Madame Bovary, di Gustave Flaubert

I

Il signor Léon, quando studiava legge, aveva frequentato con una certa assiduità la Chaumière, e aveva ottenuto considerevoli successi con le sartine che lo trovavano 'distinto'. Era lo studente più ammodo che si potesse desiderare: portava i capelli né troppo lunghi né troppo corti, non sperperava, già al primo del mese, il denaro del trimestre, si manteneva in buoni rapporti con i professori. Si era sempre astenuto dallo abbandonarsi a eccessi, un po' per pusillanimità e un po' per delicatezza.

Spesso, quando se ne stava a leggere in camera sua, o seduto, la sera, sotto i tigli del Luxembourg, lasciava cadere il codice per terra e il ricordo di Emma gli si ripresentava. A poco a poco questo sentimento si era indebolito, e altre bramosie vi si erano accumulate sopra, eppure attraverso di esse persisteva, perché Léon non aveva perso tutte le speranze ed era convinto che ci fosse per lui una vaga promessa sospesa nell'avvenire, simile a un frutto d'oro seminascosto in mezzo a un fogliame fantastico...

Rivedendola dopo tre anni, la sua passione si riaccese. Bisognava si decidesse a volerla possedere, prima o poi. Del resto la sua timidezza si era ormai dileguata al contatto con le allegre compagnie, ed egli tornava in provincia disprezzando tutto ciò che non avesse una raffinatezza degna della capitale. Accanto a una parigina vestita di pizzi, nel salone di qualche dottore illustre, decorato e con carrozza propria, il povero giovane di studio si sarebbe comportato come un bambino spaurito; ma qui a Rouen, sul porto, davanti alla moglie di un oscuro medico di paese, si sentiva a suo agio, convinto in anticipo di riuscire irresistibile. La sicurezza di sé dipende dalla situazione in cui ci si trova: non ci si comporta all'ammezzato come al quarto piano e la donna ricca ha intorno a sé a difenderne la virtù tutti i biglietti di banca che le imbottiscono, come una corazza, la fodera del busto.

Dopo aver lasciato il signore e la signora Bovary, la sera prima, Léon li aveva seguiti di lontano; li aveva visti fermarsi all'albergo della Croce Rossa, e, tornato sui suoi passi, aveva trascorso la notte studiando un piano.

L'indomani verso le cinque entrò nella cucina dell'albergo, pallido, con la gola stretta e con quella determinazione dei pusillanimi che niente può fermare.

"Il signore non c'è" rispose un domestico.

Questo gli parve di buon auspicio. Salì.

Emma non si scompose nel vederlo; anzi, gli fece le sue scuse per aver dimenticato di dirgli dove alloggiavano.

"Oh! L'ho indovinato" disse lui.

"E come?"

Sostenne di essere stato guidato verso di lei dal caso, per un istinto. Emma sorrise e Léon per rimediare alla propria ingenua giustificazione raccontò di aver trascorso tutta la mattinata girando per gli alberghi della città.

"Si è dunque decisa a rimanere" soggiunse.

"Sì," disse lei "e ho sbagliato. Non è bene abituarsi a svaghi che non è possibile concedersi quando vi sono mille altre esigenze..."

"Oh, immagino..."

"Eh, no. Non può, perché non è una donna lei!"

Ma anche gli uomini hanno i loro dispiaceri e la conversazione incominciò con qualche riflessione filosofica. Emma si dilungò molto sulla miseria degli affetti terreni e sull'eterno isolamento in cui il cuore resta sepolto.

Per rendersi interessante o per fare una ingenua imitazione di questa malinconia che lo rendeva a sua volta malinconico, il giovane dichiarò di essersi enormemente annoiato durante gli studi. I cavilli legali lo irritavano, lo attiravano altre vocazioni, e sua madre non tralasciava mai in ogni lettera di tormentarlo. Mentre precisavano sempre meglio i motivi del loro scontento, entrambi si sentivano esaltare da questa crescente confidenza. A volte il dover porre a nudo tutti i loro pensieri li faceva esitare e cercavano allora una frase che potesse ugualmente farli intendere. Emma non confessò la sua passione per un altro e lui tacque di averla dimenticata.

Forse non ricordava più le cenette dopo il ballo con ragazze del popolo e lei non rammentava di certo gli appuntamenti di un tempo, quando correva sull'erba verso il castello del suo amante. I rumori della città li raggiungevano a stento, e la camera sembrava piccola, fatta apposta per isolare ancora di più la loro solitudine. Emma indossava una vestaglia di flanella e appoggiava il nodo dei capelli sulla nuca contro lo schienale di una vecchia poltrona; la tappezzeria gialla creava uno sfondo dorato dietro di lei: il suo capo si ripeteva nello specchio, con la scriminatura bianca nel mezzo e il lobo degli orecchi che usciva di sotto le bande lisce della pettinatura.

"Mi scusi," disse "faccio male, la sto annoiando con le mie eterne lamentele!"

"No, affatto! Affatto!"

"Se sapesse" continuò lei, levando al soffitto i begli occhi dai quali sfuggì una lacrima "tutto quello che avevo sognato!"

"E io allora? Oh! Ho tanto sofferto! Spesso uscivo, me ne andavo, mi trascinavo sulle rive del fiume, mi stordivo al frastuono della folla senza riuscire a liberarmi dall'ossessione che mi perseguitava. In un negozio di stampe, sul boulevard, c'era un'incisione italiana rappresentante una musa. I drappeggi di una tunica le avvolgevano la figura, guardava la luna e aveva nei capelli sciolti mazzolini di non ti scordar di me. Qualcosa mi spingeva irresistibilmente là, e vi rimanevo per ore intere."

Poi soggiunse con voce tremante:

"Le somigliava un poco".

La signora Bovary voltò la testa perché egli non le scorgesse sulle labbra il sorriso che vi sentiva nascere e che non riusciva a reprimere.

"Spesso le scrivevo e poi strappavo sempre le lettere" continuò lui.

Emma non rispose.

"Immaginavo a volte che il caso l'avrebbe ricondotta a me. Ho creduto di riconoscerla agli angoli delle strade: e correvo accanto a tutte le carrozze dai cui finestrini svolazzasse una sciarpa, un velo simile al suo..."

Emma sembrava decisa a lasciarlo parlare senza interromperlo. Incrociando le braccia e abbassando il viso, osservava le rosette delle pantofole e moveva un poco sotto il raso, di tanto in tanto, le dita dei piedi.

A questo punto sospirò:

"La cosa più tragica - non le sembra? - è dover trascinare, come faccio io, un'esistenza senza scopo. Se le nostre sofferenze potessero servire a qualcuno, ci si potrebbe consolare pensando all'utilità del sacrificio".

Léon si accinse allora a tessere l'elogio della virtù, del dovere, delle silenziose rinunce, e si disse incredibilmente bramoso di dedicarsi a qualcuno senza riuscire a soddisfare la sua aspirazione.

"Mi piacerebbe moltissimo poter essere una suora d'ospedale!"

"Ahimè!" disse lui "gli uomini non possono votarsi a simili sante missioni, e io non vedo nessuna professione... a parte forse quella del medico..."

Con una lieve spallucciata Emma l'interruppe e prese a lagnarsi della malattia che quasi l'aveva uccisa; peccato! Adesso non soffrirebbe più! Subito Léon invidiò la pace della tomba e disse che una sera aveva addirittura scritto il proprio testamento nel quale raccomandava che lo seppellissero avvolto in quel bel tappeto a strisce di velluto che lei gli aveva regalato; perché così, l'uno e l'altra, sarebbero voluti essere, in quanto entrambi si creavano un ideale al quale adattavano adesso il loro passato. Del resto la parola è un laminatoio che sempre dilata i sentimenti.

Ma, ripensando alla strana idea del tappeto, Emma domandò:

"E perché? Come le è venuta una simile idea?"

"Perché?"

Esitò.

"Perché l'ho amata molto!"

E, congratulandosi con se stesso per aver superato la difficoltà, Léon spiava l'espressione di lei con la coda dell'occhio.

Fu come se un cielo nuvoloso fosse stato spazzato da un colpo di vento. Il cumulo di pensieri tristi che li incupivano parve ritirarsi dagli occhi azzurri di lui; il suo viso era raggiante.

Rimase in attesa. Finalmente Emma rispose:

"L'ho sempre saputo..."

Poi si raccontarono i piccoli avvenimenti di quel periodo lontano della loro vita di cui avevano riassunto in una sola parola i piaceri e le malinconie. Ricordarono la pergola di vitalba, gli abiti che Emma indossava, i mobili della sua camera, tutta la casa.

"E i nostri poveri cactus, che fine hanno fatto?"

"Il freddo di quest'inverno li ha uccisi."

"Ah! Quanto ci ho pensato, sa? Spesso li immaginavo come li vedevo un tempo, nelle mattine d'estate, quando il sole batteva sulle imposte... e scorgevo le sue braccia nude che passavano fra i fiori."

"Povero amico mio!" disse lei tendendogli la mano.

Léon, rapidissimo, vi incollò le labbra. Poi, dopo aver emesso un profondo sospiro:

"Lei era per me in quel tempo, come una forza misteriosa che imprigionasse la mia vita. Una volta, per esempio, venni da lei ma certo non se ne ricorda più".

"Sì," disse Emma "continui."

"Era dabbasso, in anticamera, pronta per uscire, sull'ultimo gradino; ricordo perfino che aveva un cappello con fiorellini azzurri; e senza nessun invito da parte sua, mio malgrado, mi incamminai con lei. A ogni istante mi rendevo maggiormente conto della mia balordaggine eppure continuai ad andare avanti rimanendole accanto, senza proprio osare seguirla né abbandonarla. Quando entrò in un negozio, indugiai nella via, guardandola attraverso i vetri, mentre si toglieva i guanti per contare il denaro sul banco. Poi suonò il campanello della signora Tuvache, le aprirono, e io rimasi come un idiota davanti al portone che si era richiuso dietro di lei."

La signora Bovary, ascoltandolo, si stupiva di essere tanto vecchia, tutte queste cose che riapparivano sembravano dilatare la sua esistenza, venivano a crearsi immensi spazi sentimentali in cui le sembrava di ritornare; e diceva di tanto in tanto, a voce bassa e con gli occhi socchiusi:

"Sì, è vero!... È vero!... È vero!"

Sentirono suonare le otto a tutti gli orologi del quartiere Beauvoisine che era pieno di pensionati, di chiese e di grandi alberghi chiusi. Emma e Léon tacevano, ma sentivano, guardandosi, un mormorio nella mente, come se qualcosa di sonoro fosse sfuggito dai loro occhi fissi. Avevano unito le mani e il passato, l'avvenire, le reminiscenze e i sogni, tutto si confondeva nella dolcezza di quell'estasi. La notte si infittiva sulle pareti, dove brillavano ancora, quasi perdute nell'ombra, quattro stampe dai colori volgari rappresentanti altrettante scene della Torre di Nesle, con didascalie in basso in spagnolo e in francese. Dalla finestra a ghigliottina si scorgeva un angolo di cielo nero ritagliato dai tetti aguzzi.

Emma si alzò per accendere due candelabri sul cassettone, poi si rimise a sedere.

"Ebbene?..." disse Léon.

"Ebbene?..." rispose lei.

Léon cercava la maniera di riannodare il dialogo interrotto, quando Emma disse:

"Come mai, nessuno, fino a oggi, mi ha mai espresso dei sentimenti simili?"

Il giovane esclamò che le nature ideali erano difficili a capirsi. Lui l'aveva amata fin dal primo sguardo e si disperava pensando alla felicità che avrebbero potuto avere se, per una grazia del destino, si fossero incontrati prima e avessero potuto legarsi uno all'altra indissolubilmente.

"Ci ho pensato, qualche volta" disse Emma.

"Che sogno!" mormorò Léon.

E, giocherellando con l'orlo azzurro della lunga cintura bianca di lei, soggiunse:

"Cosa ci impedisce di ricominciare?"

"No, amico mio" ella rispose. "Io sono troppo vecchia... Lei è troppo giovane... Mi dimentichi! Altre donne l'ameranno... e lei le ricambierà."

"Non come amo lei!" gridò Léon.

"Che bambino! Via, dobbiamo essere saggi. Desidero così!"

Gli dimostrò l'impossibilità del loro amore e come dovessero continuare a mantenersi nei limiti di una fraterna amicizia.

Diceva sul serio, quando affermava queste cose? Lei stessa non lo sapeva di certo, tutta presa com'era dal fascino della seduzione e dalla necessità di difendersene; e, contemplando il giovane, con uno sguardo tenero, respingeva senza energia le timide carezze che le mani di lui, tremanti, azzardavano.

"Ah! Mi perdoni!" disse lui scostandosi.

Emma fu presa da una vaga paura davanti a quella timidezza, più pericolosa per lei dell'audacia di Rodolphe quando si faceva avanti con le braccia aperte. Nessun uomo le era parso più bello di Léon. Il suo contegno attestava uno squisito candore. Abbassò le lunghe ciglia sottili e incurvate. La morbida pelle delle guance di lui arrossiva - pensava lei - di desiderio ed Emma provava una invincibile tentazione di posarvi le labbra. Si chinò verso la pendola come per vedere l'ora, dicendo:

"Com'è tardi, mio Dio! Quanto abbiamo chiacchierato!" Egli comprese l'allusione e cercò il cappello.

"E mi sono anche dimenticata lo spettacolo. E quel povero Bovary mi aveva lasciato rimanere proprio perché vi assistessi! il signor Lormeaux di Rue Grand-Pont, doveva accompagnarmici, con la moglie."

E l'occasione era ormai persa, perché sarebbe ripartita l'indomani.

"Davvero?" domandò Léon.

"Sì."

"Eppure bisogna che io la riveda" continuò lui. "Devo dirle..."

"Che cosa?"

"Una cosa... grave... seria. Eh, no, davvero, non partirà, è impossibile! Se lei sapesse... Mi ascolti... Non ha dunque capito? Non ha indovinato?"

"Eppure lei sa parlare bene" disse Emma.

"Non scherzi! Basta, basta per pietà! Mi permetta di rivederla... una volta... una sola."

"E va bene..."

Si interruppe, poi come ripensandoci:

"Oh! Non qui!"

"Dove vorrà."

"Vuole..."

Parve riflettere, poi soggiunse risoluta:

"Domani alle undici nella cattedrale"

"Ci sarò!" esclamò lui, afferrandole le mani che lei cercò di liberare.

Poi, siccome entrambi stavano in piedi, Léon dietro a Emma che teneva il capo abbassato, egli si chinò sul collo di lei e la baciò a lungo sulla nuca.

"Ma lei è pazzo! Lei è pazzo!" esclamò Emma, fra risatine trillanti, mentre i baci si moltiplicavano.

Allora, facendo sporgere il capo sopra la sua spalla, Léon sembrò chiedere il consenso degli occhi di lei. Lo sguardo di Emma cadde sul giovane, colmo di glaciale maestà.

Léon fece tre passi indietro per uscire, si fermò sulla soglia e balbettò con voce tremante:

"A domani".

Emma rispose con un cenno del capo e sparì, svelta come un uccello, nella stanza accanto.

La sera, Emma scrisse al giovane un'interminabile lettera nella quale si disimpegnava dall'appuntamento, e affermava che tutto era ormai finito, non avrebbero dovuto, per la felicità di entrambi, incontrarsi mai più. Ma, quando la lettera fu chiusa, si accorse di non avere l'indirizzo di Léon, e si trovò in grave imbarazzo.

"Gliela consegnerò io stessa" si disse. "Verrà di certo."

L'indomani, Léon, sul balcone davanti alla finestra spalancata, si lucidò, canticchiando, le scarpe, facendole risplendere. Indossò pantaloni bianchi, calze sottili, una giacca verde, inzuppò con tutti i profumi che possedeva il fazzoletto, poi, dopo essersi fatto pettinare, si spettinò, per conferire alla propria pettinatura una elegante naturalezza.

"È ancora troppo presto! " pensò, guardando l'orologio a cucù del parrucchiere, che segnava le nove.

Lesse un vecchio giornale di mode, uscì, fumò un sigaro, percorse tre strade e, pensando che ormai fosse il momento, si diresse lentamente verso il sagrato di Notre-Dame.

Era una bella mattinata estiva. Le argenterie brillavano nelle botteghe degli orefici e la luce che scendeva obliqua sulla cattedrale traeva bagliori dagli spigoli delle pietre grigie. Uno stormo di uccelli volteggiava nel cielo turchino intorno alle guglie a trifoglio. La piazza, echeggiante di grida, profumava per i fiori che fiancheggiavano il lastricato: rose, gelsomini, garofani, narcisi e tuberose intervallati, senza ordine, da macchie di verde umido, di erba gattaria e di centocchi per gli uccellini; nel mezzo gorgogliava una fontana e sotto gli ombrelloni, fra le zucche disposte a piramide, fioraie dal capo scoperto avvolgevano nella carta mazzolini di violette.

Léon ne comperò uno. Era la prima volta che comperava fiori per una donna; e aspirandone il profumo, il petto gli si gonfiò di orgoglio, come se l'omaggio destinato a un'altra persona si fosse di riflesso esteso anche a lui.

Ciò nonostante temeva di essere veduto ed entrò quindi risoluto nella chiesa.

Lo scaccino, in quel momento, stava sulla soglia, al centro del portale di sinistra, sotto un quadro raffigurante la danza di Marianna, con il pennacchio in testa, lo spadone che gli arrivava al polpaccio, la bacchetta in pugno, più maestoso di un cardinale e risplendente come un santo ciborio.

Si diresse verso Léon, e, con quel sorriso di falsa benignità proprio degli ecclesiastici quando interrogano i ragazzi, disse:

"Il signore non è di queste parti? Il signore desidera vedere le curiosità della chiesa?"

"No" rispose Léon.

Dapprima si aggirò per le navate, poi uscì per dare un'occhiata alla piazza. Emma non arrivava. Salì nel coro.

La navata si rispecchiava nelle acquasantiere colme, con la estremità delle ogive e una parte delle vetrate. Il riflesso dei dipinti, spezzandosi sui bordi dei marmi, continuava poi più lontano, sul pavimento, simile a un tappeto variegato. La luce vivida che penetrava attraverso i tre portali aperti si allungava in altrettanti enormi raggi luminosi all'interno della chiesa. Di tanto in tanto, in fondo, passava un sagrestano, facendo davanti all'altare la genuflessione obliqua dei devoti frettolosi. I lampadari di cristallo pendevano immobili. Nel coro ardeva una lampada votiva d'argento, e dalle cappelle laterali, dagli angoli bui della chiesa, si udivano talvolta sfuggire sospiri, e sotto le alte volte si ripercoteva l'eco del rumore di una grata che ricade.

Léon camminava con aria grave vicino ai muri. La vita non gli era mai sembrata tanto bella. Fra poco avrebbe visto arrivare Emma, affascinante, agitata, spiando dietro di sé gli sguardi che la seguivano, con il suo abito a volanti, l'occhialino d'oro, le scarpette minuscole, tutti quei particolari eleganti di cui lui non aveva finora avuto modo di godere, e con l'ineffabile seduzione della virtù che soccombe. La chiesa era pronta ad accoglierla come un gigantesco salotto, le volte si inclinavano per raccogliere nell'ombra la confessione del suo amore; le vetrate splendevano soltanto per illuminarle il viso, gli incensieri ardevano perché lei potesse apparire come un angelo avvolta nelle volute profumate.

E ancora non arrivava. Si mise a sedere su una sedia e gli occhi gli si posarono su una vetrata turchina ove si vedevano alcuni marinai che portavano dei canestri. Rimase a guardarli a lungo, con attenzione, contò le scaglie dei pesci e i bottoni delle giubbe, mentre i suoi pensieri erravano alla ricerca di Emma.

Un po' più in là lo scaccino si indignava dentro di sé, per questo individuo che si permetteva di ammirare da solo la cattedrale. Gli sembrava che si comportasse in maniera mostruosa, che, in un certo senso, lo derubasse e commettesse quasi un sacrilegio.

Ma ecco un fruscio di seta sulle lastre del pavimento, l'ala di un cappello, una pellegrina nera... Era lei! Léon si alzò e le corse incontro.

Emma era pallida. Camminava in fretta.

"Legga!" disse porgendogli un foglio "Oh, no!"

E di scatto ritirò la mano, entrò nella cappella della Vergine, dove si inginocchiò contro una sedia e si mise a pregare.

Il giovane si irritò per questo capriccio bigotto, eppure non poté fare a meno di subire il suo fascino vedendola, nel bel mezzo del convegno, così perduta nelle orazioni come una marchesa andalusa; ma ben presto incominciò ad annoiarsi perché non la smetteva più.

Emma pregava, o, piuttosto, si sforzava di pregare, sperando che dal cielo scendesse qualche improvvisa ispirazione. E, per facilitare l'aiuto divino, si empiva gli occhi con lo splendore del tabernacolo, aspirava il profumo delle lunarie bianche fiorite, nei grandi vasi, e prestava orecchio al silenzio della chiesa il quale non faceva che accrescere il tumulto nel suo cuore.

Emma si rialzò e stavano per andarsene quando lo scaccino si avvicinò rapidamente dicendo:

"La signora non è di queste parti, vero? La signora desidera vedere le curiosità della chiesa?"

"Eh, no!" esclamò Léon.

"Perché no?" disse Emma.

Si aggrappava, per salvare la sua virtù tentennante, a tutti i pretesti, alla Vergine, alle sculture, alle tombe.

Allora, per poter procedere con ordine, lo scaccino li ricondusse fino all'entrata, sulla piazza, dove mostrò loro, con la canna, un gran cerchio di selci nere senza iscrizioni né incisioni.

"Ecco" disse con grande solennità "la circonferenza della bella campana di Amboise. Pesava quarantamila libbre. Non ce n'era un'altra uguale in tutta Europa. L'operaio che la fuse ne morì di gioia..."

"Andiamo!" disse Léon.

Il brav'uomo si rimise in marcia. Poi, arrivato alla cappella della Vergine, stese un braccio in un sintetico gesto dimostrativo e, più orgoglioso di un signorotto di campagna che mostra i suoi frutteti, disse:

"Questa semplice lapide ricopre i resti di Pierre de Brézé, signore della Varenne e di Brissac, gran maresciallo di Poitou e governatore di Normandia, morto nella battaglia di Montlhéry, il 16 giugno del 1465".

Léon si mordeva le labbra e scalpicciava.

"E a destra, questo gentiluomo tutto bardato di ferro, su un cavallo che si impenna, è suo nipote, Louis de Brézé, signore di Breval e di Montchauvet, conte di Maulevrier, barone di Mauny, ciambellano del re, cavaliere dell'Ordine e anche lui governatore di Normandia, morto il 23 luglio 1531, una domenica, come dice l'iscrizione; e, qui sotto, quest'uomo che sta per scendere nella tomba rappresenta esattamente la stessa persona. Non è possibile vedere una più perfetta rappresentazione del nulla, non è vero?"

La signora Bovary prese l'occhialino. Léon, immobile, la guardava, senza neanche più tentare di dire una parola o di fare un gesto, tanto si sentiva scoraggiato di fronte a questo duplice partito preso di ciarle e d'indifferenza.

L'inesorabile guida continuò:

"Vicino a lui, questa donna inginocchiata e in lacrime è la sua sposa, Diane de Poitiers, contessa di Brézé, duchessa di Valentinois, nata nel 1499 e morta nel 1566, e, a sinistra, quella che ha un bambino in braccio è la Santa Vergine. E adesso si voltino da questa parte: ecco le tombe degli Amboise. Sono stati entrambi cardinali e arcivescovi di Rouen. Questo era ministro di re Luigi XII. Ha fatto molto per la cattedrale. Nel suo testamento ha lasciato trentamila scudi d'oro per i poveri".

E, senza fermarsi, sempre parlando, li spinse davanti a una cappella ingombra di inginocchiatoi, e, spostandone qualcuno, scoprì una specie di masso che sarebbe anche potuto essere una statua mal riuscita.

"Un tempo questa adornava la tomba" disse con un lungo gemito "di Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra e duca di Normandia. Furono i calvinisti, signore, a ridurla in questo stato. Per malvagità, l'avevano seppellita sotto il seggio episcopale di monsignore. Ecco, guardino, questa è la porta che conduce appunto alla sua abitazione. Procediamo e ammiriamo le vetrate della Gargouille."

Ma Léon tirò fuori rapidamente una moneta d'argento dalla tasca e afferrò Emma per un braccio. Lo scaccino rimase strabiliato, senza capire il perché di una così intempestiva munificenza quando restavano ancora, per il forestiero, tante cose da vedere. Perciò lo richiamò:

"Ehi! signore! il campanile! il campanile!"

"Tante grazie!" fece Léon.

"Il signore sbaglia! È alto circa quattrocentoquaranta piedi, nove meno della grande piramide egiziana. È tutto in ferro fuso, è..."

Léon fuggiva perché gli sembrava che il suo amore, dopo le due ore o poco meno in cui si era immobilizzato nella chiesa, simile alle pietre, minacciasse ora di svanire come fumo su per quella specie di tubo mozzo, di gabbia oblunga, di camino bucato, che aveva il coraggio di elevarsi al di sopra della cattedrale come il tentativo stravagante di un calderaio fantasioso.

"Ma dove andiamo?" domandò Emma.

Senza rispondere, continuò a camminare a passi rapidi e la signora Bovary stava già immergendo il dito nell'acqua benedetta, quando sentirono dietro di loro un ansito affannoso, accompagnato dal rimbalzare ritmico di una canna. Léon si voltò.

"Signore!"

"Cosa c'è?"

E riconobbe lo scaccino il quale portava sul braccio, tenendoli in equilibrio contro il proprio ventre, una ventina circa di grossi volumi rilegati alla rustica. Si trattava delle opere che parlavano della cattedrale.

"Imbecille!" borbottò fra i denti Léon, slanciandosi fuori della chiesa.

Un monello giocava sul sagrato.

"Va' a chiamarmi una carrozza!"

Il ragazzo partì come una palla di schioppo e imboccò Rue des Quatre-Vents. Rimasero soli, per qualche minuto, uno di fronte all'altra, un po' imbarazzati.

"Ah! Léon!... Veramente... io non so... se devo..."

Faceva la ritrosa, poi aggiunse, compunta:

"È molto sconveniente, lo sa?"

"Che cosa?" ribatté il giovane di studio "A Parigi si usa."

E queste parole, come un argomento inoppugnabile, la decisero.

Frattanto la carrozza si faceva aspettare. Léon temeva che Emma volesse rientrare in chiesa. Finalmente arrivò.

"Uscite almeno dal portale nord," gridò loro dietro lo scaccino che era rimasto sulla soglia "potrete vedere la Resurrezione, il Giudizio Universale, il Paradiso, il Re David, e i Dannati nelle fiamme dell'inferno."

"Dove andiamo, signore?" domandò il cocchiere.

"Dove vuole!" disse Léon spingendo Emma nella vettura.

E il pesante veicolo si mise in moto.

Discese Rue Grand-Pont, attraversò Place des Arts, il lungofiume Napoleone, il Pont Neuf e si fermò di botto davanti alla statua di Pierre Corneille.

"Vada avanti!" fece una voce che usciva dall'interno. La carrozza ripartì e, lasciatasi indietro l'incrocio La Fayette, imboccò la discesa e, grazie a quest'ultima, entrò al gran galoppo nella stazione ferroviaria.

"No, vada diritto!" gridò la stessa voce

La carrozza, uscita dai cancelli, arrivò ben presto sul viale e proseguì adagio fra i grandi olmi. Il cocchiere si asciugò la fronte, mise il cappello di cuoio fra le gambe e guidò la vettura al di là dei viali laterali, sulla riva del fiume, vicino all'erbetta.

Seguì il fiume, sull'alzaia pavimentata con ciottoli a secco, e proseguì a lungo dalla parte di Oyssel, oltre le isole.

Ma d'improvviso si slanciò con impeto attraverso Quatremares, Sotteville, la Grande Chaussée, Rue d'Elbeuf, e fece la terza fermata davanti al Jardin des Plantes.

"Vada avanti!" gridò la voce infuriata.

Riprendendo subito la corsa, la carrozza passò per Saint-Sever, per il lungofiume dei Curandiers, per quello alle Meules, attraversò di nuovo il fiume, poi la piazza del Champ-de-Mars e giunse dietro i giardini dell'ospedale, dove vecchi vestiti di nero passeggiavano al sole lungo una terrazza tutta verde di edera. Risalì Boulevard Bouvreuil, percorse Boulevard Cauchoise, poi tutto il Mont-Riboudet fino alla salita di Deville.

Tornò indietro, senza meta né direzione, vagabondò a caso. La si vide a Saint-Pol, a Lescure, a Mont-Gargan, alla Rouge-Mare e in piazza del Gaillardbois; in Rue Maladrerie; in Rue Dinanderie, davanti a Saint-Romain, Saint-Vivien, Saint-Maclou, Saint-Nicaise, davanti alla dogana, alla Basse-Vieille-Tour, ai Trois-Pipes e al Cimitero Monumentale. Ogni tanto il cocchiere, da cassetta, lanciava alle osterie sguardi disperati. Non capiva quale furia locomotoria spingesse questi individui a non volersi più fermare. Ci provò, qualche volta, ma subito sentì dietro di sé esclamazioni di collera. Frustava allora con tutta la sua energia le due rozze tutte sudate, senza curarsi dei sobbalzi che li facevano traballare di qua e di là, infischiandosene di tutto, demoralizzato e quasi piangente di sete, di fatica e di malinconia.

E al porto, in mezzo ai carri e ai barili, nelle strade, agli angoli delle vie, la gente apriva tanto d'occhi di fronte a questo fatto così straordinario in provincia, una vettura con le tendine accostate, che riappariva di continuo, più chiusa di una tomba e sballottata come un bastimento

Una volta, a metà pomeriggio, in aperta campagna, nel momento in cui il sole dardeggiava con più accanimento contro le vecchie lanterne argentate, una mano nuda passò sotto le tendine di tela gialla e gettò fuori dei pezzetti di carta stracciata che si dispersero al vento e caddero lontano, come farfalle bianche, su un campo di trifoglio rosso tutto in fiore.

Poi, verso le sei, la vettura si fermò in un vicolo del quartiere Beauvoisine, e ne discese una donna che si allontanò, con il volto coperto e senza voltare la testa.

