizione di un tema per tre volte consecutive con sonorità gradatamente crescente fino al fortissimo. 3°. Un breve episodio riconduce al Da Capo dell'Allegro che sfocia in una stretta conclusiva in movimento Più mosso.

Le più celebrate sinfonie rossiniane seguono questo schema.

Sinfonia del Barbiere di Siviglia: l'Andante presenta accordi maestosi, disegni misteriosi e un cantabile sereno e fresco. Il primo tema dell'Allegro è brioso e malinconico insieme; più patetico il secondo, intonato dal corno, ma seguito da commenti burleschi dei violini e dal clamoroso crescendo.

La sinfonia de La gazza ladra incomincia con due rulli di tamburo cui segue un motivo marziale e maestoso. L'Allegro ha due motivi spigliati e teneri insieme, di cui il primo più gaio.

Nella sinfonia de L'Italiana in Algeri, dopo l'Andante misterioso e delicato, l'Allegro presenta due motivi entrambi assai brillanti, con tratti strumentali decisamente burleschi.

La sinfonia della Cenerentola ha un'introduzione maestosa e patetica cui segue uno degli Allegri più mattacchioni di Rossini, in cui gli strumenti sembrano lanciati in un gioco burlesco a rincorrersi, a parodiarsi, a far finta di piangere per sganciare poi la più turlupinatoria risata.

La sinfonia della Semiramide comincia subito con un movimento allegro: un mormorìo basso con accenni tematici sospesi, poi sviluppati in un crescendo interrotto da tre accordi maestosi. Segue un Andantino in cui un canto patetico è affidato ai corni. Dopo un breve episodio drammatico, il motivo è ripetuto contrappuntato dai pizzicati degli archi. Una ripresa del movimento iniziale conduce all'Allegro che presenta due motivi, il primo a note ribattute sottovoce, burlesco e misterioso; il secondo più festoso e caprioleggiante.

La sinfonia del Viaggio a Reims ha un'introduzione patetica affidata alle voci dell'oboe, del corno, del fagotto e del flauto. A un tratto scatta improvvisamente, affidato ai violini, il tema dell'Allegro, elegante e civettuolo.

Di tipo nettamente differente sono le seguenti altre sinfonie.

Quella del Signor Bruschino, che manca dell'Andante introduttivo, presenta un abbozzo di crescendo non sviluppato, e alterna di tanto in tanto burlescamente ai motivi bizzarri dei colpetti battuti dagli archi dei violini sui paralumi dei leggii.

La sinfonia dell'Assedio di Corinto incomincia con un Allegro vivace ad accordi energici cui fa seguito la Marcia greca lugubre tratta da un antico canto ebraico. L'Allegro successivo alterna e sviluppa vari motivi di carattere ora brillante ora drammatico, con episodi animati dai contrappunti e dalle modificazioni tematiche. Manca il consueto crescendo.

Di più ampie proporzioni, e di un tipo ancora differente (in quattro tempi legati l'uno all'altro) è la sinfonia del Guglielmo Tell, di cui s'è già parlato (vedi testo a pag. 233).

Ciò che costituisce il maggior interesse artistico nelle sinfonie di Rossini è l'enorme vitalità ritmica dei motivi, la varietà dell'orchestrazione e l'uso spesso burlesco e parodistico ch'egli fa dei temi e dei timbri strumentali.

Nel comporre lo Stabat Mater (1842) Rossini non si preoccupò di ricercare uno stile che, allontanandosi da quello operistico, fosse più consono al tragico dolore della Madre di Cristo ai piedi della croce su la quale era il Figlio ucciso. Malgrado ciò il sentimento religioso che animava l'autore ha più volte recato all'ispirazione un soffio che eleva la musica nell'atmosfera dell'arte sacra.

La composizione è scritta per due soprani, tenore, basso, coro, e orchestra. Le forme operistiche di certi versetti sono confermate dalle indicazioni di natura melodrammatica, segnate da Rossini, di «aria», «duetto», «quartetto», «cavatina». Pezzi come il Cujus animam (n. 2) dal ritmo slanciato e marziale; il Quis est homo (n. 3) dall'affettuosa melodia, alla quale però non si addicono i vari gorgheggi e l'operistica trillante cadenza della chiusa; il cantabile Pro peccatis (n. 4), in cui le tragiche parole

«Vidit suum dulcem natum
morientem desolatum
dum emisit spiritum»,

passano senza rilievo su la stessa melodia del «Pro peccatis», e, peggio, nella chiusa, l' «emisit spiritum» che si adagia su una cadenza assolutamente teatrale, sanno troppo di melodramma. Il più sconveniente è forse il Sancta Mater (n. 6), per la gaiezza assolutamente profana della melodia. Se non si bada alle parole del testo, tutti questi versetti possono costituire delle bellissime musiche da camera.

Ma nelle altre parti la suggestione del testo ha condotto il musicista ad un maggior rispetto delle parole sacre e del loro significato drammatico e religioso. Sono nate allora delle stupende pagine, come l'Introduzione (n. 1) per 4 voci e coro, improntata a severa tristezza; l'Eja Mater (n. 5) per coro e recitativo di basso, senza accompagnamento, grave, e solo alla frase «in amando Christum Deum», mollemente soave; il Fac ut portem Christi mortem (n. 7) dalla melodia di un abbandono fidente ed anche energicamente decisa; l'Inflammatus (n. 8), nobile nel canto e drammaticamente fatale nell'intervento del coro che insiste su una sola nota, sostenuto dagli squilli da «Dies irae» accennati già nell'introduzione. La pagina più sentita è il Quando corpus (n. 9) per 4 voci senza accompagnamento. Nel silenzio tragico dell'orchestra le voci scandiscono un motivo lento e funereo in progressioni discendenti, che ha uno scatto luminoso e quasi bellicamente vittorioso solo all'accenno al «Paradisi gloria». L'Amen finale (n. 10) è una fuga a 4 parti e a due soggetti, di effetto vigoroso potente, anche se di fattura alquanto scolastica. Il secondo soggetto è, con intenzionale rievocazione, il motivo dello Stabat Mater. Dopo l'ampio sapiente sviluppo, a un tratto, dopo una breve sosta, il lungo sospiro dei violoncelli e dei fagotti con cui lo Stabat si apriva riappare per un attimo, quasi a ricordarci la prima dolorosa visione; indi la fuga riprende e corre rapida alla sua robusta conclusione sul motivo dello Stabat Mater.

Nella Piccola Messa solenne (1863) per 4 voci, soli, cori e accompagnamento di piano e harmonium (più tardi orchestrata), Rossini ha messo un po' più da parte il gusto melodrammatico per una maggiore austerità stilistica. Non rinunzia per questo alla cantabilità melodica, ma la vena è controllata, e il disaccordo col testo è quasi del tutto scomparso. Si tratta però sempre di una interpretazione più drammatica che sacra. Le forme sono consuete, ma nei ritmi vivi, nell'armonizzazione mobile e raffinata e nella spontaneità dell'ispirazione melodica sta la maggiore originalità di quest'opera. Nel Kyrie la preghiera sale umile e dolce su una linea delicata di modulazioni, originando nel Christe un episodio severo a imitazioni. Il Gloria si annunzia con robusta energia, ripiegandosi in accenti devoti su un oscillare tranquillo di accordi ali' «Et in terra pax». Il Gratias agimus si svolge su una melodia serena presentata con le tipiche successioni di voci che costituiscono il «falso cànone». Di intonazione più profana (così da ricordare il Cujus animam dello Stabat) e il Domine Deus per il suo ritmo quasi marziale. Anche il Qui tollis, che si collega senza interruzione al Domine Deus, è di stile operistico, per quanto la melodia sia nobilmente concepita. Il Quoniam tu solus ha pure qualche andamento operistico, spirando tuttavia un senso di severa fede, e sviluppandosi in un disegno solenne che sembra ispirarsi alla maestà degli attributi divini di «altissimus» e «omnipotens». All'inizio e alla chiusa del Cum Sancto Spiritu Rossini riprende l'introduzione del Gloria, per svolgere al centro una vigorosa «fuga».

Il movimento del Credo è segnato dal Maestro coll'indicazione «Allegro cristiano», che non sapremmo se considerare come una trovata sottilmente intenzionale o come una facezia di cattivo gusto. Comunque il pezzo, con le frequenti ripetizioni della parola «credo», ha il carattere di una energica affermazione della fede. Il Crucifixus ha forse soverchia dolcezza di melodia e la tragedia divina vi è assente; ma al Resurrexit un'ondata di gioia gloriosa sale; indi riprende il motivo del Credo fino alle parole «Et vitam venturi saeculi» espresse da un impetuoso movimento di «fuga». Un'ultima affermazione «Credo !» chiude su lo slancio di una scala che sembra avventarsi alle porte del Cielo.

A questo punto un preludio fugato meditativo e delicato si svolge durante l'Offertorio. Il Sanctus, per voci sole, alterna entusiastiche effusioni alla dolcezza della preghiera, che su le parole «Benedictus qui venit» si diffonde su un blando ritmo cullante come di barcarola. L'O salutaris hostia è una melodia calda e quasi sensuale, fatta appena ansiosa ove il testo dice «Bella premunt hostilia»; ma l'Agnus Dei, che è forse la pagina più ispirata dell'intera Messa, è di una elevatezza e di una purità veramente religiosa, specie dove il coro, sottovoce, implora: «Dona nobis pacem» con accenti di una toccante e mistica umiltà. Un solo neo in questa pagina: la chiusa del coro su una cadenza troppo teatralmente stentorea dopo tanta devozione.

Roussel Alberto (1869-1937)

Dal balletto Il festino del Ragno sono stati tratti frammenti sinfonici che costituiscono una suite. Il 1° è un Preludio che descrive un giardino in cui il ragno in un pomeriggio assolato prepara la sua tela. - 2° L'entrata delle formiche: silenziose, in ordine militaresco esse trasportano un petalo di rosa. - 3° L'entrata della farfalla: essa danza presso la ragnatela, vi si impiglia, agonizza e muore dolorosamente fra le mandibole del feroce cacciatore. - 4° Dama e funerali dell'Effemera. Il sole tramonta e il giardino s'addormenta nella pace notturna.

Saint-Saëns Camillo (1835-1921)

Danza macabra, op. 40: vedi testo a pag. 230.

L'arcolaio d'Omphale, op. 31: poema sinfonico. Ercole è caduto prigioniero di Omphale, regina della Lydia. Un arpeggio alterno flauto-violini, seguito dall'orchestra, esprime il girare dell'arcolaio. I bassi frattanto espongono con forza crescente una melodia ispirata al tormento dell'eroe che vorrebbe liberarsi dalle mani della scaltra seduttrice. Mutata di ritmo la frase medesima ci narra poscia il deluso amore di Omphale.

Il Carnevale degli animali è una grande fantasia satirico-umoristica. Consta dei seguenti quadretti: Introduzione e marcia del leone: per due pianoforti e archi. - Galline e Galli: gli elementi caricaturali descrittivi sono affidati al clarinetto, al piano, ai violini e alle viole. - Emioni: si tratta di animali rapidi, la cui velocità è raffigurata da vertiginose scorribande dei due pianoforti in movimento Presto furioso. - Testuggini: vi sono richiamati due motivi dell'operetta Orfeo all'Inferno di Offenbach, la cui esecuzione è affidata al piano e agli archi. - L'Elefante è una parodia della «Danza delle Silfidi» della Dannazione di Faust di Berlioz e del Sogno d'una notte d'estate di Mendelssohn, cantati dal contrabasso con accompagnamento del piano. - I Canguri: i due pianoforti hanno ritmi saltellanti. - Acquario: impressione di liquida trasparenza (flauto, armonio, archi) e di gorgoglìo d'acque (pianoforti). - Personaggi a lunghe orecchie: due violini si rimandano ragli acuti. - Il cucù nel fondo del bosco: su armonie svariate il clarinetto canta il cucù. Senso di poesia. - Uccelliera: su l'accompagnamento e il brusìo degli archi e del piano il flauto gorgheggia. - Pianisti: animali... umani. Su questa parte l'autore ha scritto: «Gli esecutori dovranno imitare il virtuosismo di un pianista e la sua goffaggine». - Fossili: autocaricatura; lo xilofono fa la parodia della Danza Macabra dello stesso Saint-Saëns, cui fa seguito (clarinetto, piano, archi) l'esecuzione di vecchie arie dell'Ottocento, compresa la cavatina di Resina nel Barbiere di Rossini. - Il Cigno: «solo» di violoncello, accompagnato da due pianoforti. Il canto del violoncello è nobile e patetico, ed è una delle pagine più note di Saint-Saëns. - Finale. Gli animali (pianisti compresi) dianzi caricaturati sfilano fondendo in una sonorità clamorosa le loro caratteristiche musicali.

Sinfonia n. 3 in do min. op. 78 per organo e orchestra. Un breve preludio Adagio di espressione lamentosa si innesta al 1° tempo (Allegro moderato) il cui tema, esposto dai violini, deriva dal canto liturgico del Dies irae. Un secondo tema, di carattere più sereno, si fonde poi col primo. - Una modificazione del primo tema conduce al 2° tempo (Adagio) dal motivo sereno, pensoso. L'entrata dell'organo su vasti accordi è di grande effetto. Il motivo si sviluppa su un prezioso tessuto d'armonie conservando sempre un profondo carattere contemplativo. - Lo Scherzo è annunciato da un primo tema vigoroso col quale contrasta il secondo, dolce ed espressivo. - Esso si collega direttamente con l'Allegro finale. All'inizio di questo gli ottoni espongono un corale. Vari motivi appaiono, nello sviluppo del tempo, in lotta fra loro. Per due volte l'onda sinfonica è attraversata da un dolce motivo pastorale. Un possente accordo dell'organo sembra annunziare una vittoria dello spirito su qualche elemento primitivo tormentoso. Un serrato movimento a imitazione ci riporta verso nuovi episodi drammatici. Ai disegni e alle armonie dell'orchestra si aggiungono vasti accordi e scintillanti arpeggi e scale di un pianoforte a 4 mani; e la Sinfonia chiude in una sonorità maestosa. - Per tutta la Sinfonia il tema iniziale del 1° tempo circola, variamente trasformato, donando un nucleo unitario all'intera composizione.

Scarlatti Domenico (1685-1757)

La maggior parte delle sue Sonate (oltre cinquecento!) per clavicembalo sono generalmente in un sol tempo, bipartito, e constano di un tema vivace e scorrevole, ora più estroso (Capriccio), ora più blando (Pastorale), che accoppia alla dinamica del rapido ritmo la gioiosità dell'espressione e la vaghezza delle armonie, talora anche dissonantistiche con gusto. L'effervescenza spigliata e brillante dei tempi, il giucco agile e snello dei loro sviluppi, le figurazioni varie e mutevoli, la spontaneità dell'ispirazione, sono impronte caratteristiche del suo genio. L'impressione è quella di uno scintillìo e di una fresca grazia sorprendenti.

Schubert Francesco (1797-1828)

I Momenti musicali sono brevi poemetti, vaghe impressioni piene di sogno; profondamente lirici e vaporosi insieme nell'espressione melodica limpidissima e nella forma di un'eleganza impareggiabile.

Il Trio in si bem. magg. op. 99 per violino, violoncello e pianoforte (1826) è il più bello dei due scritti dal Maestro, e certamente uno dei più stupendi fra tutte le composizioni del genere. Nel 1° tempo (Allegro moderato) e nel Rondò finale (Allegro vivace) vi è una freschezza di espressione viva che ci rievoca il fascino ingenuo della Natura nelle sue manifestazioni sorridenti e giovanili. - Lo Scherzo arguto e brioso è una prova di sapienza e di gusto elettissimo del compositore. - Ma è nell'Andante un poco mosso che Schubert raggiunge la maggiore perfezione, sia per la purezza della linea sia per la signorilità dello stile; cosicché in più di un momento il suo genio sembra elevarsi all'altezza delle profonde ispirazioni di Beethoven. In questo tempo Schubert sale una delle più sublimi vette dell'Arte, trasportando l'ascoltatore in una regione di sogno e di visioni immortali.

Trio in mi bem. Magg. op. 100 violino, violoncello e pianoforte (1827). 1° tempo, Allegro: al tema energico iniziale seguono sviluppi e nuovi disegni ora patetici ora brillanti, ricchi di una fervida vita ritmica e melodica. - 2° tempo, Andante con moto: il motivo quasi di canzone proposto dal violoncello è ripreso a ottave dal piano su un accompagnamento ritmicamente ben scandito prima dal piano poi dal violino e dal violoncello insieme. Esso ci porta in un'atmosfera di dolce serenità, successivamente drammatizzata dalla contrapposizione di alcuni frammenti del tema stesso. - 3° tempo. Scherzo: Allegro moderato: il tema gioioso è svolto a cànone tra piano e archi. Nel «trio» il carattere scherzoso è mantenuto dalla vitalità ritmica del motivo di esso, dalle proposte e risposte brillanti fra i tre istrumenti, e dal frequente gioco di note sforzate sul primo quarto delle battute. Il 4° tempo, Allegro moderato, si svolge nell'alternativa di due motivi spigliati, di cui il secondo, a note ribattute di sapore quasi rossiniano, dà origine negli sviluppi, nelle imitazioni tra piano e violoncello, e nei contrappunti a terzine del piano, a figurazioni scorrevoli e vive, di inimitabile gaiezza.

Il Quartetto in re min. op. postuma intitolato " La morte e la fanciulla " è del 1826. Il titolo proviene dall'avere l'autore usato nel 2° tempo come tema per variazioni il motivo de! suo noto lied «La Morte e la fanciulla». Esso ci presenta le caratteristiche più elevate dell'arte e del genio del grande musicista. Il 1° tempo (Allegro) ha un efficace andamento drammatico. - Il seguente Andante con moto è, costituito, come si è detto, da variazioni sul tema del lied «La Morte e la fanciulla», e precisamente della dolce nenia che la Morte canta alla fanciulla per affascinarla. Per spiegarci il senso di amoroso incanto che emana da questa melodia bisogna ricordare che «la Morte» (Tod) in tedesco è maschile, e che nella ballata che Schubert musicò la Morte e appunto rappresentata da un cavaliere misterioso e triste. - Vivacissimo è lo Scherzo (Allegro molto), il cui ritmo è stato ripreso da Wagner, nel tema della fucina dei Nibelunghi. - Il Quartetto si chiude con un dinamico e affascinante Presto il cui spunto ricorda quello del finale della Sonata a Kreutzer di Beethoven. - Dovunque una vaghezza stilistica, una sapienza costruttiva, un incanto melodico, una vigorìa e poesia d'accenti che profondamente scuotono.

L'Ottetto in fa magg. op. 166 fu composto nel 1824. In esso è sensibile l'influenza del Settimino di Beethoven, ma vi è pure altrettanto evidente l'aspirazione verso più vasti e profondi orizzonti sinfonici. Sapienza classica e ispirazione romantica, limpidezza ed equilibrio vanno di pari passo con l'elemento passionale. L'Ottetto consta di sei movimenti. Nel 1° giuoca un vivo brio; sospiroso e sognante il 2°; fortemente ritmato come una danza popolare ma di grande leggerezza lo Scherzo (3° tempo); aggraziati i successivi Andante e Minuetto, mentre nel Finale torna a risplendere, dopo una drammatica introduzione, la gioia più esuberante.0

La composizione della Sinfonia in si min. rimase interrotta per altri lavori e poi per la morte di Schubert avvenuta a soli trentun anni. Perciò essa è nota sotto il nome di Sinfonia incompiuta, ed è divenuta popolare attraverso a un film cinematografico (il quale però è biograficamente falso). Sono completi in ogni parte i primi due tempi, la mano del Maestro si fermò dopo la nona battuta del successivo Scherzo. - Il 1° tempo (Allegro moderato) dalle idee vigorose, larghe, drammatiche e, nella prima parte, funeree, è quello che più rammenta e spesso uguaglia in potenza emotiva Beethoven, pure conservando, dal punto di vista dell'ideazione fantastica, un'impronta originale (vedi anche a pag. 266). - Il 2° tempo (Andante con moto) è totalmente schubertiano, sia per la melodiosità romantica dell'ispirazione, sia per la soavità angelica dell'espressione lirica. Esso ci riporta alle più serene ed eteree creazioni di questo genio sovrano che sposò alla dottrina tedesca la limpidezza latina, alla maturità del pensiero il fresco candore della giovinezza.

