Capitolo quattordicesimo
Di là andarono alla Festa dello Spirito Santo. Il cieco sapeva bene il tempo d'ogni
festa e l'itinerario da seguire ed era lui che guidava il compagno.
Passando per Nuoro Efix lo condusse verso il Molino, lo lasciò appoggiato a un muro e
andò a salutare Giacinto.
«Parto per luoghi lontani. Addio. Ricorda la tua promessa.»
Giacinto pesava un sacco di orzo macinato; sollevò gli occhi con le palpebre bianche
di farina e sorrise.
«Che promessa?»
«Di pesar bene», disse Efix, e se ne andò.
Pesato il sacco, Giacinto balzò fuori e vide i due mendicanti allontanarsi tenendosi
per mano pallidi e tremuli tutti e due come malati. Chiamò, ma Efix gli fece solo un
segno di addio senza voltarsi.
Appena fuori del paese cominciarono le questioni, perché il cieco, sebbene avesse la
bisaccia colma di roba, voleva chiedere l'elemosina ai passanti, mentre Efix osservava:
«Perché chiedere, se ce ne abbiamo?».
«E domani? Tu non pensi al domani? E che mendicante sei tu? Si vede che sei nuovo.»
Allora Efix s'accorse che non voleva chiedere perché si vergognava, e arrossì della
sua vergogna.
Il tempo s'era fatto cattivo. Verso sera cominciò a piovere e i due compagni
s'avvicinarono a una capanna di pastori; ma dentro non li vollero, e dovettero ripararsi
sotto una tettoia di frasche a fianco della mandria. I cani abbaiavano, un velo triste
circondava tutta la pianura umida, e la pioggia e il vento smorzavano il fuocherello che
Efix tentava di accendere.
Il cieco restava impassibile, fermo sotto la sua maschera dolorosa. Seduto - non si
coricava mai - con le braccia intorno alle ginocchia, coi grandi denti gialli lucidi al
riflesso del fuoco, le palpebre violette abbassate, continuava a raccontare le sue storie.
«Tu devi sapere che tredici anni belli e lunghi occorsero per fabbricare la casa del
Re Salomone. Era in un bosco chiamato il Libano, per le piante alte di cedro che là
crescevano. Luogo fresco. E tutta questa casa era fatta di colonne d'oro e d'argento, con
le travi di legno forte lavorato, e il pavimento di marmo come nelle chiese; in mezzo alla
casa c'era un cortile con una fontana che dava acqua giorno e notte, e i muri erano tutti
di pietre fini, segate a pezzi uguali come mattoni. Le ricchezze che c'eran dentro non si
possono contare: i piatti erano d'oro, i vasi d'oro, e tutta la casa era ornata di
melagrane e di gigli d'oro; anche i collari dei cani eran d'oro e le bardature dei cavalli
d'argento e le coperte di scarlatto. E venne la regina Saba, la quale aveva sentito
raccontare di queste cose fino all'altro capo del mondo, ed era gelosa, perché ricca
anche lei, e voleva vedere chi era più ricco. Le donne son curiose...»
Uno dei pastori, attirato dai racconti del cieco, s'avvicinò alla tettoia correndo
curvo per non bagnarsi. I compagni lo imitarono.
Eccitato dal successo il cieco si animò, si sollevò, raccontò la storia di Tamar e
delle frittelle.
I pastori ridevano, dandosi qualche gomitata sui fianchi: portarono latte, pane,
diedero monete al cieco.
Ma Efix era triste, e appena furono soli sgridò il compagno per la sua malizia e il
cattivo esempio.
«Tu parli come parlava mia madre», disse il cieco, e si addormentò sotto la pioggia.
Alla Festa dello Spirito Santo c'era poca gente ma scelta. Erano ricchi pastori con le
mogli grasse e le belle figlie svelte: arrivavano a cavallo, fieri e bruni gli uomini, coi
lunghi coltelli infilati alla cintura nelle guaine di cuoio inciso, i giovani alti, coi
denti e il bianco degli occhi scintillante, agili come beduini: le fanciulle pieghevoli,
soavi come le figure bibliche evocate dal cieco.
Il tempo era sempre nebbioso, e intorno alla chiesetta, bruna fra le pietre e le
macchie della pianura era un silenzio infinito, un odore aspro di boschi. Il correre delle
nuvole sul cielo grigio, dava al luogo un aspetto ancora più fantastico.