II

Arrivando all'albergo, la signora Bovary si stupì molto di non vedere la diligenza. Hivert, dopo averla aspettata per cinquantatré minuti, alla fine se n'era andato

Nulla del resto obbligava Emma a partire, ma aveva dato la sua parola che sarebbe tornata quella sera stessa. D'altro canto, Charles l'aspettava e già sentiva nel cuore quella fiacca docilità che è, per tante donne, il castigo e nello stesso tempo il riscatto dell'adulterio.

In fretta fece la valigia, pagò il conto e prese a nolo un calesse; poi, facendo premura al cocchiere, incoraggiandolo, informandosi ogni minuto dell'ora e dei chilometri percorsi, riuscì a raggiungere la Rondine alle prime case di Quincampoix.

Appena si fu sistemata nel suo angolo, chiuse gli occhi e li riaprì soltanto al termine della discesa; subito scorse di lontano Félicité che stava di vedetta davanti alla casa del maniscalco. Hivert trattenne i cavalli e la domestica, sollevandosi fino al finestrino, disse misteriosamente:

"Signora, bisogna che passi subito dal signor Homais. È una cosa urgente".

Il villaggio era silenzioso come sempre. Agli angoli delle strade si vedevano mucchietti rosa fumiganti all'aria; era il periodo delle marmellate e tutti a Yonville confezionavano la provvista per l'inverno nel medesimo giorno. Ma, davanti alla bottega del farmacista, si poteva ammirare un cumulo assai più grande che superava tutti gli altri con la preminenza che deve avere un laboratorio nei confronti dei fornelli domestici, una necessità generale contrapposta a capricci individuali.

Emma entrò. La grande poltrona era rovesciata e anche il Faro di Rouen giaceva a terra, steso fra due pestelli. La signora Bovary spinse la porta del corridoio, e, in mezzo alla cucina, fra gli orci bruni pieni di ribes sgranato, di zucchero semolato e in pezzi, fra le bilance sulla tavola e le pentole sul fuoco, scorse tutti gli Homais, grandi e piccoli, con grembiuli che arrivavano fino al mento, ognuno con una forchetta in mano. Justin, in piedi, teneva la testa bassa, mentre il farmacista urlava:

"Chi ti ha detto di andarlo a cercare nel cafarnao?"

"Cosa c'è? Cosa succede?"

"Cosa c'è?" rispose lo speziale "Stavamo facendo le marmellate, cuocevano e siccome bollivano troppo forte traboccavano. Allora ordino che mi portino un'altra pentola e lui, per fiacca, per pigrizia, va a prendere la chiave del cafarnao appesa a un chiodo nel mio laboratorio."

Il farmacista chiamava così uno stanzino sotto i tetti pieno di utensili e di mercanzie utili alla sua professione. Spesso vi trascorreva da solo lunghe ore a etichettare, a travasare, a confezionare, e lo considerava non come un ripostiglio, ma come un vero santuario, dal quale uscivano, elaborate dalle sue mani, tutte quelle pillole, pasticche, tisane, lozioni e pozioni che lo rendevano celebre nei dintorni. Nessuno doveva metterci piede e la proibizione era così assoluta che lui stesso vi faceva le pulizie. Insomma, se la farmacia aperta a tutti era il luogo in cui poteva ostentare il proprio orgoglio, il cafarnao era il rifugio dove, concentrandosi egoisticamente, Homais poteva dilettarsi dedicandosi alle attività predilette; così la balordaggine di Justin gli sembrava una mostruosa irriverenza, e rosso in viso più del ribes, ripeteva:

"Sì, del cafarnao. La chiave della porta dietro la quale si trovano gli acidi e gli alcali caustici! Andarci a prendere una pentola! Una pentola con il coperchio! E della quale forse non mi servirò mai! Tutto ha la sua importanza nelle delicate operazioni della nostra arte! Ma che diavolo! Bisogna stabilire delle distinzioni, e non adoperare per usi quasi domestici ciò che è destinato alle attività farmaceutiche! Sarebbe come scalcare un pollo con il bisturi, come se un magistrato..."

"Ma calmati!" diceva la signora Homais.

E Athalie, tirandolo per la giacca:

"Papà! Papà!"

"No, lasciatemi stare," ripeteva il farmacista "lasciatemi stare! Corbezzoli! Tanto varrebbe fare il droghiere, parola d'onore! Su, va', non rispettare niente! Spacca! Rompi! Libera le sanguisughe! Brucia la malva! Metti i cetrioli sott'aceto nei boccali, straccia le bende!"

"Lei, però, aveva..." disse Emma.

"Vengo subito! Ma lo sai cosa hai rischiato? Non hai visto niente, nell'angolo a sinistra, sopra il terzo scaffale? Parla, rispondi, di' qualcosa!"

"Io... non so" balbettò il ragazzo.

"Ah! Tu non sai! Ebbene, lo so io! Hai visto quella bottiglia di vetro blu, sigillata con la cera gialla, che contiene una polvere bianca, e sulla quale ho anche scritto: Pericoloso! E lo sai cosa c'è dentro? Arsenico! E tu vai là a toccare! Prendi una pentola che c'è lì vicino!"

"Lì vicino!" gridò la signora Homais, giungendo le mani "Arsenico! Potevi avvelenarci tutti!"

E i bambini si misero a urlare, come se già avessero sentito dolori atroci nelle viscere.

"Oppure avvelenare un malato!" continuò lo speziale "Volevi vedermi sul banco dei criminali, in corte d'assise? Vedermi trascinato al patibolo? Tu ignori quanta attenzione metta nell'esercizio della mia professione, per quanto io possa vantare un'eccezionale perizia. Più volte, io stesso tremo al pensiero della mia responsabilità! Perché il governo ci perseguita, e la assurda legislazione che ci regge, è una vera spada di Damocle sospesa sul nostro capo!"

Emma non pensava più a domandare cosa volessero da lei e il farmacista continuava, ansimando, il suo discorso:

"Ecco la riconoscenza per tutta la bontà che ti dimostriamo! Ecco come mi ricompensi delle cure paterne che ti prodigo! Infatti, senza di me, dove saresti? Cosa faresti? Chi ti dà da mangiare, ti educa, ti veste e ti offre la possibilità di farti un giorno una posizione onorevole nella società? Ma, per ottenere questo, bisogna lavorare sodo, farsi venire, come si dice, i calli sulle mani. Fabricando fit faber, age quod agis".

Citava addirittura il latino, tanto era esasperato. Avrebbe pronunciato citazioni in cinese o in groenlandese se soltanto avesse conosciuto queste lingue; infatti era in preda a una di quelle crisi nelle quali l'anima mostra senza distinzioni tutto quello che racchiude come l'oceano che nelle tempeste si spalanca, dalle alghe delle coste alle sabbie degli abissi.

E soggiunse:

"Comincio a pentirmi, e quanto, di averti preso con me! Avrei fatto senz'altro molto meglio a lasciarti marcire nella miseria e nella sporcizia dove sei nato! Non sarai mai capace di fare altro che il guardiano di buoi! Non hai nessuna attitudine per le scienze! Sai incollare a stento un'etichetta! E vivi in casa mia come un papa, come un pascià, e te la spassi".

Emma, voltandosi verso la signora Homais, tentò di dire:

"Mi hanno fatto venire qui..."

"Ah! Mio Dio!" la interruppe la buona donna con un'aria desolata.

"Come farò a dirglielo?... È una disgrazia!"

Non riuscì a finire. Lo speziale tuonava:

"Vuotala! Puliscila! Riportala dove l'hai presa! Sbrigati!" E, scotendo Justin per il colletto del camiciotto, gli fece cadere di tasca un libro.

Il ragazzo si chinò. Homais fu più svelto di lui, e, dopo aver raccolto il volumetto, rimase a contemplarlo con gli occhi fuori della testa e la bocca aperta.

"L'amore... coniugale!" lesse lentamente, separando le parole "Ah! Molto bene! Molto bene! Proprio bello! E illustrato anche!... Ah! Questo poi è troppo!"

La signora Homais si fece avanti.

"No, non toccarlo!"

I bambini volevano vedere le figure.

"Uscite!" fece lui imperiosamente.

E quelli uscirono.

Si mise a passeggiare avanti e indietro, a grandi passi, tenendo in mano il volumetto, strabuzzando gli occhi, soffocato, tumefatto, apoplettico. Poi andò dritto dal suo allievo e si piazzò davanti a lui con le braccia conserte:

"Ma hai proprio tutti i vizi, piccolo disgraziato? Guarda che sei su una brutta china!... Non hai pensato, almeno, che questo infame libello sarebbe potuto capitare nelle mani dei miei figli, mettere la scintilla del male nella loro mente, macchiare l'innocenza di Athalie, corrompere Napoleone! Lui che è già sviluppato come un uomo. Sei sicuro per lo meno che non l'abbiano letto? Puoi dimostrarmelo...?"

"Ma insomma, signore," disse Emma "lei mi doveva dire..."

"È vero signora... Suo suocero è morto!"

Il signor Bovary padre era infatti deceduto due giorni prima, all'improvviso, stroncato da un colpo apoplettico, mentre si alzava da tavola, e, per un eccesso di precauzione, conoscendo la sensibilità di Emma, Charles aveva pregato il signor Homais di comunicarle la notizia orribile con le dovute cautele.

Homais aveva preparato il suo discorso, l'aveva smussato, forbito, era riuscito a dargli un ritmo, a farne un capolavoro di prudenza e di gradualità, di eleganti giri di frase, e di delicatezza. Ma la collera aveva travolto la retorica.

Emma, rinunciando ai dettagli, lasciò subito la farmacia, anche perché il signor Homais aveva ricominciato con i suoi vituperi. Finì per calmarsi, però, e, a un certo punto, si mise a borbottare in tono paterno, facendosi vento con la papalina:

"Non è che io disapprovi del tutto quest'opera! L'autore era un medico. Tratta alcune nozioni scientifiche che non è affatto male, per un uomo, conoscere; anzi, oserei dire, che un uomo deve conoscere. Ma più tardi, più tardi! Aspetta almeno di essere diventato uomo tu stesso, e che la tua personalità sia formata!"

Al colpo di picchiotto di Emma, Charles, che l'aspettava, venne avanti a braccia aperte dicendo con le lacrime nella voce:

"Ah! Mia cara amica..."

E si chinò dolcemente per baciarla. Ma al contatto delle sue labbra il ricordo dell'altro l'afferrò; ed Emma si passò la mano sul viso con un brivido.

Ciò nonostante rispose:

"L'ho saputo... l'ho saputo..."

Charles le mostrò la lettera in cui la madre narrava la disgrazia senza alcuna ipocrisia sentimentale. Si rammaricava soltanto che il marito non avesse potuto ricevere i conforti religiosi, essendo morto a Doudeville, in mezzo alla strada, sulla porta di un caffè, dopo un pranzo commemorativo con ex ufficiali.

Emma gli restituì la lettera, poi, a cena, per convenienza, finse un poco di inappetenza, ma siccome Charles insisteva, si mise risolutamente a mangiare, mentre il marito, di fronte a lei, rimaneva immobile in un atteggiamento accasciato.

Di tanto in tanto, alzando la testa, la osservava a lungo con uno sguardo pieno di angoscia. Una volta sospirò:

"Avrei voluto rivederlo!"

Emma taceva. Infine si rese conto che avrebbe dovuto dire qualcosa:

"Quanti anni aveva tuo padre?" domandò.

"Cinquantotto."

"Ah!"

E fu tutto.

Un quarto d'ora dopo, Charles soggiunse:

"Povera mamma!... Cosa farà adesso?"

Vedendola tanto taciturna, Bovary supponeva che la moglie fosse afflitta e si costringeva a non dire nulla per non accrescere il dolore che la rattristava. Cercando di riscuotere anche se stesso, le domandò allora:

"Ti sei divertita ieri?"

"Sì."

Bovary non si alzò quando tolsero la tovaglia. Ed Emma neppure, ma, poiché continuava a vederselo davanti, la monotonia di questo spettacolo finì per allontanarle dal cuore a poco a poco ogni senso di pietà. Le sembrava meschino, debole, una nullità, un pover'uomo in tutti i sensi. Come sbarazzarsi di lui? Che serata interminabile! Uno stordimento estatico, simile a quello che producono i vapori dell'oppio, la intorpidiva.

Si fece sentire, nell'anticamera, il rumore secco di un bastone sul pavimento. Era Hippolyte che portava il bagaglio della signora.

Per deporlo a terra descrisse faticosamente un quarto di cerchio con la gamba di legno.

"Non ci pensa nemmeno più!" si disse Emma, guardando il poveretto che grondava sudore di sotto la folta capigliatura rossa.

Bovary cercava degli spiccioli in fondo al borsellino, senza mostrar di capire tutta l'umiliazione che costituiva per lui la sola presenza di quest'uomo, il quale rimaneva lì come la vivente prova accusatrice della sua irrimediabile inettitudine.

"Guarda che bel mazzolino di fiori!" disse Charles notando sul caminetto le violette di Léon.

"Sì," fece Emma con indifferenza "è un mazzetto che ho comperato poco fa... da una mendicante."

Charles prese le violette e, rinfrescandovi su gli occhi rossi di lacrime, le odorò con delicatezza. Emma gliele tolse in fretta di mano e le mise in un bicchiere pieno d'acqua.

L'indomani arrivò la signora Bovary madre. Lei e suo figlio piansero a lungo. Emma, con il pretesto di dover dare ordini, scomparve.

Il giorno successivo fu necessario pensare insieme agli abiti per il lutto. Andarono a sedersi con il cestino da lavoro sotto la pergola, in riva al fiume.

Charles pensava al padre e si stupiva di provare tanto affetto per quell'uomo cui aveva creduto fino ad allora di voler bene in modo piuttosto tiepido. La signora Bovary madre pensava al marito. I peggiori giorni del passato le apparivano ora desiderabili. Tutto veniva cancellato dal rimpianto spontaneo di una così lunga consuetudine; di tanto in tanto, mentre cuciva, una grossa lacrima le scendeva lungo il naso e rimaneva sospesa per un momento.

Emma pensava che, soltanto quarantotto ore prima, lei e Léon erano stati insieme, lontani da tutto il resto del mondo, ebbri di felicità, a contemplarsi con occhi insaziabili. Cercava di riafferrare i più insignificanti particolari di quella giornata ormai trascorsa. Ma la presenza della suocera e del marito la infastidiva. Avrebbe voluto non sentire niente, non vedere niente, per non essere distolta dal pensiero del suo amore, il quale, per quanto lei facesse, andava disperdendosi nelle sensazioni esteriori.

Stava scucendo la fodera di un abito, e i pezzi si sparpagliavano intorno a lei; la signora Bovary madre, senza alzare gli occhi, faceva stridere le forbici e Charles, con le pantofole di vivagno, e una vecchia giacca scura che adoperava come veste da camera, se ne stava lì con le mani in tasca tacendo a sua volta; vicino a loro Berthe, in grembiulino bianco, raschiava con la paletta la sabbia dei vialetti.

All'improvviso videro entrare dal cancello il signor Lheureux, il mercante di stoffe.

Veniva a offrire i propri servigi, data la fatale circostanza. Emma rispose che riteneva di poterne fare a meno. Il mercante non si arrese.

"Le faccio mille scuse" disse. "Vorrei avere uno scambio di idee con lei, in privato."

Poi, a voce bassa, aggiunse, sempre rivolto a Charles:

"È per quell'affare... ricorda?"

Bovary arrossì fino agli orecchi.

"Ah! Sì... giusto."

E disse turbato, rivolgendosi alla moglie:

"Non potresti... mia cara?..."

Emma sembrò essere al corrente, perché si alzò; Charles disse alla madre:

"Non è nulla! Senza dubbio qualcosa di ordinaria amministrazione".

Non voleva farle sapere niente della storia della cambiale, paventando i suoi rimproveri.

Quando furono soli, il signor Lheureux cominciò con parole molto chiare a felicitare Emma per la successione, poi chiacchierò di cose indifferenti, degli alberi da frutta, del raccolto, della sua salute che era sempre così e così, né bene né male. In realtà lavorava come un mulo, senza riuscire, per quanto ne dicesse la gente, a mettere da parte un centesimo.

Emma lo lasciava parlare. Si annoiava atrocemente, da due giorni a quella parte!

"E lei, si è ormai del tutto rimessa?" continuò "Perbacco, ho visto il suo povero marito in un bello stato! È davvero un brav'uomo per quanto vi sia stata fra noi qualche difficoltà."

Emma volle sapere quali fossero quelle difficoltà, dato che Charles le aveva tenuta nascosta la contestazione di quanto lei aveva ordinato.

"Ma lo sa bene!" disse Lheureux "Quei suoi capricci, i bauli."

Aveva abbassato il cappello sugli occhi e, con le mani dietro la schiena, sorridendo e zufolando, la fissava in una maniera insopportabile. Sospettava qualcosa? Infine continuò:

"Ci siamo riconciliati e sono qui apposta per proporle un accomodamento".

Si trattava di rinnovare la cambiale firmata da Bovary. Il medico avrebbe fatto come credeva meglio, non doveva crucciarsene, soprattutto ora che stava per avere un sacco di fastidi.

"E sarebbe meglio che se ne scaricasse dividendoli con qualcun altro, con lei, per esempio, rilasciandole una procura, questo sarà più comodo; e noi potremmo concludere insieme qualche piccolo affare."

Emma non capiva. Lui tacque. Poi, tornando ai suoi affari, dichiarò che la signora non avrebbe potuto fare a meno di acquistare qualcosa. Le avrebbe mandato un taglio di dodici metri di bella stoffa nera, per farsi un abito.

"Quello che indossa non va bene per uscire. Ce ne vuole uno per le visite. L'ho visto subito, di primo acchito, quando sono entrato. Ho l'occhio americano, io."

Non mandò la stoffa, la portò di persona. Poi tornò per misurarla, tornò con altri pretesti, cercando ogni volta di rendersi simpatico, di essere servizievole, infeudandosi, come avrebbe detto Homais, e sempre buttando là con Emma qualche consiglio per la procura. Non parlava mai della cambiale. Emma non ci pensava; Charles, all'inizio della convalescenza, le aveva accennato qualcosa; ma tanti pensieri agitati si erano susseguiti nella sua mente, che aveva finito col dimenticarsene. D'altro canto, si guardava bene dal dare l'avvio a discussioni d'interesse. La signora Bovary madre ne rimase molto stupita e attribuì il cambiamento d'umore ai sentimenti religiosi nati in lei durante la malattia.

Ma, non appena la suocera fu partita, Emma non tardò a meravigliare Bovary con il suo senso pratico. Bisognava informarsi, verificare le ipoteche, vedere se vi erano buone ragioni per una licitazione o per una liquidazione.

Citò termini tecnici, a caso, pronunciò le grosse parole 'ordine', 'avvenire', 'previdenza', ed esagerava di continuo i fastidi della successione: tanto che un giorno Charles si vide sottoporre un modello di procura generale per "trattare e amministrare gli affari, contrarre prestiti, firmare e girare cambiali, pagare somme ecc..." Emma aveva imparato bene la lezione di Lheureux.

Charles, ingenuamente, le domandò da dove venisse quel documento.

"Dal signor Guillaumin."

E, con la più grande faccia tosta del mondo, soggiunse:

"Non mi fido poi troppo, però. I notai hanno una così cattiva reputazione! Forse bisognerebbe consultare... Ma conosciamo soltanto... Oh! Nessuno".

"A meno che Léon..." disse Charles, che stava riflettendo.

Ma era così difficile intendersi per lettera! Allora Emma propose di fare ella stessa il viaggio per accordarsi. Charles la ringraziò, lei insistette. Fu una gara di gentilezze. Infine Emma esclamò, con un tono di voluta caparbietà:

"No, ti prego, ci vado io".

"Come sei buona!" disse lui, baciandola sulla fronte.

Subito, il giorno dopo, Emma salì sulla Rondine per andare a Rouen a consultare il signor Léon: e si trattenne laggiù tre giorni.

III

Furono tre giorni pieni, squisiti, splendidi, una vera luna di miele.

Alloggiavano all'Hotel de Boulogne, sul porto. E vivevano là, con le persiane chiuse, le porte sprangate, fiori sparsi sul pavimento e sciroppi con ghiaccio, che venivano portati in camera fin dal mattino.

Verso sera prendevano una barca coperta e andavano a cenare su un'isola.

Era l'ora in cui, nei cantieri, si sentono risonare i colpi di mazza dei calafati, contro il fasciame delle imbarcazioni. Il fumo del catrame si levava fra gli alberi e sul fiume si vedevano larghe chiazze di grasso che si ondulavano, sparse a caso sotto i raggi purpurei del sole, come placche di bronzo galleggianti.

Scendevano lungo il fiume in mezzo alle barche ormeggiate, i cui lunghi canapi obliqui rasentavano i fianchi della barca.

I rumori della città si allontanavano poco per volta: il rotolio dei carretti, il chiasso delle voci, l'abbaiare dei cani sui ponti delle imbarcazioni. Emma si toglieva il cappello e approdavano alla loro isola.

Si mettevano a sedere nella sala al pianterreno di un'osteria che aveva appese sulla porta delle reti nere, mangiavano una frittura di sperlani, crema e ciliegie. Si sdraiavano sull'erba, si abbracciavano nascosti fra i pioppi, e avrebbero voluto, come due Robinson, rimanere per sempre in quel luogo appartato che, nella beatitudine in cui vivevano, sembrava loro il più meraviglioso del mondo. Non era certo la prima volta che vedevano il cielo azzurro, gli alberi, l'erbetta, né la prima volta che sentivano il fiume scorrere o la brezza spirare fra il fogliame, ma di certo non avevano mai ammirato tutto ciò come se la natura non fosse mai esistita prima, o come se avesse cominciato a essere bella soltanto dopo l'appagamento del loro desiderio.

Ripartivano al cader della notte. La barca costeggiava le isole. Restavano sul fondo, tutt'e due nascosti nell'ombra, senza parlare. I remi quadrati cigolavano negli scalmi di ferro, e scandivano il tempo nel silenzio, simili al battere di un metronomo, mentre, a poppa, la cima d'ormeggio trascinata nell'acqua non interrompeva mai il suo sciacquio dolce.

Una volta apparve la luna; allora gli innamorati non si lasciarono sfuggire l'occasione di creare frasi da dedicarle; trovavano l'astro melanconico e pieno di poesia; Emma si mise perfino a cantare:

Una sera, ricordi? vogavamo...

La voce debole e armoniosa di lei si perdeva sulle onde e il vento portava con sé i gorgheggi che Léon sentiva passare vicini, simili a un battito d'ali.

Emma stava di fronte a lui, appoggiata contro la cabina dell'imbarcazione nella quale la luna penetrava attraverso una delle persiane aperta. Il suo abito nero, con il drappeggio che si allargava a ventaglio, la snelliva e la faceva sembrare più alta. Aveva il viso e gli occhi levati al cielo, e le mani giunte. Di tanto in tanto le ombre dei salici la nascondevano per intero, poi riappariva di colpo, come una visione sotto il chiarore della luna. Léon, seduto a terra, vicino a lei, rinvenne con la mano un nastro di seta color rosso vivo.

Il barcaiolo lo esaminò e concluse:

"Ah! Deve averlo perduto qualcuno di una comitiva che ho portato l'altro giorno in barca. Erano una compagnia di buontemponi, uomini e donne, con dolci, champagne, trombe, e hanno fatto una gran sarabanda! Ce n'era uno soprattutto, un gran bell'uomo con i baffetti, che sembrava proprio divertente! Gli dicevano: "Suvvia, raccontaci qualcosa... Adolphe... Dodolphe..." credo si chiamasse così".

Emma rabbrividì.

"Non ti senti bene?" le domandò Léon facendosi vicino. "Oh! Non è niente. Sarà il freddo della notte."

"E non gli devono mancare le avventure a quello là, no di certo" soggiunse adagio il vecchio marinaio, convinto di dire qualcosa di spiritoso nei riguardi del forestiero.

Poi, dopo essersi sputato sulle mani, riprese i remi.

Eppure, fu necessario separarsi! Gli addii furono tristi. Léon doveva indirizzare le proprie lettere presso mamma Rollet, ed Emma gli fece raccomandazioni così precise, a proposito della doppia busta, da lasciarlo molto ammirato per la sua astuzia amorosa.

"Allora mi assicuri che tutto va bene?" gli domandò con l'ultimo bacio.

"Sì, certo." "Ma perché poi," egli pensò, mentre se ne tornava indietro solo "ci tiene tanto a questa procura?"

IV

Léon assunse ben presto nei confronti dei propri colleghi un'aria di superiorità; evitò la loro compagnia e non si curò più dei suoi scartafacci.

Aspettava le lettere di Emma, le rileggeva; poi le rispondeva. L'evocava con tutta la forza del suo desiderio e dei ricordi. Invece di diminuire con la lontananza, questa smania di rivederla si accrebbe, tanto che, un sabato mattina, egli lasciò all'improvviso lo studio.

Quando, dall'alto della collina, scorse nella vallata il campanile della chiesa con la bandierina di latta verniciata che girava nel vento, provò la stessa soddisfazione commista di trionfante vanità e di egoistico intenerimento che devono avvertire i milionari quando tornano a visitare il proprio villaggio.

Andò a gironzolare intorno alla casa di Emma. Una luce brillava in cucina. Léon spiò da dietro le tende per scorgere l'ombra di lei, ma non comparve nessuno.

La signora Lefrançois, non appena lo vide, lanciò alte esclamazioni, trovandolo più alto e più magro, mentre Artémise lo trovò irrobustito e abbronzato.

Pranzò nella saletta, come sempre, ma questa volta solo, senza l'esattore, perché Binet, stanco di dover aspettare la Rondine, aveva definitivamente anticipato di un'ora la cena; adesso mangiava alle cinque esatte, e ancora, spesso, si lamentava perché 'quel ferrovecchio della pendola' ritardava.

Léon, intanto, si era deciso e andò a bussare alla porta del medico. Emma era nella sua camera, ne discese solo un quarto d'ora dopo. Bovary sembrò felice di vederlo, ma non si mosse di casa per tutta la sera e per tutto il giorno seguente.

Léon poté rivedere Emma da sola, soltanto la sera, molto tardi, nel vicolo - nel vicolo, come con l'altro! Infuriava un temporale ed essi si parlarono stando sotto un ombrello, alla luce dei lampi.

La loro separazione diveniva intollerabile.

"Piuttosto morire!" diceva Emma.

E si piegava sul suo braccio, tutta in lacrime.

"Addio!... Addio!... Quando ti rivedrò?"

Tornarono sui loro passi per riabbracciarsi ancora una volta, e in quel momento Emma gli promise di trovare presto, non importava in che modo, il sistema per vedersi liberamente e senza fallo almeno una volta alla settimana. Ne era sicura. Si sentiva piena di speranze. E aspettava del denaro.

Con questa prospettiva, comperò tendine gialle a grosse righe per la sua camera, Lheureux gliene aveva vantato la convenienza; desiderava anche un tappeto, e il mercante, affermando che 'non era poi chiedere la luna', si incaricò gentilmente di procurargliene uno. Emma non riusciva più a fare a meno dei suoi servigi. Venti volte nella giornata lo mandava a chiamare, e subito lui lasciava a metà gli affari, senza dire una parola. Il signor Lheureux non riusciva a capacitarsi del perché mamma Rollet si fermasse tutti i giorni a pranzo in casa Bovary, e venisse ricevuta in privato con tanta assiduità dalla signora.

In questo periodo, e cioè al principio dell'inverno, Emma fu presa da un grande quanto insolito ardore musicale.

Una sera, mentre Charles l'ascoltava, ricominciò daccapo quattro volte lo stesso brano e si stizziva ogni volta di più, e intanto il marito, il quale non si rendeva conto della differenza, le diceva:

"Brava!... molto bene!... Perché ti interrompi? Continua!"

"Oh, no! È orribile! Ho le dita arrugginite."

L'indomani egli la pregò di suonargli ancora qualcosa:

"Se ti fa piacere!"

E anche Charles dovette ammettere che era un po' fuori esercizio. Emma confondeva le battute, incespicava; poi, interrompendosi del tutto, disse:

"Ah! Non c'è niente da fare! Bisognerebbe che prendessi delle lezioni, ma..."

Si morse le labbra e continuò:

"Venti franchi all'ora, è troppo caro!"

"Sì, infatti, è un po' caro..." disse Charles con un risolino sciocco "Però, forse si potrebbe trovare qualcuno, credo, che chieda meno; vi sono artisti senza una gran fama i quali spesso valgono più delle celebrità."

"Potresti trovarne uno" disse Emma.

Il giorno dopo, rientrando, egli la guardò con l'aria di chi la sa lunga, e alla fine non seppe trattenere questa frase:

"Cosa vai a metterti in testa, certe volte! Sono stato a Barfeuchères, oggi. Ebbene, la signora Liégeard mi ha assicurato che le sue tre ragazze, che sono alla Misericordia, prendono lezioni per cinquanta soldi all'ora, e da un'eccellente insegnante".

Emma alzò le spalle e non riaprì più il pianoforte.

Ma tutte le volte che passava vicino allo strumento (se Bovary era nella stanza) diceva sospirando:

"Ah! il mio povero piano!"

E, se venivano visite, non mancava mai di far sapere di essere stata costretta ad abbandonare la musica e di non potervisi dedicare di nuovo, adesso, per ragioni di forza maggiore. Tutti la compiangevano. Che peccato! Lei che aveva un così grande talento! Ne parlarono perfino a Bovary. Attribuivano la colpa a lui, specialmente il farmacista:

"Lei sbaglia! Bisogna sempre coltivare i doni della natura. D'altronde, se ci pensa amico mio, permettendo alla signora di studiare, le sarà possibile economizzare più tardi sull'educazione musicale di sua figlia. Io sono del parere che le madri dovrebbero istruire loro stesse i propri figli. È un'idea di Rousseau, forse un po' troppo d'avanguardia; ma finirà certo per affermarsi, non ci sono dubbi, come l'allattamento materno e le vaccinazioni".

Charles tornò allora di nuovo sulla questione del pianoforte. Emma rispose acida che sarebbe stato meglio venderlo. Quel povero piano! Aveva dato tante soddisfazioni all'amor proprio di Bovary che adesso, vedendolo andar via, egli aveva l'impressione di doversi separare da una parte della stessa Emma.