Schumann Roberto (1810-1856)

Novelletta op. 21 n. 5 per piano: vedi testo a pagg. 243-244.

La Novelletta n. 8 in fa diesis min. op. 21 per piano, passando dalla tonalità indicata ad altre, con mutevolezza affascinante di ritmi e disegni melodici, termina in re maggiore. Si inizia con un movimento appassionato (Molto vivo), cui segue un primo trio balzante (Ancor più vivo). Riprende poi il primo movimento per attaccare un secondo trio, sonoro e gioioso, a ritmo di danza agreste, su la fine del quale si innesta un breve canto nostalgico di «voce come lontana». Dopo una breve parentesi «semplice e cantabile», di nuovo riprende il motivo del secondo «trio», che si ferma su quattro accordi gravi in movimento Adagio. - Che cosa narra la Novelletta? Vicende dello spirito commosso e sognante senza riferimento a nessun argomento concreto: vicende puramente musicali.

Warum?, per piano (vedi testo a pag. 38), fa parte delle Fantasiestücke op. 12 che comprende le impressioni poetiche: Des Abends, Aufschwung, Warum?, Grillen, In der Nacht, Fabel, Traumas Wirren, Ende vom Lied.

Träumerei, per piano. Espressione della più eterea poesia del sogno, in un'atmosfera di aspirazione verso qualcosa di inafferrabile e sovrumano in cui è una pace suprema. (Trascritta anche per violino e per violoncello). Fa parte della Kinderszenen op. 15.

Le Davidsbündlertänze (Danze dei compagni di Davide) op. 6, per piano, composte nel 1837, formano una suite di 18 pezzi caratteristici. I compagni di Davide erano i misteriosi redattori della Rivista fondata da Schumann per combattere il fariseismo artistico, e nella figura dell'audace giovinetto biblico che abbatte la forza bruta del gigante Golia si celava lo stesso Schumann. È noto com'egli sentisse in se uno sdoppiamento di personalità artistica, che era solito indicare in due individui immaginari, Eusebio, sognatore romantico, Florestano, appassionato e tutto azione. Le Davidsbündlertänze commentano musicalmente le azioni dei compagni, e le emozioni e le lotte interiori di Schumann (Davide).

I 12 Studi sinfonici in forma di Variazioni in do diesis min. op. 13 per pianoforte sono stati composti nel 1834, e costituiscono una delle opere più poderose, sia dal punto di vista virtuosistico, sia da quello lirico, di tutta la letteratura pianistica. L'originalità dei ritmi e delle idee, continuamente mutevoli, dall'aggraziato allo slanciato, dal meditativo al concitato, dall'appassionato al brillante, simili alle figurazioni di un caleidoscopio, prende luce e colore da una vaghezza armonica densa di afflato romantico. Il tema delle variazioni, di espressione molto triste, è del flautista Von Friken. Nella 12ª variazione al tema originale se ne aggiunge un altro tratto da un'opera di Marschner, chiudendo con sonorità e carattere trionfale.

Carnaval, op. 9 per piano: composto nel 1834-35, pubblicato nel '37, è una sfilata di maschere che suggeriscono al musicista le più svariate impressioni ritmiche e sentimentali, quasi un poemetto pianistico a programma, però di natura impressionistica. Vi compaiono le seguenti immagini: Preambolo: presentazione, prima «quasi maestoso» poi sempre più animato, fino al «Presto», delle emozioni poetiche suscitate dall'idea del Carnevale. - Pierrot: dai movimenti ora striscianti, ora stecchiti. - Arlecchino: dagli scatti vivaci e strambi. - Valse nobile: movimento di danza. - Eusebio: aspetto meditativo e sognante dell'anima di Schumann. - Florestano: aspetto passionale e inquieto dell'anima di Schumann. - Coquette: impressioni frivole e civettuole. - Sfingi: tre brevi disegni costituiti da poche note lunghe, misteriose. - Papillons: rapidissimo e lieve aleggiare ritmico. - A. S. C. H. - S. C.H.A. (lettere danzanti) leggiadra bizzarria, in cui le lettere formano il nome di una città boema, residenza di Ernestina von Fricken, che Schumann amò. - Chiarina: disegno ricco di passione, in cui Schumann esprime l'emozione che suscita in lui Clara Wieck, che divenne sua moglie. - Chopin: impressione dello stile dei Notturni chopiniani. - Estrella: disegno affettuoso e ansioso suscitato in Schumann dal pensiero di Ernestina von Fricken, simboleggiata sotto lo pseudonimo di Estrella. - Reconnaissance: melodia con accompagnamento ritmico animato e vario. - Pantalone e Colombina: vivacissimo movimento quasi di chiaccherìo, ripetuto ora all'acuto ora al basso. - Valse allemande: breve movimento di danza, balzante e capriccioso. - Tra una ripresa e l'altra del Valse è situato un Intermezzo raffigurante Paganini in un rapido movimento di «moto perpetuo». - Confessione: breve fraseggio appassionato. - Passeggiata: motivo melodioso di valzer lento e poetico. - Pausa: ripresa di un movimento vivo del Preambolo, che serve di collegamento con la Marcia dei Davidsbündler contro i Filistei: I Davidsbündler sono Schumann e i suoi amici, nei Filistei sono raffigurati i falsi amici dell'Arte. La Marcia, ad andamento trionfale, si trasforma in un ritmo di danza sul quale si innesta, nel basso, un tema di canzone del XVII secolo. Segue la ripresa delle parti «Animato» e «Vivo» del Preambolo, le quali, dopo vari avvicendamenti col motivo di danza, chiudono in un disegno sincopato sempre più stretto e febbrile.

Gli otto «pezzi fantastici» per piano che compongono la Kreisleriana op. 36, ispirata al noto personaggio di Hoffmann, costituiscono una delle espressioni più drammaticamente agitate e appassionate dell'anima di Schumann, costantemente oscillante tra il sogno e lo sconforto, l'aspirazione e l'azione, la speranza e la disperazione. Anche musicalmente essa è una delle opere più dense, per la complessità della struttura e l'instabilità mutevolissima dei ritmi, delle armonie, e l'inquietudine ansiosa dei motivi.

La Fantasia in do magg. op. 17 per piano, fu scritta nel 1836, ed è uno dei massimi capolavori di Schumann. Dedicata a Liszt, porta in fronte questo motto di Federico Schlegel: «Fra tutte le voci che mormorano nel vario sogno terrestre, sussurra un lieve suono per chi intimamente ascolta...». Quasi delirante di passione, ondeggia di continuo fra i due elementari stati d'animo che Schumann esattamente individuò in sé firmando varie composizioni sue ora col nonne di Eusebio (l'anima sognatrice) ora di Florestano (l'anima passionale). Fra questo turbinare di passione e di sogno, passa, lenta e religiosa, la meditazione melodica «a modo di leggenda», quasi evocazione di un mondo d'oltre tomba. È noto che fu scritta nel 1836, in un momento di disperazione, allorché Friedrick Wieck, padre di Clara, amata da Schumann, tentò di separarli. «È un grido disperato verso di te», scrisse a Clara Wieck il musicista; e si pensa involontariamente alla follìa che trasse, ancor giovane, a morte il compositore, ed al suo straziante grido: «Mio Dio, abbiate pietà di me; io non sono che un povero musicista!».

La Sonata in sol min. op. 22 per pianoforte è un'opera imbevuta anch'essa di quel romanticismo passionale che caratterizza il genio di Schumann. Al 1° tempo (Impetuoso, a piacere), drammaticamente ansioso, segue un Andantino (2° tempo), quasi un dolce e meditativo lied senza parole. - Il 3° tempo (Scherzo: molto impetuoso e marcato) ci trasporta in pieno dinamismo ritmico, con figurazioni animate, e mutevoli. - Il 4° tempo è un Rondò-Presto: vortici di velocità simili a vortici d'ebbrezza. «Una gioia di vita passa con la rapida volata di un polline in un giorno di sole e di vento», commenta il Valabrega. Dopo una serie di alternative, ancora una divina frenesia ci riprende col Prestissimo, frenesia accentuata lungo il cammino dall'annotazione: sempre più e più veloce, per concludere alfine energicamente.

La Sonata in la min. op. 105 per violino e pianoforte fu scritta nel 1851. È composizione romantica per eccellenza, piena di quell'ansia, di quell'afflato e di quell'intimo calore che si sprigionano dalle più vive creazioni di Schumann. - Il 1° tempo (Con passione) incomincia con un tema del violino largo, ma ricco di drammaticità, sostenuto da agitati arpeggi del piano. Dopo esser passato al piano, dopo vari episodi e l'incontro con un tema pensoso, la chiusa prorompe con inquieta nervosità. - Il 2° tempo (Allegretto) con la sua varietà di ritmi e di movimenti ha il fare di un racconto, di una «novelletta». - Il 3° tempo (Vivo) e costruito su un primo motivo animato e scorrevole, ma non privo di concitazione, che dà luogo ad un secondo motivo più cantabile ma anch'esso nervosamente concitato. Tale stato febbrile che pure non manca qua e là di qualche tendenza serena ed anche umoristica, si conserva per tutto il tempo fino alla chiusa energica e incandescente.

Il Trio in re min. op. 63, composto nel 1847, è il primo dei tre scritti dal musicista tra il '47 e il '51. In molte parti di esso, scrisse Gian Luca Tocchi, «la sostanza musicale reca il sigillo dello stato di grazia». Al denso e amaro 1° tempo fa seguito uno Scherzo fra i più equilibrati e vivaci. Il Lento è certamente il più bello fra tutte le pagine di questo movimento composte da Schumann. Esso si allaccia al Finale «con fuoco», il quale presenta uno slancio e un'architettura ricchi di forza dinamica e di fervore romantico.

Quartetto in fa magg. op. 41 n. 2. Il 1° tempo, Allegro vivace, inizia con un tema caldo e mosso, un po' sognante, del 1° violino. L'intreccio successivo arreca un'espressione concitata in una pienezza d'armonie. Le varie presentazioni e reazioni fanno pensare a un intimo contrasto fra le due personalità schumanniane di Eusebio e di Florestano. Il 1° tempo termina bruscamente. - L'Andante quasi variazioni seguente presenta un motivo iniziale sereno, teneramente delicato, del 1° violino, con una parte centrale contemplativa. Poscia il tema origina variazioni alle quali si sovrappone un ricamo contrappuntistico elegante. Particolarmente bella la variazione a dialogo fra il 1 ° e il 2° violino su i pizzicati della viola e del violoncello. Un gioco rapido conduce alla chiusa. - Se Eusebio può aver dettato l'Andante, certamente Florestano ha ispirato lo Scherzo (Presto), che si svolge su un disegno rapido, con figurazioni di moto vive e scorrevoli e interventi burleschi, per fermarsi su pizzicati. - Il 4° tempo, Allegro molto vivace, è gaio, per quanto un po' scolastico. Il motivo, quasi da moto perpetuo, spande un senso di gioco fresco e scherzoso nei passaggi rapidi dall'uno all'altro istrumento, e nei passi veloci del violoncello. Un movimento più presto, scorrevole e frenetico conclude la composizione.

Il Quartetto in la magg. op. 41 n. 3 è, come il precedente, del 1842. La costruzione vi appare piena di mobilità, come dimostra il 1° tempo (Andante espressivo - Allegro) poeticamente malinconico, con frammenti energici fra cui circola quasi di continuo un tema soave e rassegnato. - Lo Scherzo (Presto) inizia su un ritmo di tamburo caratteristico che investe del suo spirito tutto il tempo, ad eccezione del trio soavissimo. - Ma è l'Adagio molto successivo che sprigiona l'ansia di un'aspirazione verso qualcosa di alto e di irraggiungibile non sai se amore terreno o celeste tanto l'emozione oscilla tra il sentimento umano e la vaporosità dell'ideale. Il fraseggiare serafico ha il fare beethoveniano. - Il finale (Presto - Moderato - Presto) parte da un tema originalissimo, esposto ora in accordo omofono dai quattro strumenti, ed ora quasi «moto perpetuo». Il Moderato centrale produce un effetto di zampogna e di organo, mistico e poeticissimo.

Il Quintetto in mi bem. magg. op. 44 per quartetto d'archi e piano, composto fra il 1840 e il '42, fu dedicato alla moglie, la pianista Clara Wieck, ed è uno dei massimi capolavori del Maestro. - Il 1° tempo (Allegro brillante) ha un largo sviluppo sinfonico e una cantabilità piena di una forza lirica nervosa e passionale. Il primo soggetto, costituito da una frase cantabile di squisita grazia, riccamente variato, contrasta con il secondo, che è dialogato tra violoncello e viola. Gli sviluppi sono trasportati dall'armonizzazione ricchissima del piano attraverso a modulazioni frequenti e patetiche. Una coda brillante, in cui tutti gli strumenti concorrono con piena forza, chiude questo tempo. - Il 2° tempo (In modo di una marcia: un poco largamente) e una Marcia funebre: i ritmi lenti e cadenzati, il pianto sconsolato e nostalgico del primo violino, gli incontri armonici dissonanti, l'agitato movimento drammatico che segue, tutto concorre a creare un'atmosfera profondamente suggestiva di grande potenza. È questa la gemma centrale del Quintetto. - In pieno contrasto col tempo precedente è lo Scherzo (Molto vivace) brillantissimo e impetuoso, che coi suoi due trii annoda fra loro gioia e grazia con fluida eleganza e levità. Il primo trio è costruito a cànone fra violino e viola, ed è elegantissimo e delicato. Dopo la ripetizione dello scherzo appare il 2° trio introdotto con un fluente soggetto «alla zingara». All'ultima ripresa dello scherzo segue una coda briosa. - Il finale (Allegro ma non troppo) si svolge su ritmi esatti e cristallini e melodie fiorite, la seconda delle quali sincopata. Essi conducono verso la fine a un fugato in cui riappare il tema del 1° tempo, conferendo alla composizione un senso più unitario.

Il Concerto in la min. op. 54 per piano e orchestra (1841) è una delle opere in cui la fantasia di Schumann è riuscita a dominare pienamente la forma ampia senza le disuguaglianze e la frammentarietà che si riscontrano in altre vaste composizioni sue. Si fa colpa a questa stupenda composizione di non essere abbastanza brillante e virtuosistica, come vorrebbe per consuetudine il genere «Concerto», e di essere la parte orchestrale superiore per splendore e organicità a quella pianistica. Ma la ricchezza lirica della composizione compensa grandemente dei pretesi difetti. - Il 1° tempo (Allegro) è tutto permeato dallo spirito irrequieto e passionale di Florestano. Questa irrequietezza si manifesta nei frequenti mutamenti di tempo (Allegro affettuoso, Andante espressivo, Allegro, Allegro molto) che si riflettono sul variare e fluttuare delle immagini e dei dialoghi musicali. La costruzione potente e il fulgore delle idee e dei suoi sviluppi fanno di questo 1° tempo una delle più grandi pagine della letteratura concertistica. - Nel 2° tempo (Andantino affettuoso: Intermezzo) il piano propone un breve temino di quattro note in scala ascendente, sussurrate quasi timidamente sottovoce, e allo stesso modo imitate subito dall'orchestra. Questo tema sbocca in una chiusa affettuosamente patetica in cui aleggia lo spirito di Eusebio. Il colloquio fra strumento solista e orchestra procede con una collaborazione viva e cordiale, come di due spiriti che discutano su un comune argomento gentile e patetico. Poi una frase larga e calda sale dagli archi e clarinetti ed è conclusa da una leggiadra cadenza del piano. Il 3° tempo (Allegro vivace) attaccato senza interruzione, pieno di slancio e di brio, ci reca finalmente il tradizionale «brillante». Il secondo motivo balzato e staccato è degno di nota per l'humor e la fresca grazia. Gli sviluppi, nei quali Schumann fa uso frequente di vasti arpeggi che sembra vogliano scalare il cielo, hanno un carattere strumentale più che pianistico, che porta l'istrumento verso i limiti estremi delle proprie possibilità espressive.

La Sinfonia n. 1 in si bem. magg. op. 38 (La Primavera) è del 1841. Nel 1° tempo Schumann prende da Beethoven il procedimento che consiste nell'esporre un tema in Andante un poco maestoso sviluppandolo poi in Allegro molto vivace, con uno svolgimento netto, fiero, elastico. - Il 2° tempo (Larghetto) è caratterizzato da una frase di mirabile e raccolta poesia, appena velata di malinconia. - Senza soluzione di continuità viene attaccato lo Scherzo (Molto vivace), dai ritmi vigorosi. - L'Allegro animato e grazioso che chiude la sinfonia è scintillante di brio, di una fattura leggera e scorrevole come una danza, non privo di accenti di un candore mozartiano, e qua e là di qualche ondata di tristezza fugace.

La Sinfonia n. 3 in mi bem. magg. op. 97, detta la Renana, è del 1850. - Dal tema energico e balzante del 1° tempo (Vivace) e dagli sviluppi sinfonici scaturisce un festoso impeto pieno di gagliardo entusiasmo. - Il 2° tempo è uno Scherzo sereno, blando, delicato, architettato con una grande elasticità di movenze in cui il giuoco delle parti strumentali obbedisce a un gusto stilisticamente fine ed elegante. - Il 3° tempo (Moderato) conserva il tono calmo e dolce precedente, abbandonando il modo scherzevole e accedendo a quello elegiaco con toni e sfumature carezzevoli. - Il 4° tempo (Maestoso) ha carattere grandioso, solenne e sacro. Il motivo fondamentale vi è ampiamente svolto con austere imitazioni. Esso conduce senza distacco, come una fastosa introduzione, al 5° tempo (Vivace) fresco e gioiosamente gaio.

Sciostakovic Dimitri (1906)

Nel Trio op. 67 (senza indicazione di tonalità) l'autore fa uso di ritmi e spunti originali di canzoni popolari e di danze contadine russe. La composizione, scritta nel 1944, pure nella modernità dell'armonizzazione, è limpida e ligia alla forma classica. In particolare è notevole la nostalgica poesia del Largo, e l'orgiastica irruenza del Finale, anche se un po' enfatico e barocco. Il Trio, che si apre con un canto del violoncello a note flautate, si chiude su lo stesso motivo.

Il Quintetto in sol min. op. 57, composto nel 1940, ha uno svolgimento melodico largo, in uno stile semplice, con un'armonizzazione nuova e interessante ma non spregiudicata. Il Preludio, in forma tripartita, si conclude con un'esposizione a cànone del motivo iniziale, seguito da una fuga elaborata. - Il 2° movimento è un gaio e vigoroso Scherzo. - Dopo un Intermezzo, assai semplice e commosso, il Finale si snoda su un ritmo di marcia, con attraente vitalità.

La 7ª Sinfonia, detta la Leningradese, è del 1942, ed è la più famosa in quanto ci racconta le emozioni dell'Autore durante l'assedio di Leningrado. Nel 1° tempo, che è il più vario, è espressa la vita tranquilla della Russia, il sopraggiungere orrendo della guerra con i suoi sacrifici e l'eroica resistenza dell'esercito e del popolo, il requiem per i caduti militari e civili, il pensiero luminoso della nuova pace, e infine l'allontanarsi della guerra. - Il 2° tempo è uno Scherzo vivace, pura manifestazione sonora e ritmica di gioia. - Il 3° è un inno di esultanza e di glorificazione. - Il 4° tempo ci presenta in un lungo crescendo l'approssimarsi della vittoria finale.

Nel complesso la sinfonia, armonizzata con audace modernità di effetti, con timbri strumentali chiassosi, pur non esente da qualche banalità e prolissità, non manca di vigore, di calore e di grandezza.

Scriabin Alessandro (1872-1915)

Il Poema dell'estasi, per orchestra, op. 54, fu composto nel 1908. È tutto un evanescente fluire di motivi sensuali sospirosi dei violini, dei violoncelli, dei legni, in un'atmosfera di rapimento, fra pizzicati d'archi e tintinni d'arpa. Ogni tanto sùbiti slanci lirici si sciolgono in estatiche contemplazioni. Un più tempestoso movimento cromatico, in cui gli ottoni fanno squillare temi energici, sembra placarsi nel richiamo dei poetici temi iniziali. Ma nuove tempeste e convulsioni sorgono e si impongono con la forza della sonorità in una tensione di spirito dolorante. Fantasmi ossessionanti sembrano attraversare con incubi sinistri e minacciosi il cielo dell'esistenza e voler annientare le immagini di sogno e di delirio sensuale che lo dominavano dianzi. Più volte sorgono voci quasi di implorazione, ora umili, ora ardenti. Tutto è preso dal turbine, da questa folle aspirazione d'estasi che travolge ed annienta. Inutile cercare nel poema pretesi significati allegorici; basta invece abbandonarsi alle impressioni sensuali e fantastiche suscitate dalla musica per intenderne la viva poesia, anche se qua e là turbata da un po' d'enfasi.