Per tutta la mattina fu uno sbucare di uomini a cavallo, dal sentiero nebbioso;
smontavano taciturni, come per un convegno segreto in quel punto lontano del mondo. Ad
Efix, seduto col cieco sull'ingresso della chiesa, pareva di sognare.
Anche qui non c'erano altri mendicanti, ed egli provava un vago senso di paura quando
gli uomini forti e superbi, dalla cui bocca e dalle narici usciva un vapore di vita, gli
passavano davanti: un senso di paura e di vergogna, e anche d'invidia. Quelli erano
uomini; le loro mani sembravano artigli pronti ad afferrare la fortuna al suo passaggio.
Parevano tutti banditi, esseri superiori alla legge: non si pentivano certo delle loro
colpe, se ne avevano, non si tormentavano se si erano fatta giustizia da sé, nella vita.
Gli pareva che lo guardassero con disdegno, buttandogli la moneta, che si vergognassero di
lui come uomo e stessero per rimuoverlo col piede al loro passaggio, come uno straccio
sporco.
Ma poi guardava lontano: al di là della nebbia gli sembrava cominciasse un altro
mondo, e si aprisse la porta di cui parlava il cieco; la grande porta dell'eternità. E si
pentiva della sua vergogna.
Al suo fianco il compagno continuava a chiedere l'elemosina declamando, o si rivolgeva
a lui perché i passanti ascoltassero:
«Che facciamo noi in questa vita, di peso ai pietosi che ci danno l'elemosina?».
«Che facciamo, fratello caro?»
«Ebbene, compagno mio, tutto succede per ordine del Signore: noi siamo strumenti ed
Egli si serve di noi per provare il cuore degli uomini, come il contadino si serve della
zappa per smuovere la terra e vedere se è feconda. Cristiani, non guardate in noi due
creature povere; più tristi delle foglie cadute, più luride dei lebbrosi; guardate in
noi gli strumenti del Signore per smuovere il vostro cuore!»
Le monete di rame cadevano davanti a loro come fiori duri e sonanti. C'erano due
giovani nuoresi bellissimi che per farsi notare dalle fanciulle cominciarono a buttar
soldi al cieco, mirando da lontano al petto, e ridendo ogni volta che colpivano giusto.
Poi s'avvicinarono e presero di mira Efix, divertendosi come al bersaglio. Efix trasaliva
ad ogni colpo e gli pareva lo lapidassero, ma raccoglieva le monete con una certa
avidità, e in ultimo, finito il giuoco, di nuovo si pentì e si vergognò.
Intanto le donne preparavano il pranzo. Avevano acceso il fuoco sotto un albero
solitario e il fumo si confondeva con la nebbia. La macchia dei loro corsetti rossi
spiccava fra il grigio più viva della fiamma. Non c'erano né canti, né suoni in questa
piccola festa che ad Efix pareva riunione di banditi e di pastori radunatisi là per il
desiderio di rivedere le loro donne e di ascoltare la santa messa.
A mezzogiorno tutti si riunirono sotto l'albero, intorno al fuoco, e il prete sedette
in mezzo a loro. Il tempo si schiariva, un raggio dorato di sole allo zenit filtrava
attraverso le nuvole e cadeva dritto sopra l'albero del banchetto: e sotto, i pastori
seduti per terra, le donne coi canestri in mano, il sacerdote con una bisaccia gettata
sulle spalle a modo di scialle per ripararsi dall'umido, i fanciulli ridenti, i cani che
scuotevano la coda e guardavano fisso negli occhi i loro padroni aspettando l'osso da
rosicchiare, tutto ricordava la dolce serenità di una scena biblica.
Le donne pietose portavano grandi piatti di carne e di pane ai due mendicanti, e nel
sentire il fruscìo dei loro passi sull'erba il cieco alzava la voce e raccontava.
«Sì, c'era un re che faceva adorare gli alberi e gli animali: e persino il fuoco.
Allora Dio, offeso, fece sì che i servi di questo re diventassero tanto cattivi da
congiurare fra loro per uccidere il padrone. E così fecero. Sì, egli faceva adorare un
Dio tutto d'oro: per questo è rimasto nel mondo tanto amore del denaro, e i parenti,
persino, uccidono i parenti per il denaro. Così a me, i miei parenti, vedendomi privo di
luce, mi spogliarono come il vento spoglia l'albero in autunno.»
La gente partì presto e i due uomini rimasero un'altra volta soli nella tristezza del
luogo deserto.