"Se tu volessi..." diceva "una lezione ogni tanto non ci manderà in rovina, dopotutto."

"Ma le lezioni," ribatté lei "per essere efficaci, devono essere frequenti."

E così Emma poté ottenere dal marito il permesso di andare in città una volta alla settimana per vedere l'amante. In capo a un mese, la gente diceva che aveva fatto progressi notevoli.

V

Prendeva lezione al giovedì. Si alzava e si vestiva zitta zitta per non svegliare Charles, che le avrebbe fatto dei rimproveri perché si preparava troppo presto. Si metteva a camminare su e giù, si affacciava alla finestra e stava a guardare la piazza. Fra i pali del mercato regnava la penombra, e la casa del farmacista, con le persiane ancora chiuse, lasciava scorgere nella luce pallida dell'aurora le lettere maiuscole dell'insegna.

Quando la pendola segnava le sette e un quarto, Emma andava al Leon d'Oro, dove Artémise, sbadigliando, veniva ad aprirle la porta, poi attizzava il fuoco, per la signora, smovendo i carboni ancora accesi sotto la cenere; Emma rimaneva sola in cucina. Ogni tanto usciva. Hivert con tutta calma attaccava i cavalli, e ascoltava intanto mamma Lefrançois che, sporgendo la testa coperta con un berretto di cotone da un finestrino, lo caricava di commissioni e gli forniva spiegazioni tali da confondere chiunque altro, ma non lui. Emma batteva i piedi sull'acciottolato del cortile.

Hivert, dopo aver mangiato una scodella di zuppa, indossato il pastrano, acceso la pipa e impugnato la frusta, si metteva finalmente a cassetta.

La Rondine partiva al piccolo trotto, e, lungo i primi tre quarti di miglio, si fermava qua e là per far salire i viaggiatori che l'aspettavano in piedi, al margine della strada, davanti ai cancelli dei cortili. Quelli che avevano avvertito la sera prima, si facevano aspettare. Qualcuno era ancora addirittura a letto, in casa sua; Hivert chiamava, urlava, imprecava, poi scendeva da cassetta e andava a picchiare gran colpi contro le porte. Il vento soffiava attraverso i finestrini pieni di fessure.

Ciò nonostante, i quattro sedili si riempivano, la diligenza rotolava via, i pometi, bene allineati, si susseguivano, e la strada, fra due lunghi fossi pieni d'acqua gialla, continuava a restringersi verso l'orizzonte.

Emma la conosceva da un capo all'altro; sapeva che dopo un prato c'era un palo, e poi un olmo, un granaio, o la casupola di un cantoniere; a volte, per fare una sorpresa a se stessa, chiudeva gli occhi. Ma non perdeva mai la consapevolezza del cammino che ancora dovevano percorrere.

Finalmente le case di mattoni divenivano più fitte, la terra risonava sotto le ruote, la Rondine scivolava in mezzo ai giardini nei quali si potevano scorgere, attraverso le cancellate, statue, pergolati di viti, piante di tasso sagomate, e un'altalena. Poi, d'improvviso, appariva la città.

Scendendo ad anfiteatro e sommersa dalla nebbia, si stendeva confusamente al di là dei ponti. L'aperta campagna risaliva poi, con un andamento monotono, fino a toccare all'orizzonte la linea incerta del cielo sbiadito. Visto così dall'alto, l'intero paesaggio aveva l'immobilità di un dipinto; le navi all'ancora si ammassavano in un angolo del porto, il fiume arrotondava la sua ansa ai piedi delle colline verdi, e le isole dalla forma allungata sembravano grandi pesci neri immobili sull'acqua. Le ciminiere delle officine erano sormontate da immensi pennacchi di fumo scuro che si disperdevano dalla cima. Si poteva udire il ronzio delle fonderie e lo scampanio limpido delle chiese, alte sopra la bruma. Gli alberi delle vie principali, ormai spogli, formavano macchie violette in mezzo alle case e i tetti lucidi di pioggia riflettevano la luce in maniera diversa, a seconda della posizione del quartiere. A volte, un colpo di vento spingeva le nuvole verso il colle di Sainte-Catherine, simili ad aerei flutti che si frangessero senza suono contro una scogliera.

Qualcosa di vertiginoso si sprigionava da tutte quelle esistenze ammassate, ed Emma se ne sentiva il cuore ricolmo, come se le centoventimila anime che palpitavano laggiù avessero liberato, tutte nello stesso momento, l'emanazione delle passioni che Emma attribuiva loro. Il suo amore si ingigantiva davanti a quegli aperti spazi e si riempiva di sonorità al rombo vago che giungeva fino a lei. Traboccava dal suo cuore, sulle piazze, sulle passeggiate, sulle vie e la vecchia città normanna si dilatava davanti agli occhi di Emma come una smisurata capitale, come una Babilonia in cui lei entrasse. La signora Bovary si sporgeva, appoggiata con le due mani al finestrino per aspirare la brezza; i tre cavalli galoppavano. Le pietre scricchiolavano nel fango, la diligenza ondeggiava, e Hivert, da lontano, dava una voce alle carrette sulla strada, mentre i borghesi che avevano trascorso la notte al Bois-Guillaume scendevano pacifici la collina sulle loro piccole vetture private.

Si fermavano alla barriera; Emma si sfilava le soprascarpe, si cambiava i guanti, si aggiustava lo scialle e, venti passi più avanti, scendeva dalla Rondine. La città si stava svegliando allora.

Commessi con la papalina in capo lustravano le vetrine dei negozi, e donne con un paniere appoggiato sull'anca, ferme agli angoli delle vie, lanciavano di tanto in tanto il loro grido sonoro; Emma camminava tenendo gli occhi bassi, sfiorando i muri, e sorridendo di felicità sotto il velo nero che le copriva il volto.

Siccome temeva di essere riconosciuta, non sceglieva mai la via più breve. Si addentrava nei vicoli bui, e arrivava tutta trafelata verso la parte bassa di Rue Nationale, vicino alla fontana che vi si trova. È, questo, il quartiere del teatro, delle taverne e delle mondane. Spesso le passava accanto un carretto carico di qualche traballante scenario. I camerieri dei caffè spargevano sabbia sul lastricato, fra gli arbusti in vaso. Avevano addosso l'odore dell'assenzio, dei sigari e delle ostriche.

Emma svoltava in una via, e riconosceva subito Léon dai capelli ricci che gli sfuggivano di sotto il cappello.

Il giovane continuava a camminare sul marciapiede. Emma lo seguiva fino al suo albergo; Léon saliva, apriva la porta, entrava... Che abbraccio!

Dopo i baci, le parole, come un fiume. Si raccontavano i dispiaceri della settimana, i presentimenti, le ansie per le lettere; ma in questi momenti tutto era dimenticato, si guardavano con i visi accostati, fra risa di voluttà e parole di tenerezza.

Il letto era grande, di mogano, fatto come una navicella. Le cortine di levantina rossa che scendevano dal soffitto avevano il drappeggio raccolto molto in basso, vicino al capezzale svasato, e nulla era più bello al mondo della pelle bianca e della capigliatura nera di Emma che spiccavano contro quel color porpora, quando, con un gesto pudico, chiudeva le braccia nude nascondendosi il viso fra le mani.

La tiepida stanza dal tappeto discreto, con gli allegri fregi, e il tranquillo chiarore, sembrava fatta apposta per le intimità della passione. Quando vi entrava un raggio di sole, i bastoni delle tende dalle estremità a forma di freccia, le maniglie di ottone, e i grossi pomoli degli alari risplendevano di colpo. Sul caminetto, fra i candelabri, c'era una di quelle grandi conchiglie rosa che, appoggiate all'orecchio, fanno sentire il rumore del mare.

Come amavano quella bella camera piena di allegria nonostante il suo lusso un po' spento. Trovavano i mobili sempre al loro posto, e, qualche volta, le forcine, che Emma aveva dimenticato il giovedì precedente, ancora sotto il piedistallo della pendola. Facevano colazione vicino al caminetto, su un piccolo tavolo intarsiato di palissandro. Emma gli tagliava la carne e gliene metteva i pezzetti nel piatto bamboleggiando; rideva di un riso sonoro e sensuale quando la spuma dello champagne traboccava dal bicchiere sottile e le bagnava gli anelli alle dita. Erano così totalmente perduti in quel senso di reciproco possesso da credere di trovarsi in casa propria, con la possibilità di viverci fino alla morte come due eterni giovani sposi. Dicevano 'la nostra' camera, 'il nostro' tappeto, 'le nostre' poltrone, proprio come Emma avrebbe chiamato 'le mie' pantofole quelle che Léon le aveva regalato per soddisfare un suo capriccio. Erano pantofole di raso rosa, con il bordo di cigno. Quando Emma sedeva sulle ginocchia del suo amante, le gambe non arrivavano a toccare terra, ed ella reggeva le minuscole calzature, sospese nell'aria e sempre in movimento, solamente con la punta delle dita del piede nudo.

Léon assaporava per la prima volta le inesprimibili squisitezze dell'eleganza femminile. Non aveva mai incontrato una grazia simile nel parlare, una simile discrezione nel vestire, quegli atteggiamenti da tenera colomba. Ammirava gli entusiasmi della sua anima e i pizzi della sua gonna. Non era forse una signora della buona società, e una donna maritata, una vera amante, insomma?

Le mutevolezze del suo stato d'animo, ora mistico, ora gioioso, loquace, taciturno, adirato, indifferente, suscitavano in lui mille desideri, evocando istinti o reminiscenze. Era l'amante celebrata in tutti i romanzi, l'eroina di tutti i drammi, la vaga protagonista di tutti i volumi di versi. Ritrovava sulle sue spalle il colore ambrato dell'odalisca al bagno, aveva la vita slanciata delle castellane feudali, rassomigliava anche alla pallida donna di Barcellona, ma soprattutto era un Angelo.

Spesso, quando la guardava, sentiva la propria anima fuggire verso di lei, spandendosi come un'onda intorno al suo capo, e discendere travolta dal candore del suo petto.

Léon sedeva sul pavimento, davanti a lei, appoggiava i gomiti sulle ginocchia, e la contemplava sorridendo e con il viso disteso.

Emma si chinava verso l'amante e mormorava, quasi soffocata dal languore:

"Oh! Non ti muovere! Non parlare! Guardami! C'è qualcosa di così dolce nei tuoi occhi, che mi fa un gran bene!"

Lo chiamava 'piccolo'.

"Mi ami, piccolo?"

E quasi non riusciva a sentire la risposta, tanto rapidamente le labbra di lui venivano a posarsi sulle sue.

Sulla pendola c'era un piccolo Cupido di bronzo, che curvava leziosamente le braccia sotto una ghirlanda dorata. Ne avevano riso più d'una volta, ma, quando dovevano separarsi, tutto sembrava loro tetro.

Uno davanti all'altra, immobili, si ripetevano.

"A giovedì!... A giovedì!"

All'improvviso Emma gli prendeva la testa fra le mani, lo baciava sulla fronte, in fretta, gridando: "Addio!" e correva giù per le scale.

Andava in Rue de la Comédie, dal parrucchiere, per farsi pettinare. Scendeva la sera, nelle botteghe si accendevano i lumi a gas.

Emma sentiva la campanella del teatro che chiamava gli attori per la recita e vedeva passare, dirimpetto, uomini dal viso pallido e donne con abiti sciupati che entravano dall'ingresso del retroscena.

Faceva un gran caldo nella piccola stanza dal soffitto basso, ove la stufa borbottava in mezzo alle parrucche e alle pomate. L'odore del ferro per i ricci, quelle mani grasse che le manipolavano la testa, finivano per stordirla ed Emma si assopiva sotto la mantellina che le riparava gli abiti. Spesso il parrucchiere, mentre la pettinava, le offriva i biglietti per il ballo mascherato.

Poi Emma se ne andava! Risaliva le vie, giungeva all'albergo della Croce Rossa; riprendeva le soprascarpe che aveva nascosto al mattino sotto una panca, e si rannicchiava al suo posto fra i viaggiatori impazienti. Qualcuno scendeva all'inizio della salita. Emma restava sola nella vettura.

A ogni curva si scorgeva meglio l'illuminazione della città che si stendeva con un gran vapore luminoso sulle case ormai indistinte. Emma si metteva in ginocchio sui cuscini e lasciava che i suoi occhi si smarrissero in quel bagliore. Singhiozzava, chiamava Léon, gli rivolgeva parole tenere e baci che si perdevano al vento.

Sulla collina c'era un povero diavolo, un vagabondo, che si aggirava di solito fra le diligenze con il suo bastone. Era coperto di stracci e un cappellaccio di castoro, tanto sformato da sembrare una catinella, gli nascondeva il viso; ma quando se lo toglieva, mostrava, al posto delle palpebre, le orbite insanguinate che non potevano chiudersi. La carne si sfilacciava in brandelli rossi, e ne colavano umori che si rapprendevano in croste verdi estese fino al naso, le cui narici nere aspiravano convulsamente. Quando parlava arrovesciava la testa con un riso idiota; allora le pupille, di un azzurro incerto, roteavano con un movimento ininterrotto fino a raggiungere, verso le tempie, la striscia di carne viva e piagata.

Seguendo le carrozze, cantava una canzoncina:

Assai spesso d'un bel giorno il tepore
Fa sognar le fanciulle d'amore.

E nei versi che seguivano v'erano uccelletti, sole e fogliame.

A volte Emma lo vedeva comparire all'improvviso dietro di sé. Si ritraeva allora con un grido. Hivert lo prendeva in giro. Lo invitava a mettere un baraccone alla fiera di Saint-Romain, oppure gli domandava ridendo come stesse la sua bella.

Spesso, durante la corsa, si vedeva il cappello del disgraziato entrare all'improvviso dal finestrino della diligenza, mentre il suo proprietario si teneva aggrappato con un braccio al veicolo, in equilibrio sul predellino, fra gli schizzi di fango delle ruote. La voce di lui, dapprincipio debole e belante, diveniva acuta. Si trascinava nella notte, come il confuso lamento di una indefinibile angoscia, attraverso il tinnire della sonagliera, il mormorio degli alberi, e il rotolio cupo della diligenza, e aveva qualcosa di remoto che sconvolgeva Emma. Questo suono le scendeva in fondo all'anima come un turbine in un abisso e la trasportava negli spazi di una malinconia senza limiti. Ma Hivert, che si accorgeva subito del veicolo sbilanciato, allungava al cieco violenti colpi di frusta. La sferza colpiva il malcapitato sulle piaghe ed egli cadeva nel fango lanciando un urlo.

Poi i viaggiatori della Rondine finivano per addormentarsi, qualcuno con la bocca aperta, altri con il mento basso, appoggiandosi alla spalla dei vicini, o con il braccio passato nella correggia, oscillando con regolarità agli scossoni della vettura; il riflesso della lanterna che dondolava fuori sulla groppa dei cavalli penetrava all'interno attraverso le tendine color cioccolata, posando ombre sanguigne su tutti quegli individui immobili. Emma, ebbra di malinconia, rabbrividiva per il freddo stringendosi negli abiti, sentiva i piedi diventarle sempre più gelati, e le sembrava di avere la morte nel cuore.

Charles l'aspettava a casa; la Rondine era sempre in ritardo il giovedì. Finalmente la signora Bovary arrivava. Abbracciava appena la piccola. La cena non era ancora pronta, ma Emma non se la prendeva. Non rimproverava neppure la domestica, tutto sembrava permesso a quella ragazza.

Spesso, Charles, notando il pallore della moglie, le domandava se si sentisse male.

"No" rispondeva Emma.

"Ma," insisteva lui "perché sei tanto strana stasera?"

"Non è nulla! Non è nulla!"

V'erano perfino delle sere in cui, appena tornata a casa, saliva in camera sua, e Justin, che si trovava là, si aggirava in punta di piedi e si ingegnava a rendersi utile meglio di un'ottima cameriera finita. Riponeva i fiammiferi, il candeliere, un libro, sistemava la camicia, scopriva il letto.

"Suvvia," diceva Emma "va bene, ora vattene."

Poiché lui restava lì con le mani penzolanti e gli occhi spalancati, come fosse prigioniero fra gli innumerevoli fili di un sogno improvviso.

L'indomani era di solito una giornata orribile, e i giorni successivi, peggio ancora, per l'impazienza che Emma aveva di riafferrare la felicità - una bramosia aspra, infiammata da immagini ben conosciute, che al settimo giorno prorompeva impetuosamente nelle carezze di Léon. Gli ardori di lui si celavano sotto espansioni di meraviglia e di riconoscenza. Emma gustava questo amore in una maniera discreta e totale, lo nutriva con tutti gli artifici della tenerezza, e paventava il momento in cui lo avrebbe perduto.

Spesso diceva a Léon con voce dolce e melanconica:

"Ah! un giorno mi lascerai!... Ti sposerai!... Sarai anche tu come gli altri".

"Quali altri?"

"Come tutti gli uomini, insomma" rispondeva lei.

Poi soggiungeva, respingendolo con un gesto languido:

"Siete tutti infami!"

Un giorno in cui conversavano facendo considerazioni filosofiche sulle disillusioni terrene, Emma (per mettere alla prova la sua gelosia o cedendo forse alla necessità di uno sfogo più completo) disse che un tempo, prima di lui, aveva amato qualcuno; 'non come te!', si affrettò a soggiungere, giurando sulla testa di sua figlia, che non era accaduto proprio nulla.

Léon le credette, ma la interrogò per sapere cosa facesse quest'uomo.

"Era un capitano di marina, mio caro."

Avrebbe in tal modo prevenuto ogni ricerca, e nello stesso tempo si sentiva accresciuta da questa pretesa di avere affascinato un uomo che sarebbe dovuto essere coraggioso e abituato alle avventure.

Il giovane di studio sentì allora quanto era modesta la sua posizione e rimpianse di non avere spalline, croci, titoli. Queste cose dovevano piacerle, Léon lo sospettava viste le sue abitudini prodighe.

Emma taceva molti dei suoi capricci, come quello di avere un tilbury azzurro per venire a Rouen, tirato da un cavallo di razza inglese e guidato da un cocchiere che calzasse stivali con i risvolti. Era stato Justin a farle venire l'idea di una simile stravaganza, supplicandola di prenderlo come cameriere; e se questa privazione non diminuiva a ogni appuntamento il piacere dell'arrivo, aumentava certo la tristezza del ritorno.

Molto spesso, quando parlavano insieme di Parigi, Emma finiva con il mormorare:

"Ah! Come potremmo vivere bene laggiù!"

"Ma non siamo felici anche qui?" rispondeva con dolcezza il giovane, passandole una mano sui capelli.

"Ma certo," diceva lei "sono pazza: baciami!"

Emma si comportava con il marito nella maniera più deliziosa, gli preparava creme al pistacchio, e gli suonava valzer dopo cena. A Charles sembrava di essere il più fortunato dei mortali ed Emma viveva senza inquietudini, quando una sera, a un tratto, Charles le domandò:

"È la signorina Lempereur a darti lezioni, vero?"

"Sì."

"Strano, l'ho veduta poco fa" continuò lui "dalla signora Liégard. Le ho parlato di te, ma non ti conosce."

Fu un colpo di fulmine. Ciò nonostante, Emma rispose con naturalezza:

"Senza dubbio ha dimenticato il mio nome!"

"Forse ci sono a Rouen" disse il medico "altre signorine Lempereur che insegnano il pianoforte."

"Può darsi!" rispose Emma.

Poi aggiunse con vivacità:

"Del resto, ho le sue ricevute. Aspetta. Te le faccio vedere".

E andò allo scrittoio, frugò in tutti i cassetti, confuse tutte le carte e finse così bene di perdere la testa che Charles l'esortò vivamente a non prendersela tanto per quelle miserabili ricevute.

"Oh! Le ritroverò" disse.

Il venerdì seguente, infatti, Charles, infilandosi uno stivale nello stanzino buio ove erano riposti i suoi abiti, sentì un foglio di carta fra il cuoio e la calza, lo prese e lesse:

Ricevo, per tre mesi di lezioni, più altre forniture, la somma di sessantacinque franchi. Félicie Lempereur, insegnante di musica.

"Come diavolo è finita nei miei stivali?"

"Sarà di certo caduta" rispose Emma "dalla vecchia cartella dei conti, che si trova in un angolo dello scaffale."

Da quel momento in poi la sua esistenza fu soltanto un cumulo di menzogne, nelle quali avvolse il proprio amore quasi fossero veli capaci di nasconderlo.

Era divenuto un bisogno, una mania, un piacere, al punto che, se lei affermava di essere passata, il giorno prima, dalla parte destra di una strada, bisognava credere che fosse passata dalla sinistra.

Un mattino in cui Emma era partita vestita come sempre con abiti leggeri, si mise improvvisamente a nevicare; Charles, osservando il tempo dalla finestra, scorse don Bournisien sul calesse del signor Tuvache, che lo portava a Rouen. Scese allora per consegnare al sacerdote un pesante scialle che avrebbe dovuto far avere alla signora Bovary non appena giunto all'albergo della Croce Rossa. Una volta giunti all'albergo, don Bournisien domandò dove fosse la moglie del medico di Yonville. L'albergatore rispose che la signora frequentava assai poco il suo locale. E così, la sera, il curato, incontrando Emma sulla Rondine, le raccontò del contrattempo, senza attribuire peraltro, molta importanza alla cosa; infatti incominciò a elogiare un predicatore che in quel momento faceva bellissimi sermoni nella cattedrale, tanto da far accorrere tutte le signore ad ascoltarlo.

Ma non importava se il curato non aveva domandato spiegazioni; altri, in occasioni simili, avrebbero potuto dimostrarsi meno discreti. Così, Emma ritenne opportuno, da quella volta, scendere sempre alla Croce Rossa, di modo che la brava gente del suo villaggio, vedendola in quell'albergo, non sospettasse di nulla.

Un giorno però, il signor Lheureux la incontrò che usciva dall'Hotel de Boulogne sottobraccio a Léon ed Emma si spaventò, temendo che il mercante avrebbe potuto chiacchierare. Ma lui non era così stupido.

Tre giorni dopo, entrò nella camera della signora Bovary e, chiudendo la porta dietro di sé, disse:

"Avrei bisogno di soldi".

Emma dichiarò di non potergliene dare. Lheureux diede l'avvio a interminabili lamentele e rammentò tutti i piaceri che le aveva fatto.

In realtà, Emma, delle due cambiali firmate da Charles, ne aveva pagata soltanto una. Quanto all'altra, il mercante, cedendo alle insistenze di lei, aveva consentito a sostituirla con altre due, rinnovate anch'esse a lunghissimo termine. Ora Lheureux si tolse di tasca una lista di merci fornite e non pagate che comprendeva: le tende, il tappeto, la stoffa per le poltrone, e diverse altre cose, fra cui alcuni articoli da toletta, per un valore di circa duemila franchi.

Emma chinò la testa; il mercante proseguì:

"Se non ha liquido disponibile, ha però dei beni".

E accennò a una modesta casetta situata a Barneville, vicino a Aumale, una proprietà che fruttava ben poco. La casa era annessa un tempo a una piccola fattoria venduta in seguito dal signor Bovary padre, e Lheureux era informato di tutto, dalla superficie in ettari fino al nome dei vicini.

"Al posto suo," disse "me ne libererei e potrei disporre ancora della differenza in denaro."

Emma fece presente la difficoltà di trovare un acquirente; ma il merciaio le fece sperare in quella possibilità. Restava ancora l'ostacolo della vendita: come avrebbe potuto fare?

"Ma non ha la procura?" osservò Lheureux.

Questa frase giunse a Emma come un soffio di aria fresca.

"Mi lasci la lista!" disse.

"Non è il caso!" rispose Lheureux.

Tornò la settimana successiva, vantandosi di aver scovato, dopo essersi dato un gran da fare, un certo Langlois, che da un bel po' di tempo aveva adocchiato la proprietà senza fare alcuna offerta.

"Il prezzo non importa!" esclamò Emma.

Bisognava aver pazienza, invece, aspettare e tastare il terreno con quel bel tipo. Per risolvere la cosa valeva la pena di fare un viaggio, e siccome lei non avrebbe potuto farlo, il signor Lheureux si offerse di andare sul posto, per un abboccamento con il signor Langlois. Al suo ritorno, il mercante annunciò che il compratore aveva offerto quattromila franchi.

A questa notizia Emma si rallegrò.

"Francamente," soggiunse lui "è ben pagata."

Emma incassò metà della somma immediatamente, e, quando volle saldare il suo conto, il mercante le disse:

"Mi dispiace, parola d'onore, di vederla privarsi, così, tutto in una volta, di una somma tanto ingente".

La signora Bovary guardò allora i biglietti di banca, sognando il numero infinito di incontri con Léon che quei duemila franchi rappresentavano:

"Come? Come?" balbettò.

"Oh!" disse l'altro, ridendo con fare bonario "si può mettere tutto quello che si vuole sulle fatture! Crede che non sappia come vanno le cose nelle famiglie?"

E la osservava fissamente, facendo scivolare fra le unghie due lunghi fogli di carta. Finalmente aprì il portafoglio e dispose sulla tavola quattro cambiali da mille franchi ciascuna.

"Mi firmi queste," disse "e si tenga tutto."

Emma protestò scandalizzata.

"Ma se le do l'eccedenza," rispose sfrontatamente il signor Lheureux "non vuol dire forse farle un piacere personale?"

E, prendendo una penna, scrisse in fondo alla lista: Ricevuti dalla signora Bovary, quattromila franchi.

"Cosa mai la preoccupa, visto che entro sei mesi riceverà la rimanenza della vendita della sua casupola e che le ho fissato la scadenza dell'ultima cambiale a dopo il pagamento?"

Emma era un po' confusa da tutti questi calcoli, e sentiva negli orecchi un tintinnio, come se una cascata di monete d'oro uscita dai sacchi sventrati fosse rimbalzata tutto intorno a lei sul pavimento di legno.

Lheureux le spiegò di avere un amico a Rouen, un banchiere a nome Vinçart, che gli avrebbe scontato le quattro cambiali, e in seguito lui stesso si sarebbe incaricato di consegnare alla signora l'eccedenza del debito reale.

Ma, invece di duemila, non ne portò che mille e ottocento, perché l'amico Vinçart (come era giusto) ne aveva trattenuti duecento per spese di commissione e sconto.

Poi chiese, senza darvi peso, una quietanza.

"Lei capisce... Nel commercio... qualche volta... E la data, per favore, la data."

Un orizzonte di capricci appagati si aprì davanti a Emma. Ella ebbe abbastanza buon senso per mettere da parte mille scudi, con i quali furono pagate alla scadenza le prime tre cambiali. Ma la quarta capitò per caso nelle mani di Charles un giovedì, ed egli, sconvolto, attese paziente il ritorno della moglie per avere una spiegazione.

Se non gli aveva detto niente di questa cambiale, era stato soltanto per risparmiargli i fastidi domestici; Emma sedette sulle sue ginocchia, lo accarezzò, tubò come una tortora, fece una lunga enumerazione di tutte le cose indispensabili prese a credito.

"Insomma, vista la quantità, vorrai convenire che non sono affatto care."

Charles, non sapendo più cosa fare, ricorse ben presto all'eterno Lheureux, il quale giurò di sistemare le cose, se Bovary gli avesse firmato due cambiali di cui una, con scadenza a tre mesi, di settecento franchi. Per poter far fronte agli impegni, Bovary scrisse una lettera patetica alla madre, e quest'ultima, invece di rispondere, venne di persona. Quando Emma volle sapere se il marito avesse ottenuto qualcosa egli rispose:

"Sì, ma vuol vedere la fattura".

Il giorno successivo, Emma, non appena fece giorno, corse da Lheureux per pregarlo di stendere una nuova fattura, non superiore ai mille franchi, perché se avesse mostrato quella di quattromila sarebbe stata costretta a dire di averne già pagato i due terzi e di conseguenza sarebbe venuta fuori la faccenda della vendita, condotta così bene dal mercante e venuta in luce, in realtà, soltanto più tardi.

Nonostante il prezzo molto basso di ogni articolo, la signora Bovary madre non poté fare a meno di trovare esagerata la spesa.

"Ma non potevi proprio fare a meno di un tappeto? Perché avete rinnovato la stoffa delle poltrone? Ai miei tempi, avevamo in casa una sola poltrona, per le persone anziane; almeno era così in casa di mia madre, una gran brava donna, posso assicurarvelo. Non tutti possono essere ricchi. E non c'è ricchezza che resista allo sperpero! Mi sentirei arrossire se dovessi trattarmi con tutte le attenzioni come fate voi! Eppure sono vecchia, avrei bisogno di cure... E guardate qui, rifacimenti, lussi! Ma come, la seta delle fodere a due franchi!... Quando si trova la giaconetta a dieci soldi e anche a otto, e serve benissimo lo stesso."

Emma, appoggiata al divanetto, rispondeva il più tranquillamente possibile:

"Eh! Signora, basta, basta!"

L'altra continuava a borbottare, predicando che di quel passo sarebbero finiti all'ospizio. D'altronde, la colpa era di suo figlio. Per fortuna aveva promesso di annullare quella procura...

"Come?"

"Ah! Me lo ha giurato!" riprese la brava donna.

Emma aprì la finestra, chiamò Charles e il pover'uomo fu costretto a confessare la promessa strappatagli dalla madre.

Emma sparì per ricomparire subito dopo con un grosso foglio di carta che porse molto dignitosamente alla suocera.

E questa gettò nel fuoco la procura.

Emma si mise a ridere, di un riso stridente, clamoroso, ininterrotto: ebbe una crisi di nervi.

"Ah! Mio Dio!" gridò Charles "Adesso hai torto anche tu! Vai a farle una scenata..."

La madre, alzando le spalle, dichiarò di essere convinta ch'erano tutte pose.

Ma Charles, per la prima volta, si ribellò, prese le difese di sua moglie, tanto che la signora Bovary madre decise di andarsene. Partì l'indomani stesso, e sulla porta, mentre il figlio cercava di trattenerla, disse:

"No, no! Tu vuoi più bene a lei che a tua madre, e fai bene, è nell'ordine delle cose. Del resto, peggio per te! Vedrai!... Statemi bene!... Non verrò tanto presto, come dici tu, a farle delle scenate".