Sibelius Giovanni (1865-1957)

Il Cigno di Tuonela, op. 22 n. 3, poema sinfonico scritto nel 1900, trae la sua ispirazione dall'epopea nazionale finnica Kalevala. Nella mitologia finlandese Tuonela è il Regno della morte, triste e nebbioso anche se non tetro. Sul fiume che lo circonda avanza un cigno cantando una strana e fiera canzone. La voce del Cigno è affidata al timbro malinconico del corno inglese. Il canto penetrante di questo istrumento è come avvolto dalle armonie degli archi. Un movimento più mosso degli altri gruppi strumentali si disegna più tardi, lasciando alla fine di nuovo emergere il grave e fantastico canto di morte del Cigno.

Il Poema sinfonico Finlandia, op. 26, non è composizione folkloristica; eppure da esso innegabilmente si diffonde il colore del paesaggio nordico e l'impressione di una poesia esotica primitiva. La malinconia intensa di alcuni temi, il senso leggendario che emana da altri, ed anche il carattere eroico ed energico di taluni tratti, tutto ci parla di questo popolo temperato alle durezze d'un clima rigido, strenuo difensore della propria libertà, illuminato da un pallido sole sorgente dalle nebbie circostanti su le sterminate distese di laghi e di paludi intersecate da foreste secolari.

Valzer triste, per orchestra. - Dopo alcune note secche, le quali sembrano il battere subitaneo di un pensiero, gli archi espongono un motivo profondamente malinconico, quasi piangente, in movimento di valzer lentissimo, sottovoce, quasi come l'eco di un ricordo lontano. Quale tristezza remota, quale sogno perduto rievoca la danza dolente? All'improvviso, come all'apparire di un ricordo più forte, il valzer affretta e ravviva il suo ritmo, il motivo nuovo balza gioioso alle stelle, e le imitazioni degli altri istrumenti lo esaltano. Poi la tristezza sconsolata, quasi funerea, riprende il sopravvento, il motivo palpitante muore, i ricordi si spengono in un sospiro.

Sinigaglia Leone (1868-1944)

Il Quartetto in re magg. op. 27, composto nel 1900, è opera che attesta la sapienza e la nobiltà di sentimento del musicista piemontese. Grazioso ed elegante il 1° tempo, Allegro comodo. - I temi dello Scherzo che segue hanno un fare popolaresco, ma ben lontano da ogni banalità. - Pensoso e tuttavia sciolto è l'Adagio non troppo. - Chiude la composizione un vivace Allegro con spirito, anch'esso di intonazione popolaresca pur nella signorilità della sua fattura.

La ouverture per orchestra Le baruffe chiozzotte fu composta nel 1905 per l'omonima commedia goldoniana. Spigliata e spiritosa, essa compendia coi suoi cicalecci, le sue pettegole burrasche, e il cantante motivo che vi si innesta, pieno di sentimento e di affabilità cerimoniosa, l'arguta e garbata vicenda scenica. Senza rifare lo stile settecentesco, in veste moderna (ma non «modernista») aristocratica, essa ci fa rivivere in un mondo di elegante galanteria che la fresca musica del maestro piemontese suggestivamente rievoca.

Smetana Federico (1824-1884)

Il Quartetto in mi min. che porta il titolo «Dalla mia vita», introduce nella forma classica novità di elementi ritmici, melodici e coloristici di impronta fortemente nazionale. I quattro tempi rispecchiano quattro diversi momenti della vita dell'autore. Ideali, speranze, sconforti, entusiasmi, dolori, vi trovano accenti della più toccante e intensa verità. Il presentimento della follia, che pochi anni dopo doveva travolgere e condurre a morte il musicista (il Quartetto è del 1876) vi traluce qua e là con sinistri bagliori e voci angosciate. Penoso particolare: quando Smetana scrisse quest'opera, era già sordo, e la sua mente soggiaceva a improvvisi e paurosi oscuramenti e squilibri. - Il 1° tempo (Allegro vivo appassionato) è tragicamente sconvolto e desolato. - Il 2° (Allegro moderato alla Polka) insiste su un movimento ostinato del violoncello e della viola, commentato da sospiri dei violini. - Il 3° tempo (Largo sostenuto) si basa su due motivi entrambi malinconici (uno dei quali ricorda la romanza «Quando le sere al placido» della Luisa Miller di Verdi), ogni tanto solcati da movimenti drammatici. - Il 4° tempo (Vivace) è tessuto su motivi di danze popolari cèche e disegni agili da «moto perpetuo». Su la fine riappare il tema iniziale del 1° tempo, fra lunghe pause come di smarrimento, e il Quartetto si chiude sfumando con infinita tristezza e con uno sconsolato senso di annientamento.

La Sinfonia dell'opera La sposa venduta (1866), con la sua effervescente scorrevolezza quasi da «moto perpetuo», che dai viluppi del fugato vivacissimo si snoda in balzanti ondate liriche, o si effonde in tenerezza di canto, ambienta in modo perfetto alle vicende della gaia commedia alla quale serve d'apertura.

Per il poema sinfonico Moldava ( Ultava) (1874), l'autore medesimo scrisse la seguente nota illustrativa: «Due sorgenti sgorgano in mezzo all'ombra della foresta boema: l'una calda e gorgheggiante, l'altra fredda e tranquilla. Le allegre onde, mormorando fra le fronde, si uniscono e brillano ai primi raggi del sole mattutino. Il rapido ruscello diviene così il fiume Ultava, che, sempre più grande, scorre attraverso fitti boschi, ove si ode un lieto rumore di cacce in mezzo agli ubertosi pascoli e alle pianure. Colà, fra allegri suoni di canti e danze si celebra una festa nuziale. Nella notte le ninfe dei boschi e delle acque giocano al chiaro di luna, fra le onde luccicanti in cui si riflettono i gravi castelli e i palazzi testimoni della passata grandezza dei cavalieri e delle guerre gloriose. Nella gola di S. Giovanni il fiume spumeggia rovesciandosi nelle cateratte, aprendosi a forza la strada attraverso le fratture delle rocce, poi torna a scorrere tranquillo nel suo letto fatto più ampio, dirigendosi con maestosa calma verso Praga, e salutando al suo passaggio il vecchio e superbo maniero di Vysehrad, si perde nella vasta lontananza, dileguandosi dalla vista del poeta». Inoltre, sui vari episodi di cui si compone la partitura, il Maestro ha segnato le seguenti altre indicazioni didascaliche: Le sorgenti di Ultava - La caccia nella foresta - Nozze di contadini - Chiaro di luna - Danze di Ninfe - La rapida corrente di S. Giovanni - Ultava torna a scorrere ampiamente - Vysehrad. Qua e là appaiono temi folkloristici; ad esempio nelle Nozze dei contadini. Nonostante la varietà degli episodi, la costruzione del poema musicale poggia classicamente su due motivi principali, il primo che rievoca nella voce dei flauti fino dall'inizio il gorgoglio delle acque, e il secondo in forma di ampia melodia ondeggiante (stranamente assai simile alla canzone napoletana Fenesta che lucivi) che, accompagnato dal precedente, sembra simboleggiare la «canzone del fiume». A conclusione della composizione invece il Maestro richiama un altro motivo già svolto in un precedente poema sinfonico intitolato Vysehrad.

Strauss Riccardo (1865-1949)

Il poema sinfonico Don Giovanni, op. 20, composto nel 1888 appartiene alla cosidetta «musica a programma», la quale mira a rendere musicalmente gli avvenimenti, gli episodi e i vari momenti psicologici del soggetto al quale l'autore si è ispirato. Nel caso presente si tratta di un poema di Nicola Lenau, in cui è descritta la romantica follia dell'eroe che sogna il godimento di tutti i piaceri della voluttà e muore vinto e disperato. Lo Strauss, armonista, strumentatore e sinfonista di eccezionale raffinatezza e ardimento, si vale di queste sue superbe qualità per darci un quadro esuberante di colore e di calore, in cui la passionalità del protagonista si scatena vertiginosa e sensuale attraverso a sonorità che ci afferrano per la loro forte potenza emotiva. Dal primo impetuoso scatto iniziale, che bene esprime l'audace e violenta bramosia di conquista, è tutto un seguirsi di frasi ora passionali, ora ardenti, tutto un ondeggiare di languori e di brividi, di smanie turbinose e di urli vittoriosi, che si dissolvono alla fine dopo un ultimo grido frenetico e una lunga terrificante pausa, in flebili e tremuli accordi discendenti, per chiudere in un lamento estremo d'agonia.

Il poema sinfonico Morte e Trasfigurazione, op. 24, composto nel 1890, si ispira ad un soggetto altamente spirituale. Un uomo agonizza nel suo letto di dolore: in preda alla febbre e al delirio (lenti e affannosi sincopati) egli rivede in sogno la propria vita passata Ricordi d'infanzia affiorano su blandi arpeggi nella voce d'un flauto, poi in un nuovo tema dei violini. Ritmi agitati descrivono la lotta disperata contro la morte. Un breve presentimento della prossima trasfigurazione, e ancora affiorano i più dolci ricordi infantili. Ma la lotta contro le morte riprende, questa volta con carattere più eroico, ma sempre invano. La morte giunge: tutto sembra d'improvviso sprofondarsi nel nulla. Ed ecco iniziarsi la Trasfigurazione: una nuova giovinezza albeggia, e la Trasfigurazione avviene con solennità trionfale. Poi, lentamente, tutto dilegua.

Il poema sinfonico Till Eulenspiegel (Le allegre facezie del buffone Till), op. 28, composto nel 1895, si rifà a un'antica leggenda delle Fiandre. Till è un discolo sfrontato e impertinente, pronto sempre a giuocare tiri birboni a tutti. Eccolo all'opera: annunziato da un tema cauto e malizioso egli entra al mercato per deridervi le donne: il tema dei corni è pieno di una mariuoleria diabolica; poi oboi e flauti espongono un altro tema che è un vero programma di gherminelle gioconde e spensierate. Lo udiamo poi, su un motivo di una falsa gravità, solcato sempre dal furbesco motivo di prima, predicare travestito da frate. Poscia il tema furbesco si fa flessuoso e galante: Till corteggia una ragazza, ma ne è respinto; ritmi spezzati ne esprimono la rabbia. Ma la vecchia spensieratezza lo riprende in tutta la sua gaiezza. Ora se la prende con i pedanti. Si mette a predicare ed è accusato di empietà. Arrestato, lo si condanna a morte ed è impiccato. Il tema della condanna, duro e minaccioso, lascia il posto al tema mariuolo di Till, ora esposto con un'espressione dolente e fioca. Il tema iniziale è ripreso a conclusione e sembra dirci: «Questa è la storia di Till il buffone».

La Sinfonia domestica, op. 53, composta nel 1904, è divisa in quattro tempi tutti collegati fra loro. Non ha però nulla della consueta architettura classica e gli stessi temi circolano per tutti i tempi. Si tratta perciò di un poema sinfonico in più movimenti, e vuol avere un significato umoristico e sentimentale autobiografico. Nell'Allegro viene espresso dapprima con un disegno grave e bonario, se pure un po' pedante, l'autore (violoncelli); un successivo motivo dolce e sognante rappresenta lo Strauss poeta (oboe); un terzo tema ce ne descrive il carattere ardente (violini). La moglie viene presentata da un primo tema vivace e grazioso; è però un tema che subirà varianti stizzose. Un secondo tema ce la raffigura appassionata (entrambi affidati ai violini). Il musicista gioca su questi temi intrecciandoli, variandone i timbri e animandoli con espressioni e luci sempre nuove. All'improvviso un nuovo tema dolcissimo annunzia la nascita del bimbo (oboe d'amore): se ne odono gli strilli. Poi entrano a vederlo gli zii: la zia dice: «Tutto il papà», e lo zio: «Tutto la mamma» (le due esclamazioni sono annotate sulla partitura, suonate ma non cantate). - Ed ecco il 2° tempo (Scherzo) in cui sono descritti i giuochi del bimbo. A proposito dei quali sorge un breve dispettoso diverbio fra i coniugi. Poscia il bimbo s'addormenta e l'orchestra (oboi e fagotti) gli canta una soavissima ninna-nanna (il motivo ricorda la Barcarola Veneziana op. 19 n. 6 di Mendelssohn). - Ed ecco il 3° tempo (Andante molto calmo) in cui sono espressi la notte, la pace, l'amore: ne fa le spese il secondo tema di Strauss, poi nel seguente Adagio appaiono altri temi suoi e il tema amoroso di lei. Suona la campana dell'Alba: il bimbo si risveglia, e con questo episodio incomincia il Finale (Molto mosso). Una doppia fuga festosa sul tema del bimbo descrive il primo affaccendarsi dei coniugi pel suo risveglio. Clarinetto e flauto intonano una canzonetta; riprende l'attività diurna della casa: sorge una più vibrata disputa, presto sedata in un canto fresco e gioioso che sembra voler esprimere l'apoteosi della vita domestica.

Strawinski Igor (1882)

Fuochi d'artifìcio, per orchestra, op. 4 (1908) (trascritta anche per piano). - Una girandola arde e ruota, si spegne: disegni e accordi di una luminosità blanda restano a esprimere gli ultimi bagliori vaghi che se ne sprigionano come luci ferme e fioche di bengala. Un'altra girandola si accende, ruota vorticosa, e alla fine ne sale un razzo a cometa, tutto scintillìo vivace (vedi anche a pag. 239).

Suite per piccola orchestra n. 2: vedi testo a pag. 240.

Petruska è un balletto formato da scene burlesche divise in 4 quadri, composto nel 1910-11 per la compagnia di Sergio Diaghileff. Da esso è stata tratta una Suite costituita dalle seguenti parti: Danza russa - Presso Petruska - La settimana grassa. Quest'ultima parte a sua volta comprende i seguenti episodi: Carnevale; Danza delle balie; L'esibitore di orsi; Dame dei cocchieri e dei palafrenieri; Le maschere.

A maggior chiarimento riassumiamo brevemente la trama del soggetto: «Fra i divertimenti della settimana grassa, un vecchio ciarlatano orientale presenta al pubblico i suoi pupi animati: Petruska, la Ballerina e il Moro, i quali eseguiscono una danza sfrenata. La magìa del ciarlatano ha trasfuso nei pupi tutti i sentimenti e le passioni umane. Petruska ne è più degli altri dotato: ingenuo, fervido, tenero, sensibile. Egli soffre della propria schiavitù e della propria bruttezza; con dolore sopporta le brutalità del ciarlatano, e cerca conforto nell'amore della Ballerina. Questa, innamorata del Moro, stupido e bestiale, lo respinge. Petruska li scopre insieme; è pazzo di gelosia, ma il Moro lo scaccia. Nella festa della settimana grassa il diverbio fra Petruska e il Moro si riaccende, e questi con una sciabolata uccide il rivale. Il ciarlatano è chiamato dalla polizia, ma egli coi suoi magici arabeschi di flauto ridona la vita a Petruska». - La musica di Strawinski, che si vale dei suoni come dei rumori quali mezzi musicali pittorici, anima tutto ciò di una vitalità alla quale contribuiscono la vivacissima e originale ritmica, i gustosi spunti folkloristici e un senso mirabile del parodistico, dell'umoristico e del grottesco. L'umanità che il Musicista ha saputo infondere nei suoi pupi ha per sfondo il vasto affresco sonoro turbinoso della festa popolare, coi suoi divertimenti, i moti della folla, gli spettacoli dei ciarlatani, il cui insieme costituisce un'espressione esuberante di colore e di liricità indimenticabile.

La Sagra di Primavera nacque, come prima idea, nel 1910, mentre Strawinski finiva di strumentare L'uccello di fuoco. Egli sognò di una giovinetta la quale, innanzi a un consesso di vegliardi decrepiti, incartapecoriti e pressoché spettrali e silenziosi, danzava fino a rimanerne tramortita. Nella creazione del balletto, questa visione divenne l'ultima scena di esso. Si tratta dunque di un rito barbarico primitivo per solennizzare il ritorno della vita nel mondo, la primavera. Allontanando così in un tempo remoto, in un mondo leggendario e in un'atmosfera di rito sacro, la concezione della danza, essa venne concepita da Strawinski non più come qualche cosa di aereo e fiabesco, ma come qualcosa di massiccio e pesante: «scultura di pietra», com'egli la chiamò. Ritmi, armonie, disegni, tutto venne da lui creato secondo questa immaginazione. Il balletto consta di due parti; la 1ª comprende un preludio, gli auguri di primavera, la danza delle adolescenti, il gioco del ratto, la ronda di primavera, il gioco delle città rivali, il corteggio del Saggio, l'adorazione della Terra; la 2ª comprende il sacrificio, il cerchio misterioso delle adolescenti, la glorificazione dell'Eletta, l'evocazione degli antenati e l'azione rituale, la danza sacra e il sacrificio dell'Eletta. Vedi anche testo a pagg. 239-340.

Noces, divertimento per soli, coro, quattro pianoforti, batteria (1923). Benché si tratti più propriamente di una cantata-ballo scenica, la commentiamo tuttavia brevemente in quanto viene eseguita spesso in forma puramente concertistica, senza alcun apparato teatrale, e così pure trasmessa per radio. - La tresse è il primo episodio: le amiche annodano le trecce della sposa. Un soprano (la sposa) manda grida alte, che vogliono essere gioiose, e forse per il consueto ironismo strawinskiano sembrano penosi lamenti. Il coro risponde sottovoce con un sillabato dalla ritmica uniforme e con disegni di canzonetta popolare. - Il secondo episodio ci porta Chez le marié. L'entrata del tenore (sposo) e del basso (padre) aumentano la vita e il colore, ma anche gli alti lai. Il soprano li imita con una nota acuta. Le melodie hanno il fare insistente delle canzoni russe. - Si va alla casa della sposa, e quindi avviene Le depart de la mariée (terzo episodio): le due madri piangono per il distacco dei loro figli. - Segue poi l'ultimo episodio: Le repas de noces. Scatti e urti barbarici, strappi-rumori più che suoni, sottolineano uniformi e insistenti il canto. A certi tratti polifonici burleschi o grotteschi viene in mente Orazio Vecchi. Il ritmo eccitato dei banchettanti, le grida acute, la vivacità dei canti creano un'atmosfera d'entusiasmo acceso e d'ebbrezza. Le dissonanze si sperdono nello sfondo generale orgiastico e barbarico-popolaresco. Ogni tanto certe frasi sono gridate senza intonazione musicale. Infine gli sposi sono condotti nella stanza nuziale: martellamenti duri, ossessionanti per l'insistenza sconsolata e la violenza brutale. Anche i pianoforti e lo stesso coro sono usati in Noces principalmente in funzione di strumenti a percussione per esaltare quella potenza del ritmo che è uno dei più importanti elementi dell'arte strawinskiana. Al cessare del canto i pianoforti ci fanno udire un'imitazione del suono di campane, si direbbe da morto, con cui ha termine il pezzo, il quale ci lascia un'impressione desolata e tragica di quello che di solito vien detto «il più bel giorno della vita».

L' Uccello di fuoco è un racconto danzato, composto negli anni 1909-'10. L'argomento della fiaba è il seguente: L'uccello di fuoco, così chiamato per lo splendore delle sue piume e l'irrequietezza dei suoi movimenti, caduto in potere del giovane principe Ivan, gli offre una delle sue penne per ottenere la libertà; il principe accetta e l'uccello si allontana nella notte. Allo spuntare dell'alba il principe si trova improvvisamente dinanzi ad un castello fatato, dalla cui porta esce una schiera di fanciulle bianco-vestite, condotte da Zarevna, già fidanzata del principe. Ma ecco irrompere schiavi, danzatrici, armati e buffoni, che circondano il principe e lo stordiscono col loro baccano. Nel tumulto appare Kastcheï, signore del castello e mago, il quale tenta di trasformare Ivan in pietra, come fece di tutti coloro che caddero in suo potere. Il principe, per difendersi, brandisce la penna dell'Uccello di fuoco; questi sopravviene e danzando addormenta Kastcheï rompendo l'incantesimo. Le figure di pietra riacquistano vita, e Ivan si riunisce a Zarevna».