Charles rimase molto umiliato di fronte a Emma, poiché questa non gli nascondeva affatto il rancore che provava nei suoi confronti per averle manifestato così poca fiducia; egli dovette insistere e pregarla a lungo prima che acconsentisse ad accettare di nuovo la procura, e addirittura l'accompagnò lui stesso dal signor Guillaumin per stipularne una seconda in tutto uguale all'altra.

"Capisco," disse il notaio "un uomo di scienza non può prendersi tutti i fastidi della vita pratica."

E Charles si sentì consolato da questa considerazione adulatrice che dava alla sua debolezza l'aspetto lusinghiero di più alte preoccupazioni.

Quante pazzie, il giovedì successivo, all'albergo con Léon nella loro camera! Emma rise, pianse, cantò, ballò, si fece portare gelati, volle fumare sigarette, parve molto stravagante, ma adorabile, meravigliosa.

Léon non sapeva nulla di quella reazione di tutto il suo essere che la spingeva, sempre più incalzante, a gettarsi sui piaceri della vita. Diventava irritabile, golosa e piena di voluttà; e andava a passeggio con lui per le strade, a testa alta, senza timore, diceva, di compromettersi. Qualche volta, però, trasaliva all'idea di incontrare Rodolphe; le sembrava, benché si fossero separati per sempre, di non essersi ancora liberata del tutto dalla sua potestà.

Una sera Emma non rientrò a Yonville. Charles non capiva più niente e la piccola Berthe, che non voleva andare a dormire senza la mamma, singhiozzava da spezzarsi il cuore. Justin era andato sulla strada maestra tanto per fare qualcosa e il signor Homais aveva abbandonato la farmacia.

Infine, alle undici, non potendo più trattenersi, Charles attaccò il carrozzino, ci saltò sopra, frustò la sua bestia e arrivò verso le due all'albergo della Croce Rossa. Di Emma nessuna traccia. Pensò allora che forse Léon l'aveva vista; ma dove abitava? Ricordò, per una fortunata combinazione, l'indirizzo del suo principale. Vi si precipitò.

Cominciava a far giorno. Intravide un'insegna sopra una porta; bussò. Qualcuno, senza aprirgli, gli gridò l'informazione richiesta, aggiungendovi una buona dose di ingiurie contro quelli che disturbano la gente di notte.

La casa abitata dal giovane di studio non aveva né campanello né picchiotto né portiere. Charles batté grandi colpi con i pugni contro le imposte. Passò un agente di polizia, Charles si spaventò e si allontanò.

"Sono pazzo," si diceva "certo l'avranno trattenuta a pranzo dai Lormeaux."

Ma la famiglia Lormeaux non abitava più a Rouen.

"Si sarà fermata a far compagnia alla signora Dubreuil. Eh! La Signora Dubreuil è morta da più di dieci mesi!... Dove sarà allora?"

Gli venne un'idea. Si fece dare, in un caffè, l'Annuario, e cercò in fretta l'indirizzo della signorina Lempereur, la quale abitava in Rue de la Renelle-des-Maroquiniers al numero 74.

Appena fu entrato in questa via, all'altro capo comparve Emma; più che abbracciarla, Charles le si gettò contro, gridando:

"Chi ti ha trattenuta, ieri?"

"Sono stata poco bene."

"Cosa hai avuto?... e dove?... Come mai?"

Emma si passò una mano sulla fronte e rispose:

"Dalla signorina Lempereur".

"Ne ero sicuro. Stavo proprio andandoci."

"Non ne vale la pena" disse Emma. "Esce di casa molto presto; ma un'altra volta, sta' tranquillo. Mi sentirò troppo legata, capisci, se so che il minimo ritardo ti sconvolge tanto."

Era una specie di permesso che ella stessa si concedeva per evitarsi noie nelle sue scappate, e ne approfittò largamente e con tutto il suo comodo. Quando le veniva il desiderio di rivedere Léon, partiva con un pretesto qualsiasi e, poiché lui quel giorno non l'aspettava, andava a chiamarlo allo studio.

Le prime volte fu una gran gioia rivederla, ma presto Léon non poté più nasconderle la verità: il principale era molto seccato per l'intralcio causato dalle sue assenze.

"Non ci far caso, andiamo" diceva lei.

E Léon se la svignava.

Emma volle che si vestisse tutto di nero e si lasciasse crescere il pizzo, per rassomigliare ai ritratti di Luigi XIII. Volle visitare il suo appartamento, e lo trovò mediocre; Léon se ne vergognò, ma Emma non ci fece caso e gli consigliò di comperare tende uguali alle sue e, alle obiezioni di lui sulla spesa, gli disse ridendo:

"Ah! Ah! Ci tieni ai soldini!"

Léon doveva ogni volta raccontarle tutto quello che aveva fatto, dall'ultimo incontro. Emma gli chiese di scrivere versi, versi per lei, un sonetto d'amore in suo omaggio: Léon non riuscì a trovare in nessun modo la rima per il secondo verso, e finì col copiare la poesia da un album dei ricordi.

Lo fece più per compiacerla che per vanità. Non discuteva le idee di Emma; accettava i suoi giudizi e, in questo amore, la parte della donna era più sua di quanto non lo fosse di lei. Ella aveva parole tenere e baci che gli rapivano l'anima: ma dove aveva imparato quella corruzione, quasi immateriale tanto era profonda e dissimulata?

VI

Léon, viaggiando per andare a trovare Emma, si era spesso fermato a pranzo dal farmacista, e aveva finito così con il sentirsi in obbligo di ricambiare l'invito.

"Volentieri" rispose Homais. "Ho proprio bisogno di un po' di distrazione, mi sto fossilizzando. Andremo a teatro, al ristorante, ci daremo alla pazza gioia."

"Ah! Mio caro!" mormorò teneramente la signora Homais, spaventata dai vaghi pericoli che il marito si apprestava a correre.

"Ebbene, che cosa c'è? Non ti pare che mi rovini abbastanza la salute continuando a vivere in mezzo ai fumi del laboratorio? Ecco come la pensano le donne: sono gelose della Scienza e poi non vogliono che ci si prenda la più piccola e legittima distrazione. Non importa, conti pure su di me, uno di questi giorni piombo a Rouen e insieme faremo ballare un po' di spiccioli."

Lo speziale, un tempo, si sarebbe guardato bene dal ricorrere a una tale espressione, ma in questo periodo era in vena di sentirsi buontempone e parigino; trovava la cosa di ottimo gusto e, come la sua vicina, la signora Bovary, interrogava il giovane Léon con molta curiosità sugli usi della capitale, e addirittura parlava in gergo, per far colpo... sui borghesi, dicendo: turne, bazar, chicard, chicandard, Breda-Street, e 'io me la batto,' invece di 'io me ne vado.'

Un giovedì Emma ebbe la sorpresa di incontrare nella cucina del Leon d'Oro il signor Homais, in tenuta da viaggiatore, avvolto cioè in un vecchio mantello che non gli aveva mai visto, con la valigia in una mano e nell'altra lo scaldapiedi di casa. Non aveva confidato il suo proposito a nessuno, convinto che la propria assenza avrebbe potuto allarmare la gente.

L'idea di rivedere i luoghi ove aveva trascorso la giovinezza certo lo esaltava, e infatti, per tutta la durata del viaggio, non smise un istante di chiacchierare; poi, appena arrivato, si precipitò fuori della vettura per mettersi alla ricerca di Léon. Il giovane di studio ebbe un bel protestare, il signor Homais lo trascinò verso il grande caffè di Normandia, nel quale entrò maestosamente, tenendosi in testa il cappello, poiché giudicava molto provinciale scoprirsi in un luogo pubblico.

Emma attese Léon per tre quarti d'ora, infine corse allo studio, e, perduta in mille congetture, l'accusò di indifferenza, rimproverandosi la propria debolezza, e trascorse tutto il pomeriggio con la fronte incollata ai vetri.

Léon e il farmacista, alle due, erano ancora seduti uno di fronte all'altro a tavola. La grande sala andava svuotandosi, il tubo della stufa, che imitava nella forma una palma, incurvava contro il soffitto bianco il suo ciuffo dorato; vicino a loro, dietro il vetro, in pieno sole, un piccolo getto d'acqua gorgogliava in una vasca di marmo nella quale, in mezzo al crescione e agli asparagi, tre aragoste intorpidite erano allineate fino a giungere vicino alle quaglie, tutte coricate su un fianco e ammonticchiate una sull'altra.

Homais si stava divertendo. Benché a inebriarlo fosse più il lusso che i cibi succulenti, il vino di Pomard influiva in modo eccitante sui suoi sensi e, quando servirono l'omelette al rum, egli cominciò a esporre teorie immorali sul conto delle donne. Quello che lo seduceva più di ogni altra cosa era la classe. Adorava una toletta elegante ambientata in un appartamento ben ammobiliato, e, quanto alle doti fisiche, non disprezzava certo i bei pezzi di ragazza.

Léon guardava la pendola con la disperazione nel cuore. Lo speziale continuava a mangiare, a bere e a chiacchierare.

"Lei" disse all'improvviso il farmacista "deve essere molto sacrificato, qui a Rouen. Però i suoi amori non abitano lontano."

E siccome l'altro arrossiva:

"Suvvia, sia sincero! Non vorrà negare che a Yonville..."

Il giovanotto balbettava.

"Dalla signora Bovary, non corteggiava?..."

"Chi?"

"La domestica!"

Era in buona fede, ma Léon lasciò che la vanità avesse la meglio sulla prudenza, e, quasi senza volerlo, protestò. D'altra parte, a lui piacevano soltanto le donne brune.

"Sono d'accordo con lei:" disse lo speziale "hanno più temperamento."

E, chinandosi all'orecchio del suo amico, enumerò i sintomi che indicano se una donna ha temperamento. Si lanciò anche in una digressione etnografica: la tedesca era sognatrice, la francese libertina, e l'italiana appassionata.

"E le negre?" domandò Léon.

"È un gusto da intenditore" disse Homais. "Cameriere! Due mezze tazze!"

"Ce ne vogliamo andare?" sbottò Léon alla fine, spazientito.

"Yes."

Ma, prima di andarsene, Homais volle vedere il proprietario del locale per fargli le proprie felicitazioni.

Poi, il giovanotto, per riuscire a rimanere solo, dichiarò di avere affari da sbrigare.

"L'accompagno!" disse Homais.

E, mentre percorreva le vie della cittadina con lui, cominciò a parlare di sua moglie, dei bambini, del loro avvenire, della farmacia, raccontò in quale cattivo stato fosse un tempo, e vantò la perfezione alla quale lui l'aveva portata.

Quando giunsero davanti all'Hotel de Boulogne, Léon lo lasciò in fretta, volò su per lo scalone, e trovò l'amante in grande ansietà.

Sentendo fare il nome del farmacista Emma si adirò. Ma Léon addusse ottime ragioni; non era certo colpa sua, non sapeva dunque anche lei che tipo fosse il signor Homais? Poteva credere forse che lui preferisse la sua compagnia? Ma Emma non voleva ascoltare; egli la trattenne, si lasciò cadere sulle ginocchia, le circondò la vita con le braccia, in una posa languida piena di desiderio e di supplica.

Emma era in piedi; i grandi occhi ardenti lo guardavano seri e quasi terribili. Poi le lacrime li offuscarono, le palpebre rosate si abbassarono, abbandonò le mani e Léon stava per baciarle, quando comparve un domestico, per avvertire il signore che chiedevano di lui.

"Torni?"

"Sì."

"Ma quando?"

"Al più presto possibile."

"L'ho fatto apposta" disse il farmacista scorgendo Léon. "Ho voluto interrompere questa visita che mi sembrava la contrariasse. Andiamo da Bridoux a bere un bicchiere di centerbe."

Léon giurò che doveva tornare allo studio. Allora il farmacista cominciò a burlarsi delle scartoffie e della burocrazia.

"Ma lasci un po' in pace Cujas e Barthole, che diamine! Chi glielo impedisce? Si faccia furbo! Andiamo da Bridoux, le farà vedere il suo cane. Una cosa molto strana"

E siccome Léon non accennava a cedere:

"Verrò anch'io con lei, allora. Leggerò un giornale, mentre starò ad aspettarla, o sfoglierò un codice".

Léon, stordito dalla collera di Emma, dal cicaleccio del signor Homais, e forse dalla pesantezza del cibo, rimase incerto e quasi ipnotizzato dal farmacista che ripeteva:

"Andiamo da Bridoux, è qui a due passi, Rue Malpalu".

E, per sfinimento, per stoltaggine, per quell'inqualificabile sentimento che riesce a trascinarci a compiere le azioni più odiose, si lasciò condurre da Bridoux e lo trovarono nel cortiletto della sua bottega mentre sorvegliava tre operai che ansimavano nel far girare la grande ruota di una macchina per fabbricare l'acqua di seltz. Homais diede loro dei consigli, abbracciò Bridoux, e bevvero il centerbe. Venti volte Léon aveva tentato di andarsene; ma l'altro lo acchiappava per un braccio dicendogli:

"Fra un minuto! Vengo anch'io. Andremo al Faro di Rouen a far visita a quei signori. Voglio presentarla a Thomassin".

Alla fine il giovane riuscì a liberarsi e corse a perdifiato all'albergo. Emma non c'era più.

Se n'era andata, esasperata. Adesso detestava Léon. Questa mancanza di parola all'appuntamento le era sembrata un oltraggio, e cercava altri motivi per abbandonarlo: era incapace di eroismo, debole, banale, più effeminato di una donna, avaro anche, e pusillanime.

Poi, una volta calmatasi, finì col convincersi di averlo soltanto calunniato. Ma il denigrare quelli che amiamo ci allontana sempre un poco da loro. Non bisogna toccare gli idoli: la polvere d'oro che li ricopre potrebbe restarci attaccata alle dita.

Emma e Léon cominciarono a parlare più frequentemente di argomenti estranei al loro amore; e, nelle lettere che Emma gli scriveva, si parlava di fiori, di poesia, delle stelle e della luna, ingenui surrogati della passione che andava indebolendosi, e che cercava di ravvivarsi con appigli esteriori. La signora Bovary si riprometteva di continuo, per il suo prossimo viaggio, una felicità profonda, e poi era costretta a confessare di non provare niente di straordinario. Quella delusione veniva ben presto cancellata da una sempre nuova speranza; Emma tornava da Léon più ardente, più avida. Si spogliava con veemenza strappando le stringhe sottili del busto, che sibilavano intorno ai suoi fianchi come serpi striscianti. Si avvicinava, sulle punte dei piedi nudi, per assicurarsi una volta di più se la porta fosse chiusa, poi, con un solo gesto, faceva cadere tutti gli abiti in una sola volta, e pallida, senza dire nulla, seria si lasciava cadere sul suo petto con un lungo brivido.

V'era in quella fronte coperta da un sudore freddo sulle labbra balbettanti, nelle pupille smarrite, nella stretta delle braccia di Emma, qualcosa di estremo, di vago e di lugubre, che Léon sentiva insinuarsi fra loro, sottilmente, come se volesse separarli.

Non osava porle domande; ma, vedendola così esperta, si era convinto che fosse dovuta passare attraverso tutte le prove della sofferenza e del piacere. Quello che un tempo lo aveva affascinato, adesso lo spaventava un poco. E si ribellava contro l'annullamento ogni giorno più grande della propria personalità. Nutriva rancore contro Emma per quella continua supremazia. Si sforzava addirittura di non amarla; poi, soltanto sentendo scricchiolare le sue scarpette, si sentiva privo di volontà, come un alcoolizzato alla vista dei liquori forti.

Emma non si lasciava sfuggire occasione, questo è vero, di prodigargli tutte le possibili attenzioni, dalle squisitezze della tavola, alla civetteria nel vestire e agli sguardi languidi. Portava da Yonville delle rose in seno, e gliele sfogliava sul viso, mostrava di preoccuparsi della sua salute, gli dava consigli pratici e, per legarlo più strettamente a sé, sperando che il Cielo potesse in qualche modo intervenire, gli mise al collo una medaglia della Vergine. Si informava, come una madre sollecita, dei suoi colleghi. Gli diceva:

"Non cercare di vederli, non uscire, pensa soltanto a noi, amami!"

Avrebbe voluto sorvegliare la sua vita, e le venne l'idea di farlo pedinare. C'era sempre, vicino all'albergo, un vagabondo che abbordava i viaggiatori e che non avrebbe certo rifiutato... Ma il suo orgoglio si ribellò.

"Eh! Tanto peggio! Mi tradisca pure, che m'importa! Mi preme poi così tanto?"

Un giorno si erano lasciati presto ed Emma se ne tornava sola per il corso, quando vide i muri del suo collegio; si sedette su una panchina, all'ombra degli olmi. Che tempi sereni quelli! Come rimpiangeva gli ineffabili sentimenti d'amore che cercava di immaginare, dopo averli letti nei libri!

I primi mesi del matrimonio, le passeggiate a cavallo nella foresta, il Visconte che ballava il valzer, Legardy che cantava, tutto le passava davanti agli occhi... E Léon le parve all'improvviso lontano come tutto il resto.

"Eppure lo amo" si diceva.

Non importava! Non era felice e non lo era mai stata. Da cosa dipendeva questo vuoto che esisteva nella sua vita, questa putrescenza istantanea delle cose che le stavano più a cuore?... Ma se esisteva in qualche luogo un essere forte e bello, un cuore valoroso, nello stesso tempo pieno di entusiasmi e di raffinatezza, un animo di poeta sotto le spoglie di un angelo, lira dalle corde di bronzo, capace di far giungere fino in cielo i suoni di epitalami elegiaci, perché proprio lei non avrebbe potuto per caso incontrarlo? Oh! Che sogno impossibile! Nulla valeva la pena di una ricerca, tutto era menzognero. Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, tutti i piaceri, il disgusto, e i baci più appassionati lasciavano sulla bocca soltanto l'irrealizzabile desiderio di una voluttà più grande.

Un rantolo metallico si trascinò nell'aria e la campana del convento batté quattro rintocchi. Le quattro! E le sembrò di essere rimasta a sedere su quella panchina per tutta l'eternità. Un infinito di passione può concentrarsi in un minuto, come una folla può raccogliersi in un modesto spazio.

Emma viveva preoccupandosi di se stessa, senza affannarsi per il denaro più di un'arciduchessa.

Ma un giorno, un uomo dall'aspetto meschino, rubicondo e pelato, andò a casa sua, e dichiarò di essere stato mandato dal signor Vinçart, di Rouen. Tolse le spille che chiudevano la tasca laterale della lunga finanziera verde, le appuntò su una manica e porse a Emma con gentilezza un foglio.

Era la cambiale di settecento franchi, sottoscritta da lei, che Lheureux, a dispetto di tutte le sue proteste, aveva girato all'ordine di Vinçart.

Mandò la domestica dal mercante. Non poteva venire.

Allora lo sconosciuto, che era rimasto in piedi lanciando a destra e a sinistra sguardi curiosi, dissimulati sotto le fitte sopracciglia bionde, domandò con aria ingenua:

"Che risposta devo portare al signor Vinçart?"

"Bene," rispose Emma "gli dica... che non ne ho... Sarà per la settimana prossima... Che aspetti. Sì, la settimana prossima."

E il brav'uomo se ne andò senza proferire parola.

Ma l'indomani, a mezzogiorno, Emma ricevette un protesto e la vista della carta bollata, sulla quale spiccava a grossi caratteri: Hareng, usciere a Buchy, la spaventò a tal punto che corse in gran fretta dal mercante di stoffe.

Lo trovò nella sua bottega: stava legando un pacchetto.

"Servo suo!" disse "Sono subito da lei."

Lheureux non interruppe il suo lavoro; lo aiutava una ragazzina di circa tredici anni, un po' gobba, che gli serviva da commessa e nello stesso tempo da domestica.

Poi, facendo risuonare gli zoccoli sulle assi del pavimento della bottega, egli salì, seguito dalla signora Bovary, al primo piano e la fece entrare in un piccolo stanzino ove una grossa scrivania di legno d'abete conteneva qualche registro protetto da una barra trasversale di ferro munita di catenaccio. Contro il muro, sotto alcuni scampoli di cotone, si intravedeva una cassaforte di dimensioni tali da contenere ben altro che cambiali o danaro. Il signor Lheureux, infatti, faceva prestiti su pegno, ed era là che aveva riposto la catena d'oro della signora Bovary insieme con gli orecchini di quel povero papà Tellier, il quale, costretto alla fine a vendere, aveva acquistato a Quincampoix una botteguccia di droghiere, dove moriva di tosse, in mezzo alle candele, meno gialle di lui.

Lheureux sedette su un seggiolone impagliato, dicendo:

"Cosa c'è di nuovo?"

"Guardi."

E gli mostrò la carta.

"Ebbene, io cosa posso farci?"

Emma allora si adirò, rammentandogli che le aveva assicurato di non far circolare la cambiale; egli ne convenne.

"Ma sono stato costretto a farlo, avevo l'acqua alla gola."

"E adesso, cosa succederà?"

"Oh! È molto semplice: una sentenza del tribunale, poi il sequestro...; e buonanotte!"

Emma dovette trattenersi per non prenderlo a schiaffi. Gli domandò se non c'era modo di intervenire presso il signor Vinçart.

"Ah! Proprio, sì, intervenire con Vinçart! Lei non lo conosce, è più feroce di un arabo."

In ogni modo, era necessario che Lheureux si occupasse della faccenda.

"Mi ascolti! Mi sembra che fino a oggi io sia stato molto paziente con lei e suo marito."

E, aprendo uno dei registri, disse:

"Guardi!"

Poi, risalendo la pagina con il dito:

"Vediamo un po'... Vediamo un po'... Il 3 agosto, duecento franchi. Il 17 giugno, centocinquanta... Il 23 marzo, quarantasei... In aprile..."

E si interruppe, quasi fosse preoccupato di fare qualche sciocchezza.

"Per non parlare delle cambiali firmate da suo marito, una di settecento franchi, e un'altra di trecento! E poi ci sono i piccoli acconti versati a lei, gli interessi, non si finisce più, c'è da perderci la testa. Non me ne voglio più impicciare!"

Emma piangeva, lo chiamava addirittura 'il mio buon signor Lheureux'. Ma lui tirava sempre in ballo quel 'perverso signor Vinçart'. D'altra parte, non aveva un centesimo, in quel momento nessuno lo pagava, gli levavano la camicia di dosso, un modesto negoziante come lui non poteva permettersi di far prestiti.

Emma taceva; e il signor Lheureux, che stava mordicchiando le barbe di una penna, si allarmò certo per il suo silenzio, perché ricominciò:

"A meno che, uno di questi giorni, io non riceva qualche rimessa... potrei..."

"E poi," disse Emma "appena la rimanenza di Barneville..."

"Come?"

E, venendo a sapere che Langlois non aveva ancora pagato, parve molto sorpreso. Poi, con voce mielata:

"E potremmo accordarci, lei dice?..."

"Oh! Come crederà meglio!"

Allora il mercante chiuse gli occhi per riflettere, scrisse qualche cifra, e, dichiarando che avrebbe potuto averne un danno, che la cosa era molto difficile, che per lui sarebbe stato un salasso, dettò quattro cambiali di duecentocinquanta franchi l'una, distanziandone le scadenze di un mese l'una dall'altra.

"Basta che Vinçart mi voglia ascoltare! Ma ormai è fatto, io non mi tiro indietro, la mia parola è una sola."

Poi mostrò a Emma, con indifferenza, molte merci appena arrivate, delle quali nessuna, a suo parere, era degna della signora Bovary.

"Quando penso che questo è un abito da sette soldi al metro, e ne garantiscono anche la solidità del colore! E la gente ci crede! Non si può certo dire come stanno veramente le cose, capirà!" diceva con l'intenzione di convincerla della propria rettitudine nei suoi confronti con questa confessione di furfanteria verso gli altri.

La richiamò anche indietro per farle vedere tre bracci di pizzo pesante che aveva trovato ultimamente 'in una liquidazione'.

"È bellissimo!" disse "Lo adoperano molto, adesso, per farne poggiacapo per le poltrone, è di moda."

E, più svelto di un giocoliere, avvolse il pizzo in un pezzo di carta turchina e lo mise nelle mani di Emma.

"Mi dica almeno..."

"Ah! Non c'è fretta!" fece lui voltandole le spalle.

Quella sera stessa Emma insistette con il marito affinché scrivesse alla madre sollecitandola a inviare loro il resto dell'eredità. La suocera rispose di non avere più nulla: la liquidazione era chiusa e restava loro, oltre Barneville, una rendita di seicento franchi, che avrebbe regolarmente versato.

Emma adottò anche l'espediente di inviare le parcelle a due o tre clienti e questo sistema diede così buoni risultati da indurla a servirsene sempre di più. Aveva cura di aggiungere sempre un poscritto: Non ne parli a mio marito, lei sa come sia orgoglioso... Mi scusi... Serva sua... Vi fu qualche reclamo, ma Emma riuscì a intercettarlo.

Per procurarsi denaro, si mise a vendere i suoi guanti vecchi, i cappelli che non adoperava più, gli oggetti fuori uso; mercanteggiava con rapacità - il suo sangue di contadina la spingeva al guadagno. Nei viaggi in città trafficava comperando cianfrusaglie, convinta che il signor Lheureux, in mancanza di altri acquirenti, le avrebbe certo ricomperate Acquistò piume di struzzo, porcellane e cofanetti cinesi, si faceva prestare danaro da Félicité, dalla signora Lefrançois, dall'albergatore della Croce Rossa, da tutti, dappertutto. Con la somma che finalmente ricevette da Barneville, pagò due cambiali, e gli altri millecinquecento franchi sfumarono. Si trovò impegolata in altri pasticci e continuò ad andare avanti in questo modo.

Tentò qualche volta di fare ordine nei suoi conti, ma scoprì debiti di una tale entità, da non potervi credere. Allora ricominciava daccapo, e ben presto non riusciva più a orizzontarsi fra tutte quelle cifre; piantava tutto e non ci pensava più.

La casa aveva adesso un aspetto desolante. I fornitori ne uscivano furiosi; v'erano fazzoletti dimenticati sui fornelli; la piccola Berthe, con grande scandalo della signora Homais, aveva le calze bucate. E se Charles azzardava una timida osservazione, Emma rispondeva senza mezzi termini che la colpa era sua!

Perché quegli accessi di collera? Charles attribuiva tutto ciò alla malattia nervosa di cui Emma aveva sofferto tempo addietro, e, rimproverandosi di scambiare per colpe le infermità, si accusava di egoismo e sentiva il desiderio di correre ad abbracciarla.

"Oh! No," si diceva "le darei fastidio."

E si tratteneva.

Dopo pranzo, passeggiava solo in giardino, prendeva la piccola Berthe sulle ginocchia, apriva una rivista medica e tentava di insegnare a leggere alla figlia. La bambina, che non era abituata ad applicarsi, ben presto spalancava i grandi occhi tristi e si metteva a piangere. Allora il padre la consolava, andava a prendere dell'acqua nell'annaffiatoio per fare i fiumicelli sulla sabbia, o rompeva rametti di ligustro e li piantava a guisa di alberi nelle aiuole, e, così facendo, non sciupava certo il giardino, tutto invaso dalle erbacce perché a Lestiboudois non erano ancora state corrisposte un grandissimo numero di giornate di paga. Poi la bimba diceva di aver freddo e voleva la mamma.

"Chiama la tata," diceva Charles. "Lo sai, bambina mia, che la mamma non vuole essere disturbata."

Cominciava l'autunno e le foglie già cadevano proprio come due anni prima, quando Emma si era ammalata! Sarebbe finito, un giorno, tutto ciò? E Charles continuava il suo andirivieni con le mani dietro la schiena.

La signora Bovary era in camera sua. Nessuno doveva entrarvi. Rimaneva là tutto il giorno, immersa nel torpore, vestita solo a metà, facendo bruciare di tanto in tanto pastiglie profumate che aveva acquistato a Rouen nella bottega di un algerino. Per evitare di trovarsi vicino, di notte, quel pover'uomo del marito addormentato, era riuscita, a furia di smorfie, a relegarlo al secondo piano, mentre lei leggeva fino al mattino libri stravaganti, con illustrazioni orgiastiche e avvenimenti sanguinosi. Spesso veniva assalita da ingiustificati terrori. Lanciava un grido. Charles accorreva.

"Ah! Vattene!" diceva lei.

Oppure, bruciata da quella fiamma interiore che l'adulterio rinfocolava, ansimante, commossa, piena di desiderio, apriva la finestra, aspirava l'aria fredda, scioglieva al vento la capigliatura troppo pesante e, guardando le stelle, anelava ad amori principeschi. Pensava a lui, a Léon. Avrebbe dato tutto, in quel momento, per uno solo di quegli incontri che la saziavano.

Erano per lei giorni di festa, questi degli appuntamenti. E li voleva splendidi! Quando Léon non poteva sostenere da solo la spesa, cosa che si verificava quasi tutte le volte, contribuiva con prodigalità di tasca sua. Léon tentava di convincerla che si sarebbero trovati altrettanto bene in un alberguccio più modesto, ma Emma faceva mille obiezioni.

Un giorno tolse dalla borsa sei collanine dorate, il regalo di nozze di papà Rouault, e lo pregò di portarle al Monte di Pietà per lei; Léon obbedì, benché l'incarico non fosse affatto di suo gusto. Temeva di compromettersi.

In seguito, il giovane, riflettendo, si rese conto che l'amante si comportava in maniera strana, tanto da trovare ragionevoli coloro che cercavano di staccarlo da lei.

Infatti, qualcuno si era preso la briga di far pervenire a sua madre una lunga lettera anonima, per avvertirla che il figlio si stava perdendo con una donna maritata, e subito la brava signora, intravedendo l'eterno spauracchio delle famiglie, e cioè la vaga creatura perniciosa, la sirena, il mostro, che abita di solito le profondità dell'amore in maniera fantasiosa, scrisse al signor Dubocage, principale di Léon, il quale trattò la cosa con estremo tatto. Parlò a Léon per tre quarti d'ora, nell'intento di aprirgli gli occhi e renderlo cosciente del baratro nel quale poteva precipitare. Un tale imbroglio avrebbe potuto nuocere in seguito alla sua posizione. Lo supplicò di rompere con Emma, e, se non intendeva fare questo sacrificio per il bene proprio, lo facesse almeno per lui, Dubocage.