Nel 1919 l'autore trasse dal balletto una Suite, la quale consta delle seguenti parti: 1. Introduzione, in cui il tema dell'Uccello di fuoco e quello di Kastcheï sembrano contrapporsi come nemici. - 2. La danza dell'Uccello di fuoco, tutta voli e frulli d'ali vertiginosi. - 3. La ronda delle principesse, che rievoca, nel canto dell'oboe su accordi dell'arpa, la visione di un mondo fiabesco orientale. - 4. La danza infernale del Re Kastcheï, rozzamente selvaggia, chiusa dal ritorno brillante del tema dell'Uccello, simbolo di libertà. - 5. La Berceuse, che descrive il sonno del Re e della Corte; si chiude col tema di Kastcheï di cui proclama solennemente la morte, e con l'inno finale di vittoria e di liberazione. - La composizione è opera originale e deliziosa perla ricchezza della tavolozza strumentale: il colore dei timbri e la potenza dei ritmi si accompagnano all'elemento melodico, e spesso lo sostituiscono in maniera abbagliante.

Szymanowski Carlo (1882-1937)

La Fontana d'Aretusa appartiene alla raccolta dei Miti, op. 30, per violino e piano. Non è una rappresentazione realistica o imitativa, ma tende alla espressione della poesia. In essa, come nelle altre composizioni dei Miti, alita, com'ebbe a scrivere il Pannain, «un fascino acuto e raffinato di ellenismo», soprattutto per la finezza del disegno avvolto in un'atmosfera armonica vaga e sognante.

Tartini Giuseppe (1692-1770)

Il Trillo del Diavolo: Sonata in sol min. per violino e cembalo, deve il suo titolo a un sogno che si dice fatto dall'autore, e nel quale gli era apparso il diavolo che suonava una composizione meravigliosa. La leggenda vuole che Tartini al suo risvegliarsi ricordasse soltanto un trillo infernale, che divenne l'elemento risolutivo della Sonata. I tre tempi (Allegro moderato; Aria; Andante; Allegretto) sono costruiti sullo schema della Sonata, e portano l'impronta dell'estro fantasioso del grande virtuoso e della sua eccezionale padronanza tecnica. La Sonata si apre con un Larghetto affettuoso sul ritmo di una «Siciliana», specie di danza affine alla «Pastorale», in tono minore, di espressione patetica e lievemente nostalgica. L'Allegro seguente balza energico, pieno di fervore e di contrasti nelle sue repentine successioni di piano e di forte. L'ultimo tempo alterna un movimento Grave a uno Allegro; ma nelle riprese il Grave è sostituito da una frase dolorosamente disperata. L'Allegro, molto vivace nel ritmo, contiene gli elementi del trillo che poi si sviluppa nella «cadenza» finale. Ma gli esecutori sostituiscono quasi sempre la semplice cadenza del Tartini con qualche altra elaborazione composta da illustri virtuosi su frammenti tematici della Sonata, innestati sul trillo medesimo.

Verdi Giuseppe (1813-1901)

Il Quartetto in mi min. è l'unica composizione del genere fatta dal Verdi. Esso fu scritto a Napoli nel 1873. Anche se si sente che la mano di chi l'ha composto obbedisce a un'ispirazione che è più operistica e orchestrale che cameristica e concertante, non si possono negare a quest'opera pregi di finezza nei particolari, di chiara ed equilibrata costruzione e di piacevole invenzione melodica. Il 1° tempo (Allegro) è il più stilisticamente elaborato e poetico. - Il 2° tempo (Andantino) ha il fare di una lieve mazurka, intramezzata da movimenti lirico-drammatici. - Il Prestissimo ha la struttura di uno «scherzo», con un primo tema brioso e vivacissimo, mentre il «Trio» è costituito da un patetico cantabile per violoncello. - Lo Scherzo-Fuga finale svolge, come dice la denominazione, una «fuga» ricca di animazione, densa negli avvolgimenti del tema burlesco, ora diretto ora rovesciato, che conclude impetuosamente e con robusta sonorità.

La sinfonia del Nabucco (1842), dopo la breve introduzione grave e drammatica, presenta in successione alcuni dei principali motivi dell'opera, fra cui quello sublime del coro «Va pensiero», oasi sacra in mezzo al tumulto irruente degli altri motivi. Malgrado il sistema anti-sinfonistico (che Verdi adotterà sempre, salvo che per la Luisa Miller) e la banalità di qualche tema allegro, questo brano afferra nell'insieme per la vitalità e la potenza incisiva delle idee e l'impeto dei ritmi concitati.

Nella sinfonia dell'opera Luisa Miller (1849), un motivo ampio e cantabile, ma nervosamente agitato è il fondamento su cui si basa tutta la composizione. Tale motivo si presenta sotto diversi aspetti variamente contrappuntato, ora intero ora a frammenti, e alternato a vari episodi drammatici. - La forma di questa Sinfonia rappresenta un'eccezione nello stile verdiano, in quanto di solito egli usava costruire le sinfonie d'opera mediante una successione dei principali motivi dell'opera.

Il preludio al 1° atto de La Traviata (1853) incomincia con accordi eterei diafani che sembrano raffigurarci più che la consunzione di Violetta per opera della tisi, la sua spiritualizzazione. Subito dopo, su un accompagnamento puramente ritmico-tonale, i violini espongono la nota frase «Amami Alfredo» in cui si concentra la passione sublimatrice di Violetta. Poi la stessa frase passa ai violoncelli, mentre i violini contrappuntano con un tema leggero e civettuolo creando così un simultaneo contrasto tra la vita profonda e quella spensierata e superficiale di Violetta, contrasto che costituisce il nucleo del suo dramma intimo.

Il preludio del 3° atto de La Traviata, incomincia anch'esso con gli accordi estenuati e quasi incorporei, con cui incomincia il preludio del 1°. Poi dai violini si leva un canto lento, pieno di rimpianto sconsolato e di nostalgia, qualche cosa di celeste e di umano insieme in cui tutto il dolore del mondo sembra essere contenuto. Esso si leva con accenti vieppiù disperati, per ricadere affranto in singhiozzi e in gemiti che si spengono in un lungo trillo simile all'estremo sorriso di un morente.

La sinfonia de I Vespri Siciliani (1855) è una delle più belle e popolari creazioni del genio verdiano. Il primo breve e rapido fremito degli archi sottovoce (tema della congiura) intercalato dalle cupe risposte dei timpani e dall'accenno al motivo del De profundis, seguìto da un altro austero e mesto canto, prepara alla tragedia. Ed ecco, dopo un rullo di timpani in crescendo, scoppiare la rivolta con furore selvaggio. Vi si innesta il largo e appassionato canto dei violoncelli seguìto da un motivo allegro svolto nella foggia del crescendo rossiniano. E ancora urla e schianti drammatici ed eroici, da cui scaturisce un'aerea melodia di preghiera, percorsa dai sordi fremiti dei timpani e dei bassi. Poi i violoncelli riprendono il loro canto spiegato che par quasi voce di nobile fede, accompagnato da un leggiadro contrappunto dei flauti. L'ampia melodia è ripresa con trasporto dai violini. Dopo una ripetizione del crescendo, una stretta impetuosa e travolgente conclude la Sinfonia.

La sinfonia de La forza del Destino (1869) è intessuta sui principali motivi dell'opera, dominati dall'impetuoso «tema del Destino», che dopo gli squilli fatali di tromba, con cui la Sinfonia stessa si apre, irrompe con ansiosa agitazione, e contrappunta poi i motivi capitali successivi. Alla fine un brillante motivo ritmico a terzine, di un'animazione irresistibile, che i violoncelli sottolineano con l'insistente «tema del Destino», porta a una chiusa altrettanto veemente e drammatica.

La Messa di Requiem di Giuseppe Verdi fu composta in morte di Alessandro Manzoni, ed eseguita a Milano nella chiesa di S. Marco il 22 maggio 1874 sotto la direzione dell'Autore. Non è composizione adatta ai riti della chiesa, perché l'interpretazione musicale del testo è nettamente drammatica. Non diremo «melodrammatica», ma è certo che l'operista, anche tenendosi ben lontano da tutto ciò che è «teatro», vi domina in pieno con una concezione in cui l'uomo è al centro di una sua grande tragedia: il terrore della morte eterna, la rappresentazione del pauroso momento in cui «solvet saeculum in favilla» ed egli dovrà essere giudicato... condannato forse! Di qui le urla di spavento, le preghiere ansiose, le lacrime disperate di cui quest'opera musicale è piena, e l'espressione possente della lotta dell'uomo per la propria salvazione. Se l'uomo è uno dei personaggi della tragedia, l'altro è il «Rex tremendae majestatis», presente sempre, anche se non interloquisce, con la sua giusta ira e il gran volume «in quo totum continetur»; attorno è l'infinita folla delle anime umane tremebonde e imploranti.

La prima preghiera, il Requiem, sale calma, appena mormorata, su la dolcezza tranquilla degli accordi degli archi, con un senso di pace serena. Vi si intercala, per voci sole, il robusto e polifonico «Te decet hymnus», poi la ripresa del Requiem si allaccia direttamente al Kyrie, ove il polifonismo assume la forma di un vero e proprio concertato, tuttavia con uno sviluppo severo nella sua melodiosa espansività.

A questo punto si scatena improvvisa la tempesta del Dies irae: strappi, sussulti, vortici di suoni, urli, lamenti: una scena di dantesca terribilità per la sua veemenza orchestrale e vocale. Indi le trombe della risurrezione squillano da diverse distanze, prima isolate, poi in una fanfara sonora e imperiosa. «Mors stupebit», e lo stupore è nei brevi suoni interrotti da lunghe pause, e nel ripetersi trasecolato, con un vivo senso di incredulità, della parola «Mors». Fatale il canto del soprano: «Liber scriptus proferetur», attraversato di tanto in tanto dalle paurose esclamazioni sottovoce del coro: «Dies irae». Ed ecco che il «Nil» della frase «Nil inultum remanebit», è ripetuto sempre più piano, come prima il «Mors», fra lunghe pause di terrore. Quindi la furia del «Dies irae» si scatena ancora come un vento di bufera, per placarsi nel pavido «Quid sum miser tunc dicturus» accompagnato da un gemito affannoso del fagotto. Ed ecco la maestosa e quasi paralizzante apparizione del «Rex tremendae majestatis»: i bassi e gli ottoni lo annunziano terribilmente, le voci lo ripetono spaurite, quasi senza voce. Allora è un affannarsi a implorare: «salva me ! salva me !» che si eleva come un concertato dalle voci, sul persistente ripetersi del tremendo annunzio: «Rex». Al tumulto delle implorazioni succede quindi la più umile preghiera del «Recordare, Jesu pie», e dell' «Ingemisco tamquam reus» con lo stupendo episodio pastorale dell'oboe alle parole «Inter oves locum praesta». Anche il drammatico accenno: «Confutatis maledictis» è seguito da un'altra dolce preghiera: «Oro supplex». Ma tutto resta come annientato dal nuovo prorompere dell'implacabile «Dies irae». Al terrore, all'implorazione, succede finalmente l'abbandono del pianto. È il mezzo-soprano che canta dolcissimo «Lacrymosa dies illa» su un alto singhiozzare e gemere dell'orchestra. E il pianto, che a poco a poco dall'anima solitaria si è comunicato alla folla, si placa alla invocazione «Dona eis requiem».

Un melodioso sospirare dei violoncelli ci introduce nel Domine Jesu: preghiera che sgorga da un grande fervore di cuore e si eleva fino alla più eterea espressione di abbandono religioso. Il «Quam olim Abrahae» dà luogo ad un vivace movimento fugato, cui segue l'altissima e pura preghiera: «Hostias et preces». Dopo una ripresa del fugato, il pezzo si chiude sul motivo iniziale del «Domine Jesu» ripetuto all'unisono dai solisti e dall'orchestra, e annullato da questa passandolo dal violino al clarinetto ai bassi su un aereo tremolo degli archi.

Il Sanctus è una «fuga» gioiosa che si conclude col dolcissimo episodio del «Pleni sunt coeli» a cui risponde il sospiroso «Hosanna», portata poi a una chiusa forse un po' troppo teatrale.

L'Agnus Dei è una pagina di un'estrema soavità. Il motivo dolcissimo è esposto dal soprano e dal mezzo-soprano senza accompagnamento e si alterna poi colle ripetizioni del coro, mentre l'orchestra vi intesse un iridescente delicatissimo ricamo di contrappunti variati che lo incielano.

Il Lux aeterna, declamato dal mezzo soprano su un luminoso tremolo d'archi, ci riporta al «Requiem», qui presentato con accenti più funerei, con un episodio centrale a voci sole, e più largamente melodizzato alle parole «Cum Sanctis tuis».

Una voce salmodiante, non però scevra da un intimo tremore di apprensione, implora: «Libera me Domine de morte aeterna». La salmodia è ripetuta sottovoce dal coro. Poi alle parole: «Tremens factus sum ego» la linea del canto e il movimento dell'orchestra accentuano l'espressione in senso più vivamente drammatico. La voce manca all'orante, mentre come un fulmine prorompe di nuovo l'orrore terrificante del «Dies irae». Ancora le voci sole intonano il «Requiem», questa volta con estrema dolcezza. Ma l'invocazione «Libera me Domine» si leva di nuovo con fremito di paura, per allacciarsi alla voce del coro, che, con sùbito contrasto, attacca le stesse parole su un motivo risoluto che svolge in un'ampia fuga. Poi, dopo questo slancio pieno di fede, la preghiera ripiega e si spegne in un novello salmodiare e mormorare sommesso.

Il Te Deum di Verdi fu composto fra il 1895 e il '96, cioè tra gli 83 e gli 83 anni.

È scritto per doppio coro e orchestra. Inizia con un canto fermo che passa dai bassi del 1° coro ai tenori del 2°. Sottovoce i gruppi virili dei due cori mormorano la preghiera alternandosi fino alla parola «Sanctus», in cui i due cori al completo e l'orchestra esplodono in un grido d'esultanza. Le voci indi si spengono dolcemente e i flauti espongono un motivo calmo, aereo, alternato a frasi melodiche unisone dei soprani e dei tenori. Ancora uno scatto vibrante d'entusiasmo alle parole «Patrem immensae majestatis», in alternanza con frasi sottovoce dolcissime. Gli ottoni annunciano un altro tema liturgico alle parole «Tu Rex gloriae», motivo che si sviluppa dapprima con soavità poi con solennità alle parole «Tu ad liberandum»: «è il Cristo che nasce dalla Vergine ed apre all'umanità Regnum Coelorum», commenta Verdi in una lettera a Giovanni Tebaldini.

La preghiera «Salvum fac populum tuum» è affidata ai soli due cori uniti, senza orchestra, con un'invocazione piena di sicura fede. Poi due temi già uditi si avvicendano in orchestra e nel coro con mutevoli espressioni di esultanza e di glorificazione. Ma al «Dignare, Domine» il canto si incupisce e si fa triste; «preghiera - commenta ancora Verdi parlando del testo - commovente, cupa, triste fino al terrore!». Quindi la preghiera si rasserena, si riaccende di speranza, e muore nel ritorno del tema «Pleni sunt coeli», più volte proposto e interrotto da un lungo e remoto squillo di tromba, quasi un'evocazione del Giudizio finale. Un ultimo grido di fede: «In te speravi», poi, nell'orchestra una lontana luce di cielo, il buio dell'abisso e il silenzio eterno.

Vivaldi Antonio (1678?-1741)

Concerto grosso in sol min. per archi e cembalo: vedi testo a pagg. 255-256.

Concerto grosso in re min.: vedi testo a pag. 256.

Il Concerto in la magg. per archi e cembalo è in tre tempi: il 1° tempo (Allegro) si apre con un tema deciso, energico, che si ripete come un ritornello fra il succedersi di motivi delicati e soavi ed effetti d'eco. - Il 2° tempo è un Larghetto cantabile, dolce e aggraziato. - Il 3° tempo (Allegro) inizia con un tema gaio, esuberante di vita e di energia ritmica, al quale seguono disegni pure vivaci ma di tinte fini. Questi temi si alternano fra loro con vicenda piena d'emozione spirituale.

Il Concerto per flauto e orchestra detto La Notte è uno dei concerti «descrittivi» del Maestro veneziano. Comprende sei brevi movimenti, ma solo per due l'Autore precisò il significato descrittivo. Infatti il 1° movimento è un Largo di espressione dolce e tenera che nelle molli note di canto del flauto sembra avvolgerci di luce azzurra. - Sul 2° movimento. Presto, il musicista ha scritto I fantasmi. I disegni dei violini sono agitati e volubili come ombre di larve notturne. - Nel 3° movimento, Largo, ritornano immagini serene e calme; ma il 4° (Presto) è di nuovo concitato e nervoso. - Sul 5° movimento è scritto Il sonno, espresso nella sua calma silenziosa da note lunghe, tranquille e soavi, come il queto respiro di uno che dorma in pace, senza sogni. - Il 6° movimento, Allegro, che inizia con disegni rapidi e vivi, quasi tempestosi, prosegue poi con una melodia del flauto gaia e giocosa, mentre i violini accompagnano con fresca vivacità.

Sarebbe vano cercare più precise significazioni, tanto più che il Vivaldi non le indicò e, d'altra parte, come in tutte le composizioni del «prete rosso», la maggior bellezza sta nella elegante e solida costruzione, e nell'animazione e nel dinamismo delle idee varie e geniali.

Le Quattro Stagioni, per archi e cembalo, fanno parte dell'opera «Il cimento dell'armonia e dell'invenzione». Sono un poema evocativo della vita nei quattro periodi stagionali dell'anno. Non si tratta di descrizioni, ma di intuizioni dello spirito, che anima gli avvenimenti e li sublima in forme d'arte perfette. Lo spunto all'ispirazione è stato dato all'Autore da poveri versi di un poeta ignoto. Accenniamo brevemente al carattere dei quattro poemetti musicali ciascuno dei quali è diviso in tre tempi. 1°. «La Primavera» - Allegro: atmosfera di fresca allegrezza, imitazione del gorgheggio di uccelletti, scorrere di rivi, bagliori e scrosci temporaleschi, rasserenamento della Natura che riconduce al motivo iniziale. - Largo: i bassi imitano il mormorìo delle fronde, mentre i violini s'abbandonano a un canto pastorale pieno di tenerezza. - Allegro: danza villereccia. Verso la fine il violino solista disegna una specie di cadenza, quasi recitativo patetico. - 2°. «L'Estate» - Allegro non molto: senso di afa, di pesantezza, espresso mediante frasi a cui manca il tempo forte. Poi s'ode il verso del cucù, quindi, più melodiosa, la tortora e i trilli del cardellino. Spira lo zeffiro. Il violino canta in a solo il pianto del pastorello che teme il temporale. - Adagio: sopra un lieve brusìo dei bassi i violini cantano una melodia patetica. - Presto: rumoreggia il tuono, folate di vento e lampi, indi esplode il temporale, più violento di quello primaverile. - 3°. «L'Autunno» - Allegro: movimento gaio di danza campestre esprimente la gioia per il buon raccolto. L'allegria si accentua con veloci e vivaci disegni dei violini, ispirati ai versi che accennano al vino, con imitazione di barcollamenti nei bassi per l'ebbrezza. Poi un movimento di ampie oscillazioni prepara il sonno del villano. - Adagio: vasti arpeggiati dei bassi su cui si stende una larga melodia riposante: è il sonno calmo del contadino. - Allegro: il risveglio; motivi di corni da caccia, movimento di cavalcata a terzine. La preda è inseguita e uccisa. Ancora il tema iniziale festoso. - 4°. «L'inverno» - Allegro molto: tema a note ribattute, come un tremito di freddo. Nelle note acutissime i violini disegnano l'impressione di un vento gelido con rapidi arpeggi e scalette discendenti simili a brividi. Ritmo accentuato di note ribattute esprimenti l'atto di battere i piedi per riscaldarsi. - Largo: arpeggi pizzicati descrivono la pioggia. Su di essi si stende una purissima melodia che dà il senso della serenità domestica attorno al focolare. - Allegro: scivolìo veloce di note simile allo scivolare dei piedi sul ghiaccio. Questo si rompe: la frase si spezza e precipita come uno che cada. Di nuovo tremolìo d'archi e scorrere di note acute imitanti il vento. Poi ancora il tema gioioso: la speranza della prossima vita primaverile.