Léon alla fine aveva giurato che non avrebbe più rivisto Emma, e si rimproverava ora di non avere mantenuto la parola, prendendo in considerazione tutte le chiacchiere e i fastidi che quella donna avrebbe potuto ancora procurargli, senza tener conto dei frizzi dei colleghi che si sprecavano la mattina intorno alla stufa. Stava per diventare primo assistente, era il momento di mettere la testa a partito. In tal modo rinunciava al romanticismo, ai sentimenti esaltanti, alle fantasie: poiché non esiste borghese che, nell'entusiasmo della gioventù, sia pure soltanto per un giorno, per un minuto, non si sia creduto capace di passioni sublimi e di alte imprese. Come il più modesto libertino ha sognato harem, così ogni notaio porta celati in sé i frantumi di un poeta.

Léon si sentiva infastidito adesso quando Emma d'improvviso si metteva a singhiozzare sul suo petto, e il cuore di lui, simile a quelle persone che si stancano se ascoltano per lungo tempo la musica, si assopiva nell'indifferenza alle manifestazioni clamorose di un amore del quale non apprezzava più le raffinatezze.

Si conoscevano troppo perché fosse loro possibile godere quello stupore del possesso che centuplica la gioia. Emma era tanto disgustata di lui quanto Léon si sentiva stanco di lei, che, del resto, ritrovava nell'adulterio tutta la monotonia del matrimonio.

Ma come fare per liberarsi? E poi, se anche Emma si sentiva umiliata dalla bassezza di una tale felicità, non poteva impedirsi di tenervisi avvinghiata per abitudine, per corruzione, ogni giorno con maggiore accanimento, riuscendo a inaridire ogni gioia con la pretesa di volerla troppo grande. Accusava Léon delle proprie speranze deluse quasi l'avesse tradita, e arrivava ad augurarsi una catastrofe che avrebbe facilitato la loro separazione, dal momento che lei non trovava il coraggio di deciderla.

Emma non rinunciava comunque a scrivergli lettere, nella convinzione che una donna non possa fare a meno di scrivere al proprio amante.

Ma, scrivendo, aveva dinanzi a sé l'immagine di un uomo diverso, un fantasma fatto dei più ardenti ricordi, delle letture più belle e delle più accese brame, ed egli diveniva infine così reale e accessibile da farla fremere, meravigliata, sia pure senza riuscire a vederlo distintamente tanto si perdeva, come un dio, nella farragine dei suoi attributi... Abitava le contrade celesti ove le scale di seta dondolano appese ai balconi fra il profumo dei fiori al chiaro di luna. Lo sentiva vicino, sarebbe venuto per rapirla, per portarla con sé, anima e corpo, nel rapimento di un bacio. Dopo questi sogni, si sentiva abbattuta, sfinita, perché gli slanci di una così nebulosa passione la spossavano più delle sfrenate lussurie.

Emma soggiaceva adesso a una prostrazione incessante e assoluta. Riceveva spesso intimazioni, carte bollate che degnava appena di uno sguardo. Desiderava essere morta o dormire sempre.

Il giorno di carnevalino, non fece ritorno a Yonville; andò al ballo mascherato. Indossò pantaloni di velluto e calze rosse, mise in capo una parrucca con il codino e un tricorno, inclinato su un orecchio. Ballò tutta la notte, al suono furibondo dei tromboni; intorno a lei facevano cerchio, e al mattino si ritrovò sotto il portico del teatro, in mezzo a cinque o sei maschere, donne del popolo e marinai, colleghi di Léon che parlavano di andare a mangiare qualcosa.

I caffè vicini erano tutti gremiti. Trovarono posto in una delle più modeste trattorie, il cui proprietario lasciò a loro disposizione una stanzetta al quarto piano. Gli uomini parlottavano in un angolo, consultandosi certo sulla spesa. Erano un giovane di studio, due studenti in medicina e un commesso. Davvero una compagnia eletta! Quanto alle donne, Emma se ne accorse subito dal timbro di voce, dovevano essere tutte di infimo rango. Ebbe paura: spostò indietro la sedia e abbassò gli occhi.

Gli altri cominciarono a mangiare. Emma non toccò cibo, si sentiva il viso in fiamme, le palpebre le bruciavano e un senso di gelo le correva sulla pelle. Sentiva nel cervello la sensazione del pavimento della sala da ballo che vibrava sotto la sollecitazione ritmica dei mille piedi dei ballerini. Poi l'odore d'alcool misto a quello dei sigari la stordì. Ebbe uno svenimento: la portarono vicino alla finestra.

Cominciava a far giorno e una grande chiazza color porpora andava dilatandosi nel cielo pallido, dalla parte di Sainte-Catherine. Il fiume livido rabbrividiva sotto il vento, i ponti erano deserti, i lampioni andavano spegnendosi.

Emma si era ripresa e pensava a Berthe che dormiva laggiù, nella camera della domestica. In quel momento passò un carro carico di lunghe e strette lamine di ferro, facendo risuonare contro i muri delle case lo strepito di una vibrazione metallica assordante.

Emma all'improvviso abbandonò la compagnia, si sbarazzò del costume, disse a Léon che doveva tornare a casa e finalmente restò sola all'Hotel de Boulogne.

Tutto le era insopportabile, perfino se stessa. Desiderava fuggire come un uccello, lontanissimo, negli spazi inviolati, potervi tornare fanciulla.

Uscì, attraverso il corso, Place Cauchoise, la periferia, fino a una nota strada che dominava i giardini. Camminava in fretta, l'aria aperta la calmava, e, poco per volta, le facce della folla, le maschere, le quadriglie, i lampadari, la cena, quelle donne, tutto scomparve come brume disperse dal vento. Poi, tornata all'albergo della Croce Rossa, si gettò sul letto, nella piccola camera al secondo piano ove si trovavano le incisioni della Torre di Nesle. Alle quattro del pomeriggio Hivert venne a svegliarla.

Appena arrivata a casa, Félicité le mostrò un foglio di carta grigia posto dietro la pendola. Vi lesse:

In virtù della copia della sentenza esecutiva...

Quale sentenza? Il giorno prima avevano in effetti portato un altro documento, di cui Emma non era a conoscenza, così che rimase stupefatta da queste parole:

Intimazione in nome del Re, della Legge, della Giustizia alla signora Bovary...

Saltando molte righe scoprì che:

Entro il termine perentorio di ventiquattr'ore - Che cosa? Pagare la somma totale di ottomila franchi. E più sotto ancora: Vi sarà costretta a norma di legge e in particolare per mezzo del sequestro esecutivo di mobili ed effetti di sua proprietà.

Che fare?... Entro ventiquattr'ore, l'indomani! Lheureux, Emma pensò, voleva certo spaventarla di nuovo; capì d'improvviso le sue manovre, lo scopo delle sue cortesie. A rassicurarla era la spropositata entità della somma.

Eppure, continuando ad acquistare, a non pagare, a farsi prestare denaro, a firmare cambiali e a rinnovarle, facendo aumentare, come se si gonfiasse ogni volta, l'importo, aveva preparato per il signor Lheureux quel capitale ch'egli aspettava con impazienza per le proprie speculazioni.

Emma si recò da lui con un'aria disinvolta:

"Ma lo sa cosa ho ricevuto? Non può essere che uno scherzo!"

"No."

"Come?"

Lheureux si voltò adagio e le disse, incrociando le braccia: "Lei pensa, mia gentile signora, che sarei andato avanti fino alla consumazione dei secoli a essere il suo fornitore e banchiere per misericordia divina? Bisognerà pure che a un certo punto rientri in possesso dei miei capitali, siamo giusti!"

Emma protestò per l'entità del debito.

"Ah! Tanto peggio! Il tribunale l'ha riconosciuto! C'è la sentenza! Gliel'hanno notificata! D'altra parte io non c'entro, è stato Vinçart."

"Ma lei non potrebbe?..."

"Oh! Assolutamente no!"

"Ma... allora... ragioniamo."

Emma cercava di menare il can per l'aia, non ne aveva saputo niente... era stata una vera sorpresa...

"E chi ne ha colpa?" disse Lheureux, con un inchino sarcastico "Mentre io sgobbo come un negro, lei si dava alla bella vita."

"Ah! Non mi faccia la morale!"

"Questo non nuoce mai" ribatté lui.

Emma allora divenne vile, lo supplicò e addirittura appoggiò la graziosa mano bianca e affusolata sul ginocchio del mercante.

"Andiamo, mi lasci! Diranno che vuole sedurmi!"

"Lei è un miserabile!" gridò Emma.

"Oh! Oh! Come se la prende!" rispose Lheureux ridendo.

"Farò sapere a tutti che tipo è. Dirò a mio marito..."

"Bene, mostrerò anch'io qualcosa a suo marito!"

E il signor Lheureux tirò fuori dalla cassaforte una ricevuta di mille e ottocento franchi che Emma gli aveva rilasciato al tempo dello sconto di Vinçart.

"Crede" soggiunse "che non si accorgerà del suo piccolo furto, il povero caro uomo?"

Emma si accasciò, distrutta da quella mazzata. Il mercante andava avanti e indietro fra la finestra e il banco, ripetendo:

"Ah! Gli farò vedere. Gli farò proprio vedere..."

Si avvicinò a lei, e con voce dolce, disse:

"Non è un divertimento, lo so, ma nessuno è mai morto per così poco, e del resto è l'unico modo per restituirmi il denaro che mi deve..."

"Ma dove potrò trovare tutti questi soldi?" disse Emma torcendosi le mani.

"Ah! Beh! quando si hanno amici come ne ha lei!"

E la fissava con uno sguardo così penetrante e terribile che Emma rabbrividì fino ai precordi e disse:

"Le prometto, firmerò..."

"Ne ho abbastanza delle sue firme!"

"Venderò ancora..."

"Andiamo!" fece lui alzando le spalle "Ma se non ha più niente!"

E gridò attraverso lo spioncino che si apriva sulla bottega:

"Annette! Non ti dimenticare i tre scampoli del numero quattordici".

Comparve la servetta. Emma capì e domandò 'se si sarebbe potuta fermare la procedura versando una somma'.

"Ormai è troppo tardi."

"Ma se le portassi alcune migliaia di franchi, un quarto, un terzo della somma, quasi tutto?"

"Eh! No, è inutile."

La spingeva adagio verso la scala.

"La scongiuro, signor Lheureux, qualche giorno ancora."

Emma singhiozzava.

"Ah, bene! Adesso anche le lacrime!"

"Mi porterà alla disperazione!"

"Non me ne importa" disse lui richiudendo l'uscio.

VII

Emma fu stoica, l'indomani, quando il signor Hareng, l'usciere, si presentò da lei con due testimoni per redigere il verbale di pignoramento.

Cominciarono dallo studio di Bovary e non tennero conto della testa frenologica, che venne considerata strumento di lavoro, ma contarono tutti i piatti in cucina, le marmitte, le sedie, i candelieri, e, nella camera da letto, tutti i soprammobili dello scaffale. Esaminarono gli abiti, la biancheria, lo spogliatoio, e tutta l'esistenza della signora Bovary, fin nei più intimi recessi, fu simile a un cadavere al quale venga fatta l'autopsia, distesa per tutta la sua lunghezza, sotto gli occhi di questi tre uomini.

Il signor Hareng, tutto abbottonato in una stretta giacca nera, con la cravatta bianca e le staffe ben tese, ripeteva di tanto in tanto:

"Permette, signora? Permette?"

Spesso esclamava:

"Bello! ... molto grazioso!"

Poi si rimetteva a scrivere, intingendo la penna nel calamaio di corno che reggeva nella mano sinistra.

Quando ebbero finito con la casa salirono in soffitta.

V'era uno scrittoio ove si trovavano le lettere di Rodolphe. Fu necessario aprirlo.

"Ah! Corrispondenza!" disse il signor Hareng con un sorriso discreto "Ma mi deve consentire... devo accertarmi che la scatola non contenga altro."

E inclinava le lettere con delicatezza, come se volesse farne cadere napoleoni. Emma si sentì prendere dal disgusto vedendo quelle grosse mani rosse e molli come lumaconi posarsi sui fogli che le avevano fatto battere il cuore.

Alla fine i tre se ne andarono.

Félicité rientrò. Emma l'aveva mandate a spiare Bovary per tenerlo lontano e ora tutte due fecero nascondere in soffitta il custode degli oggetti pignorati, e l'uomo giurò di rimanervi.

Charles, quella sera, parve pensieroso. Emma lo teneva d'occhio con uno sguardo pieno di angoscia, credendo di scorgere accuse nelle rughe del volto di lui. Poi, quando volgeva gli occhi a guardare il caminetto dal parafuoco cinese, le ricche tende, le poltrone, tutte quelle cose che avevano lenito l'amarezza della sua vita, Emma si sentiva prendere dal rimorso o meglio da un rimpianto immenso che acuiva la sofferenza invece di diminuirla. Charles attizzava placido il fuoco, i piedi appoggiati agli alari.

Vi fu un momento in cui il custode, che certo stava annoiandosi nel suo nascondiglio, fece un po' di rumore.

"C'è qualcuno che cammina di sopra?" disse Charles.

"No," rispose Emma "è un abbaino rimasto aperto che il vento fa sbattere."

Emma partì per Rouen l'indomani, una domenica, per andare da tutti i banchieri di cui conosceva il nome. Erano in campagna o in viaggio. Non si arrese, chiese denaro a quelli che le riuscì di incontrare dichiarando di averne estremo bisogno e assicurando una pronta restituzione. Rifiutarono tutti, qualcuno le rise in faccia.

Alle due si precipitò da Léon, bussò alla porta. Nessuno venne ad aprire. Alla fine egli comparve:

"Perché sei venuta?"

"Ti disturbo?"

"No, ma..."

Confessò che il padrone di casa non voleva assolutamente che lui ricevesse 'donne'.

"Devo parlarti" disse Emma.

Allora Léon prese la chiave. Emma lo trattenne.

"Oh! No, laggiù, nella nostra camera."

Andarono all'Hotel de Boulogne.

Non appena furono arrivati, Emma bevve d'un fiato un bicchiere d'acqua. Era pallidissima. Gli disse:

"Léon, devi farmi un piacere".

E stringendolo con forza, scotendolo per le braccia, soggiunse:

"Ascolta, ho bisogno di ottomila franchi!"

"Sei pazza!"

"Non ancora."

E subito, raccontandogli la storia del sequestro, gli disse la sua angoscia; Charles non sapeva nulla, la suocera la detestava, papà Rouault non poteva far niente, ma lui, Léon, doveva darsi da fare per trovarle questa indispensabile somma...

"Come vuoi che?..."

"Quanto sei vigliacco!" esclamò lei.

A questo punto Léon disse, scioccamente:

"Forse esageri la gravità della cosa. Può darsi che con un migliaio di scudi quell'individuo diventi ragionevole".

Ragione di più per compiere qualche tentativo, non poteva credere che non fosse possibile trovare tremila franchi. D'altronde, Léon avrebbe potuto garantire per lei.

"Va'! Tenta! È necessario! Corri! ... Oh! Prova! Prova! Ti amerò ancora di più!"

Léon uscì, tornò in capo a un'ora, e disse con un viso grave:

"Sono stato da tre persone... inutilmente!"

Rimasero seduti, l'uno di fronte all'altra, ai lati del caminetto, immobili e senza parlare.

Emma alzava le spalle e pestava i piedi. Léon la sentì mormorare:

"Al tuo posto, io li avrei trovati!"

"E dove?"

"Al tuo studio!"

E lo guardò.

Un'infernale audacia si sprigionava dalle sue pupille ardenti e le palpebre socchiuse conferivano allo sguardo un'espressione lasciva e ipnotica - tanto che il giovane si sentì divenire debole sotto l'effetto della tacita volontà di quella donna che lo spingeva al crimine. Ebbe paura, e, per evitare ogni spiegazione, si batté la fronte esclamando:

"Morel deve tornare stanotte! Non mi rifiuterà un piacere, spero (era uno dei suoi amici, il figlio di un negoziante assai ricco) e io ti porterò il denaro domani" soggiunse.

Emma non ebbe l'aria di accogliere questa nuova speranza con la gioia che lui si era aspettato. Sospettava forse l'inganno? Léon continuò arrossendo:

"Quindi, se per le tre non sarò di ritorno, non mi aspettare, cara. Ora devo proprio andare, scusami. Addio!"

Le strinse la mano, ma la sentì inerte. Emma non aveva più la forza di provare un sentimento qualsiasi.

Sonarono le quattro, ella si alzò per tornare a Yonville obbediente come un automa, alla spinta dell'abitudine.

Era una bella giornata, una di quelle giornate del mese di marzo chiare e rigide, nelle quali il sole splende in un cielo tutto bianco.

Gli abitanti di Rouen, con gli abiti della festa, passeggiavano e avevano l'aria di essere felici. Emma arrivò sulla piazza del sagrato. La gente usciva dai vespri, fluendo dai tre portali come un fiume sotto le arcate di un ponte, e in mezzo, più immobile di una roccia, c'era lo scaccino.

Emma ricordò allora il giorno in cui, ansiosa e piena di speranza, era entrata sotto la grande navata che si apriva davanti a lei, meno profonda del suo amore, e proseguì, piangendo sotto il velo, stordita, barcollante e vicina a svenire.

"Attenzione!" gridò una voce giungendo da un portone che stava schiudendosi.

Emma si fermò per lasciar passare un cavallo scalpitante fra le stanghe di un tilbury, guidato da un gentiluomo in pelliccia di zibellino. Chi poteva essere? Emma lo conosceva... La vettura partì al galoppo e scomparve.

Ma sì, era lui, il Visconte! Si voltò: la via era deserta. Si sentì così abbattuta, così triste che dovette appoggiarsi contro il muro per non cadere.

Pensò poi di essersi sbagliata. Le sembrava di non sapere più nulla. Tutto, dentro e fuori di lei, stava abbandonandola. Si sentì perduta, sbattuta a caso in abissi indefinibili, e quasi con gioia arrivando alla Croce Rossa scorse quel brav'uomo di Homais che sorvegliava il carico di una grossa scatola piena di medicinali sulla Rondine, reggendo con una mano un fazzoletto contenente sei gallette per la moglie.

Alla signora Homais piacevano molto questi panini compatti, fatti come un turbante, che si mangiano in quaresima con il burro salato: ultimi superstiti dei cibi medievali risalenti forse al secolo delle crociate e dei quali un tempo i robusti Normanni si rimpinzavano, illudendosi forse di vedere sulla tavola, alla luce delle torce gialle, fra le brocche di vino dolce aromatizzato con la cannella, e i giganteschi salumi, le teste dei saraceni da divorare. La moglie dello speziale li sgranocchiava come loro, a dispetto della pessima dentatura, e così, Homais, tutte le volte che faceva un viaggio in città, non mancava mai di portargliene acquistandoli sempre da uno specialista di Rue Massacre.

"Felice di vederla" disse ora, offrendo la mano a Emma per aiutarla a salire sulla Rondine.

Appese il fagottino dei panini alla bacchetta della reticella e rimase a capo scoperto e a braccia conserte in un atteggiamento pensoso e napoleonico.

Ma quando, come al solito, ai piedi della salita, incontrarono il cieco, esclamò:

"Non riesco a capire come le autorità possano tollerare ancora simili speculazioni! Dovrebbero rinchiudere questo infelice e costringerlo a un lavoro qualsiasi! Il Progresso, parola d'onore, va a passo di lumaca. Siamo ancora in piena barbarie".

Il cieco tendeva il cappello, che ballonzolava di fianco alla portiera, come una tasca di tappezzeria schiodata.

"Ecco un esempio di scrofolosi" disse il farmacista.

Per quanto conoscesse questo povero diavolo, finse di vederlo per la prima volta, mormorò parole come cornea, cornea opaca, sclerotica, facies, poi gli domandò in tono paterno:

"È molto tempo, amico mio, che soffri di questa spaventosa infermità? Invece di ubriacarti all'osteria, faresti meglio a seguire un regime".

Gli suggerì di bere del buon vino, della buona birra, di mangiare carni arrostite. Il cieco continuava la sua canzone: sembrava quasi un idiota. Alla fine Homais aprì il borsellino.

"Tieni, eccoti un soldo, dammi due centesimi di resto: e non dimenticarti i miei consigli, ti troverai contento."

Hivert si permise di esprimere qualche dubbio, a voce alta, sulla loro efficacia. Ma lo speziale affermò che lo avrebbe guarito lui stesso, con una pomata antiflogistica di sua invenzione, e diede al mendicante il proprio indirizzo.

"Signor Homais, vicino al mercato; sono abbastanza noto."

"Bene," disse Hivert "invece di pagare, ci farai vedere una delle tue rappresentazioni."

Il cieco si accosciò, rovesciò il capo, roteò gli occhi verdastri, tirò fuori la lingua e si strofinò lo stomaco con le mani, e intanto emetteva un urlio sordo, come un cane affamato. Emma, colma di disgusto, gli gettò al di sopra della spalla una moneta da cinque franchi. Era tutto quello che possedeva. Le sembrò bello spenderlo così.

La vettura era già ripartita quando Homais si spenzolò dal finestrino e gridò:

"Niente farinacei, né latticini! Portare indumenti di lana sulla pelle ed esporre le parti malate al fumo delle bacche di ginepro".

La vista dei noti paesaggi che le sfilavano davanti agli occhi distolse a poco a poco Emma dagli attuali dispiaceri. Una stanchezza insopportabile l'assalì, la ridusse quasi ebete, scoraggiata, mezzo addormentata.

"Accada quel che vuole" si diceva.

E poi, chissà? Perché da un momento all'altro non sarebbe potuto capitare qualcosa di straordinario? Lo stesso Lheureux avrebbe potuto morire.

Fu svegliata alle nove del mattino da un rumore di voci sulla piazza. C'era una gran ressa intorno al mercato per leggere un affisso incollato su uno dei pali, ed Emma vide Justin che saliva su un paracarro e lo stracciava. Ma nello stesso istante la guardia campestre gli posò la mano sul colletto. Il signor Homais uscì dalla farmacia e la signora Lefrançois, in mezzo alla folla, aveva tutta l'aria di tenere una concione.

"Signora! Signora!" gridò Félicité entrando."È terribile!"

E la povera ragazza, molto turbata, le tese un foglio giallo che aveva appena staccato dalla porta. Emma lo scorse con un rapido colpo d'occhio e lesse che tutta la sua mobilia era in vendita.

Si guardarono in silenzio. Domestica e padrona non avevano alcun segreto fra loro. Alla fine Félicité sospirò:

"Se fossi in lei, signora, andrei dal signor Guillaumin".

"Credi?"

E questa domanda voleva dire:

"Tu che conosci la casa attraverso il domestico, forse il padrone ha parlato qualche volta di me?"

"Sì, ci vada, farà bene ad andarci."

Emma si vestì, si mise l'abito nero con la mantellina guarnita di giaietto; per non farsi vedere (v'era ancora una gran folla nella piazza) prese il sentiero che passava fuori del villaggio, in riva al fiume.

Arrivò tutta ansimante davanti al cancello del notaio. Il cielo era scuro e cadeva qualche fiocco di neve.

Al suono del campanello, Théodore, in panciotto rosso, apparve sulla scalinata, venne ad aprirle, quasi con familiarità, come a una vecchia conoscenza, e la fece entrare nella sala da pranzo.

Una grossa stufa di maiolica borbottava sotto un cactus che riempiva la nicchia; incorniciati di legno nero spiccavano, sulla parete tappezzata con una carta di parati che imitava i pannelli di quercia, l'Esmeralda di Steuben e il Putifarre di Schopin. La tavola apparecchiata, due scaldavivande d'argento, i pomoli delle porte di cristallo, il pavimento di legno e i mobili, tutto risplendeva di una pulizia meticolosa, anglosassone; le finestre erano decorate agli angoli da vetri colorati.

"Ecco una stanza da pranzo come piacerebbe anche a me averne una" pensava Emma.

Il notaio entrò, stringendosi contro il corpo, con il braccio sinistro, la veste da camera a disegni di palme, mentre toglieva, e subito rimetteva in capo con l'altro, la papalina di velluto marrone, pretenziosamente posata di sghimbescio sul lato destro della testa, ove ricadevano le estremità di tre ciocche bionde che, partendo dall'occipite, gli circondavano il cranio calvo.

Dopo averle offerto una sedia, sedette a sua volta per fare colazione, scusandosi molto per la mancanza di riguardo.

"Signore," disse Emma "vorrei pregarla..."

"Di cosa signora? L'ascolto."

Emma cominciò ad esporgli la situazione.

Il dottor Guillaumin già la conosceva, essendo nascostamente legato al mercante di stoffe, dal quale trovava sempre i capitali necessari ai prestiti ipotecari che i suoi clienti gli chiedevano di trattare. Era al corrente meglio di lei, quindi, della lunga storia di queste cambiali, di minima entità al principio, girate poi al nome di varie persone, distanziate a lunghe scadenze e rinnovate di continuo, fino al giorno in cui, riuniti tutti i protesti, il mercante aveva incaricato l'amico Vinçart di procedere a nome suo secondo quanto stabiliva la legge, per non fare con i concittadini la figura dello sciacallo.

Emma inframmezzò al racconto recriminazioni contro Lheureux, alle quali il notaio rispondeva di tanto in tanto con parole prive di ogni significato.

Mangiando la costoletta e bevendo il tè, abbassava il mento sulla cravatta blu-cielo, tenuta a posto da due spille di brillanti, riunite da una catenella d'oro, e sorrideva di uno strano sorriso, dolciastro e ambiguo. Ma, accorgendosi che Emma aveva i piedi umidi, disse:

"Si avvicini alla stufa... li appoggi più in alto, contro la porcellana".

Emma temeva di insudiciarla.

Il notaio asserì in tono galante: "Le belle cose non rovinano mai nulla".

Allora la signora Bovary cercò di commuoverlo, e, commovendosi ella stessa, gli raccontò le miserie di casa sua, le ristrettezze, i bisogni. Il notaio capiva tutto ciò: una donna così elegante! E, senza smettere di mangiare, si era girato del tutto verso di lei, e le sfiorava con il ginocchio la scarpa, la cui suola si incurvava fumando contro la stufa.

Ma, quando Emma gli chiese mille scudi, strinse le labbra, poi si dichiarò spiacentissimo di non aver avuto prima la direzione degli affari della signora Bovary, poiché vi sarebbero stati cento modi, comodissimi anche per una signora, di far fruttare i suoi denari. Avrebbero potuto azzardare quasi a colpo sicuro eccellenti speculazioni sia nelle torbiere di Grumesnil sia nei terreni di Havre. E lasciò che la rabbia la divorasse al pensiero delle somme fantastiche che avrebbe certo guadagnato.

"Come mai" soggiunse "non si è rivolta a me?"

"Proprio non lo so" disse Emma.

"Perché, poi?... Le facevo dunque tanta paura? Io dovrei rammaricarmi più di lei, se le cose sono andate così! È tanto se ci conosciamo! Le sono però assai devoto, spero che non ne dubiti, almeno."

Tese la mano, prese quella di Emma, la baciò avidamente, poi se la mise sul ginocchio e giocava con delicatezza con le dita, dicendo mille paroline dolci.

La sua voce incolore sussurrava come un ruscello che scorre, una scintilla brillava nelle pupille di lui attraverso il luccichio degli occhiali e le sue mani avanzavano nelle maniche di Emma per palparle le braccia. La signora Bovary sentiva contro la gota il soffio di un respiro ansimante.

Quell'uomo la infastidiva moltissimo.

Si alzò di scatto dicendo:

"Signore, sto aspettando".

"Che cosa?" fece il notaio, divenuto all'improvviso estremamente pallido.

"Questo denaro."

"Ma..."

Poi, cedendo all'impeto di un desiderio troppo forte, disse:

"Ebbene, sì!"

Si trascinò in ginocchio fino a lei, senza riguardi per la propria vestaglia.

"Per favore, rimanga! Io l'amo."

L'afferrò per la vita.

Un fiotto di sangue salì al viso della signora Bovary. Ella indietreggiò con un'espressione terribile, gridando:

"Lei sta approfittando con impudenza della mia disgrazia, signore! Mi si può compiangere, ma non sono in vendita!"

E se ne andò.

Il notaio rimase di stucco, gli occhi fissi sulle belle pantofole ricamate. Erano il regalo di un'innamorata e questa vista finì per consolarlo. D'altra parte riteneva che un'avventura di quel genere lo avrebbe potuto condurre troppo lontano.

"Quel miserabile, quel mascalzone!... Che infamia!" si diceva Emma, fuggendo con passo nervoso sotto i pioppi della via. Il disappunto per l'insuccesso rendeva ancora più forte l'indignazione per il suo pudore offeso. Aveva l'impressione che la Provvidenza si accanisse a perseguitarla, si sentiva piena di orgoglio e non aveva mai avuto tanta stima di sé e tanto disprezzo per gli altri. Un non so che di bellicoso la trascinava. Avrebbe voluto percuotere gli uomini, rompere loro la faccia, annientarli tutti, e camminava rapida, pallida, fremente, irata, scrutando con gli occhi pieni di lacrime l'orizzonte deserto, quasi godendo dell'odio che la soffocava.

Quando fu in vista di casa sua si sentì presa da un senso di stordimento. Non riusciva più ad andare avanti; ma non poteva fare diversamente e poi, dove sarebbe potuta fuggire?

Félicité l'aspettava sulla porta.

"Ebbene?"

"No!" disse Emma

E, per un quarto d'ora, passarono in rassegna tutte le diverse persone di Yonville che sarebbero potute essere disposte ad aiutarla. Ma ogni volta che Félicité nominava qualcuno, Emma obiettava:

"Non è possibile! Non acconsentiranno mai!"

"E il signore sta per tornare!"

"Lo so... Lasciami sola."

Aveva tentato tutto. Ormai non c'era più nulla da fare, e quando Charles fosse arrivato, gli avrebbe detto:

"Togliti di lì. Il tappeto sul quale cammini non è più tuo. Di tuo, in questa casa, non c'è più un solo mobile, una spilla, una pagliuzza, e sono stata io a rovinarti, pover'uomo!"

Lui allora sarebbe scoppiato in singhiozzi, avrebbe pianto a lungo, e alla fine, superata la sorpresa, avrebbe perdonato.