Wagner Riccardo (1813-1883)

La sinfonia dell'opera Il Vascello fantasma, riassume le vicende del dramma. Si inizia con un grido selvaggio dei corni: è la nave maledetta dell'Olandese die si appressa. Lo scroscio fragoroso della tempesta l'accompagna. In una sosta ecco elevarsi un canto patetico: la voce dell'amore di Senta, canzone redentrice che appare come una rivelazione divina, come una speranza sovrumana al condannato. Poi la bufera s'avventa ancora violenta contro la nave: all'urlo del vento, all'impeto delle onde sembrano associarsi le strida di spiriti malefici. Ma l'amore puro e fedele di Senta prevale: il suo canto redentore si alterna alle voci demoniache della natura infuriata, s'aderge come un richiamo, splende come un miracolo. Ed ecco il sacrificio finale in cui l'eroina rinunzia alla propria vita per salvare colui ch'essa ama: il mare s'acqueta, il vascello sprofonda nei gorghi marini, le anime dell'Olandese e della sua salvatrice salgono al cielo congiunte per sempre in un'esistenza d'amore eterno ultraterreno.

La sinfonia del Tannhäuser esprime l'epica lotta del protagonista tra l'amore sacro e l'amore profano. Si apre col tema del coro dei pellegrini, a cui ben presto fanno seguito i motivi irruenti e sensuali, i brividi lascivi e molli, i fremiti erotici del Venusberg. L'amore profano sembra trionfare nell'esplosione dell'inno con cui Tannhäuser canterà poi le lodi di Venere. Varie sono le alternative della lotta: fantasmi procaci ed ebbri appaiono in pose provocanti e seduttrici; ma essi vengono ben presto fugati. I violini descrivono questa fuga scompigliata con rapidi disegni discendenti come larve che svaniscano, mentre riappare il motivo sacro; il quale a poco a poco finisce per dominare, solenne, in un trionfo di sonorità luminosa, mentre il disegno dei violini simboleggiante la fuga delle immagini dell'amore profano persiste e forma uno sfondo che anima in un movimento di tripudio lo stesso canto sacro.

Nell'edizione data a Parigi nel 1859 Wagner soppresse il ritorno dell'inno sacro in fondo alla sinfonia, saldando questa alla prima scena dell'opera e sviluppando il Baccanale che con i suoi ritmi balzanti sfrenati e orgiastici, le frasi voluttuosamente scorrevoli e languide, i timbri caldi, le vertigini di suoni, gli scoppi di una frenesia delirante, crea un'atmosfera di sensualità suggestiva e magica.

Il preludio all'atto 1° del Lohengrin ci solleva fra le mistiche visioni del San Gral. Le note acute e flautate degli archi sembrano accendere nel firmamento una luce eterea; e sùbito il «tema del San Gral» ci apre le porte del mistero. Il motivo sacro si svolge lento e solenne, acquista in sonorità passando per diversi gruppi di istrumenti, fino a trionfare maestoso negli ottoni; poi quetamente declina e si spegne come una visione miracolosa negli eccelsi bagliori celestiali. - Questa pagina esprime il miracolo del sangue di Cristo che ogni anno risplende per una grazia divina entro la coppa di smeraldo del San Gral, e redirne dalla morte e dal male.

Dal preludio del 3° atto del Lohengrin prorompe una gioia impetuosa, eroica, e quasi selvaggia, per le nozze di Lohengrin con Elsa di Brabante. Una breve parentesi idillica interrompe un istante la sonorità gioiosa per rappresentarci la serena pace del cuore innocente della principessa, che nessun dubbio ha ancora turbato; dubbio che però affiora minaccioso nel «tema del divieto» con cui il preludio si chiude.

Il preludio dell'opera Tristano e Isotta è intessuto su due temi fondamentali: il primo è il «tema del filtro d'amore» con cui il preludio si apre; l'altro è il «tema dell'incantamento d'amore»; uno esprime la causa del dramma, il secondo l'effetto. Questi due motivi si allacciano e si sviluppano sospirosi, languidi e tormentosi insieme; dapprima patetici, poi sempre più ardenti, come per la spinta di un eccitamento febbrile e di un desiderio veemente, elevandosi di tono, dalla carezza sottile al grido di spasimo, mentre nei bassi si afferma cupo il «tema del filtro di morte». All'apparire di questo terzo tema risolutore, gli altri due si dissolvono come larve nell'ombra e nel nulla dolorosamente.

Il Canto della morte d'Isotta, che chiude l'opera Tristano e Isotta, sorge sul «tema della morte» e su quello dell' «estasi d'amore». Una melodia gonfia di rimpianto e di tenerezza profonda ascende per gradi, per progressioni simili a strappi laceranti dell'anima, si snoda in turbini di dolore fino al parossismo e allo schianto. Isotta si ripiega morente sull'amante estinto; le voci dell'amore si placano, la frase melodiosa diviene eterea e spirituale e si estingue in un sospiro. - Nei concerti. Preludio e «Morte d'Isotta» si eseguiscono associati.

La sinfonia de I Maestri Cantori di Norimberga è una espressione densamente polifonica. Tutte le idee principali dell'opera vi appaiono, si sovrappongono, si fondono, con una ricchezza di particolari e con un'originalità di contrappunti e di impasti strumentali soggiogante. Sovra gli altri spicca il tema rigido e pesante della «corporazione dei Maestri Cantori», che apre sonoramente la sinfonia. Ma tosto accanto a questo se ne notano altri: i temi amorosi, a volte flebili, a volte appassionati, di Eva e di Walter, il tema grave di Hans Sachs e quello burlesco e saltellante di Beckmesser. E mentre l'idillio soave e profumato si svolge all'ombra del grottesco contrappunto degli andi Maestri, il canto baldo e ispirato del geniale cantore sboccia fresco di giovinezza, bello della sua stessa libera audacia canora, pieno di una luce che commuove e rapisce. Alla fine una sintesi potente riunisce questi temi e prepara il ritorno trionfale del «tema dei Maestri» con cui la sinfonia si conclude.

L'Ingresso degli Dei nel Walhalla è la scena finale dell'opera L'Oro del Reno che costituisce il prologo dell'Anello del Nibelungo. Gli Dei entrano nella reggia costruita dai giganti e pagata con l'oro maledetto rapito ai Nibelunghi; passano su l'arcobaleno che loro serve di ponte, e l'orchestra commenta il loro viaggio col grave e solenne «motivo del Walhalla». Ma dal fondo del Reno sale il «pianto delle Ondine»: esse implorano che sia loro ridato l'oro, strappato al fondo del fiume dal nano Alberico maledicendo l'amore. Esso porterà maledizione a chiunque lo possieda su la Terra o nel Cielo. E il Dio Wotan pensa a creare un liberatore: il «motivo della spada» balena nelle trombe. Poscia si riprende la marcia mentre in orchestra il «motivo dell'arcobaleno» risuona fortissimo.

La Cavalcata delle Walkirie costituisce l'introduzione e la prima scena del 3° atto dell'opera La Walkiria, 1ª giornata dell'Anello. Le Walkirie cavalcano fra la tempesta nel cielo e discendono su la vetta di un alto monte recando le spoglie degli eroi caduti in combattimento. Un ritmo balzante, impetuoso e maestoso insieme, intonato fieramente dagli ottoni, forma il nucleo fondamentale di questa pagina sinfonica e, con altri elementi descrittivi (nitriti dei cavalli, grida selvagge di guerra e di vittoria delle Walkirie, raffiche di vento sibilanti, ondate di nubi e scrosci di tempesta) le conferisce una suggestiva espressione fantastica.

L'Incantesimo del fuoco è l'episodio sinfonico che chiude l'opera Walkiria. Addormentata Brunilde, il dio Wotan chiama Loge, dio del fuoco, e gli ordina di circondare di fiamme la dormiente. Solo un eroe che non tema il terrore potrà varcare il mare di vampe e fare sua la figlia prediletta di Wotan che il Dio punì per avere disobbedito ai suoi ordini. Al richiamo di Wotan un brusìo si diffonde per tutta l'orchestra: il «motivo del fuoco» col suo ritmo vivace e irrequieto scintilla, striscia e balena. Su di esso si stende blando il «motivo del sonno di Brunilde». Poscia corni e tromboni annunciano il «tema dell'eroe liberatore», Sigfrido, tema di espressione veramente eroica, sùbito raccolto e ripetuto con maggior splendore ed energia sonora dalle trombe, dai tromboni e dalle tube. Successivamente corni, violoncelli e viole cantano il commosso e solenne «addio di Wotan alla figlia»; quindi rimangono soli a dominare il quadro i due temi uniti del «sonno» e delle «fiamme», temi che lentamente si estinguono come una visione che dilegui nel sogno, fra le ripetute «interrogazioni'al Destino».

Il Mormorio della foresta è stato tratto dal 2° atto dell'opera Sigfrido, 2ª giornata dell'Anello. Presso l'antro del drago ucciso, all'ombra di un tiglio, Sigfrido pensa alla madre morta. Attorno a lui la foresta si desta alla vita in un leggero e dolce frusciare di fronde, un lene mormorare d'acqua, un pispigliare di uccelletti. Uno di questi canta di una vergine guerriera che dorme sopra un'alta montagna fra un cerchio di fiamme. Essa apparterrà a chi oserà svegliarla. Sigfrido in un impeto di baldanza giovanile si leva brandendo la spada e s'incammina, mentre l'uccellino vola davanti a lui per insegnargli la via. - Mai il sentimento panico della natura fu espresso musicalmente con tanta efficacia e intensità d'accenti. La musica qui adempie il suo vero ufficio; non descrive: crea; è poesia alata.

Il Viaggio di Sigfrido sul Reno è tratto dall'intermezzo che collega il prologo con il 1° atto dell'opera Il crepuscolo degli Dei, 3ª giornata dell'Anello. Il «tema di Brunilde quale creatura umana» segue Sigfrido mentre si avvia verso nuove gesta eroiche. Lo squillo del suo corno lo rallegra, e intanto su la vetta intorno a Brunilde le fiamme guizzano e ondeggiano ancora. Ed ecco le acque del Reno, al cui fluttuare si mescola il pianto delle Ondine per l'oro che fu loro rapito, e di cui i corni rievocano ancora il tema. Poi è la volta del «motivo della rinuncia all'amore» e di quello magico «dell'anello». Accompagnato da questi fantasmi e ricordi, dei quali Sigfrido non intende il significato, egli giunge alla reggia dei Gibicunghi, ove sarà tradito ed ucciso.

La Marcia funebre in morte di Sigfrido (atto 3° del Crepuscolo degli Dei) è preceduta da rapidi e cupi disegni di scale, simili a un franamento immane, cui succedono alcune pause sbigottite, indi segue il tema ritmico violento «della morte» che sùbito si collega alla sfilata solenne di tutti i temi eroici di Sigfrido e della stirpe dei Welsunghi: quello della loro sventura, quello dell'amore di Siglinda per Sigmondo, il tema della spada, che qui acquista una tragica sonorità; quello del corno di Sigfrido, qui divenuto fanfara maestosa, e infine, come una eco dolorosa, il motivo di Brunilde. Il collegamento di questi motivi è fatto con tale arte che sembrano nati l'uno dall'altro pel soffio di un'unica intuizione. E sembra che non un eroe ma un intero mondo eroico sia crollato sotto l'urto di un Destino implacabile. È, insieme alla «Marcia funebre» della III Sinfonia di Beethoven, uno dei più alti canti composti in morte di un eroe.

L'Incantesimo del Venerdì Santo è una delle pagine musicali più spirituali di tutta la produzione wagneriana. Essa è tratta dal 3° atto dell'opera Parsifal. Consacrato Re del San Gral nel giorno del Venerdì Santo, Parsifal volge attorno lo sguardo su la bellezza del paesaggio mattutino, dolorosamente meravigliato che in tal giorno la Natura sia tutta un sorriso. Ma il saggio Gurnemanz lo avverte: «Questo è il giorno della redenzione: la rugiada che ricopre i prati è il pianto del pentimento; sotto di essa il fiore e l'erba levano il capo. Ogni creatura aspira al Redentore e trasalisce di gioia davanti all'Uomo purificato dal sacrificio divino». Questo il significato dell'ampia, eterea melodia che interpreta l'incantesimo della Natura sorridente e dell'umanità redenta.

L'Idillio di Sigfrido, scritto da Wagner nel 1869 per la nascita del figlio, esprime la tenerezza infinita dell'amore paterno e la ingenua serenità della vita infantile intorno alla quale s'adunano i sogni profetici di una vita eroica. La musica si eleva gradatamente dalle caste emozioni che desta la vista di una culla, alla canzonetta che allieta l'innocenza sorridente dei giochi infantili, fino alla evocazione di un'esistenza passionalmente vissuta nella piena libertà dell'ideale, al cospetto della natura e nel fascino della poesia che da lei si sprigiona, e che raggiunge la perfezione nella sublimità di un amore puro e forte che consola e redime. È soprattutto in quest'ultima parte del meraviglioso poema sinfonico che compaiono alcuni dei più significativi temi già usati da Wagner nell'opera Sigfrido.

Weber Carlo Maria (1786-1826)

La sinfonia dell'opera Der Freischütz (Il franco cacciatore) composta nel 1817-20 ed eseguita nel 1821, nobilmente concepita, intessuta di melodie commosse e di largo disegno (specie la patetica frase del clarinetto), condotta con sapiente chiarezza, avvince per la ricchezza della forma e per il calore di vita da cui tutta è pervasa. Si apre con una fanfara di corni, dopo la quale vengono esposti alcuni dei principali motivi dell'opera collegati con tale arte da farne un vero poemetto. Anche le tinte orchestrali sono state trovate in modo da contribuire all'espressione drammatica dell'insieme.

La sinfonia dell'Oberon (1926) ci trasporta in un mondo fiabesco. In questo mondo ci introducono di colpo le tre note lente e misteriose del corno, che costituiscono il richiamo magico di Oberon. Nulla di più aereo del successivo disegno picchiettato dei legni, che contrappunta il canto degli archi nell'Adagio iniziale. L'Allegro che segue ci presenta altri motivi fondamentali dell'opera, organicamente collegati e abilmente coloriti da una strumentazione piena di gusto. Ma ciò che trascina in questo Allegro è lo slancio dei motivi che si stendono come un prezioso arabesco sempre più luminoso quanto più esso procede verso la conclusione.

Wolf Ugo (1860-1903)

La Serenata Italiana per piccola orchestra è costruita su una scorrevole successione di motivi elastici di danza e di canzoni spigliate, in un alone di colori strumentali e di vaghe trame armoniche e contrappuntistiche, le quali creano un'atmosfera di poesia suggestiva. La chiusa è leggera e sfumata con grazia quasi burlesca. - Di questa Serenata, composta nel 1893-94, Wolf non finì che il 1° tempo; e spesso viene eseguita anche pel solo quartetto d'archi.

Wolf-Ferrari Ermanno (1876-1948)

La sinfonia dell'opera Il segreto di Susanna (1909) è tutta leggerezza e sottili accenti di tenerezza. Ma specialmente mirabile è il cicaleccio arguto degli istrumenti e il brioso spirito delle idee principali, e l'umorismo delle contrapposizioni tematiche. L'autore la chiamò «Ouverture in miniatura, a quattro temi».

Zandonai Riccardo (1883-1944)

Serenata medievale per violoncello solista, archi, arpa e 2 corni. Due corni chiusi emettono ripetuti richiami come da lontano, alternati a un misterioso brusìo degli archi su cui cadono tintinni d'arpa. Poi il violoncello intona un canto appassionato e malinconico. L'arpa continua ad aggiungere sciolti disegni sul mormorio dei violini. Si riode il remoto richiamo dei corni, cui rispondono i violini ricantando nel registro acuto la frase enunciata dal violoncello su una trama d'arpeggi. A un nuovo richiamo dei corni il violoncello reagisce con un motivo più appassionato, quasi in forma di concitato monologo, su un movimento vivo degli archi e dell'arpa; ma il canto è improvvisamente troncato per lasciare udire ancora il lontanissimo suono evocatore dei corni. Ora il violoncello riprende sommesso il suo pianto sul lieve brusìo dei violini e il morente scintillìo dell'arpa.

Indice dei musicisti, delle loro composizioni e degli scrittori citati [Indice]

A

Abbiati Franco (1898), p. 254.

Adorno Piero (1924), p. 266.

Agostino (S.) (354-430), p. 196.

Albeniz Isacco (1860-1909), p. 271, 352;

Cordoba, Navarra, Prelude, p. 271; Triana, p. 272.

Alfano Franco (1876-1954), p. 190, 191;

Cyrano, p. 191; Don Juan de Manara, p. 191; Resurrezione, p. 191; Sakuntala, p. 191.

Algarotti Francesco (1712-1764), p. 113-114.

Alighieri Dante (1265-1321), p. 19, 278.

Andreoli Carlo (1840-1908), p. 11, 70.

Andreoli Guglielmo (1862-1932), p. 70.

Anerio Giov. Francesco (1567-1621?);

Teatro armonico spirituale, p. 201.

Ariosti Attilio (1666-1740), p. 89.

Arrivabene Opprandino (1805-1887), p. 11, 146.

Artusi Giov. Maria (1540?-1613), p. 10.

Auber Daniele (1782-1871);

Fra Diavolo, p. 148.

B

Bach Giovanni Sebastiano (1685-1750), p. 11, 15, 16, 19, 23, 36, 71, 75, 87, 106, 109, 110, 111, 202, 203, 206, 214, 251-255, 375, 380, 383;

Aria, p. 87, 253; Capriccio sopra la lontananza del fratello dilettissimo, p. 227; Ciaccona, p. 254; Il clavicembalo ben temperato, p. 15, 104, 109, 253; concerti: C. nello stile italiano, p. 253, 272-273; C. in mi magg. per violino e orch., p. 273; C. in re min. per 2 violini e orch., p. 273; Concerti Brandeburghesi, p. 36, 255, 256, 274-275;

Fantasia cromatica E fuga in re min., p. 109, 253;

Invenzioni a 2 e 3 voci, p. 104, 252-253;

Messa in si min., p. 104, 197, 277-279;

Oratorî: Oratorio di Natale, p. 203; La Passione secondo S. Giovanni, p. 203; La Passione secondo S. Matteo, p. 203, 254, 275-277;

Preludi, p. 75, 76, 253;

Toccate: p. 253; T. e fuga in do magg., p. 109, 254, 272; T. e fuga in re min., p. 109, 254, 272.

Banchieri Adriano (1567-1634);

Il festino del Giovedì grasso, p. 213; La pazzia senile, p. 213, La saviezza giovenile, p. 213.

Barblan Guglielmo (1906), p. 7.

Barilli Bruno (1880-I952), P. 202.

Bartók B éla (1881-1945), p. 280.

Allegro barbaro, p. 280; Danze Romene e Ungheresi, p. 280-281; Il Mandarino meraviglioso, p. 194; Quartetti per archi, p. 281; 1ª Sonata per violino e piano op. 18, p. 280; Suite per piano op. 14, p. 280.

Bazzini Antonio (1818-1897), p. 232;

«Ronde des Lutins», p. 231.