"Sì" mormorava Emma digrignando i denti "mi perdonerà, lui, al quale non sarebbe sufficiente un milione da offrirmi perché io possa scusarlo di avermi conosciuta... Mai! Mai!"

Il pensiero dell'autorità di Bovary su di lei l'esasperava. E poi, che confessasse o non confessasse, subito, di lì a poco o domani, la catastrofe sarebbe accaduta lo stesso; era forse meglio aspettare questa scena orribile e subire il peso della magnanimità di lui. Le venne voglia di tornare da Lheureux: ma a che scopo? Per scrivere a suo padre, era ormai troppo tardi. E forse adesso si pentiva di non aver ceduto all'altro, quando udì il trotto di un cavallo sul viale. Era Charles; aprì il cancello, era più pallido del muro di gesso.

Barcollando giù per la scale, Emma fuggì per la piazza, e la moglie del sindaco, che chiacchierava davanti alla chiesa con Lestiboudois, la vide entrare dall'esattore.

Corse a dirlo alla signora Caron e le due donne salirono in soffitta, là, nascoste fra la biancheria stesa sulle corde fra due pali, si appostarono comodamente per osservare l'interno della casa di Binet.

Questi era solo, in soffitta, occupato a imitare con il legno uno di quei soprammobili d'avorio, indescrivibili, composti da cornetti e sfere incavate le une dentro le altre, il tutto ritto come un obelisco e della più assoluta inutilità. Stava per attaccare l'ultimo pezzo, sul punto di raggiungere la meta. Nella penombra del laboratorio, la polvere dorata si sprigionava dal suo attrezzo come un pennacchio di scintille sotto i ferri di un cavallo al galoppo; le due ruote ronfavano girando. Binet sorrideva; con il mento basso, le narici dilatate, sembrava perduto in quella felicità completa che è propria soltanto delle occupazioni senza importanza, le occupazioni che divertono l'intelletto con ostacoli facilmente superabili e lo assorbono in un'attività fine a se stessa, oltre la quale non esistono sogni.

"Ah! Eccola!" fece la signora Tuvache.

Ma non era possibile, a causa del rumore del tornio, sentire che cosa Emma stesse dicendo.

Infine queste signore credettero di distinguere la parola 'franco' e mamma Tuvache sussurrò pianissimo:

"Lo sta pregando per ottenere una proroga nel pagamento delle tasse".

"Sembrerebbe!" rispose l'altra.

La videro andare avanti e indietro mentre osservava, contro i muri, i portatovaglioli, i candelieri, i pomoli per le ringhiere, mentre Binet si lisciava la barba soddisfatto.

"Sarà andata a ordinargli qualcosa?" domandò la signora.

"Ma lui non vende niente!" obiettò la vicina.

L'esattore aveva l'aria di ascoltare, spalancando gli occhi come se non capisse. Emma continuava, con atteggiamenti teneri, supplichevoli. Si avvicinò, il seno le si sollevava ritmicamente, tacevano entrambi.

"Gli sta facendo delle proposte?" disse la signora Tuvache.

Binet era rosso fino agli orecchi. Emma gli prese le mani.

"Ah! È troppo!"

Non c'erano dubbi che gli stesse proponendo qualcosa di abominevole, perché l'esattore - era un coraggioso, aveva combattuto a Bautzen e a Lutzen, aveva fatto la campagna di Francia ed era stato addirittura proposto per una croce al merito - di colpo, come alla vista di un serpente, si tirò indietro gridando:

"Signora! Ma le pare?"

"Bisognerebbe frustarle, le donne di quella specie!" esclamò la signora Tuvache.

"Dov'è andata?" domandò la signora Caron.

Emma era infatti sparita mentre venivano pronunciate quelle parole; poi, scorgendola che imboccava la Grande-Rue, e svoltava a destra come per raggiungere il cimitero, si abbandonarono alle congetture.

"Mamma Rollet," disse Emma arrivando dalla balia "soffoco, mi slacci!"

Si lasciò cadere sul letto, singhiozzando. Mamma Rollet la coprì con una gonna e rimase in piedi accanto a lei. Poi, siccome non otteneva risposta alle sue domande, la brava donna si allontanò, prese il filatoio e si mise a filare il lino.

"Oh! La smetta!" mormorò Emma, alla quale sembrava di sentire il tornio di Binet.

"Chi le dice niente?" si domandava la balia "Perché è venuta qui?"

Emma si trovava lì spinta da qualcosa di molto simile alla paura, qualcosa che la scacciava dalla sua casa.

Coricata supina, immobile, con gli occhi fissi, riusciva a distinguere soltanto vagamente gli oggetti, benché si sforzasse di mettervi tutta la sua attenzione con una ostinazione idiota. Contemplava le screpolature della parete, i due tizzoni fumanti con le estremità ravvicinate e un grosso ragno che le camminava al di sopra del capo nella fessura di una trave. Riuscì infine a radunare le idee. Cominciò a ricordare... un giorno con Léon... Oh! Com'era lontano... Il sole brillava sul fiume e le vitalbe olezzavano. Trasportata dai ricordi come da un torrente che ribolle, riuscì ben presto a riportare alla memoria la giornata precedente.

"Che ore sono?" domandò.

Mamma Rollet uscì, alzò le dita della mano destra dalla parte dove il cielo era più chiaro e rientrò adagio dicendo:

"Fra poco le tre".

"Ah! Grazie! Grazie!"

Certo Léon stava per arrivare. Ne era sicura. Aveva trovato il denaro. Forse se ne stava laggiù pacifico, senza neppure sospettare che ella si trovava lì; ordinò alla balia di correre a casa sua per accompagnarlo da lei.

"Faccia presto!"

"Ma cara signora vado! Vado!"

Emma si stupì, adesso, di non aver pensato subito a Léon; ieri le aveva dato la sua parola e certo non sarebbe venuto meno alla promessa. E già si vedeva da Lheureux allineare sulla scrivania i tre biglietti di banca. Poi sarebbe stato necessario inventare una storia per spiegare le cose a Bovary. Ma quale?

Intanto la balia non arrivava mai. Ma, dato che non esistevano orologi nella capanna, Emma credette di aver forse esagerato il tempo trascorso. Si mise a passeggiare in giardino: passo passo, percorse il sentiero lungo la siepe, poi tornò indietro in fretta, sperando che la brava donna fosse venuta da un'altra strada. Alla fine, stanca di aspettare, assalita dal sospetto che cercava di respingere, senza più sapere se si trovasse lì da un secolo o da un minuto, sedette in un angolo, chiuse gli occhi e si tappò gli orecchi. Il cancello cigolò, Emma fece un balzo e, prima che fosse riuscita a formulare una domanda, mamma Rollet aveva detto:

"Da lei non c'è nessuno".

"Come?"

"Oh! Nessuno! E suo marito piange. La chiama. La stanno cercando."

Emma non rispose nulla. Ansimava e girava gli occhi intorno a sé, tanto che la contadina, spaventata dal suo aspetto, indietreggiò d'istinto, credendola impazzita. D'improvviso Emma si batté la fronte, gettò un grido: il ricordo di Rodolphe, come un gran lampo in una notte oscura, le aveva attraversato la mente. Era così buono, così delicato, così generoso. E d'altronde, se avesse esitato a renderle questo favore, lei avrebbe saputo come costringervelo, ricordandogli con un solo sguardo il loro amore perduto. Si avviò quindi verso la Huchette, senza rendersi conto che correva a offrirsi a chi l'aveva, un tempo, tanto esasperata, senza rendersi conto neppure lontanamente di questa prostituzione.

VIII

Si domandava, camminando: "Che cosa gli dirò? Da dove potrò cominciare?" E, avvicinandosi alla meta, riconosceva i cespugli, gli alberi, i giunchi sulla collina, e, laggiù, il castello. Si ritrovò nello stato d'animo di quella prima tenerezza, e il suo povero cuore oppresso si dilatava in questa sensazione, pervaso d'amore. Un vento tiepido le soffiava sul viso, la neve si scioglieva, cadeva a goccia a goccia dalle gemme sull'erba.

Entrò, com'era solita fare, dalla porticina del parco, poi giunse nella corte d'onore, circondata da una doppia fila di tigli rigogliosi. I lunghi rami dondolavano sibilando. I cani del canile si misero tutti ad abbaiare e lo scoppio dei loro latrati echeggiò senza che comparisse nessuno.

Emma salì lo scalone diritto, con la balaustrata di legno, che conduceva al corridoio pavimentato da lastre polverose sul quale si aprivano molte camere in fila, come nei monasteri e negli alberghi.

Quella di Rodolphe si trovava a un'estremità, a sinistra, in fondo. Quando posò la mano sulla maniglia le forze d'improvviso l'abbandonarono. Temette che Rodolphe non ci fosse, quasi se lo augurava, e tuttavia era la sua sola speranza, l'ultima possibilità di salvezza. Si concentrò un istante, e, rinfrancando il proprio coraggio nella consapevolezza dell'attuale necessità, entrò.

Rodolphe stava davanti al fuoco, con i piedi sul gradino del caminetto, fumando la pipa.

"Ma guarda! Lei qui!" disse alzandosi in fretta.

"Sì, io!... Rodolphe, vorrei chiederle un consiglio."

Ma, a dispetto di ogni sforzo, non le riusciva di aprir bocca.

"Non è cambiata per nulla. È affascinante come sempre!" "Oh!" osservò lei amaramente "sono ben poveri fascini, dal momento che lei li ha disdegnati."

Rodolphe cominciò a spiegare le ragioni del suo comportamento, scusandosi in termini vaghi, nell'impossibilità di trovare di meglio.

Emma si abbandonò alla lusinga delle sue parole, e, più ancora, alla sua voce e alla vista della sua persona, tanto che mostrò di credere o credette davvero al pretesto della loro rottura: si trattava di mantenere un segreto da cui dipendeva l'onore e la vita stessa di una terza persona.

"Non importa," disse, guardandolo con tristezza "ho sofferto abbastanza."

Rodolphe rispose filosoficamente:

"Così è la vita!"

"È stata almeno buona per lei," continuò Emma "dopo la nostra separazione?"

"Oh! Né buona né cattiva."

"Forse avremmo fatto meglio a non lasciarci."

"Sì... forse!"

"Lo credi davvero?" domandò lei, avvicinandoglisi.

Sospirò:

"Oh Rodolphe! Se sapessi... ti ho amato moltissimo!"

A questo punto gli prese una mano e rimasero così, per qualche minuto con le dita intrecciate, come il primo giorno alle Assemblee.

Per orgoglio, Rodolphe cercava di sottrarsi alla tenerezza, ma Emma, abbandonandosi sul suo petto, gli disse:

"Come hai potuto credere che riuscissi a vivere senza di te? Non si può perdere l'abitudine alla felicità. Ero disperata. Credevo di morire. Ti racconterò tutto, vedrai. E tu, tu mi hai sfuggita!..."

Da tre anni, infatti, Rodolphe puntigliosamente la evitava, a causa di quella vigliaccheria naturale che caratterizza il sesso forte; Emma continuava, con mosse graziose del capo, più carezzevole di una gattina innamorata:

"Ami altre donne, confessalo. Le capisco, sai? E le scuso; tu le avrai sedotte, come hai sedotto me. Sei un uomo, tu, possiedi tutto ciò che è necessario per farti amare. Ma noi ricominceremo, vero? Ci ameremo! Ecco, vedi? Rido, sono felice!... Di' qualcosa!"

Era deliziosa, con quello sguardo in cui tremava una lacrima, come l'acqua di un temporale in un calice azzurro.

Rodolphe l'attirò sulle ginocchia, le accarezzò con il dorso della mano i capelli lisci, sui quali, nel chiarore del crepuscolo, brillava come una freccia d'oro un ultimo raggio di sole. Emma teneva la fronte bassa. Rodolphe finì per sfiorarle con le labbra le palpebre in un lieve bacio.

"Ma tu hai pianto!" disse "Perché?"

Emma scoppiò in singhiozzi. Rodolphe interpretò questa commozione come l'esplosione del suo amore. Ella taceva; il suo silenzio gli parve un'ultima manifestazione di pudore e allora esclamò:

"Perdonami! Sei la sola che mi piaccia, sono stato imbecille e cattivo. Ti amo e ti amerò sempre. Cosa ti turba? Dimmelo!"

Si inginocchiò davanti a lei.

"Ebbene... sono rovinata Rodolphe! Mi dovresti prestare tremila franchi!"

"Ma... Ma..." disse lui rialzandosi adagio, mentre la sua fisionomia assumeva un'espressione grave.

"Devi sapere" continuò Emma in fretta "che mio marito ha messo tutte le sostanze nelle mani di un notaio; questi è fuggito. Abbiamo fatto debiti, i clienti non pagavano. Del resto la liquidazione non è finita, in seguito avremo del denaro. Ma oggi ci fanno un sequestro per tremila franchi; sta accadendo adesso, in questo stesso momento e, contando sulla tua amicizia, sono venuta da te..."

"Ah!" pensò Rodolphe, diventando d'improvviso molto pallido "è venuta per questo?"

Alla fine disse, con un'aria molto calma:

"Non li ho, cara signora".

Non mentiva. Se li avesse avuti, glieli avrebbe dati di certo, benché sia sempre poco piacevole compiere questi bei gesti: una richiesta di denaro, fra tutte le tempeste che si possono abbattere sull'amore, è la più gelida e la più distruttiva.

Emma rimase a guardarlo per qualche istante.

"Non li hai?"

Ripeté più volte.

"Non li hai! Avrei potuto risparmiarmi quest'ultima umiliazione. Tu non mi hai mai amata. Non sei meglio degli altri!"

Si tradiva, si stava perdendo.

Rodolphe l'interruppe, asserendo di trovarsi in difficoltà.

"Ti compiango!" disse Emma "Sì, moltissimo!"

E, fermando lo sguardo su una carabina damaschinata che brillava in mezzo a una panoplia:

"Ma quando si è così poveri, non si possiede un fucile con il calcio niellato d'argento! Non si compera una pendola incrostata di tartaruga!" continuò, additando l'orologio di Boulle "Né fischietti d'argento dorato per le fruste" e li toccò "né ciondoli per l'orologio! Oh! Non ti fai proprio mancare nulla, perfino un portaliquori in camera, perché ti vuoi bene vivi in mezzo agli agi, hai un castello, fattorie, boschi! Partecipi alle cacce alla volpe, te ne vai a Parigi! Eh! Anche se non si trattasse d'altro che di questo," gridò, prendendo sul caminetto i gemelli dei polsini "anche solo da queste cianfrusaglie, si potrebbe ricavare del denaro!... Oh! Non le voglio! Tientele."

E scagliò lontano i gemelli, contro la parete, ove la catenella d'oro si ruppe nell'urto.

"Io ti avrei dato tutto, avrei venduto tutto, avrei lavorato con le mie stesse mani, avrei chiesto l'elemosina su tutte le strade, per un sorriso, per uno sguardo, per sentirmi dire 'grazie' da te. E tu, te ne stai lì tranquillamente, seduto in poltrona, come se già non mi avessi fatto soffrire abbastanza. Senza di te, lo sai bene, avrei potuto vivere felice! Chi ti ha costretto? Avevi fatto una scommessa? Ma tu mi amavi, dicevi... E anche adesso, ancora... Sarebbe stato meglio che tu mi avessi scacciata! Ho le mani calde dei tuoi baci, ecco qui il punto del tappeto ove tu giuravi, in ginocchio davanti a me, un eterno amore. Tu mi ci hai fatto credere, mi hai trascinata per due anni nei sogni più sublimi e soavi!... Vero? I progetti per il nostro viaggio, ricordi? Oh! la tua lettera, la tua lettera! Mi ha straziato il cuore! E poi, quando torno da lui, lui che è ricco, felice, libero, per implorare un aiuto che il primo venuto mi darebbe, supplicandolo, donandogli tutta la mia tenerezza, mi respinge, perché questo gli costerebbe tremila franchi!"

"Non li ho!" rispose Rodolphe con quella perfetta calma che riveste come una corazza la collera rassegnata.

Emma se ne andò. I muri vacillavano, il soffitto la opprimeva, percorse di nuovo il lungo viale, inciampando fra i mucchi di foglie che il vento disperdeva. Giunse infine al cancello vicino al fossato. Si ruppe le unghie con il chiavistello nella fretta di aprirlo. Poi, fatti cento passi, ansimante, prossima a cadere, si fermò. E, voltandosi, scorse ancora una volta il castello, impassibile, con il parco, i giardini, i tre cortili e le finestre della facciata.

Rimase perduta nel suo stupore, cosciente di sé soltanto per il battito delle arterie; lo udiva come una musica assordante che riempisse tutta la campagna. Il terreno sotto i piedi era più molle di un'onda, e i solchi le parevano immensi flutti bruni che si frangessero. Tutto quello che esisteva nella sua mente, le reminiscenze, le idee, svaniva tutto in una volta, di colpo, come le mille luci di un fuoco d'artificio. Vide suo padre, l'ufficio di Lheureux, la loro camera laggiù, un altro paesaggio. La follia si impadroniva di lei, ebbe paura, e riuscì allora a riprendersi, in maniera confusa però, perché aveva dimenticato il motivo delle condizioni orribili in cui si trovava, e cioè tutte le questioni di interesse. Ora soffriva solamente per il suo amore, e sentiva l'anima abbandonarla attraverso quel ricordo, come i feriti in agonia sentono la vita sfuggire attraverso la piaga sanguinante.

Scendeva la notte, e le cornacchie si alzavano in volo.

A un tratto parve a Emma che piccole sfere di fuoco scoppiassero nell'aria, come pallottole esplosive appiattendosi, e girassero, girassero per andare a fondersi nella neve, fra i rami degli alberi. Al centro di ciascuna di esse appariva il volto di Rodolphe. Si moltiplicavano, le si avvicinavano, penetravano in lei, e tutto scomparve. Riconobbe le luci delle case che brillavano lontane in mezzo alla nebbia.

Allora la situazione le si presentò chiara, come un abisso spalancato. Ansimava così forte che sembrava dovesse spaccarlesi il petto. Poi, con uno slancio d'eroismo che la rese quasi felice, corse per la discesa, attraversò la passerella del bestiame, il sentiero, il viale, il mercato e arrivò davanti alla bottega del farmacista.

Non c'era nessuno. Stava per entrare, ma al suono del campanello sarebbe arrivato qualcuno. Scivolò attraverso il cancello, allora, trattenendo gli ansiti, a tentoni lungo il muro, procedette fino alla porta della cucina nella quale ardeva una candela posta sui fornelli. Justin, in maniche di camicia, reggeva un piatto.

"Ah! Stanno cenando. Aspettiamo."

Justin tornò. Emma bussò al vetro. Il ragazzo uscì.

"La chiave! Quella del solaio, dove ci sono..."

"Come!"

E la guardava, sbigottito dal pallore del viso di lei, che spiccava bianco sullo sfondo nero della notte. Gli parve straordinariamente bella, senza capire quello che Emma desiderava, aveva il presentimento di qualcosa di terribile.

Ma la signora Bovary riprese a parlare in fretta, con la voce bassa, con un tono dolce e struggente:

"La voglio! Dammela!"

Poiché la parete era sottile, si udiva il tintinnio delle forchette sui piatti nella stanza da pranzo.

Emma voleva far credere di voler uccidere i topi che non la lasciavano dormire.

"Bisogna che avverta il signor Homais."

"No, resta qui!"

Poi soggiunse, con aria indifferente:

"Eh! Non ne vale la pena, glielo dirò io fra poco. Andiamo, fammi lume!"

Entrò nel corridoio cui si apriva la porta del laboratorio. V'era, appesa al muro, una chiave con l'indicazione Cafarnao.

"Justin!" gridò il farmacista spazientito.

"Andiamo di sopra!"

E lui la seguì.

La chiave girò nella serratura, ed Emma andò diritta al terzo scaffale, tanto rammentava bene, afferrò il boccale blu, gli strappò il tappo, vi ficcò la mano e, ritirandola piena di una polvere bianca, prese a mangiarla.

"Si fermi!" gridò il ragazzo gettandosi su di lei.

"Taci! Verrà qualcuno..."

Justin si disperava, voleva chiamare aiuto.

"Non dire nulla, tutta la colpa ricadrebbe sul tuo padrone!"

Poi tornò subito calma, quasi nella serenità di un dovere compiuto.

Quando Charles, sconvolto per la notizia del sequestro, era rientrato a casa, Emma stava uscendosene. Egli gridò, pianse, svenne, ma lei non tornava. Dove poteva essere andata? Mandò Félicité da Homais, da Tuvache, da Lheureux, al Leon d'Oro, dappertutto; e, negli intervalli di lucidità dell'angoscia, vedeva la sua buona reputazione distrutta, i loro beni perduti, l'avvenire di Berthe infranto. Per che cosa?. non una parola! Aspettò fino alle sei di sera. Alla fine, non potendo più trattenersi e immaginando che Emma fosse partita per Rouen, andò sulla strada maestra, percorse una mezza lega senza incontrare nessuno, aspettò ancora e poi rientrò.

Emma era tornata.

"Che cosa è accaduto?... Perché?... Spiegami!."

Emma sedette allo scrittoio e scrisse una lettera che sigillò adagio, aggiungendo la data e l'ora. Poi disse in tono solenne:

"La leggerai domani; fino ad allora, ti prego, non mi fare domande!... No, nemmeno una!"

"Ma..."

"Oh! Lasciami in pace! ,

Si distese sul letto.

Un sapore acre in bocca la svegliò. Intravide Charles e richiuse gli occhi.

Spiava le proprie sensazioni per rendersi conto se cominciasse a star male. Ma no, non ancora. Sentiva il ticchettio della pendola, il rumore del fuoco e Charles, in piedi al suo capezzale, che respirava.

"Ah! È una cosa ben da poco la morte" pensava. "Dormirò e tutto sarà finito!"

Bevve un sorso d'acqua, e si voltò verso il muro. Quell'orribile sapore di inchiostro continuava.

"Ho sete!. Oh! Ho una sete terribile!" sospirò.

"Ma che cos'hai, insomma?" disse Charles, porgendole un bicchiere d'acqua.

"Non è nulla!. Apri la finestra. Soffoco!"

E fu afferrata dalla nausea così d'improvviso che ebbe appena il tempo di prendere il fazzoletto sotto il cuscino.

"Portalo via!" disse con vivacità "Buttalo!"

Charles le fece domande alle quali Emma non rispose. Rimaneva immobile, temendo che la più piccola emozione la facesse vomitare. Sentiva però un freddo di gelo salirle dai piedi fino al cuore.

"Ah! Ecco che comincia!" mormorò.

"Che dici?"

Voltò la testa con un movimento lento, pieno di angoscia, aprendo e chiudendo di continuo la bocca come se avesse avuto sulla lingua qualcosa di molto pesante. Alle otto, i conati di vomito ricominciarono.

Charles osservò sul fondo della bacinella qualcosa di simile a granelli bianchi attaccati alle pareti di porcellana.

"È straordinario! È una cosa stranissima!" ripeteva.

Ma Emma disse ad alta voce:

"No, ti sbagli!"

Allora, delicatamente, quasi la carezzasse, Charles le passò una mano sullo stomaco. Emma gettò un grido acuto. Charles si tirò indietro spaventato.

Poi la signora Bovary si mise a gemere, dapprima debolmente. Grandi brividi le scotevano le spalle e diventava più pallida del lenzuolo nel quale affondava le dita contratte. Il polso, aritmico, era quasi impercettibile, adesso.

Gocce di sudore gemevano dal viso cianotico che sembrava quasi irrigidito nell'esalazione di un vapore metallico. I denti battevano, gli occhi dilatati guardavano vagamente tutto intorno e a ogni domanda Emma rispondeva scotendo il capo; sorrise addirittura una o due volte. A poco a poco i gemiti si fecero più forti. Un urlo soffocato e continuo le sfuggiva; voleva far credere di stare meglio e che ben presto si sarebbe alzata ma le presero le convulsioni, gridava:

"Ah! È atroce, mio Dio!"

Charles si gettò in ginocchio contro il letto.

"Parla! Cos'hai mangiato? Rispondi, in nome del cielo!"

E la guardava con una tenerezza negli occhi, una tenerezza che Emma non vi aveva mai veduto.

"Ebbene, là. là." disse lei con voce spenta.

Charles balzò verso lo scrittoio, ruppe il sigillo e lesse a voce alta: "Non si accusi nessuno..." Si interruppe, si passò una mano sugli occhi, e rilesse di nuovo.

"Come! Aiuto! Accorrete!"

E riuscì soltanto a ripetere queste parole: "Avvelenata, avvelenata!" Félicité corse da Homais, che lo gridò sulla piazza; la signora Lefrançois lo sentì al Leon d'Oro; qualcuno si alzò dal letto per farlo sapere al vicino, e per tutta la notte il villaggio vegliò.

Fuori di sé, balbettante, prossimo a crollare, Charles passeggiava nella camera. Urtava i mobili, si strappava i capelli, e mai il farmacista avrebbe creduto di poter assistere a un così spaventevole spettacolo. Tornò a casa per scrivere al signor Canivet e al dottor Larivière. Perse la testa. Fece più di quindici bozze. Hippolyte andò a Neufchâtel e Justin spronò tanto il cavallo di Bovary da essere costretto a lasciarlo sulla salita del Bois-Guillaume sfiancato e mezzo morto.

Charles volle sfogliare la propria enciclopedia medica; non riusciva a leggere nulla, le righe gli ballavano dinanzi agli occhi.

"Calma" disse lo speziale. "Basterà somministrarle qualche potente antidoto. Qual è il veleno?"

Charles gli mostrò la lettera. Si trattava di arsenico.

"Bene," continuò Homais "sarà necessario fare l'analisi."

Infatti sapeva che in tutti i casi di avvelenamento, era necessario fare un'analisi; e l'altro, che non capiva più niente:

"Ah! La faccia! La faccia! La salvi!"

Poi, tornato accanto alla moglie, si lasciò cadere sul tappeto e restò con il capo appoggiato contro la sponda del letto a singhiozzare.

"Non piangere" gli disse Emma. "Presto non ti tormenterò più!"

"Perché? Perché hai fatto una cosa simile?"

Emma rispose:

"Non potevo evitarlo, amico mio".

"Non eri felice? È mia la colpa? Ho fatto tutto quel che potevo, però!"

"Sì... è vero... sei buono, tu!"

E gli passava la mano sui capelli, lentamente. La dolcezza di questa sensazione aumentava la sua tristezza; Charles sentiva tutto il proprio essere crollare sotto la disperazione al pensiero che l'avrebbe perduta proprio quando, come non era mai accaduto, Emma manifestava per lui un amore più grande che mai. E non riusciva a trovare niente che avrebbe potuto giovarle, non sapeva cosa fare, non osava; l'urgenza di una decisione immediata completava il suo disorientamento.

Emma pensava che ormai aveva finito con i tradimenti, le bassezze, le innominabili bramosie dalle quali era torturata. Non odiava più nessuno adesso, una confusione crepuscolare avvolgeva la sua mente, e, di tutto il chiasso terreno, non sentiva che l'intermittente lamento di quel povero cuore, dolce e indistinto, come l'estrema eco di una sinfonia che svanisce.

"Portatemi la piccola" disse, sollevandosi su un gomito.

"Non ti senti peggio, vero?" domandò Charles.

"No, no!"

La bimba arrivò in braccio alla domestica nella lunga camicina da notte dalla quale uscivano i piedini nudi, seria, e ancora mezzo addormentata. Guardò con stupore la camera in disordine, strizzando gli occhi, abbagliata dalla luce delle candele che ardevano sui mobili. Tutto ciò le rammentava certo il capodanno, o il carnevalino, quando, così risvegliata di buon'ora, alla luce dei candelieri, veniva nel letto della mamma per ricevere i regali, tanto che domandò:

"Dove sono, mamma?"

E poi, siccome tutti tacevano, disse:

"Ma non vedo la mia scarpina!"

Félicité la teneva chinata verso il letto, ma la bimba guardava sempre dalla parte del caminetto.

"È stata la balia a prenderla?" domandò.

E, udendo questo nome che la riportava al ricordo degli adulteri e delle calamità, la signora Bovary voltò la testa come per il disgusto suscitato da un veleno più forte che le salisse alla gola. Intanto Berthe rimaneva seduta sul letto.

"Oh! Che occhi grandi hai, mamma! Come sei pallida! Come sudi!..."

La madre la guardava.

"Ho paura!" disse la piccola tirandosi indietro.

Emma le prese la mano per baciarla, la bimba si dibatteva.

"Basta! Portatela via!" esclamò Charles, che singhiozzava nell'alcova.

Poi i sintomi diedero un po' di tregua alla morente; Emma parve meno agitata, e, a ogni sospiro del suo petto, un poco più calmo, a ogni parola insignificante, si rinnovava in lui la speranza. Infine, quando entrò Canivet, Charles si gettò nelle sue braccia piangendo.

"Ah! È lei! Grazie! È stato buono a venire. Ma mi pare vada meglio. Ecco, la guardi..."

Il collega non fu affatto di questa opinione e, senza scegliere vie traverse, prescrisse dell'emetico per liberare del tutto lo stomaco.

Ben presto Emma vomitò sangue. Le labbra le si serrarono di più, aveva le membra contratte, il corpo coperto di macchie scure, il polso scivolava sotto le dita come un filo teso, come una corda d'arpa che stia per rompersi.

Poi ella cominciò a urlare orribilmente. Malediceva il veleno, gli lanciava invettive, lo supplicava di far presto e respingeva con le braccia tese tutto quello che il marito, più in agonia di lei, si sforzava di farle bere. Charles rimaneva in piedi, con il fazzoletto premuto sulle labbra, rantolante, piangente, soffocato dai singhiozzi che lo scotevano fino ai talloni; Félicité correva di qua e di là per la stanza. Homais, immobile, emetteva grossi sospiri e Canivet cercava di mantenere la sicurezza di sé, ma cominciava a sentirsi turbato.

"Diavolo!... eppure... si è purgata, e dal momento che la causa cessa..."

"Dovrebbe cessare anche l'effetto;" disse Homais "è evidente."

"Ma salvatela!" gridava Bovary.

Così, senza dar retta al farmacista che azzardava ancora questa ipotesi: "Forse si tratta della crisi che risolve felicemente la cosa", Canivet stava per somministrarle della triaca, quando si sentì schioccare una frusta, i vetri tremarono e una vettura postale, trainata a tutta velocità da tre cavalli infangati fino agli orecchi, sbucò all'improvviso all'angolo del mercato. Era il dottor Larivière.