Beethoven (van) Ludwig (1770-1827), p. 7, 9, 12, 13, 18, 23, 26, 36, 78, 82, 85, 87, 89, 104, 146, 151, 215, 250-251, 258, 259, 260, 261, 263, 279, 281-306, 312, 313, 329, 361, 376, 418, 420, 426;

Concerti: C. in re magg. per violino e orch. op. 61, p. 290; C. n. 3 in do min. per piano e orch. op. 37, p. 290-291; C. n. 4 in sol magg. per piano e orch. op. 58, p. 291; C. n. 5 in mi bem. per piano e orch. op. 73, p. 291;

Cristo sul monte Oliveto, p. 204; Fidelio, p. 151, 299; Messa solenne in re magg. op. 123, p. 109, 198, 305-306;

Ouvertures: O. per il Coriolano, p. 225, 299; O. per l'Egmont, p. 225, 299; O. Leonora 3ª, p. 299;

Quartetti: Q.tti dell'op. 18, p. 293, 297; Q. in fa magg. op. 18 n. 1, P. 293; Q. in sol magg. op. 18 n. 2 (dei complimenti), p. 293; Q. in do min. op. 18 n. 4, p. 294; Q. in si bem. magg. op. 18 n. 6 (della malinconia), p. 294; Q. in fa magg. op. 59 n. 1, p. 263, 294-295; Q. in mi min. op. 59 n. 2, p. 295; Q. in do magg. op. 59 n. 3, p. 295; Q. in mi bem. magg. op. 74 (dell'arpa), p. 295-296; Q. in fa min. op. 95 (serioso), p. 296; Q. in mi bem. magg. op. 127, p. 296-297; Q. in do diesis min. op. 131, p. 297; Q. in la min. op. 132, p. 297-298;

Romanza per violino e piano, p. 242;

Settimino in mi bem. magg. op. 20, p. 298, 419;

Sinfonie: S. n. 1 in do magg. op. 21, p. 298, 299-300; S, n. 2 in re magg. op. 36, p. 300-301; S. n. 3 (Eroica) in mi bem. magg. op. 55, p. 12, 47, 78, 233, 300, 447; S. n. 4 in si bem. magg. op. 60, p. 301-302; S. n. 5 in do min. op. 67, p. 12, 13, 36, 78, 104, 266, 295, 302, 321; S. n. 6 (Pastorale) in fa magg. op. 68, p. 38, 68, 90, 223-224, 233, 295, 364; S. n. 7 in la magg. op. 92, p. 36, 59-60, 223, 302-303; S. n. 8 in fa magg. op. 93, p. 303-304; S. n. 9 (con cori) in re min. op. 125, p. 18, 60, 78, 85, 86, 214, 223, 296, 304-305, 320;

Sonate: So. per violino e piano: So. n. 3 in mi bem. magg. op. 12, n. 3, p. 281-282; So. n. 5 (la Primavera) in fa magg. op. 24, p. 259, 282, 283; So. n. 7 in do min. op. 30, p. 259, 282; So. n. 9 (a Kreutzer) in la magg. op. 47, p. 9, 23, 38, 42, 259, 282-283, 419; So. per violoncello e piano: 2 So., p. 5, 283; So. n. 3 in la magg. op. 69 n. 3, p. 283; So. n. 5 in re magg. op. 102, p. 283; So. per pianoforte: So. n. 7 in re magg. op. 10, n. 3, p. 38, 283-284; So. n. 8 in do min. op. 13 (Patetica), p. 56, 259, 284; So. n. 12 in la bem. magg. op. 26, p. 46, 284; So. n, 13 in mi bem. magg. op. 27 n. 1, p. 284-285; So. n. 14 in do diesis min. op. 27 n. 2 quasi una Fantasia (Chiaro di luna), p. 39, 259, 285; So. n. 18 in mi bem. magg. op. 31 n. 3, p. 285-286; So. n. 20 in sol magg. op. 49 n. 2, p. 250; So n. 21 in do magg. op. 53 (l'Aurora), p. 259, 286; So. n. 23 in fa min. op. 57 (Appassionata), p. 18, 38, 78, 82, 85, 259, 286-287; So. n. 26 in mi bem. magg. op. 81 (gli Addii), p. 250-251, 259, 287-288; So. n. 28 in la magg. op. 101, p. 288; So. n. 30 in mi magg. op. 109, p. 289; So. n. 31 in la bem. magg. op. 110, p. 85, 109, 289; So. n. 32 in do min. op. 111, p. 42, 289-290;

Trii per violino violoncello e piano: T. in si bem. magg. op. 11 n. 4, p. 292; T. in re magg. op. 70 n. 1 (delle Streghe), p. 292; T. in mi bem. magg. op. 70 n. 2, p. 292; T. in si bem. magg. op. 97 (dell'Arciduca), p. 292-293; Trii per soli archi: Trio-Serenata op. 8, p. 281; T. op. 9, p. 281: T. in do min. op. 9 n. 3, p. 281;

32 Variazioni per piano in do min., p. 259-281.

Belcari Feo (1410-1484), p. 402.

Bellini Vincenzo (1801-1835), p. 7, 8, 57, 127, 136-139, 140, 144, 172.

Norma, p. 7, 10, 13, 19, 47, 55-56, 57, 58, 85, 89, 90, 114, 136, 137, 138-139, 140, 156, 214; I Puritani, p. 95, 127, 137; La Sonnambula, p. 137, 139, 140.

Berg Albano (1885-1935);

Wozzek, p. 193.

Berlioz Ettore (1803-1869), p. 10, 14, 91, 147, 227, 301, 307-310;

«Aroldo in Italia«, p. 88, 227, 228, 307-308; Beatrice e Benedetto, p. 150; Benvenuto Cellini, p. 150, 307; «Carnevale Romano», p. 307; La dannazione di Faust, p. 10, 38, 47, 48, 62, 89, 90, 91, 110, 149-150, 229, 230, 417; L'Infanzia di Cristo, p. 205, 308, 310; Requiem, p. 205; «Sinfonia fantastica», p. 227; I Troiani, p. 150.

Bésard Giov. Battista (sec. XVII);

Danza rustica, p. 409; Aria di Corte, p. 410.

Bismarck (von) Ottone (1815-1898), p. 287.

Bizet Giorgio (1838-1875), p. 8, 136, 166, 176, 310-311;

L'Arlesienne, p. 310-311; Dyamileh, p. 169; Carmen, p. 36-37, 39, 168-169; «Jeux d'enfants», p. 311; I pescatori di perle, p. 169.

Bloch Ernesto (1880), p. 239, 311-312;

«Israel», p. 311; Macbeth, p. 193; «Schelomo», p. 238; Quintetto, p. 311

Boccaccio Giovanni (1313-1375), p. 401-402.

Boccherini Luigi (1743-1805), p. 89, 249, 312, 359, 384;

Concerto in si bem. magg. per violoncello e orch. op. 34, p. 313;

Minuetto in la dal 6° Quintetto, p. 248;

Quartetti, p. 312: Q. in mi bem. magg. op. 58 n. 3, p. 312; Q. in re magg. op. 58 n. 5, p. 312-313;

Quintetti, p. 312; Quint. in re min. op. 18 n. 2, p. 313; Quint. in la magg. op. 28 n. 2; p. 313;

Stabat Mater op. 61, p. 312, 313-314.

Boïeldieu Adriano (1775-1834), p. 148;

Boito Arrigo (1842-1918), p. 14, 114, 143, 145-148;

Mefistofele, p. 62, 69, 70, 78, 92, 95, 106, 110, 145-147, 148, 199; Nerone, p. 146, 147-148, 199.

Bonaventura Arnaldo (1862-1952), p. 242.

Bononcini Giovanni (1670-1747), p. 89, 202.

Borodine Alessandro (1834-1887), p. 314;

Danze da Il Principe Igor, p. 315-316; Quartetto n. 2 in re magg., p. 314;

Sinfonia n. 2 in si min., p. 314-315; «Nelle steppe dell'Asia centrale», P. 71, 233.

Brahms Giovanni (1833-1897), p. 74, 82, 87, 214, 258, 259, 260, 263, 267, 313, 316-324, 376.

Concerti: C. per violino e orch. in re magg. op. 77, p. 317-318; C. per piano e orch. in re min. op. 15, p. 318;

Danze ungheresi, p. 316; Liebes-lieder, p. 214; Lieder, p. 216-217;

Tre Intermezzi per piano op. 117, p. 316; Ouverture tragica, p. 319;

Quartetto in do min. op. 51 n. 1, p. 318-319; Quintetto in fa min. op. 34, P. 319;

Requiem tedesco, p. 104, 109, 204, 205, 323-324;

Sinfonie: S. n. 1 in do min. op. 68, p. 267, 319-320; S. n. 2 in re magg. op. 73, p. 320; S. n. 3 in fa magg. op. 90, p. 320-321; S. n. 4 in mi min. op. 98, p. 321-323.

Sonate; So. in fa diesis min. per piano op. 2, p. 316; So in sol magg. per violino e piano op. 78, p. 316-317; So. in re min. per violino e piano op. 108, p. 317; So. n. 2 in fa magg. per violoncello e piano op. 99, p. 317;

Trii per violino violoncello, e piano: T. in do magg. op. 87, p. 318; T. in do min. op. 110, p. 318;

Variazioni: V. su tema di Händel, p. 259, 317; V. su tema di Haydn, p. 42, 259, 317; V. su tema di Paganini, p. 259, 317; V. su tema di Schumann, p. 259, 317.

Britten Benjamin (1913);

Sinfonia da requiem, p. 324.

Bruch Max (1838-1920), p. 87;

Concerto per violino e orch. in sol. min. op. 26, p. 324.

Bruckner Antonio (1824-1896), p. 325-326;

Sinfonia n. 4 in mi bem. magg., p. 325; S. n. 6 in la magg., p. 325-326.

Busch Adolfo (1891-1952), p. 82.

Busoni Ferruccio (1866-1924), p. 82, 186-187;

Arlecchino, p. 187; Il Dottor Faust, p. 187; Ouverture a una commedia, p. 326; Sonata n. 2 per violino e piano op. 36, p. 326; Turandot, p. 186-187, 326.

C

Caccini Giulio (1550-1618);

Euridice, p. 114-115.

Cagnoni Antonio (1828-1896);

Papà Martin, p. 148.

Caletti Bruni: vedi Cavalli.

Calzabigi (dei) Raniero (1714-1795), p. 123, 154.

Cambini Giov. Giuseppe (1746-1825), p. 312, 359, 384.

Carissimi Giacomo (1605-1674), p. 201, 202, 206, 275, 380, 391;

Giona, p. 201; Il giudizio di Salomone, p. 201; Jefte, p. 201, 326-327

Carosio Fabrizio (sec. XVI);

«Laura soave», p. 409.

Carpani Giuseppe (1752-1825), p. 360.

Casella Alfredo (1883-1947), p. 190, 191-192, 327-329;

Concerto per archi timpani pianoforte e batteria op. 79, p. 327-328; La donna serpente, p. 192, 329; La giara, p. 192, 194, 328; Introduzione, Aria e Toccata, p. 328; Serenata per piccola orchestra op. 45, p. 329.

Catalani Alfredo (1854-1893), p. 175;

Edmea, p. 175; Loreley, p. 70, 175, 229; La Wally, p. 70, 175-176.

Cavalieri (dei) Emilio (1550-1602);

Rappresentazione di Anima et di Corpo, p. 113.

Cavalli (Caletti Bruni) Francesco (1602-1676), p. 118, 188;

Ciro, p. 118; Giasone, p. 118; Pompeo Magno, p. 118; Serse, p. 118.

Cavazzoni Girolamo (1ª metà del sec. XVI), p. 102, 241.

Cesti MarcAntonio (1623-1669), p. 119;

Orontea, p. 119; Tito, p. 119.

Chamisso (von) Adalberto (1781-1838), p. 216.

Charpentier Gustavo (1860-1956), p. 169-170; 187;

Luisa, p. 169-170.

Cherubini Luigi (1760-1842), p. 133, 136, 137, 198, 329-330;

Anacreonte: ouverture, p. 329; Medea, p. 133; Requiem in do min., p. 329-330; Sinfonia in re magg., p. 329.

Chilesotti Oscar (1848-1916), p. 102.

Chopin Federico (1810-1849), p. 73, 82, 241, 242-243, 245, 249. 259, 331-335, 353, 422;

Ballate, p. 243, 331; B. in sol min. op. 23, p. 243; Barcarola op. 60, p. 244; Berceuse in re bem. op. 57, p. 71, 244;

Concerti: Gran C. in mi min. op. 11 per piano e orch., p. 334; C. in fa min. op. 21 per piano e orch., p. 335;

Fantasia in fa min. op. 49, p. 332; improvvisi, p. 331;

Mazurche, p. 245, 331: M. op. 50 n. 3, p. 73; M. op. 56 n. 3, p. 73;

Notturni, p. 331: N. in mi bem. op. 9 n. 2, p. 242; N. in do min. op. 48 n. 1, p. 243; N. in do diesis min. op. 27 n. 1, p. 332;

Polacche, p. 245, 249, 331: P. in la bem. magg. op. 53, p. 249, 333;

Preludi, p. 331: Prel. op. 28, n. 15, p. 313, 331-332;

Scherzi, p. 332: Sch. in si bem. min. op. 31, p. 259, 333; Sch. in do diesis min. op, 39, p. 333; sonate: So. in do min. op. 4, p. 39; So. in si bem. min. op. 35, p.39, 334; studi, p. 332: St. op. 10 n. 12, p. 100; St. op. 25 n. 7, p. 73;

Valzer, p. 245, 331.

Ciaicowski Pietro (1840-1893), p. 260, 335-337;

Concerti: C. in re magg. op. 35 per violino e orch., p. 335; C. in si bem. min. op. 23 per piano e orch., p. 335;

Lo Schiaccianoci, p. 337; sinfonie: S. n. 5 in mi min. op. 64, p. 336; S. n. 6 in si min. op. 74 (Patetica), p. 336-337.

Cilèa Francesco (1866-1950), p. 176;

Adriana Lecouvreur, p. 176; L'Artesiana, p. 176.

Cimarosa Domenico (1749-1801), p. 126, 127, 128;

Le astuzie femminili, p. 127; Giannina e Bernardone, p. 127; Il matrimonio segreto, p. 78, 127-128.

Clement Franz (1780-1842), p. 290.

Clementi Muzio (1752-1832), p. 258, 386;

«Gradus ad Parnassum», p. 106;

Sonate per piano: So. «Didone abbandonata» p. 106; So. op. 40 n. 3, p. 106; So. op. 47 n.2, p. 336.

Codazzi Edgardo (1856-1921), p. 70.

Combarieu Giulio (1859-1916), p. 26, 205, 250.

Corelli Arcangelo (1653-1713), p. 87, 255, 337-338;

Concerto grosso n. 8 «per la Notte di Natale», p. 224, 255; «La Follia», p. 337.

Costa Mario (1858-1933);

L'Histoire d'un Pierrot, p. 218.

Costa Michele (1806-1884), p. 79.

Couperin Francesco «Le Grand» (1668-1733), p. 81, 85, 234;

«Barricate misteriose», p. 234; «Le farfalle», p. 234; «I mietitori», p. 234; «Suor Monica», p. 234; «L'usignolo in amore», p. 81, 232.

Croce Benedetto (1866-1952), p. 26, 27.

Croce Giovanni (1557-1609);

«La Triacca musicale», p. 213.

D

D'Annunzio Gabriele (1863-1938), p. 117, 121, 318-319, 401.

Da Ponte Lorenzo (1749-1838), p. 388.

Daquin Luigi (1694-1772);

«Il cucù», p. 232.

Darwin Carlo (1809-1882), p. 21.

Dauriac Lionel (1847-1923), p. 23.

Debussy Claudio (1862-1918), p. 10, 75, 84, 170-172, 234, 258, 263, 338-341;

«In battello», p. 338-339; «La cattedrale sommersa», p. 236, 338; «Chiaro di luna», p. 236; «Children's Corner», p. 236, 339; Cinque Poemi, p. 75; «Ciò che ha visto il vento d'occidente», p. 236; «Danse sacrée et Danse profane», per arpa e orch., p. 340; «La fanciulla dai capelli di lino», p. 338; «Fuochi d'artificio», p. 339; "Giardini sotto la pioggia», p. 236, 338; Liriche, p. 217; Notturni, p. 340; «Passi su la neve», p. 236; Pelléas et Mélisande, p. 10, 62-63, 75, 170-172; «Pesci d'oro», p. 339; «Prelude a l'après-midi d'un faune», p. 75, 236, 340;

Poemi sinfonici: «Iberia», p. 235, 340-341; «La Mer», p. 235;

12 Preludi per piano, p. 338; Quartetto in sol min. op. 10, p. 263, 339;

Suite bergamasque, per piano, p. 338.

De Falla Manuel (1876-1946), p. 341, 352;

El amor brujo, p. 341; Asturiana, p. 341; Canzone gitana, p. 341; Il cappello a tre punte, p. 194, 341; La danza del tricorno, p. 341; Jota, p. 341; El retablo de Maese Pedro, p. 194; La vita breve, p. 194; La danza del fuoco, P. 341.

Delibes Leo (1836-1891);

Silvia, p. 87, 194.

Della Corte Andrea (1883), p. 75.

Denza Luigi (1846-1922), p. 217.

De Saint Pierre Bernardino (1737-1814), p. 24.

D'Indy Vincenzo (1851-1931), p. 109, 260.

Donizetti Gaetano (1797-1848), p. 7, 8, 126, 127, 139-141;

Anna Bolena, p. 140; Il campanello, p. 140; Don Pasquale, p. 93, 140, 141; L'Elisir d'amore, p. 13, 91, 140, 141; La Favorita, p. 31, 34, 51-52, 105, 140, 199; Lucia di Lammermoor, p. 52, 81, 95, 127, 139, 140, 141; Lucrezia Bargia, p. 140; Maria di Rohan, p. 140; Poliuto, p. 140; Rita, p. 140; Tasso, p. 140.

Dukas Paolo (1865-1935), p. 172-173;

«L'apprendista stregone», p. 60, 231; Arianna e Barbableue, p. 42, 172-173.

Durante Francesco (1684-1755), p. 197.

Dvôrak Antonio (1841-1904), p. 89, 342-344;

Concerto per violino e orch. in la min. op. 53, p. 342-343; C. per violoncello e orch. in si min. op. 104, p. 343; Danze slave, p. 342; Dumky-Trio per piano violino e violoncello op. 90, p. 342; Quartetto in la bem. op. 105, p. 342; Sinfonia n. 5 («Dal nuovo Mondo») in mi min. op. 95, p. 91, 247 nota, 267, 343-344.

E

Elgar Edoardo (1857-1934), p. 344;

Variazioni sinfoniche su tema originale, p. 344.

F

Fasano Renato (1902), p. 266.

Favara Alberto (1863-1923), p. 328.

Field John (1782-1837), p. 242 nota.

Flaubert Gustavo (1821-1880), p. 26.

Franchetti Alberto (1860-1942), p. 187;

Asrael, p. 92, 187; Cristoforo Colombo, p. 187; Germania, p. 94, 187, 220.

Franck Cesare (1822-1890), p. 16, 74, 87, 205, 267, 345-350;

Le Beatitudini, p. 75, 204-205, 348-350; «Il cacciatore maledetto», p. 347; Preludio corale e fuga, p. 75, 345; «Psiche», p. 346; Quintetto in fa min., p. 346; Redenzione, p. 205, 346; Sinfonia in re min., p. 75, 347-348; Sonata per violino e piano in la magg., p. 75, 105, 260, 345; Variazioni sinfoniche, p. 42, 259, 346.

Frescobaldi Girolamo (1583-1643), p. 102, 241, 328;

Toccata di durezze, p. 66.

G

Gabrieli Andrea(1510-1586), p. 102, 196, 197, 341.

Gabrieli Giovanni (1557-1612), p. 196, 197, 241.

Gabrielli Domenico (1659-1690), P. 89.

Galilei Vincenzo (1533-1591), P. 10, 115;

Gagliarda, p. 102, 409.

Galuppi Baldassare (1706-1785)

Il filosofo di campagna, p. 126.

Gallot (de) Jacques (2ª metà del sec. XVII);

«La colomba», p. 232, 410.

Garsi Donino (2ª metà del sec. XVI);

Battaglia, p. 220.

Gastaldon Stanislao (1861-1939), p. 217.

Gautier Teofilo (1811-1872), p. 26.

Gershwin Giorgio (1898-1937), p. 248, 350-351;

«Un americano a Parigi», p. 248, 350-351; Concerto in fa magg. per piano e orch., p. 351; Porgy and Bess, p. 248; Rapsodia in blue, p. 248.

Gesualdo Carlo da Venosa (1560-1613), p. 66, 210-211.

Ghedini Giorgio Federico (1892);

Concerto dell'Albatro, p. 351-352.

Gherardellus de Florentia (sec. XIV);

Caccia, p. 220.

Giannoncelli Bernardo (sec. XVII);

Bergamasca, p. 409.

Giordani Giuseppe (1744-1798), p. 50-51.

Giordano Umberto (1867-1948), p. 8, 177, 178, 180-182, 191;

Andrea Chénier, p. 89, 180-181; Fedora, p. 37, 89, 95-96, 108, 181; Siberia, p. 71, 181, 182.

Glinka Michele (1804-1857);

La vita per lo Czar, p. 151-152.

Gluck Cristoforo (1714-1787), p. 120, 121-124, 137, I54;

Alceste, p. 122, 123; Ifigenia in Tauride, 122, 123; Orfeo ed Euridice, p. 57, 78, 90, 122, 123, 229, 246.