L'apparizione di un dio non avrebbe potuto provocare più viva impressione. Bovary levò le mani al cielo, Canivet si fermò subito e Homais si tolse la papalina molto prima che il dottore fosse entrato nella stanza.

Questi apparteneva alla grande scuola chirurgica uscita di sotto il camice di Bichat, a quella generazione ormai scomparsa di professionisti filosofi che, venerando la propria arte con un amore fanatico, l'esercitavano con passione e sagacia. Tutti tremavano nella clinica quando Larivière andava in collera; il dottore era tanto stimato dagli allievi, che essi si sforzavano di imitarlo il più possibile non appena abilitati alla professione. Per conseguenza, si rivedeva addosso a loro, nelle città vicine, il lungo soprabito imbottito di lana e l'ampia finanziera nera con i polsi sbottonati che, nel caso del signor Larivière, coprivano un poco le mani carnose, mani forti e belle, sempre senza guanti, quasi a voler essere più pronte a immergersi nelle miserie. Il dottore disdegnava croci, titoli e accademie, era ospitale, liberale e paterno con i poveri, praticava la virtù senza credervi, e sarebbe potuto passare per santo se l'acutezza del suo spirito non lo avesse fatto temere come un demonio. Lo sguardo di lui, più tagliente del suo bisturi, scendeva in fondo all'anima e scardinava ogni menzogna, attraverso pretesti e pudori. Ed egli procedeva così, nella vita, pieno di quella maestà bonaria conferita dalla consapevolezza di un notevole talento, dalla ricchezza e da quarant'anni di una vita laboriosa e irreprensibile.

Larivière aggrottò le sopracciglia fin da quando arrivò sulla soglia e scorse l'aspetto cadaverico di Emma distesa sul dorso, con la bocca aperta. Poi, con l'aria di ascoltare Canivet, si passò l'indice sotto le narici ripetendo: "Bene, bene".

Si strinse lentamente nelle spalle; Bovary lo stava osservando. Si guardarono, e quell'uomo, pur così abituato all'aspetto del dolore, non poté trattenere una lacrima che gli cadde sulla cravatta bianca.

Volle appartarsi con Canivet nella stanza vicina. Charles li seguì.

"Sta molto male, vero? Se le facessimo dei senapismi? Non so, qualcosa! Trovi qualcosa, lei che ne ha salvato tanti!"

Charles lo abbracciava e lo contemplava sgomento, supplice, quasi in deliquio contro il suo petto.

"Andiamo, povero figliolo, coraggio! Non c'è più niente da fare."

E il dottor Larivière si scostò.

"Se ne va?"

"Tornerò più tardi."

Uscì, come per dare ordini al cocchiere, insieme con il signor Canivet che non aveva nessuna voglia di vedersi morire Emma fra le mani.

Il farmacista li raggiunse sulla piazza. Non poteva, dato il suo carattere, star lontano dalle autorità. Così scongiurò il dottor Larivière di volergli fare il grandissimo onore di accettare il suo invito a pranzo.

Mandò subito a prendere dei piccioni al Leon d'Oro, tutte le costolette esistenti in macelleria, panna dai Tuvache, uova da Lestiboudois, ed egli stesso diede una mano nei preparativi, mentre la signora Homais diceva, tirando i cordoncini della camicetta:

"Voglia scusarci, signore, ma, nel nostro disgraziato paese, quando non si ha un preavviso almeno dal giorno prima..."

"I bicchieri a calice!" sussurrava Homais.

"Almeno, se fossimo stati in città, ci sarebbe stata la risorsa degli zampetti farciti."

"Taci!... A tavola, dottore!"

Il farmacista pensò bene, appena cominciato il pasto, di dare qualche particolare sulla catastrofe.

"La paziente ha accusato dapprima una grande arsura alla faringe, poi dolori insopportabili all'epigastrio, diarrea violenta e coma."

"Ma come ha fatto ad avvelenarsi?"

"Lo ignoro, dottore, e addirittura non so dove abbia potuto procurarsi quell'arsenico."

Justin, che stava portando una pila di piatti, fu assalito da un tremito.

"Che hai?" disse il farmacista.

Il ragazzo, a questa domanda, lasciò cadere tutto per terra, con un gran fracasso.

"Imbecille," gridò Homais "inetto, maldestro, sventato, asino."

Ma subito si padroneggiò:

"Ho voluto, dottore, tentare un'analisi, e anzitutto ho delicatamente introdotto in un tubo..."

"Sarebbe stato molto meglio" disse il chirurgo "introdurle due dita in gola."

Il collega taceva, avendo ricevuto poco prima, in privato, una bella lavata di capo a proposito dell'emetico, per cui questo Canivet, così arrogante e verboso la volta del piede zoppo, sembrava adesso assai modesto. Sorrideva di continuo con aria di approvazione.

Homais si sentiva tutto tronfio a causa del suo ruolo di anfitrione e il rattristante pensiero di Bovary contribuiva vagamente al suo piacere per una rivalsa egoistica che avvantaggiava lui stesso.

La presenza del medico era trascinante per il farmacista. Ostentò la propria erudizione, citò a caso le cantaridi, l'upas, il manzanillo, la vipera...

"E ho perfino letto, dottore, che molte persone si sono intossicate, come fulminate, a causa di sanguinacci che avevano subito una troppo energica affumicatura. Almeno, era un gran bell'articolo, redatto da una delle nostre menti più elette in campo farmaceutico, un vero maestro, l'illustre Cadet de Gassicourt!"

La signora Homais riapparve portando una di quelle traballanti macchine che funzionano con l'alcool etilico, poiché Homais ci teneva a preparare il caffè in tavola, dopo averlo in precedenza torrefatto, polverizzato, e miscelato personalmente.

"Saccharum, dottore" disse, offrendo lo zucchero.

Poi fece scendere tutti i suoi figli, ansioso di avere il parere di un chirurgo sulla loro costituzione.

Infine il dottor Larivière stava per andarsene, quando la signora Homais lo pregò di visitare il marito. Si stava appesantendo con la sua abitudine di dormire ogni sera subito dopo cena.

"Oh! Non è certo questo a farlo divenire pesante!"

E, sorridendo fra sé di questo improvvisato gioco di parole, il dottore aprì la porta. Ma la farmacia era piena di gente, e Larivière fece una gran fatica per riuscire a liberarsi del signor Tuvache, il quale temeva una flussione di petto per la moglie che aveva il vizio di sputare nella cenere, poi del signor Binet, assalito ogni tanto da una improvvisa voracità, e della signora Caron che soffriva di pruriti, e di Lheureux affetto da capogiri, e di Lestiboudois, che accusava reumatismi, e della signora Lefrançois, tormentata dall'acidità. Finalmente i tre cavalli partirono, e quasi tutti si trovarono d'accordo nel sottolineare la mancanza di compiacenza da parte di questo medico illustre.

L'attenzione pubblica fu distratta quando apparve don Bournisien, che passava sotto la tettoia del mercato recando l'olio santo.

Homais, attenendosi ai propri principi, paragonò i preti a corvi, attirati dall'odore dei morti; la vista di un sacerdote gli era personalmente poco simpatica, perché la tonaca gli ricordava il sudario, ed egli aborriva l'uno per il terrore dell'altro.

Ciò nonostante, non si tirò indietro davanti a quella che chiamava la sua missione e tornò dai Bovary in compagnia di Canivet, che il dottor Larivière, prima di partire, aveva vivamente esortato affinché rivedesse l'ammalata; e il signor Homais, se non fosse stato per le proteste di sua moglie, avrebbe condotto con sé i due figli; riteneva infatti che tutto ciò sarebbe potuto servire di lezione, di esempio, e sarebbe stato uno spettacolo solenne e indimenticabile.

La camera, quando vi entrarono, era colma di una lugubre solennità. Sul tavolino da lavoro, coperto da un tovagliolo bianco, si trovavano cinque o sei batuffoli di cotone in un piatto d'argento vicino a un grosso crocifisso fra due candele accese. Emma, con il mento sul petto, apriva smisuratamente gli occhi, e le sue povere mani si trascinavano sulle lenzuola, con quel gesto orribile e dolce degli agonizzanti che sembra già vogliano coprirsi con il sudario. Pallido come una statua, con gli occhi rossi come carboni, senza piangere, Charles stava di fronte a lei ai piedi del letto, mentre il prete, con un ginocchio appoggiato a terra, mormorava preghiere a voce bassa.

Emma voltò lentamente il capo e parve felice di vedere d'improvviso la stola violetta; certo ritrovava, nella sua straordinaria serenità, la perduta voluttà dei primi slanci mistici, accompagnati da visioni di eterna beatitudine prossime a ricominciare.

Il sacerdote si alzò per prendere il crocifisso; allora Emma protese il collo come un assetato e, appoggiando le labbra sul corpo dell'Uomo-Dio, vi posò con tutte le forze che ancora le rimanevano il più appassionato bacio d'amore che mai avesse dato. Poi il prete recitò il Misereatur e l'Indulgentiam, immerse il pollice nell'olio e cominciò l'unzione: prima sugli occhi, che avevano tanto bramato i lussi e gli splendori terreni, poi sulle narici, desiderose di aspirare tepide brezze e sentori amorosi, quindi sulla bocca che si era aperta per pronunciare menzogne, e aveva emesso gemiti d'orgoglio e grida di lussuria, e ancora sulle mani che si dilettavano ai soavi contatti, infine sulle piante dei piedi, un tempo così rapidi quando correvano verso l'appagamento del desiderio e che ormai non avrebbero più camminato.

Il curato si asciugò le dita, gettò sul fuoco i batuffoli di cotone intrisi d'olio e tornò a sedersi vicino alla moribonda per dirle che adesso doveva unire le sue sofferenze a quelle di Gesù Cristo e abbandonarsi alla misericordia divina.

Ultimando le esortazioni, cercò di mettere nella mano di Emma un cero benedetto, simbolo delle glorie celesti che ben presto l'avrebbero circonfusa. Emma, ormai troppo debole, non poté stringere le dita e il cero, senza l'aiuto di don Bournisien, sarebbe caduto a terra.

Intanto Emma non era più così pallida, e il suo viso aveva un'espressione di serenità come se il Sacramento l'avesse guarita.

Il prete non mancò di farlo notare e spiegò anche a Bovary che il Signore prolunga talora l'esistenza delle persone, quando lo giudica conveniente per la loro salvezza; e Charles ricordò il giorno in cui, quando ella si era sentita così vicina a morire, aveva ricevuto la comunione.

"Forse c'è ancora una speranza" pensava.

Infatti Emma si guardava intorno, lentamente, come chi si svegli da un sogno; poi, con voce chiara, chiese lo specchio e vi rimase chinata sopra per qualche tempo, finché grosse lacrime le scesero dagli occhi. Allora rovesciò il capo con un profondo sospiro e ricadde sul guanciale.

Il petto cominciò subito a sollevarlesi in rapidi ansiti. Le uscì di bocca la lingua tutta intera, gli occhi arrovesciati si spensero come i globi di una lampada che non arde più, e si sarebbe potuto crederla già morta se non fosse stato per il respiro accelerato che le scoteva il torace con un furioso ansimare, come se l'anima dovesse fare uno sforzo per distaccarsi. Félicité si inginocchiò davanti al crocifisso e perfino il farmacista fletté un poco le ginocchia, mentre il signor Canivet guardava vagamente la piazza. Don Bournisien si era rimesso a pregare, il viso chinato contro la sponda del letto, e la lunga tonaca nera che scendeva dietro di lui sul pavimento. Charles stava dall'altra parte, in ginocchio, con le braccia tese verso Emma. Le aveva preso le mani e le stringeva, trasalendo a ogni battito del cuore come al contraccolpo di una frana che precipiti. A mano a mano che il rantolo diveniva più forte, il sacerdote recitava precipitosamente le orazioni: queste si mescolavano ai singhiozzi soffocati di Bovary e, di tanto in tanto, tutto sembrava scomparire nel sordo mormorio delle sillabe latine simili ai rintocchi funebri di una campana.

D'improvviso si sentì sul marciapiede il rumore di un paio di grossi zoccoli, insieme con il battere di un bastone, e si levò una voce, una voce rauca che cantava:

Assai spesso d'un bel giorno il tepore

Fa sognar le fanciulle d'amore.

Emma si sollevò come un cadavere percorso dalla corrente elettrica, i capelli sciolti, gli occhi fissi, la bocca aperta.

Per raccogliere in maniera accurata
Le spighe che la falce ha tagliate
La mia Nanette se ne sta chinata
Sopra i solchi che le hanno nutrite.

"Il cieco!" gridò la morente.

E si mise a ridere, di un riso atroce, frenetico, disperato, credendo di vedere il viso orrendo del miserabile ergersi nelle tenebre eterne come la personificazione del terrore stesso.

Il vento soffiava forte quel giorno

E le gonne corte si alzavan tutto intorno.

Una convulsione l'abbatté sul letto, tutti le si fecero vicini. Emma aveva cessato di esistere.

IX

Dopo la morte di un essere umano, si sprigiona sempre un senso di stupore tanto è difficile capacitarsi di questo sopravvenire del nulla e rassegnarsi a credervi. Quando Charles si accorse dell'immobilità di Emma, si gettò su di lei gridando:

"Addio! Addio!"

Homais e Canivet lo trascinarono fuori della stanza.

"Si calmi!"

"Sì," diceva lui dibattendosi "sarò ragionevole, non farò niente di male. Ma lasciatemi! Voglio vederla! È mia moglie!"

E piangeva.

"Pianga," disse il farmacista "si sfoghi, questo l'aiuterà!"

Divenuto più debole di un fanciullo, Charles si lasciò condurre dabbasso, nel salotto, e il signor Homais ben presto se ne andò a casa.

Sulla piazza gli si avvicinò il cieco che si era trascinato fino a Yonville fiducioso nella pomata antiflogistica, domandando a ogni passante dove abitasse lo speziale.

"Andiamo bene! Come se non avessi nient'altro da fare! Peggio per te, torna più tardi!"

E Homais entrò precipitosamente in farmacia.

Doveva scrivere due lettere, preparare una pozione calmante per Bovary, studiare una bugia per nascondere l'avvelenamento e redigere un articolo per il Faro di Rouen, senza contare le persone che lo aspettavano per avere notizie; quando tutti gli abitanti di Yonville ebbero ascoltato la storia dell'arsenico che la signora Bovary aveva scambiato per zucchero, preparando una crema alla vaniglia, Homais tornò di nuovo da Bovary.

Lo trovò solo (il signor Canivet se n'era andato), seduto nella poltrona vicino alla finestra, che contemplava con uno sguardo inebetito il pavimento della stanza.

"Bisognerà adesso" disse il farmacista "che lei stesso fissi l'ora per la cerimonia."

"Perché? Quale cerimonia?"

Poi, con voce balbettante, sbigottita:

"Oh! No, vero? No, voglio tenerla qui".

Homais, per darsi un contegno, prese una bottiglia sulla credenza e si mise a innaffiare i gerani.

"Ah! Grazie," disse Charles. "Com'è buono lei!"

E non terminò, soffocato sotto un cumulo di ricordi che il gesto del farmacista aveva fatto affiorare.

Allora, per distrarlo, Homais ritenne opportuno parlare un po' di giardinaggio; le piante avevano bisogno di umidità. Charles abbassò la testa in segno di approvazione.

"Del resto sta per tornare la bella stagione."

"Ah!" fece Bovary.

Lo speziale, a corto di idee, scostò un poco le tendine della finestra.

"Guarda, ecco il signor Tuvache che sta passando."

Charles ripeté, come un automa:

"Il signor Tuvache sta passando".

Homais non ebbe il coraggio di accennare ancora alle disposizioni funebri; riuscì invece il sacerdote a convincere Charles.

Questi si chiuse nello studio, prese una penna, e, dopo aver singhiozzato per un po', scrisse:

Voglio che sia sepolta con l'abito da sposa, le scarpe bianche e una coroncina. I capelli le saranno sciolti sulle spalle e sarà posta entro tre casse, una di quercia, una di mogano e una di piombo. Non mi si dica nulla, sarò forte. La si ricopra con una gran coltre di velluto verde. Lo voglio. Fatelo.

Rimasero tutti molto stupiti delle idee romantiche di Bovary, e subito il farmacista andò a dirgli:

"Questo velluto mi sembra un di più. Considerando la spesa...".

"Forse che questo la riguarda?" gridò Charles "Mi lasci in pace! Lei non l'amava! Se ne vada!"

Il sacerdote lo prese sottobraccio per condurlo a fare un giro in giardino. Parlò della vanità delle cose terrene. Dio era infinito, la bontà stessa; bisognava sottomettersi senza ribellarsi ai suoi decreti, addirittura ringraziarlo.

Charles proruppe in frasi blasfeme.

"Odio il suo Dio!"

"Lo spirito di ribellione è ancora in lei" sospirò il sacerdote.

Bovary era lontano. Camminava a grandi passi lungo il muro, vicino alle spalliere, e digrignava i denti. Alzò al cielo sguardi di maledizione, ma non una foglia si mosse.

Cadeva una pioggia leggera. Charles, che aveva il petto scoperto, finì per rabbrividire, rientrò e sedette in cucina.

Alle sei si sentì un rumore di ferraglia sulla piazza: stava arrivando la Rondine; egli rimase con la fronte contro i vetri, a guardare scendere uno dopo l'altro tutti i viaggiatori. Félicité gli preparò un letto di fortuna nel salotto; Charles vi si gettò e si addormentò.

Per quanto filosofo, il signor Homais rispettava la morte. Così, senza serbare rancore al povero Charles, ritornò la sera per la veglia funebre, portando con sé tre volumi e un taccuino per prendere appunti.

Don Bournisien si trovava già lì e due grandi ceri ardevano al capezzale del letto, che era stato tirato fuori dell'alcova.

Lo speziale, al quale il silenzio pesava, non tardò a esprimere il proprio compianto per quella sfortunata giovane, e il prete rispose che non rimaneva altro, ormai, se non pregare per lei.

"Eppure," continuò Homais "delle due cose l'una: o è morta in istato di grazia (come si esprime la Chiesa), e allora non ha bisogno delle nostre preghiere, o è morta impenitente (questa è, io credo, l'espressione ecclesiastica) e allora..."

Don Bournisien l'interruppe, ribattendo in tono brusco che era ugualmente necessario pregare.

"Ma poiché Dio conosce tutti i nostri bisogni," obiettò il farmacista "a cosa può servire la preghiera?"

"Come?" fece il sacerdote "La preghiera! Non è cristiano allora, lei?"

"Mi perdoni!" disse Homais "Io ammiro il Cristianesimo. Ha innanzitutto liberato gli schiavi, introdotto nel mondo una morale..."

"Non si tratta di questo! Tutti i testi..."

"Oh! Oh! In quanto ai testi, ne apra uno di storia, si sa benissimo che sono stati falsificati dai gesuiti."

Charles entrò e venne avanti verso il letto, poi tirò lentamente le cortine.

Emma aveva il capo inclinato sulla spalla destra. L'angolo della bocca aperta formava un buco nero nella parte bassa del viso. I pollici rimanevano piegati contro il palmo delle mani, qualcosa di simile a una polvere bianca era sparso sulle ciglia e gli occhi cominciavano a sparire in un pallore vischioso simile a una tela sottile quasi i ragni ve la avessero tessuta sopra. Il lenzuolo, dal seno fino alle ginocchia, formava una convessità, sollevandosi poi sulle punte degli alluci. A Charles pareva che masse infinite, pesi enormi, gravassero su di lei.

L'orologio della chiesa suonò le due. Si sentiva il rumoreggiare del fiume che scorreva nelle tenebre, ai piedi della terrazza. Don Bournisien, di tanto in tanto, si soffiava fragorosamente il naso e Homais faceva scricchiolare la penna sul foglio.

"Andiamo, mio buon amico," disse lo speziale "non rimanga qui, questo spettacolo la strazia."

Non appena Charles si fu allontanato, il farmacista e il curato ripresero la discussione.

"Legga Voltaire!" diceva l'uno "Legga D'Holbach, legga l'Enciclopedia!"

"Legga Le lettere di alcuni ebrei portoghesi!" diceva l'altro. "Legga La ragione del Cristianesimo, di Nicolas, l'ex magistrato!"

Si scaldavano, diventavano rossi, parlavano contemporaneamente senza ascoltarsi. Bournisien si scandalizzava di tanta audacia; Homais si meravigliava di tanta ingenuità e mancava poco che si scagliassero ingiurie quando Charles d'improvviso ricomparve. Un incantesimo lo attirava. Risaliva continuamente quelle scale.

Si mise davanti a lei per vederla meglio e si perdette in quella contemplazione che finiva per non essere più dolorosa, tanto era profonda.

Ricordava tutto quello che aveva sentito dire sulla catalessi, i miracoli del magnetismo, e si diceva che, volendolo con tutte le forze, sarebbe potuto riuscire, forse, a risuscitarla. Una volta si chinò addirittura su di lei sussurrandole: "Emma! Emma!" Il suo ansimare violento faceva tremare la fiamma dei ceri contro il muro.

La signora Bovary madre giunse all'alba; Charles, abbracciandola, ebbe una nuova crisi di pianto. Anche lei tentò, come già aveva fatto il farmacista, di esprimere qualche riserva sulla spesa della sepoltura. Charles si adirò tanto che la madre non osò più parlare; egli la incaricò addirittura di andare subito in città per le compere necessarie.

Charles rimase solo tutto il pomeriggio, Berthe era stata condotta dalla signora Homais. Félicité stava di sopra nella camera con mamma Lefrançois.

La sera ricevette le visite di rito. Si alzò, strinse le mani senza riuscire a parlare, poi sedette accanto agli altri che facevano un gran semicerchio davanti al fuoco. Con il viso basso e le gambe accavallate, i visitatori facevano dondolare un piede, sospirando di tanto in tanto; ognuno si annoiava enormemente, ma nessuno se ne voleva andare prima degli altri.

Quando Homais tornò alle nove (non si vedeva che lui, sulla piazza, da due giorni a quella parte), portava con sé una provvista di benzoino, di canfora e di erbe aromatiche. Aveva anche un recipiente pieno di cloro per allontanare i miasmi.

In quel momento la domestica, la signora Lefrançois e la signora Bovary madre, stavano intorno a Emma per finire di vestirla: abbassarono il lungo velo rigido che la copriva fino alle scarpe di raso.

Félicité singhiozzava:

"Ah! La mia povera padrona! La mia povera padrona!"

"Guardatela" diceva sospirando l'albergatrice "come è ancora graziosa! Ci si aspetta di vederla alzare da un momento all'altro!"

Poi si chinarono su di lei per metterle la coroncina.

Fu necessario sollevarle un poco il capo e allora un fiotto di liquido nero, uscì come vomito, dalla bocca.

"Ah! Mio Dio! L'abito! Fate attenzione!" gridò la signora Lefrançois "Ci aiuti, suvvia!" disse al farmacista "Non avrà mica paura, per caso?"

"Paura io?" rispose lui, alzando le spalle "Ah! Proprio no! Ho visto ben altro all'ospedale, quando studiavo farmacia! Ci facevamo il ponce nell'anfiteatro delle autopsie. Il nulla non spaventa un filosofo e ho addirittura intenzione, e lo dico spesso, di lasciare il mio corpo agli ospedali perché possa più tardi servire alla scienza."

Il curato, appena giunse, domandò come stava Bovary, e, avuta risposta dal farmacista, continuò:

"Il colpo, capirà, è ancora troppo recente!"

Allora Homais si felicitò con lui perché non era esposto come tutti gli altri a perdere l'amata compagna, e di qui prese l'avvio una discussione sul celibato dei preti.

"Non è normale che un uomo faccia a meno delle donne! Ci sono stati delitti..."

"Ma, santa pazienza!" esclamò il sacerdote "Come può credere che un uomo sposato possa mantenere, per esempio, il segreto della confessione?"

Homais attaccò la confessione. Don Bournisien la difese e si dilungò sulle redenzioni che riusciva a ottenere. Citò diversi aneddoti di ladri divenuti all'improvviso onesti. Militari che si erano avvicinati al tribunale della penitenza avevano finalmente veduto chiaro. C'era un sacerdote a Friburgo...

Il suo compagno dormiva. Si soffocava un po' nell'atmosfera pesante della camera e il curato aprì la finestra, svegliando così il farmacista.

"Via, accetti una presa!" gli disse "Questa aiuta a rischiarare la mente."

Un abbaiare prolungato si trascinava lontano, in qualche luogo, chissà dove.

"Lo sente anche lei un cane che ulula?" chiese il farmacista.

"Si dice che si accorgano quando ci sono dei morti" rispose il sacerdote. "Come le api che si allontanano dall'arnia non appena qualcuno muore." Homais non contestò questi pregiudizi perché si era riaddormentato.

Don Bournisien, più resistente, continuò per qualche tempo a muovere le labbra, sussurrando, poi insensibilmente, abbassò il mento, lasciò cadere il grosso libro nero e si mise a ronfare. Rimasero l'uno di fronte all'altro, il ventre sporgente, il viso gonfio, l'aria accigliata; dopo tante divergenze, si trovavano infine d'accordo nella medesima debolezza umana, e non si muovevano più del cadavere accanto a loro, che aveva l'aria di dormire anch'esso.

Charles, entrando, non li svegliò. Veniva a dare l'estremo addio alla moglie.

Le erbe aromatiche erano ancora accese e turbini di fumo azzurrognolo si confondevano sul davanzale della finestra con la nebbia che entrava. Splendeva qualche stella e la notte era tiepida.

La cera delle candele cadeva a grosse lacrime sulle lenzuola del letto. Charles le guardava bruciare stancandosi gli occhi alla luce della loro fiamma gialla. Qua e là il raso, bianco come il chiaro di luna, fremeva sotto un riflesso marezzato. Emma spariva sotto la veste candida e a Charles sembrava di vedere la moglie che, quasi dilatandosi al di fuori di se stessa, si perdesse confusamente nelle cose intorno, nel silenzio, nella notte, nel soffio del vento, nei sentori umidi che si alzavano.

D'improvviso la rivide, in giardino, a Tostes, sulla panchina, contro la siepe spinosa, oppure a Rouen, per la via, sulla soglia di casa, nell'aia dei Bertaux. Sentiva ancora le risa dei giovani in festa che danzavano sotto i meli; la camera era piena del profumo dei suoi capelli e l'abito frusciava nelle sue braccia con un crepitio di scintille. Era lo stesso abito, quello!

Rimase a lungo a ricordare così tutte le felicità scomparse, i suoi atteggiamenti, i gesti, il timbro della voce di lei. La disperazione non aveva soste, un'ondata seguiva l'altra come una marea traboccante.

Provò una terribile curiosità; adagio, con la punta delle dita, palpitando, sollevò il velo. Ma lanciò un grido d'orrore che svegliò gli altri. Lo trascinarono di nuovo in salotto al pianterreno.

Poi venne Félicité a dire che desiderava una ciocca di capelli.

"La tagli!" disse lo speziale.

E, siccome la ragazza non ne aveva il coraggio, si fece avanti lui stesso, con le forbici in mano. Tremava con tanta violenza che intaccò la pelle delle tempie in più punti. Alla fine, irrigidendosi contro la sensazione che lo turbava, diede due o tre colpi di forbice a caso, provocando altrettante chiazze bianche in quella bella capigliatura nera.

Il farmacista e il curato si immersero ancora una volta nelle proprie occupazioni, non senza schiacciare un pisolino di tanto in tanto, cosa di cui si accusavano a vicenda a ogni nuovo risveglio.

Allora don Bournisien aspergeva la camera d'acqua benedetta e Homais spruzzava un po' di cloro sul pavimento.

Félicité aveva avuto cura di mettere per loro, sul cassettone, una bottiglia di acquavite, del formaggio e una grossa pagnotta. Così, verso le quattro del mattino, il farmacista, che non ne poteva più, sospirò:

"Per la verità mangerei volentieri qualcosa!"

Il sacerdote non si fece pregare; uscì per andare a dire la messa, ritornò, poi mangiarono e bevvero ridacchiando un po', senza sapere bene perché, eccitati da quella vaga gaiezza che assale dopo una troppo grande e prolungata malinconia, e, all'ultimo bicchierino, il prete disse al farmacista battendogli la mano sulla spalla:

"Finiremo per andare d'accordo!"

Incontrarono dabbasso, nell'ingresso, gli operai che arrivavano. Da quel momento Charles dovette sopportare per due ore il supplizio dei martelli che risonavano sulle assi. Poi la morta venne messa nella cassa di quercia, a sua volta posta entro le altre due; ma siccome la bara era troppo larga, fu necessario imbottirne gli interstizi con la lana di un materasso. Alla fine, quando i tre coperchi furono piallati, inchiodati, saldati, esposero il feretro davanti alla porta. La casa venne aperta e la gente di Yonville cominciò ad affluire.

Arrivò anche papa Rouault e svenne non appena vide i drappi neri.

X

La lettera del farmacista gli era pervenuta soltanto trentasei ore dopo il fatto e il signor Homais l'aveva redatta in modo tale, per un riguardo alla sua sensibilità, che sarebbe stato impossibile potersi fare un'idea precisa di quel che era accaduto

Il brav'uomo era caduto dapprima come colpito da apoplessia; poi aveva creduto di capire che Emma non fosse morta. Ma poteva anche esserlo. E alla fine si era infilato il camiciotto, aveva preso il cappello, messo uno sperone alla scarpa ed era partito, ventre a terra, ansimante, sentendosi, lungo tutta la strada, divorare dall'angoscia... A un certo punto fu perfino costretto a scendere da cavallo. Non ci vedeva più, udiva delle voci intorno a sé, si sentiva impazzire.

Faceva giorno. Scorse tre galline nere che dormivano su un albero; trasalì spaventato dal presagio. Promise allora alla Vergine tre pianete per la chiesa; sarebbe andato inoltre a piedi nudi dal cimitero dei Bertaux fino alla cappella di Vassonville.

Entrò a Maromme chiamando a gran voce la gente dell'albergo, sfondò con una spallata la porta, corse accanto al sacco dell'avena versò nella mangiatoia una bottiglia di sidro dolce, poi inforcò di nuovo il suo puledro i cui ferri erano infuocati dalla corsa.