Gounod Carlo (1818-1893), P. 8, 166;

Ave Maria, p. 75, 76, 253; Faust, 69, 146, 166; Marcia funebre in morte di una marionetta, p. 231.

Granados Enrico (1867-1916), p. 352-353;

Danza andalusa, p. 352. Goyescas, p. 352-353.

Gregorio I (S. G. magno) (540?-604), p. 195.

Grieg Edward (1843-1907), p. 68, 87, 214, 353-354;

Concerto per piano e orch. in la min. op. 16, p. 353; Liriche, p. 217; Peer Gynt: suites, p. 354; Quartetto in sol. min. op. 27, p. 353-354; Sonata per violino e piano in do min. op. 45, p. 353.

Grofé Ferde (1892), p. 248.

Guerrini Guido (1890), p. 366.

Gullino Giuseppe (1890-1953), p. 102.

H

Halévy Fromental (1799-1862), p. 148.

Händel Giorgio Federico (1685-1759), p. 11, 16, 106, 109, 111, 202, 203, 214, 354-358, 380, 383, 396;

Concerti grossi, p. 355: C. g. per due cembali e archi, in re min., p. 355; C. g. n. 4 in la min., p. 355;

Largo celebre dall'opera Serse, p. 354-355;

Oratorî: Israele in Egitto, p. 109, 203, 222, 355-357; Il Messia, p. 203, 224, 357-358.

Hanslick Edoardo (1825-1904), p. 23, 24, 25, 63, 191, 330-321.

Haydn Giuseppe (1732-1809), p. 203-204, 258, 281, 283, 293, 294, 299, 359-365, 384, 387;

Oratorî: La Creazione, p. 203-204; Le Stagioni, p. 204, 361, 362-365;

Quartetti, p. 359: Q. in fa magg. op. 3 n. 5, p. 359; Q. in re magg. op. 64 n. 5, p. 359; Q. in sol magg. op. 76 n. 1, p. 359; Q. in re min. op. 76 n. 2, p. 106, 360; Q. in do magg. op. 76 n. 3 (dell'Imperatore), p. 360;

Sinfonie, p. 360: S. in sol magg. n. 94 (Paukenschlag, o La sorpresa), p. 361, 364; S. in sol magg. n. 100 (Militare), p. 361-362; S. in re magg. n. 101 (La campana o La pendola), p. 362; S. in mi bem. magg. n. 103 (Paukenwirbel), p. 360-361; S. in re magg. n. 104 (Londinese), p. 361.

Heine Arrigo (1797-1856), p. 215-216.

Herder Giovanni (1744-1803), p. 25, 316.

Hérold ferdinando (1791-1833), p. 148.

Hindemith Paolo (1895), p. 248, 365;

«Kleine Kammermusik» op. 24 n. 2, p. 365; Mathis il pittore, p. 193; Sonata 1 932 per viola e piano, p. 365.

Honegger Arturo (1892-1955), p. 20, 239, 248, 366-367;

Giutiditta, p. 193; «Pacific 231», p. 20, 221, 366; «Pastorale d'Estate», p. 366; «Rugby», p. 221; Sinfonia n. 4 (Deliciae Basilienses), p. 366-367; Sonata n. 1 per violino e piano, p. 366.

Humperdinck engelberto (1854-1921), p. 163;

Hänsel e Gretel, p. 163-164.

I

Ingegneri Marco Antonio (1545-1592), p. 196, 197.

J

Jacopone da Todi (1230-1306), p. 200.

Janàcek Leo (1854-1928), p. 367;

Jenufa, p. 193, 367; 2° Quartetto per archi («Pages intimes»), p. 367.

Jannequin Clemente (1485-?);

«La battaglia di Marignano», p. 220.

Joachim Giuseppe (1831-1907), p. 290.

Jommelli Nicolò (1714-1774), p. 121.

K

Köchel (Ritter von) Ludwig (1800-1877), p. 382 nota.

Kodaly Zoltan (1882), p. 367-369;

Danze di Galanta, p. 367; Danze di Marosszék, p. 367-368; Hàry Janos, p. 368; Salmo Ungarico, p. 368-369.

Kreutzer Rodolfo (1766-1831), p. 282.

Kuhnau Giovanni (1660-1722);

«Storie bibliche», p. 227.

L

Lalo Edoardo (1823-1892), p. 369;

Sinfonia spagnola, p. 369.

Lamartine Alfonso (1790-1869), p. 370-371.

Lasso (Di) Orlando (1532?-1594), p. 11, 196, 197.

Legrenzi Giovanni (1626-1690), p. 119.

Lenau Nicola (1802-1850), p. 405, 430.

Leo Leonardo (1694-1744), p. 197.

Leoncavallo Ruggero (1858-1919)

Pagliacci, p. 176-177, 185.

Leopardi Giacomo (1798-1837), p. 19, 398-399.

Liszt Francesco (1811-1886), p. 74, 82, 85, 152, 153, 205, 215, 228, 258, 370-373;

«La campanella», p. 370; Concerto per piano in mi bem. magg., p. 370; La leggenda di S. Elisabetta, p. 371-373; «Mazeppa», p. 227; «I Preludi», p. 227, 370-371; Rapsodie ungheresi, p. 371; Sonata per piano in si min., p. 370; «Songes d'amour»: 3° Notturno, p. 74, 85; «Tasso», p. 227.

Lotti Antonio (1667-1740), p. 197.

Lualdi Adriano (1887), p. 265, 329;

La Grançeola, p. 373; Suite adriatica, p. 373.

Lulli Giov. Battista (1632-1687), p. 121, 246.

M

Malipiero Giov. Francesco (1882), p. 190, 191, 192;

L'allegra brigata, p. 191; Antonio e Cleopatra, p. 191; Ecuba, p. 191; La favola del figlio cambiato, p. 191; Giulio Cesare, p. 191; Impressioni dal vero, p. 234; Stornelli e Ballate, p. 373-374; Rispetti e Strambotti, p. 374.

Mancinelli Luigi (1848-1921);

«Cleopatra», p. 226; «Scene veneziane», p. 374.

Marcello Benedetto (1686-1739), p. 9, 121, 256;

Arianna, p. 120, 121; Concerti, p. 375; Estro poetico-armonico, p. 197, 374-375.

Marchetti Filippo (1831-1902);

Ruy Blas, p. 148.

Marengo Romualdo (1841-1907);

Excelsior, p. 194.

Marenzio Luca (I553-I599), P. 210, 211.

Mariani Angelo (1821-1873), p. 79.

Martucci Giuseppe (1856-1909);

Liriche, p. 217; Notturno in sol bem. op. 70 n. 1, p. 243; Scherzo in mi magg. op. 53 n. 2, p. 375; Sinfonia n. 1 in re min. op. 75, p. 375-376; Tarantella op. 44 n. 6, p. 375.

Mascagni Pietro (1863-1945), p. 8, 46, 177, 178-180, 187, 225;

Amica, p. 179; L'Amico Fritz, p. 68, 88, 179; Cavalleria rusticana, p. 46, 68, 178, 179, 199; Guglielmo Ratcliff, p. 68, 179, 180; Iris, p. 68, 78, 92, 177, 179, 180, 212, 232-233; Isabeau, p. 46, 68, 71, 177, 179 180; Lodoletta, p. 179; Le maschere, p. 95, 179, 180; Nerone, p. 178, 179, 180; Parisina, p. 179, 180; Il piccolo Marat, p. 71, 178, 179; I Rantzau, p. 179; Silvano, p. 179.

Massenet Giulio (1842-1912), p. 8, 13, 166;

Manon, p. 13, 87, 166-167, 199-200; «Scene Alsaziane», p. 376; Thaïs, p. 88, 167; Werther, p. 167.

Mattheson Giovanni (1681-1764), p. 23.

Mayr Simone (1763-1845), p. 7.

Mazzini Giuseppe (1805-1872), p. 26.

Melville Hermann (1819-1891), p. 350.

Meldelssohn Felice (1809-1847), p. 87, 205, 214, 215, 260, 275, 376-381;

«Beati i morti», p. 214; concerti: C. per piano e orch. in sol min. op. 25, p. 376-377; C. per violino e orch. in mi min. op. 64, p. 377;

Ouvertures: «La grotta di Fingal», p. 225, 377-378; «La bella Melusina», p. 225; «Il sogno d'una notte d'Estate», p. 225, 229, 378, 417;

Paulus, p. 379-381; quartetto in re magg. op. 44 n. 1, p. 377;

Romanze senza parole, p. 242, 244: Barcarola veneziana, op. 19 n. 6, p. 244, 432; Scherzo da «Un sogno d'una notte d'Estate», p. 225, 378;

Sinfonie: S. n. 3 in la min. op. 56 (La Scozzese), p. 378-379; S. n. 4 in la magg. op. 90 (Italiana), p. 379;

Trio in re min. op. 49, p. 377.

Mersenne Marin (sec. XVII);

Aria, p. 409.

Merulo Claudio (1533-1604), p. 102.

Metastasio Pietro (1698-1782), p. 154.

Meyerbeer Giacomo (1791-1864), p. 8, 150-151;

L'Africana, p. 63, 87, 150, 151; Dinorah, p. 150; Il Profeta, p. 68, 90, 150, 151; Roberto il Diavolo, p. 92, 150; Gli Ugonotti, p. 89, 150-151.

Milhaud Dario (1892), p. 47, 248;

Cristoforo Colombo, p. 193; «Scaramuche», p. 381.

Molinari Bernardino (1880-1952), p. 355.

Molinaro Simone (sec. XVI-XVII), p. 102;

«Il Balletto del Conte Orlando», p. 102, 409.

Monteverdi Claudio (1567-1643), p. 10, 16, 114, 115, I16-118, 120, 137, 188, 196, 197, 201, 211, 232;

Arianna, p. 116, 117; «Ecco mormorar l'onde», p. 211; L'incoronazione di Poppea, p. 116, 117-118; Madrigali guerrieri et amorosi, p. 116, 211: «Combattimento di Clorinda e Tancredi», p. 116, 211; Orfeo, p. 72, 114, 115, 116, 117; Il ritorno di Ulisse, p. 116.

Mossolow Alessandro (1900), p. 20, 239;

«Fonderia d'acciaio», p. 20, 221, 239.

Mozart Wolfango Amedeo (1756-1791), p. 64, 65, 87, 104, 119, 127, 128-132, 133, 134, 151, 258, 259, 260, 279, 283, 293, 294, 299, 382-389;

Concerti: C. per piano e orch. in do magg. K. 503, p. 383; C. per piano e orch. in la magg. K. 414, p. 383; C. per violino e orch. in re magg. K. 271, p. 384;

Divertimenti, p. 385; opere: La clemenza di Tito, p. 132; Don Giovanni, p. 130, 132, 222; Il flauto magico, p. 110, 130-131, 132, 386; Idomeneo, p. 131; Le nozze di Figaro, p. 129-130, 132, 385-386; Il ratto del Serraglio, p. 129; quartetti, p. 384: Q. in do magg. K. 465, p. 384-385; quintetto per archi e piano in sol min. K. 478, p. 385;

Requiem, p. 110, 197, 387-389;

Serenate, p. 385: Eine Keine Nachtmusik, K. 525, p. 242 nota, 245, 385;

Sinfonie: S. in do magg. (Giove) K. 551, p. 386; S. in sol min. K. 550, p. 386-387; S. in re magg. (Haffner) K. 385, p. 387;

Sonate, p. 382: So. per piano in la magg. K. 331, p. 382; So. per piano in re magg. K. 576, p. 382; So. per violino e piano in si bem. magg. K. 454, p. 383; So. per violino e piano in do magg. K. 296 p. 382-383;

Trio in sol magg. K. 496, p. 384.

Müller Guglielmo (1794-1827), p. 215.

Mussorgski Modesto (1839-1881), p. 16, 147, 151, I73-I75;

Boris Godunoff, p. 47, 62, 69, 72, 108, 173-175, 229; Kovàncina, p. 174: Danze delle Persiane, p. 390; Liriche, p. 217; «Una notte sul Monte Calvo» p. 230, 390; «Quadri di una Eposizione», p. 237-238.

N

Nardini Pietro (1722-1793), p. 87.

Neri (S.) Filippo (I5I5-I595), p. 200.

O

Offenbach Giacomo (1819-1880);

Orfeo all'Inferno, p. 417; I racconti di Hoffmann, p. 167-168.

P

Paganini Nicolò (1782-1840), p. 87, 232, 307;

«La campanella», p. 370; 24 Capricci, p. 390; concerti, p. 390: C. n. 3 per violino e orch. in re magg., p. 390; Moto perpetuo op. 11, p. 36;

12 Sonate, p. 390; Sonatine, p. 390; «Le Streghe», p. 231, 390; Variazioni, p.390.

Paisiello Giovanni (1740-1816), p. 13, 126, 127;

Il Barbiere di Siviglia, p. 13, 127; La bella molinara, p. 127; Nina o la pazza per amore, p. 127; La serva padrona, p. 127; Il Socrate immaginario, p. 127; Gli zingari in fiera, p. 127.

Palestrina: vedi Pierluigi.

Pannain Guido (1891), p. 75.

Panzacchi Enrico (1840-1904), p. 24.

Parente Alfredo (1905), p. 24, 27.

Pascal Biagio (1623-1662), p. 66.

Pasquini Bernardo (1637-1710), p. 241;

«Il cucù», p. 410; Pastorale per organo, p. 224; Preludio, p. 410.

Patrizi Mariano L. (1866-1935), p. 21, 22.

Pergolesi Giov. Battista (1710-1736), p. 121, 197;

Livietta e Tracollo, p. 126; Il Maestro di Musica, p. 126; Messe, p. 197; L'Olimpiade, p. 120-121; Salve Regina, p. 197; La serva padrona, p. 124-126, 128; Stabat Mater, p. 197, 390-391.

Peri Jacopo (1561-1633), p. 115;

Euridice, p. 114-115.

Perosi Lorenzo (1872-1956), p. 110-111, 198, 206-208, 391-398;

L'entrata di Cristo in Gerusalemme, p. 208; Il Giudizio Universale, p. 93-94, 111, 208, 396-398; Mosè, p. 207, 208; Il Natale del Redentore, p. 207, 393-394; La Passione di Cristo, p. 207; In Patris memoriam, p. 208; La Risurrezione di Cristo, p. 37, 94, 111, 206, 207, 208, 394-396; La Risurrezione di Lazzaro, p. 111, 207, 208, 391-393, 394; La strage degli innocenti, p. 111, 208; Transitus Animae, p. 208, 398; La Trasfigurazione di Cristo, p. 208, 394.

Perti Giacomo Antonio (1661-1756), p. 202.

Petrassi Goffredo (1904);

«Coro dei morti», p. 398-399.

Piccinni Nicola (1728-1800), p. 126;

La buona figliuola (La Cecchina), p. 126; La molinarella, p. 126.

Pick Mangiagalli Riccardo (1882-1949);

Il carillon magico, p. 194; «La danse d'Olaf», p. 399; Preludio e fuga per orchestra op. 47, p. 399.

Pierluigi Giovanni da Palestrina (1525?-1594), p. 11, 16, 103, 196, 197, 202, 206;

Lamentazioni, p. 196; Magnificat, p. 196; messe: M. «Aeterna Christi munera», p. 103; M. «Papae Marcelli», p. 196; Motetti, p. 196; Stabat Mater, p. 196.

Pilo Mario (1859-1920), p. 20, 21.

Pizzetti Ildebrando (1880), p. 56, 123, 136, 139, 189-190; 198> 399-403;

«Canti della Stagione alta», p. 400-401; Concerto dell'Estate, p. 401; Liriche, p. 217;

Opere: Debora e Jaèle, p. 189, 190; Fedra, p. 189, 190; La figlia di Jorio, p. 189; Fra Gherardo, p. 38, 58-59, 189-190; L'oro, p. 189; Orseolo, p. 189; Lo straniero, p. 189, Vanna Lupa, p. 189;

Musiche per La Pisanella di D'Annunzio, p. 401-402;

La sacra rappresentazione di Abramo e Isacco, p. 402-403;

Sonata in la per violino e piano, p. 399-400; So. in fa per violoncello e piano, p. 400;

Tre Canti, p. 399; trio in la, p. 400.

Ponchielli Amilcare (1834-1886), p. 144, 147, 178;

La Gioconda, p. 144-145, 147, 178.

Poulenc Francesco (1899), p. 403;

«Aubade», p. 403-404.

Prokofieff Sergio (1891-1953);

«Pierino e il lupo», p. 404-405; Quartetto n. 2 in fa magg. op. 92, p. 404; Sonata n. 7 per piano, p. 404; « Suggestione diabolica», p. 404.

Puccini Giacomo (1858-1924), p. 8, 9, 13, 67, 147, 177, 178, 182-186, 191;

La boheme, p. 8, 67-68, 71, 105, 177, 178, 182, 184, 185, 186; La fanciulla del West, p. 42, 182, 183, 185-186, 220, 232; Gianni Schicchi, p. 65, 186;

Madama Butterfly, p. 9, 41, 64-65, 84, 87, 91, 92, 108, 177, 182, 185, 186; Manon Lescaut, p. 13, 182, 184, 185, 186; Suor Angelica, p. 67, 96, 232; Il tabarro, p. 65, 240; Tosca, p. 37, 67, 89, 92, 94, 96, 182-183, 184-185, 186, 195, 232; Turandot, p. 65-66, 182, 186.

Puskin Alessandro (1799-1837), p. 173, 174.

R

Rabaud Enrico (1873-1949);

La processione notturna, p. 405.

Rachmaninoff Sergio (1873-1943);

Concerto n. 2 per piano e orch. in do min. op. 18, p. 406; Morceaux de fantasie op. 3: Preludio in do diesis min. per piano, p. 405-406; Preludio per piano in sol magg. op. 32, p. 406.

Radiciotti Giuseppe (1858-1931), p. 391.

Rameau Filippo (1683-1764), p. 121;

«La gallina», p. 232, 410.

Ravel Maurizio (1875-1937), p. 191, 192-193, 237, 248, 258, 263, 406-409;

«Alborada del gracioso», p. 407; Bolero, p. 36, 62; Concerto per piano e orch., p. 407; Conc. per piano e orch., per la mano sinistra, p. 407-408; Il fanciullo e i sortilegi, p. 192-193; «Mia madre l'Oca», p. 408; L'ora spagnola, p. 192; Pavana per una Infanta defunta, p. 406; Quartetto in fa magg., p. 264; Rapsodia spagnola, p. 408; «La Valse», p. 409; Valses nobles et sentimentales, p. 409.

Refice Licinio (1885-1954), p. 198.

Rellstab Luigi (1799-1860), p. 215.

Respighi Ottorino (1879-1936), p. 59, 144, 188, 209, 409-411;

Antiche danze ed arie per liuto, p. 102, 409-410; Liriche, p. 217;

Opere: Belfagor arcidiavolo, p. 188; La campana sommersa, p. 188; La Fiamma, p. 40, 188; Lucrezia, p. 188; Maria Egiziaca, p. 188; Semirama, p. 188;

Poemi sinfonici - «Fontane di Roma», p. 95, 236-237, 410; «Pini di Roma», p. 237, 410-411; «Trittico botticelliano», p. 411; «Gli uccelli», p. 232, 410; «Vetrate di chiesa», p. 96.

Ricci Federico (1809-1877) e Luigi (1803-1859), p. 148;

Crispino e la Comare, p. 148.

Riemann Ugo (1849-1919), p. 25, 219-220.

Rimski Korsakow Nicola (1844-1908), p. 390;

«Shéhérazade», p. 411-412; Zar Saltan: il volo del calabrone, p. 232.

Rognoni Luigi (1913), p. 23.

Rolland Romain (1866-1944), p. 303.

Roncalli Lodovico (sec. XVII);

Passacaglia, p. 409.

Rossellini Renzo (1908), p. 193-194.