Si diceva che l'avrebbero certo salvata, i medici avrebbero trovato un rimedio, ne era sicuro. Ricordava tutte le guarigioni miracolose delle quali aveva sentito parlare.

Poi gli apparve la figlia, morta. Era lì, davanti a lui, distesa supina, in mezzo alla strada. Tirò le briglie e l'allucinazione sparì. A Quincampoix, per darsi forza, bevve tre caffè uno dopo l'altro.

Cercava di illudersi che avessero sbagliato nome, scrivendo. Si cercò la lettera in tasca, la sentì, ma non osò aprirla.

Giunse a supporre che fosse uno scherzo, la vendetta di qualcuno, il ghiribizzo di un ubriaco; e d'altronde, se Emma fosse morta, non si sarebbe forse saputo? Ma no! La campagna non era diversa dal solito, il cielo rimaneva azzurro, gli alberi dondolavano al vento; passò un gregge di pecore. Scorse il villaggio; lo videro arrivare tutto piegato sul cavallo che spronava a colpi di bastone e i cui finimenti grondavano sangue.

Quando riprese conoscenza, si gettò piangendo nelle braccia di Bovary.

"Mia figlia! Emma! La mia bambina! Mi racconti!..."

E l'altro rispose singhiozzando:

"Non lo so, non lo so! È una maledizione!"

Il farmacista li separò.

"Questi particolari terribili sono inutili. Ci penserò io a raccontare tutto al signor Rouault. Ecco che arriva gente. Un po' di dignità, perbacco, un po' di filosofia!"

Il povero Bovary voleva sembrare forte, e ripeté più volte:

"Sì... coraggio!"

"Ebbene," gridò il suocero, "ne avrò, fulmini di Dio! L'accompagnerò fino alla fine."

Si udirono i rintocchi della campana. Era tutto pronto. Dovettero mettersi in cammino.

Seduti in uno stallo del coro, uno vicino all'altro, si videro passare e ripassare davanti di continuo i tre cantori che salmodiavano. Il suonatore soffiava a pieni polmoni nel suo rudimentale fagotto. Don Bournisien, in pompa magna, cantava con voce acuta, si inchinava al tabernacolo, levava le mani, tendeva le braccia. Lestiboudois girava per la chiesa con la sua bacchetta di balena; vicino al leggio, fra quattro file di ceri, si trovava la bara. Charles aveva una gran voglia di alzarsi per spegnerli.

Si sforzava di indursi alla preghiera, di abbandonarsi alla speranza di una vita futura nella quale l'avrebbe rivista. Cercava di credere che fosse partita per un viaggio, per un paese molto lontano, per lungo tempo. Ma Emma era lì sotto, tutto era ormai finito, l'avrebbero seppellita, e allora, rendendosene conto, si sentiva preso da una rabbia feroce, nera, disperata. A volte aveva l'impressione di non sentire più nulla, e assaporava quelle pause del suo dolore, rimproverandosi di essere un miserabile.

Nella chiesa risonò un rumore secco, come quello prodotto da un bastone ferrato che battesse a intervalli regolari sulle lastre di pietra. Veniva dal fondo, e si fermò di colpo in una navata laterale. Un uomo con una rozza giubba scura si inginocchiò a fatica. Era Hippolyte, il mozzo di stalla del Leon d'Oro. Aveva messo la gamba di legno nuova.

Uno dei cantori fece la questua e i grossi soldi, uno dopo l'altro tintinnarono nel piatto d'argento.

"Sbrigatevi! Non ne posso più!" esclamò Bovary, gettandogli con rabbia una moneta da cinque franchi.

Il chierico lo ringraziò con una profonda riverenza.

Cantavano, si inginocchiavano, si rialzavano, non la finivano più. Charles ricordò una volta in cui, nei primi tempi, avevano assistito insieme alla messa: si trovavano dall'altra parte della chiesa, a destra, contro il muro. La campana ricominciò a suonare. Ci fu un gran movimento di sedie. I portatori fecero scivolare sotto la bara i tre bastoni e tutti uscirono dalla chiesa.

Justin apparve allora sulla soglia della farmacia. Rientrò di colpo, pallido, barcollante.

La gente stava alla finestra per veder passare il corteo funebre. Charles, davanti a tutti, si teneva diritto. Ostentava un'aria coraggiosa e salutava con un cenno coloro che, sbucando dai vicoli e dalle porte, si mettevano in fila fra gli altri.

I sei uomini, tre per parte, camminavano a passi brevi e ansimavano un poco. I preti, i cantori e i due chierichetti recitavano il De Profundis e le loro voci si diffondevano sui campi, alternativamente crescendo e calando. Qualche volta sparivano dietro le curve del sentiero, ma la grande croce d'argento si levava sempre fra gli alberi.

Le donne seguivano il feretro indossando mantelli neri con il cappuccio abbassato, portavano un grosso cero acceso e Charles si sentiva mancare per questo continuo ripetersi di preghiere, di fiammelle, in questo odore insopportabile di tonache e di cera. Soffiava una brezza fresca, la segala e il ravizzone verdeggiavano, gocce di rugiada tremolavano ai lati del sentiero, sulle siepi di rovi. I rumori più gioiosi riempivano l'aria: il rotolio schioccante di un carretto che passava lontano sulla carreggiata, il reiterato canto di un gallo o il galoppo di un puledro che si vedeva fuggire sotto gli alberi di un pometo. Il cielo sereno era macchiato qua e là da nuvolette rosa, gli iris accendevano fiammelle azzurre sulle capanne. Charles, passando, riconosceva i cortili. Ricordava mattinate come questa in cui, dopo aver visitato qualche ammalato, uscendo dalla casa del paziente si avviava per tornare da lei.

Il drappo nero, cosparso di lacrime bianche, si sollevava di tanto in tanto scoprendo la bara. I portatori, stanchi, rallentavano e il feretro avanzava con continue scosse, simile a una scialuppa in balia delle onde.

Giunsero alla meta.

Gli uomini proseguirono fino in fondo, in un luogo erboso ove era stata scavata la fossa.

Si misero in fila tutt'intorno, e mentre il prete parlava, la terra rossa ammucchiata sull'orlo della fossa scivolava negli angoli, silenziosamente e senza interruzione.

Quando furono sistemate le quattro corde, la bara venne posta su di esse. Charles la guardava scendere, scendere sempre.

Infine si sentì un tonfo, le corde risalirono cigolando. Allora don Bournisien prese con la mano sinistra la vanga che gli tendeva Lestiboudois, mentre con la destra aspergeva, e spinse vigorosamente una grossa palata di terra; il legno di quercia, urtato dai ciottoli, fece un rumore formidabile che sembrò l'eco dell'eternità.

Il sacerdote passò l'aspersorio al suo vicino. Era il signor Homais. Questi lo scosse con gravità, poi lo tese a Charles, che si accasciò in ginocchio nella terra e la gettò a piene mani, gridando: "Addio!" Mandava baci alla moglie, si trascinava verso la fossa per esserne inghiottito con Emma.

Lo portarono via quasi di peso; e non tardò molto a calmarsi, provando forse come gli altri un vago sollievo per il fatto che tutto era finito

Papà Rouault, sulla via del ritorno, si mise tranquillamente a fumare la pipa. Cosa che il signor Homais giudicò dentro di sé sconveniente. Notò anche che Binet si era astenuto dall'intervenire, il signor Tuvache se l'era svignata dopo la messa, e Théodore, il domestico del notaio, indossava un abito blu 'come se non fosse possibile trovare un abito nero, visto che è l'uso, perbacco!' E, per rendere note le proprie opinioni, egli andava da un gruppo all'altro. Tutti deploravano la morte di Emma, soprattutto Lheureux che non aveva mancato di intervenire al funerale.

"Povera signora! Che dolore per il marito!"

Lo speziale continuava:

"Senza di me, creda pure, avrebbe commesso anche lui qualche gesto insano".

"Una così brava persona! E dire che l'avevo vista soltanto sabato scorso nella mia bottega!"

"Non sono riuscito a trovare il tempo" disse Homais "di preparare qualche parola da dire al funerale."

Appena rientrato, Charles si cambiò d'abito; papà Rouault si fece stirare il camiciotto. Era nuovo, e siccome lungo la strada si era asciugato più volte gli occhi con le maniche, queste gli si erano stinte sul viso, e le tracce delle lacrime avevano lasciato il segno sullo strato di polvere che lo copriva.

La signora Bovary madre era con loro; tacevano tutt'e tre. Alla fine il brav'uomo sospirò:

"Si ricorda, amico mio, quando venni a Tostes, una volta, allorché lei perdette la sua prima moglie? Riuscii a consolarla allora. Trovai le parole; ma adesso..."

Poi un lungo gemito gli sollevò il petto:

"Per me è finita, sa! Ho visto andarsene mia moglie, mio figlio ed ecco oggi anche mia figlia!"

Volle subito far ritorno ai Bertaux, dicendo che non gli sarebbe stato possibile dormire in quella casa. Non volle neppure vedere la nipotina.

"No! No! Mi farebbe troppo male. La baci lei per me! Addio!... Lei è un bravo ragazzo! E non dimenticherò mai questo," e si batteva la coscia "non abbia paura! Riceverà sempre il tacchino."

Giunto in cima alla salita si voltò indietro, come già un'altra volta, sulla strada di Saint-Victor, quando, dopo essersi separato da lei, l'aveva guardata allontanarsi. Le finestre del villaggio erano tutte fiammeggianti sotto i raggi obliqui del sole che calava sui grandi prati. Fece schermo con la mano agli occhi e scorse, all'orizzonte, un recinto in muratura, ove gli alberi formavano, qua e là, ciuffi neri in mezzo alle lapidi bianche, poi proseguì il cammino al piccolo trotto, perché il puledro zoppicava.

Charles e la madre, nonostante la stanchezza, rimasero a lungo, la sera, a chiacchierare insieme. Parlarono dei tempi andati e dell'avvenire. La signora Bovary madre sarebbe venuta ad abitare a Yonville e si sarebbe occupata della casa, non si sarebbero più lasciati. Fu abile e carezzevole, felice dentro di sé di riafferrare un affetto che da tanti anni le sfuggiva. Sonò mezzanotte. Il villaggio era come sempre silenzioso e Charles, ancora sveglio, pensava di continuo alla moglie.

Rodolphe, per distrarsi, aveva battuto i boschi per tutto il giorno e ora dormiva tranquillo nel suo castello. Léon, laggiù, dormiva anche lui.

Inginocchiato sulla tomba, fra gli abeti, un ragazzo piangeva, il petto scosso dai singhiozzi, ansimante nell'ombra, sotto il peso di un rimpianto immenso, più dolce della luna, più profondo della notte. Il cancello stridette all'improvviso. Era Lestiboudois che veniva a riprendere la vanga dimenticata poco prima. Riconobbe Justin mentre scalava il muro e seppe allora chi era il malfattore che gli rubava le patate.

XI

L'indomani Charles fece tornare a casa la bambina, che chiese subito della mamma. Le risposero che era andata via, e le avrebbe portato al ritorno dei giocattoli. Berthe ne riparlò molte volte, poi, col passar del tempo, non ci pensò più. L'allegria di questa bambina straziava Bovary, il quale era anche costretto a subire le insopportabili consolazioni del farmacista.

Le preoccupazioni finanziarie ben presto ricominciarono. Il signor Lheureux incitò di nuovo l'amico Vinçart, e Charles si impegnò per somme esorbitanti; mai e poi mai, infatti, si sarebbe lasciato convincere a vendere una minima parte dei mobili che erano appartenuti a lei. La madre ne fu esasperata. Charles si indignò più di lei. Non era cambiato affatto. La signora Bovary madre se ne andò.

Allora tutti cominciarono ad approfittarsene. La signorina Lempereur reclamò sei mesi di lezioni, benché Emma non ne avesse presa una sola (nonostante la fattura quietanzata che aveva mostrato a Bovary): era un accordo fra le due donne; il bibliotecario reclamò tre anni di abbonamenti; mamma Rollet l'importo dell'affrancatura di una ventina di lettere e, siccome Charles domandava spiegazioni, ebbe la delicatezza di rispondere:

"Ah! Non ne so nulla! Era per i suoi affari".

A ogni conto che pagava, Charles credeva di aver finito. Invece ne arrivavano sempre altri, di continuo.

Decise di esigere gli arretrati di vecchie visite. Gli vennero mostrate le lettere di sua moglie. Fu costretto a fare le proprie scuse.

Félicité portava adesso gli abiti della padrona; non tutti, perché Charles ne aveva messi da parte alcuni, e andava a guardarseli, nello spogliatoio, ove si tratteneva a lungo. La domestica aveva quasi le stesse misure della padrona e spesso Charles, vedendola di spalle, si abbandonava all'illusione e ripeteva:

"Oh! Rimani così! Non muoverti!"

Ma, alla Pentecoste, Félicité se la svignò da Yonville, rapita da Théodore, rubando tutto quello che rimaneva del guardaroba di Emma.

Verso quest'epoca, la vedova Dupuis ebbe l'onore di partecipare a Bovary il 'matrimonio di suo figlio, notaio a Yvetot, con la signorina Léocadie Leboeuf, di Bondeville'. Charles inviandole le felicitazioni, scrisse questa frase:

"Chissà come ne sarebbe stata felice mia moglie!"

Un giorno, mentre girava per la casa senza scopo, era salito fino in soffitta quando sentì sotto la pantofola una pallottola di carta sottile. La spiegò e lesse: "Coraggio, Emma! Deve avere coraggio! Non voglio essere la rovina della sua esistenza". Si trattava della lettera di Rodolphe, caduta a terra fra le casse e rimasta là; il vento, penetrando dall'abbaino, l'aveva spinta verso la porta. Charles rimase immobile, a bocca aperta, nello stesso punto in cui, un tempo, ancor più pallida di lui, Emma, disperata, aveva pensato di uccidersi. Scoprì infine una piccola R in fondo alla seconda pagina. Cosa significava? Chi era? Gli tornarono alla memoria le assiduità di Rodolphe, l'improvvisa sparizione di lui, e la sua aria imbarazzata quando lo avevano incontrato, due o tre volte. Ma il tono rispettoso della lettera lo trasse in inganno.

"Forse si sono amati platonicamente" si disse.

D'altronde Charles non era tipo da andare al fondo delle cose, indietreggiava davanti alle prove, e la sua incredula gelosia si perse nell'immensità del dolore.

Tutti, pensava, dovevano aver avuto dell'adorazione per lei; di certo tutti gli uomini l'avevano desiderata. Gli sembrò ancora più bella e gli nacque dentro un desiderio incessante, furioso, che rendeva più bruciante la sua disperazione e che non aveva limiti perché era ormai irrealizzabile.

Per farle piacere, come se vivesse ancora, adottò i suoi gusti, le sue idee, si comperò scarpe di vernice, e prese l'abitudine di usare cravatte bianche. Adoperava cosmetici per i baffi, firmava cambiali, così come lei aveva fatto. Anche dall'al di là riusciva a corromperlo.

Fu costretto a vendere l'argenteria, un pezzo per volta, poi vendette i mobili del salotto. Tutte le stanze si svuotavano, ma la camera, la camera di lei, era rimasta quella di sempre. Dopo cena Charles vi saliva, spingeva davanti al fuoco la tavola rotonda e avvicinava a essa la poltrona di Emma. Poi sedeva di fronte. Una candela ardeva in un candeliere dorato. Berthe, vicino a lui, colorava delle illustrazioni.

Il pover'uomo soffriva vedendo la figlia così malvestita, con gli stivaletti senza stringhe, e le blusette strappate sotto le ascelle fino ai fianchi, perché la domestica non se ne curava. Ma la bimba era così dolce, così carina, e la testolina si chinava con tanta grazia lasciando ricadere sulle gote rosate i bei capelli biondi, che lui si sentiva invadere da un senso di piacere senza fine, un piacere colmo di amarezza come quel vino mal riuscito nel quale si sente il sapore della resina. Le aggiustava i giocattoli, le fabbricava burattini di cartone, ricuciva la pancina lacerata delle bambole. Ma, se gli capitava sotto gli occhi l'astuccio da lavoro, o un nastro lasciato in giro, o soltanto uno spillo rimasto in una fessura della tavola, cominciava a sognare e assumeva un'aria così triste che anche la bimba diveniva triste come lui.

Nessuno adesso veniva a trovarli la sera, perché Justin se ne era andato a Rouen, ove lavorava come commesso in una drogheria, e i figli del farmacista frequentavano sempre meno la piccola Berthe. Il signor Homais, data la differente condizione sociale, non ci teneva più a continuare l'amicizia.

Il cieco, che non era guarito affatto con la sua pomata, era tornato sulla salita del Bois-Guillaume; là raccontava ai viaggiatori l'inutile tentativo del farmacista, e si era giunti al punto che Homais, quando andava in città, si nascondeva dietro le tendine della Rondine per evitare di incontrarlo. Lo detestava, e, nell'interesse della propria reputazione, voleva sbarazzarsene a tutti i costi; concentrò sul capo del disgraziato il tiro di una batteria invisibile, che dimostrava la profondità della sua intelligenza e la scelleratezza della sua vanità. Durante sei mesi consecutivi, fu possibile leggere sul Faro di Rouen trafiletti così concepiti:

"Tutte le persone che si recano nelle fertili contrade della Piccardia, avranno certo notato sulla salita del Bois-Guillaume, un miserabile affetto da un'orribile piaga al viso. Questo individuo importuna, perseguita, esige una vera tassa dai viaggiatori. Siamo ancora all'epoca mostruosa del Medioevo, quando era permesso ai vagabondi di ostentare sulle pubbliche piazze la lebbra, la scrofolosi da cui erano stati contagiati durante le crociate?"

Oppure:

"A dispetto di tutte le leggi sul vagabondaggio, i dintorni delle grandi città continuano a essere infestati da bande di accattoni. Se ne vedono circolare isolati e forse non sono i meno pericolosi. A cosa pensano i nostri magistrati?"

Poi Homais inventava aneddoti:

"Ieri, sulla salita del Bois-Guillaume, un cavallo ombroso..." e seguiva il racconto di un incidente causato dalla presenza del cieco.

E tanto fece che finirono per metterlo in carcere. Ma lo rilasciarono. Il cieco ricominciò e Homais non fu da meno. Era una vera lotta. E il farmacista ne uscì vittorioso perché condannarono il suo nemico alla reclusione perpetua in un ospizio.

Questo successo lo rese ardito: da quel momento non vi furono più, nel circondario, un cane ucciso, una donna percossa, un fienile bruciato, senza che egli ne facesse partecipe il pubblico, sempre guidato dall'amore per il progresso e dall'odio contro i preti. Stabiliva confronti fra le scuole elementari pubbliche e i frati ignorantini, a scapito di questi ultimi; ricordava la notte di San Bartolomeo a proposito di una donazione di cento franchi fatta alla chiesa, denunciava abusi, lanciava frizzi. Era il suo motto: Homais non tace; stava diventando pericoloso.

Nonostante ciò, soffocava negli angusti limiti del giornalismo, e ben presto volle cimentarsi con un libro, un'opera importante! Scrisse una Statistica generale della regione di Yonville, corredata di osservazioni climatologiche, e la statistica lo spinse verso la filosofia. Si occupò di questioni di vasta portata: problemi sociali, moralizzazione delle classi povere, piscicoltura, gomma, ferrovie ecc. Finì per vergognarsi di essere un borghese. Ostentò atteggiamenti da artista, si mise a fumare. Comperò due eleganti statuette Pompadour per ornare il salotto.

Non abbandonò affatto la farmacia, al contrario. Si teneva al corrente delle scoperte. Seguì il movimento a favore del cioccolato. Fu il primo a far arrivare nella regione della Senna Inferiore, la coca e la revalentia. Si lasciò prendere dall'entusiasmo per le catene idroelettriche Pulvermacher; ne portava una lui stesso e la sera, quando si toglieva il panciotto di lana, la signora Homais rimaneva abbagliata davanti alla spirale d'oro sotto la quale spariva il marito e sentiva raddoppiare i suoi ardori per quest'uomo più incatenato di uno scita e splendido come un mago.

Ebbe idee felici per la tomba di Emma. Propose dapprima una colonna tronca, con un drappeggio, poi una piramide, in seguito un tempio di Vesta, una specie di rotonda, oppure un ammasso di rovine. E in tutti i progetti, Homais non tralasciava mai il salice piangente che considerava il simbolo obbligato della tristezza.

Charles e lui fecero un viaggio insieme a Rouen per vedere delle tombe, da un impresario di pompe funebri, accompagnati da un pittore, un certo Vaufrylard, amico di Bridoux, il quale per tutto il tempo non fece altro che dire spiritosaggini. Alla fine, dopo aver esaminato un centinaio di disegni, dopo aver chiesto un preventivo, e aver fatto un secondo viaggio a Rouen, Charles si decise per un mausoleo con i due lati principali adorni dalla rappresentazione di un 'genio recante una fiaccola spenta.'

Per quanto riguardava l'iscrizione, Homais non trovava niente di più bello di Sta viator, e si fermava lì; ci si rompeva la testa, ripeteva continuamente: "Sta viator...". Finalmente scoprì il seguito: amabilem conjugem calcas!, che venne accettato.

Una cosa strana era che Bovary, pur pensando a Emma di continuo, la dimenticava: e si disperava accorgendosi che quell'immagine gli sfuggiva dalla memoria a dispetto di tutti gli sforzi per trattenerla. La sognava ogni notte. Era sempre lo stesso sogno, si avvicinava a lei, ma quando stava per stringerla fra le braccia, ella si dissolveva in putredine.

Lo si vide per una settimana entrare ogni sera in chiesa.

Don Bournisien stesso gli fece visita due o tre volte, poi l'abbandonò. D'altronde, quel brav'uomo del curato si stava lasciando andare all'intolleranza, al fanatismo, diceva Homais; lanciava fulmini contro lo spirito del secolo e non mancava ogni quindici giorni, durante la predica, di raccontare l'agonia di Voltaire, il quale era morto, come tutti sanno, divorando i propri escrementi.

Nonostante facesse ogni economia, Bovary era ben lontano dall'estinguere i suoi antichi debiti. Lheureux rifiutò di rinnovare le cambiali. Il sequestro divenne imminente. Allora egli ricorse alla madre, che gli consentì di mettere un'ipoteca sui suoi beni, ma si sfogò con un'infinità di recriminazioni contro Emma, e chiese, in cambio del suo sacrificio, uno scialle sfuggito alla rapina di Félicité. Charles glielo rifiutò. Ne nacque un grave disaccordo.

Fu la madre a tentare i primi approcci per una riappacificazione, proponendogli di affidare a lei la piccola, cosa che lo avrebbe sollevato almeno dalle preoccupazioni per la casa. Charles acconsentì. Ma al momento della partenza, il coraggio l'abbandonò. E la rottura divenne allora definitiva, completa.

A mano a mano che tutti gli affetti lo abbandonavano, cresceva sempre più il suo attaccamento per la figlia. Non era tranquillo, però, per la sua salute, perché la bambina tossiva e a volte aveva chiazze rosse sugli zigomi.

Di fronte a lui, la famiglia del farmacista prosperava fiorente e ilare e sembrava che tutto al mondo contribuisse ad aumentarne la soddisfazione. Napoleone aiutava il padre nel laboratorio, Athalie gli ricamava una papalina, Irma tagliava rondelle di carta per coprire le marmellate e Franklin recitava tutto d'un fiato la tavola pitagorica. Lo speziale era il più felice dei padri, il più fortunato degli uomini.

Errore! un'ambizione sorda lo rodeva: Homais anelava alla Legion d'Onore. I titoli non gli mancavano:

1) Si era fatto notare al tempo del colera per la sua dedizione senza limiti; 2) aveva pubblicato, e a proprie spese, diverse opere di utilità pubblica, quali... (e qui ricordava l'opuscolo intitolato La lavorazione e gli effetti del sidro, più alcune osservazioni sull'afidio della lana, inviate all'Accademia; il volume statistico e perfino la tesi in farmacia) senza contare che era membro di molte società scientifiche (lo era di una sola).

"Infine," esclamava girando sui talloni "non fosse altro che per essermi comportato coraggiosamente durante gli incendi!"

In quel periodo Homais si sentiva portato verso il Potere. Rendeva in segreto preziosi servigi al signor prefetto durante le elezioni. Si vendeva, insomma, si prostituiva. Inviò perfino una petizione al sovrano nella quale lo supplicava di rendergli giustizia; lo chiamava 'il nostro ottimo re' e lo paragonava a Enrico IV.

Ogni mattina lo speziale si precipitava a leggere il quotidiano con la speranza di scorgervi la propria nomina: non c'era mai. Alla fine, non riuscendo più a trattenersi, fece disegnare con il loietto in giardino la stella d'onore, con piccoli ciuffi d'erba che partivano dalla sommità per imitare il nastro. Vi passeggiava intorno a braccia conserte, meditando sull'inettitudine del governo e sull'ingratitudine umana.

Per rispetto, o per una specie di sensualità che gli faceva rinviare le indagini, Charles non aveva ancora aperto lo scomparto segreto dello scrittoio di palissandro di cui Emma era stata solita servirsi. Un giorno, però, sedette davanti a esso, girò la chiave e spinse la molla. Vi si trovavano tutte le lettere di Léon. Stavolta non rimanevano possibilità di dubbio! Le divorò fino all'ultima, frugò in tutti gli angoli, in tutti i mobili, in tutti i cassetti, dietro i muri, singhiozzando, urlando, fuori di sé, impazzito. Scoprì una scatola, la sfondò con un calcio. Il ritratto di Rodolphe fu la prima cosa che vide, in mezzo ai biglietti d'amore in disordine.

La gente rimase assai stupita dall'abbattimento di Bovary. Non usciva più, non riceveva nessuno, rifiutava perfino di andare a visitare gli ammalati. Tutti si convinsero allora che si chiudeva in casa per bere. A volte un curioso allungava il collo sopra la siepe del giardino e scorgeva con stupore quell'uomo dalla barba lunga, coperto da abiti sordidi, dallo sguardo feroce, che camminava piangendo forte.

La sera, durante l'estate, Charles prendeva con sé la bambina e la conduceva al cimitero. Tornavano a notte fatta, quando non v'era altra luce sulla piazza se non quella dell'abbaino di Binet.

Ma la voluttà che riusciva a dargli il suo dolore non era completa, perché non aveva nessuno intorno a sé con cui condividerlo. Andava a trovare mamma Lefrançois, per poter parlare di lei. Ma l'albergatrice lo ascoltava con un orecchio solo, perché, come lui, aveva i suoi dispiaceri. Il signor Lheureux stava infatti per inaugurare le nuove diligenze, le Favorite del Commercio, e Hivert, apprezzatissimo per la meticolosità con cui sbrigava le commissioni, esigeva un aumento di salario o minacciava di passare 'alla concorrenza'.

Un giorno Charles andò al mercato di Argueil, per vendere il cavallo - ultima risorsa, ormai - e incontrò Rodolphe.

Impallidirono, scorgendosi. Rodolphe, che per le condoglianze aveva mandato soltanto un biglietto da visita, balbettò dapprima qualche scusa, poi si fece audace e spinse la propria sicumera (faceva molto caldo, si era al mese d'agosto) fino a invitarlo a bere una bottiglia di birra all'osteria.

Appoggiato sui gomiti, biascicava il sigaro mentre parlava e Charles si perdeva in fantasticherie davanti a quel viso che Emma aveva tanto amato. Gli sembrava di rivedere qualcosa di lei. Era una cosa stupefacente. Avrebbe voluto essere quell'uomo.

L'altro continuava a parlare di colture, di bestiame, di concimi, colmando con frasi banali tutti i vuoti nei quali sarebbe potuta scivolare un'allusione. Charles non l'ascoltava. Rodolphe se n'era accorto e seguiva nelle diverse espressioni del viso di lui, il susseguirsi dei ricordi. A poco a poco Charles arrossì, le narici cominciarono a vibrargli, le labbra fremettero; vi fu un istante in cui, pieno di sorda furia, fissò negli occhi Rodolphe, il quale si interruppe, quasi spaventato. Ma ben presto la consueta funebre stanchezza gli riapparve sul viso.

"Non nutro alcun rancore nei suoi riguardi" disse.

Rodolphe era ammutolito. E Charles, il capo fra le mani, continuò con voce spenta e nel tono rassegnato che è proprio dei dolori più profondi:

"No, non ho più rancore".

E aggiunse una grande massima, la sola che avesse mai pronunciato:

"È tutta colpa del destino!"

Rodolphe, che aveva aiutato quel destino, lo trovò molto ingenuo per un uomo nella sua situazione, addirittura comico, e un po' vigliacco.

L'indomani, Charles andò a sedersi sulla panca sotto la pergola. Fra i rami intrecciati trapelava la luce; le foglie della vite disegnavano ombre sulla sabbia, il gelsomino spandeva il suo profumo, il cielo era azzurro, le cantaridi ronzavano intorno ai gigli fioriti e Charles si sentiva soffocare come un adolescente per via di quegli indefinibili sentimenti amorosi che gli gonfiavano il cuore afflitto.

Alle sette, la piccola Berthe, che non l'aveva visto per tutto il giorno, venne a cercarlo per la cena.

Aveva la testa arrovesciata contro il muro, gli occhi chiusi, la bocca aperta, e teneva fra le mani una lunga ciocca di capelli neri.

"Papà, su, vieni!" disse la bambina.

E, convinta che stesse scherzando, lo spinse adagio. Charles cadde a terra. Era morto.

Trentasei ore dopo, su richiesta dello speziale, accorse il signor Canivet. Gli fece l'autopsia, ma non trovò nulla.

Quando tutto fu venduto, restarono ancora dodici franchi e settantacinque centesimi che servirono a pagare il viaggio della signorina Bovary fino a casa della nonna. La buona donna morì entro l'anno, e, essendo papà Rouault paralizzato, si incaricò di allevare la bimba una zia. Costei era povera e mandò Berthe a guadagnarsi la vita in una filatura di cotone.

Dopo la morte di Bovary, tre medici si sono susseguiti a Yonville senza riuscire ad affermarsi; e questo grazie al signor Homais che è riuscito a sbaragliarli tutti. Si sta facendo una clientela vastissima; l'autorità lo favorisce e l'opinione pubblica lo protegge.

Gli hanno appena conferito la Legion d'Onore.