Rossini Gioacchino (1792-1868), p. 7, 8, 10, 13, 14, 36, 81, 90, 91, 95, 119, 125, 126, 128, 132, 133-136, 144, 148, 151, 191, 223, 329, 413-416;

L'assedio di Corinto, p. 134, 135, 413; Il barbiere di Siviglia, p. 8, 10, 13, 58, 72, 81, 134, 135, 199, 221, 222, 412, 417; Cenerentola, p. 134, 413; Il conte Ory, p. 134, La gazza ladra, p. 412; Guglielmo Tell, p. 68, 89, 90, 91, 94, 134 135-136, 137, 150, 214, 222, 233, 413; L'Italiana in Algeri, p. 95, 134, 135, 412; Mosè, p. 47, 135, 137; Otello, p. 13, 134, 135; Petite Messe solennelle, p. 198, 415-416; Semiramide, p. 134, 413; Il Signor Bruschino, p. 47, 413; Stabat Mater, p. 198, 414-415; Il viaggio a Reims, p. 413.

Rotoli Augusto (1847-1904), p. 317.

Roussel Alberto (1869-1937);

«Il festino del ragno», p. 416.

Rubinstein Antonio (1829-1894), p. 334.

S

Saint Pierre (De) Bernardino (1737-1814), p. 24.

Saint-Saëns Camillo (1835-1921), p. 8, 166, 167, 416-417;

«L'arcolaio d'Omphale», p. 416; («Il carnevale degli animali», p. 416-417; Danza macabra, p. 230; Sansone e Dalila, p. 167; Sinfonia n. 3 in do min. op. 78 per organo e orch., p. 417.

Sammartini Giov. Battista (1698-1775), p. 360.

Sarasate Paolo (1844-1908), p. 9;

Zingaresca, p. 9.

Scarlatti Alessandro (1660-1725), p. 197.

Scarlatti Domenico (1685-1757), p. 36, 81, 191, 197, 418;

Capriccio, p. 81; Pastorali, p. 224; Sonate, p. 66, 418.

Schiller Federico (1759-1805), p. 305.

Schindler Antonio (1795-1864), p. 292-293.

Schlegel Federico (1772-1829), p. 422.

Schönberg Arnoldo (1874-1951), p. 48, 191, 193, 250.

Schopenhauer Arturo (1788-1860), p. 25.

Schubert Francesco (1797-1828), p. 214, 215, 216, 263, 418-420;

Lieder, p. 114, 215; Momenti musicali, p. 418; Ottetto in fa magg. op. 116, p. 419; Quartetto in re min. (La Morte e la ragazza), p. 419; Serenata, p. 62; Sinfonia n. 8 in si min. (Incompiuta), p. 266, 420; Trio in si bem. magg. op. 99, p. 418; Trio in mi bem. magg. op. 100, p. 418-419.

Schumann Roberto (1810-1856), p. 73, 214, 215, 26o, 263, 380, 420-426;

«Carnaval» op. 9, p. 73, 234, 421-422; Concerto in la min. per piano e orch. op. 54, p. 425-426; Davidsbündlertänze op. 6, p. 421; Fantasia in do magg. op. 17, p. 422-423; Fantasiestücke op. 12, p. 234, 420: «Warum?», p. 38, 420; Lieder, p. 216, 217; Kreisleriana op. 36, p. 422-423; novellette, p. 73, 243: N. op. 21 n. 5, p. 243-244; N. op. 21 n. 8, p. 420; Il Paradiso e la Peri, p. 205; Quartetto in fa magg. op. 41 n. 2, p. 424; Q. in la magg. op. 41 n. 3, p. 424; Quintetto in mi bem. magg. op. 44, p. 424-425; Scene infantili op. 15, p. 234, 421: «Traümerei» p. 420-421; Sinfonia n. 1 in si bem. magg. op. 38 (La Primavera), p. 426; S, n. 3 in mi bem. magg, op. 97 (Renana), p. 426; Sonata per piano in sol min. op. 22, p. 423; So. per violino e piano in la min. op. 105, p. 423; 12 Studi sinfonici in do diesis min. op. 13, p. 421; Trio in re min. op. 63, p. 423.

Schütz Enrico (1585-1672), p. 202;

Oratorio di Natale, p. 202; Le passioni, p. 202; Le Sette Parole, p. 202.

Sciostakovic Dimitri (1906);

Quintetto in sol min. op. 57, p. 427; Sinfonia n. 7 (Leningradese), p. 427;

Trio op. 67, p. 426.

Scriabin Alessandro (1872-1915);

«Il poema dell'estasi», p. 427.

Shakespeare Guglielmo (1564-1616), p. 286.

Sibelius Giovanni (1865-1957);

«Il cigno di Tuonela», p. 428; «Finlandia», p. 428; «Valzer triste», p. 428.

Sinigaglia Leone (1868-1944), p. 218;

"Le baruffe chiozzotte», p. 429; Quartetto in re magg. op. 27, p. 428-429.

Smetana Federico (1824-1884), p. 173;

La sposa venduta, p. 173, 429; «Ultava» (Moldava), p. 430; Quartetto in mi min. (Dalla mia vita), p. 429.

Spencer Erberto (1820-1903), p. 22.

Spontini Gaspare (1774-1851), p. 113, 137;

La Vestale, p. 133.

Stradella Alessandro (1645?-1682), p. 201-202, 255, 355;

S. Giovanni Battista, 202; Il Trespolo tutore balordo, p. 124.

Strauss Giovanni junior (1825-1899), p. 246;

«Il bel Danubio blu», p. 245.

Strauss Riccardo (1864-1949), p. 89, 105, 163, 164-166, 228, 430-432;

Opere: Il cavaliere della rosa, p. 95, 165; Elettra, p. 165; Salomè, p. 65, 71, 164, 165;

Poemi sinfonici: «Don Chisciotte», p. 228; «Don Giovanni», p. 74, 105, 228, 430-431; «Morte e Trasfigurazione», p. 74, 228, 431; «Sinfonia domestica», 228, 432; «Till Eulenspiegel», p. 74, 95, 228, 431.

Strawinski Igor (1882), p. 36, 40, 191, 239-240, 248, 432-435;

Edipo Re, p. 193; «Fuochi d'artificio», p. 239, 432; Noces, p. 434; Petruska, p. 36, 194, 433; Pulcinella, p. 194; La sagra della Primavera, p. 239-240, 433-434; Suite n. 2 per piccola orchestra, p. 240; L'Uccello di fuoco, p. 434-435.

Striggio Alessandro senior (1535-1587);

«Il cicalamento delle donne al bucato,», p. 213.

Strinasacchi Regina (1764-1839), p. 383.

Süssmayer Franz (1766-1803), p. 388, 389.

Szymanowski Carlo (1882-1937);

«La fontana d'Aretusa»: dai «Miti», p. 435; Hagith, p. 194; Re Ruggero, p. 194.

T

Tartini Giuseppe (1692-1770), p. 87;

«Il trillo del Diavolo», p. 435-436.

Tebaldini Giovanni (1864-1952), p. 440.

Thomas ambrogio (1811-1896), p. 8, 166;

Mignon, p. 69, 148-149.

Tibaldi Chiesa Mary (1896), p. 215.

Tocchi Gian Luca (1901), p. 423.

Tolstoi Leone (1828-1910), p. 20, 21, 22, 23, 164, 282.

Torchi Luigi (1858-1920), p. 23, 102.

Toscanini Arturo (1867-1957) p. 30, 82.

Toselli Enrico (1883-1926), p. 217.

Tosti Francesco Paolo (1846-1916), p. 217, 218.

Trabaci Giov. Maria (sec. XVIII).

Toccata di durezze, p. 66.

Traetta Tommaso (1727-1779), p. 121.

Tschaicowski: vedi Ciaicowski.

V

Valabrega Cesare (1898), p. 423.

Vecchi Orazio (1550-1605), p. 5, 11, 27, 103-104, 211-213, 434;

L'Amfiparnaso, p. 104, 212, 213; Le Veglie di Siena, p. 212, 344.

Veneziani Vittore (1878-1958);

«Dolce sera», p. 214; «Mattinata», p. 314.

Veracini Francesco Maria (1690-1750), p. 87.

Verdi Giuseppe (1813-1901), p. 7, 8, 9, 11, 12, 13, 14, 26, 28, 66, 79, 83-04, 85, 110, 125, 141-144, 146, 147, 148, 153, 157, 172, 174, 223, 225, 436-440;

Aida, p. 37, 40, 41, 84, 85, 87, 89, 90, 91, 99, 141, 142, 143, 144, 145, 233-234; Un ballo in maschera, p. 83, 90, 93, 141, 142, 143, 144, 222; Don Carlo, p. 94, 141, 142, 143, 144, 145, 148; Ernani, p. 62; Falstaff, p. 7, 58, 60, 91, 92, 94, 107, 108, 110, 126, 142, 143, 144, 230; I Lombardi alla prima Crociata, p. 88; Luisa Miller, p. 429, 436, 437; Macbeth, p. 93, 110, 142, 222; Messa da requiem, p. 9, 93, 142, 144, 145, 206, 438-440; Nabucco, p. 15, 32, 34, 52-54, 89, 141, 143, 214, 436; Otello, p. 13, 28, 46, 58, 69, 72, 89, 90, 91, 114, 142, 143, 144, 199, 223; Pezzi sacri, p. 198: Te Deum, p. 440; Quartetto in mi min., p. 436; Rigoletto, p..8, 52, 61, 90, 99, 141, 143, 143, 222; Simon Boccanegra, p. 142; La Traviata, p. 10, 12, 13, 19, 52, 77, 84, 87, 91, 92, 99, 141, 142, 143, 156, 437; Il Trovatore, p. 31-32, 141, 142, 143, 145; I Vespri siciliani, p. 89, 437-438.

Villanis Luigi Alberto (1863-1906), p. 24, 25.

Vitali Tommaso Antonio (1665?-?);

Ciaccona, p. 254.

Vittoria (Da) Lodovico (1535?-1611), p. 11, 196, 197.

Vivaldi Antonio (1678?-1741), p. 11, 16, 36, 87, 202, 255-256, 274, 275, 441-442;

Concerto grosso in re min., p. 36, 256; C. gr. in sol min. per archi e cembalo, p. 255-256; C. in la magg., p. 441; C. per flauto e orch. (La Notte), p. 441; Juditha triumphans, p. 202; «Le quattro Stagioni», p. 232, 441-442.

W

Wagner Riccardo (1813-1883), p. 8, 9, 10, 14, 20, 23, 24, 36, 48. 57, 110, 121, 147, 152-161, 164, 173, 174, 175, 206, 225, 228, 297, 303, 442-447;

L'Anello del Nibelungo, p. 36, 93, 152, I59, 160, 229, 419; L'Oro del Reno, p. 60, 77, 84, 94, 95, 136, 152, 155, 160, 225, 229, 445; La Walkiria, p. 56-57, 71, 89, 152, 155, 160, 223, 229, 378, 445-446; Sigfrido, p. 20, 83, 94, 154-155, 159, 160, 164, 229, 446, 447; Il crepuscolo degli Dei, p. 60, 152, 155, 156, 160, 229, 233. 446.

«Idillio di Sigfrido», p. 447;

Lohengrin, p. 8, 13, 57, 78, 84, 87, 91, 93, 106, 153, 159, 443-444; I Maestri cantori, p. 93, no, 152, 155, 159, 444-445; Parsifal, p. 10, 94, 105, 152, 153, 155, 156, 159, 16o-161, 199, 447; Tannhäuser, p. 8, 92, 157, 159, 443; Tristano e Isotta, p. 10, 37, 83, 90, 91, 93, 94, 136, 152, 153, 155, 156, 157, 158, 159, 326, 444-447; Il vascello fantasma (L'Olandese volante), p. 159, 442-443.

Weber Carlo Maria (1786-1826), p. 10, 14, 151, 159;

Il franco cacciatore (Der Freischütz), p. 92, 151, 447-448; Oberon, p. 448.

Wieck Federico (1785-1873), p. 422.

Wieck-Schumann Clara (1819-1896), p. 422, 423, 424.

Wilhelmy Augusto (1845-1908), p. 87.

Wolf Ugo (1860-1903), p. 214;

Lieder, p. 217; Serenata Italiana, p. 448.

Wolf Ferrari Ermanno (1876-1948), p. 176, 326;

Il campiello, p. 92, 176; Le donne curiose, 91, 176; I quattro rusteghi, p. 92, 176; Il segreto di Susanna, p. 448.

Wolzogen (von) Hans (1848-1938), p. 157.

Z

Zandonai Riccardo (1883-1944), p. 187;

I cavalieri di Ekebù, p. 187; Concerto andaluso, p. 89; Conchita, p. 187; La farsa amorosa, p. 232; Francesca da Rimini, p. 65, 89, 187, 188; Giulietta e Romeo, p. 188; Serenata medievale, p. 89, 448-449: La via della finestra, p. 187.

Zarlino Giuseppe (1517-1590), p. 10.

Zingarelli Nicola (1752-1837), p. 7.

Zipoli domenico (1688-1726);

Pastorale in do, p. 224.

Indice dei termini tecnici e degli argomenti più notevoli [Indice]


Note

[01] Semiografia: scienza della scrittura musicale.

[02] Letteralmente: senza timpani; s'intende privi di sensibilità nei riguardi dell'intonazione musicale.

[03] In Italia, purtroppo, il problema dell'educazione musicale è ben lontano dall'essere sentito, curato e risolto da chi avrebbe il dovere di occuparsene (Famiglia, Governo e RAI), e i ripetuti voti dei Congressi di musicisti, è doloroso constatarlo, sono rimasti finora lettera morta. Peggio quando, come per certe trasmissioni della RAI, si diffonde il cattivo gusto, coll'inverosimile pretesto che si tratti di musica gradita o richiesta dalla maggioranza degli abbonati!

[04] Psicologia musicale. Milano, Hoepli, 1904.

[05] L. M. patrizi, L'orientazione uditiva nell'arte e l'emozione estetica decadente, in Nuova Antologia, Roma, 16 dicembre 1907.

Si veda anche, dello stesso autore, La nuova fisiologia dell'emozione musicale, in Riv. di Filosofia e Scienze affini, 1900, e in Riv. Musicale Italiana, 1903.

[06] Alle teoriche del Patrizi rispondemmo a suo tempo coll'articolo In difesa dell'espressione sonora, pubblicato dalla Riv. Mus. Ital., fasc. 3°, 1909.

[07] Lo sviluppo della musica, in « Fatti e Commenti », Torino, Bocca, 1903, p. 53.

[08] Traduz. italiana di luigi torchi, Milano, Ricordi (s. d.); altra di luigi rognoni, Milano, Minuziano 1945.

[09] E. panzacchi, Nel mondo della musica. Torino, Roux e Viarengo, 1904.

[10] L. A. villanis, Saggio di psicologia musicale. Torino, S. Lattes e C., 1904, p. 19.

[11] E. hanslick, Del bello nella Musica, cap. II.

[12] H. riemann, Les éléments de l'esthétique musicale. Paris, Alcan, 1906, traduz. di G. humbert, p. 28.

[13] Id; P. 19.

[14] A. schopenhauer, Il mondo come volontà e come rappresentazione.

[15] J. combarieu, La Musique, ses lois, son évolution. Parìs, Flammarion, 1908.

[16] B. croce, Breviario d'estetica. Bari, Laterza, 1913.

[17] A. parente, La Musica e le Arti. Bari, Laterza, 1936, 2° ediz., 1946.

[18] I. pizzetti, Intermezzi critici. Firenze, Vallecchi (s. d.), p. 112.

[19] E. hanslick, Del bello nella Musica, cap. II.

[20] Non è un accordo di 7a, ma avendo per basso un si, l'accordo sol-si-re-sol viene ad essere un accordo di dominante della tonalità di si minore, che richiede esso pure la risoluzione sull'accordo di tonica.

[21] C. codazzi e G. andreoli, Manuale di Armonia. Milano, L. F. Cogliati, 1908, p. 412.

[22] A. deli.a corte - G. Pannain, Storia della Musica. Torino, U.T.E.T., 1942, vol. 3o, p. 1292.

[23] G. cesari e A. Luzio, I copialettere di Giuseppe Verdi. Milano, 1913, pp. 256-57.

[24] M. martinozzi, Come ci si accosta ad un'opera d'arte, Modena, Soc. Tipogr. Modenese, 1933, pp. 61-63.

[25] F. algarotti, Saggio sull'opera in musica.

[26] I. pizzetti, Intermezzi critici. Firenze, Vallecchi, p. 79.

[27] Prima esecuzione : Bayreuth, 1876.

[28] V. tommasini, Claude Debussy e l'impressionismo nella musica, in Riv. Mus. Ital., 1907, fasc.Io..

[29] Pavana: danza popolare grave in 4/4 d'origine italiana. Furlana: danza popolare vivace in 6/8 d'origine friulana; mentre la Monferrina e pure popolana, in 4/4, meno rapida, di origine del Monferrato.

[30] Furono veramente sei: Roma, Milano, Torino, Venezia, Gcnova, Verona, perché a Napoli la rappresentazione dovette essere rimandata di due giorni.

[31] Corona: segno (fig. A nota pag. 184) sovrapposto a note di cui s'intende prolungare, senza misura definita, la durata.

[32] hanslick, Del bello nella Musica, cap. II.

[33] R. rossellini, Lettere da Venezia, in La Rassegna Musicale, marzo 1941.

[34] combarieu, Histoire de la Musique, Paris, Colin, vol. 3°, p. 463.

[35] H. riemann, Les éléments de l'esthetique musicale. Trad. di G. Humbert. Paris, F. Alcan, 1906, p. 93.

[36] A chiarimento aggiungiamo che l'agogica riguarda il movimento ritmico e le sue variazioni, mentre la dinamica riguarda le modificazioni di intensità del suono.

[37] A. bonaventura, Manuale di cultura musicale. Livorno, Giusti, 1924, p. 128.

[38] Il termine Notturno per composizioni di carattere meditativo e sognante fu usato per la prima volta (a non voler risalire ai divertimenti che Mozart chiamò Nachtmusik, parola che ha piuttosto il significato di Serenata) da John Field (1782-1837).

[39] Questi spirituals, in gran parte rielaborati da musicisti bianchi, sono spesso bellissimi. Uno di essi costituisce il motivo del 2° tempo della Sinfonia «Dal nuovo mondo» di Dvôrak.

[40] Blue nella lingua nordamericana significa «nostalgico».

[41] È la sonata n. 20: op. 49, n. 2.

[42] J. combarieu, La Musique, ses lois, son évolution. Paris, E. Flammiarion, 1908, p. 249.

[43] F. abbiati, Storia della Musica. Milano, Garzanti, vol. 3o, p. 262.

[44] Allemanna: danza allegra in 4/4 di origine tedesca. – Gavotta: danza galante in 2/4 (o 4/4 da battere in due, cioè tempo «a cappella»: (fig. A, nota a pag. 257) d'origine francese. – Corrente: danza rapida in 3/4 d'origine francese. – Sarabande: danza lenta in 3/4 d'origine spagnola. – Minuetto: danza elegante o pomposa in 3/4 d'origine francese. – Giga: danza popolare vivace in 6/8 di origine irlandese.

[45] La viola da gamba è istrumento intermedio fra la viola da braccio e il violoncello.

[46] Il Rondò è una forma di composizione in movimento Allegro divisa in episodi o periodi, in cui il primo motivo proposto ritorna, spesso anche variato, dopo ogni episodio. Può formare una composizione a sé, ma più di frequente costituisce l'ultimo tempo di una Sonata o di un Concerto.

[47] Si chiama trio la seconda parte dei Minuetti, degli Scherzi, di certi ballabili e marce, che anticamente era eseguita da tre voci o da tre istrumenti.

[48] È da notare che la parte del « Recitante » non è, come si usa oggi con le parti che vengono così designate, una declamazione senza note musicali. In Berlioz il « Recitante » canta in istile recitativo.

[49] Danza di origine medievale italiana o spagnuola in tempo ternario, lenta, grave, su basso ostinato e con variazioni, affine alla Passacaglia, dalla quale si distingue in quanto il tema nella Ciaccona, non è annunciato dal basso scoperto, ma fino dall'inizio è accompagnato da armonie e variazioni.

[50] Danza polacca in 2/4, quasi sempre accentata sui tempi deboli e sincopata.

[51] Danza di probabile origine bretone del sec. XVI, in tempo 3/8 (talora anche 3/4), di carattere più vivace del Minuetto.

[52] Il melologo è una forma di recitazione non musicalmente intonata, illustrata da un commento strumentale.

[53] La lettera K è il numero successivo si riferiscono al catalogo cronologico-tematico compilato dal Köchel.

[54] Sarabanda: vedi nota a pag. 257.

[55] Ravel non ha segnata nessuna indicazione tonale su la partitura, ma la tonalità dominante di sol magg. è ugualmente rilevabile.

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