La nebbia si diradava, apparivano profili di boschi neri sull'azzurro pallido
dell'orizzonte; poi tutto fu sereno, come se mani invisibili tirassero di qua e di là i
veli del mal tempo, e un grande arcobaleno di sette vivi colori e un altro più piccolo e
più scialbo s'incurvarono sul paesaggio. La primavera nuorese sorrise allora al povero
Efix seduto sulla porta della chiesetta. Grandi ranuncoli gialli, umidi come di rugiada,
brillarono nei prati argentei, e le prime stelle apparse al cadere della sera sorrisero ai
fiori: il cielo e la terra parevano due specchi che si riflettessero.
Un usignuolo cantò sull'albero solitario ancora soffuso di fumo. Tutta la frescura
della sera, tutta l'armonia delle lontananze serene, e il sorriso delle stelle ai fiori e
il sorriso dei fiori alle stelle, e la letizia fiera dei bei giovani pastori e la passione
chiusa delle donne dai corsetti rossi, e tutta la malinconia dei poveri che vivono
aspettando l'avanzo della mensa dei ricchi, e i dolori lontani e le speranze di là, e il
passato, la patria perduta, l'amore, il delitto, il rimorso, la preghiera, il cantico del
pellegrino che va e va e non sa dove passerà la notte ma si sente guidato da Dio, e la
solitudine verde del poderetto laggiù, la voce del fiume e degli ontani laggiù, l'odore
delle euforbie, il riso e il pianto di Grixenda, il riso e il pianto di Noemi, il riso e
il pianto di lui, Efix, il riso e il pianto di tutto il mondo, tremavano e vibravano nelle
note dell'usignuolo sopra l'albero solitario che pareva più alto dei monti, con la cima
rasente al cielo e la punta dell'ultima foglia ficcata dentro una stella.
Ed Efix ricominciò a piangere. Non sapeva perché, ma piangeva. Gli pareva di essere
solo nel mondo, con l'usignuolo per compagno.
Sentiva ancora le monete dei giovani nuoresi percuotergli il petto e trasaliva tutto
come se lo lapidassero; ma era un brivido di gioia, era la voluttà del martirio.
Il compagno, con le spalle appoggiate alla porta chiusa e le mani intorno alle
ginocchia, dormiva e russava.
Di là andarono a Fonni per la Festa dei Santi Martiri. Camminavano sempre a piccole
tappe, fermandosi negli ovili dove il cieco riusciva a farsi ascoltare dai pastori: e
pareva riconoscerli «all'odore» diceva lui, raccontando gli episodi più commoventi del
Vecchio Testamento ai più semplici, ai timorati di Dio, e quelli che male interpretati
avevano un sapore di scandalo, ai giovani ed ai libertini.
Questa condotta del compagno addolorava Efix: a volte se ne sentiva tanto nauseato che
si proponeva di abbandonarlo, ma ripensandoci gli sembrava che la sua penitenza fosse più
completa così, e diceva a se stesso:
«È come che conduca un malato, un lebbroso. Dio terrà più in conto la mia opera di
misericordia».
Per strada raggiunsero altri mendicanti che si recavano alla festa: tutti salutarono il
cieco come una vecchia conoscenza, ma guardarono Efix con occhi diffidenti.
«Tu sei forte e potente ancora», gli disse un giovane sciancato, «come va che chiedi
l'elemosina?»
«Ho un male segreto che mi consuma e mi impedisce di lavorare», rispose Efix, ma ebbe
vergogna della sua bugia.
«Dio comanda di lavorare finché si può: potessi lavorare, io; oh, come sono felici
quelli che possono lavorare!»
Efix pensava a Giacinto, divenuto allegro e buono dopo che aveva trovato da lavorare, e
si domandava con rammarico se non aveva ancora una volta errato abbandonando le sue povere
padrone.
Così andava andava ma non trovava pace; e il suo pensiero era sempre laggiù, fra le
canne e gli ontani del poderetto. Specialmente alla sera, se un usignuolo cantava, la
nostalgia lo struggeva.
«Che penserà don Predu che mi aspetta con la risposta di Noemi? Ma Dio provvederà: e
provvederà bene, adesso che io col mio peccato mortale e con la mia scomunica sono
lontano da loro.»
E andava, andava, in fila coi mendicanti, su, su, attraverso la valle verde di
Mamojada, su, su, verso Fonni, per i sentieri sopra i quali, nella sera nuvolosa, i monti
del Gennargentu incombevano con forme fantastiche di muraglie, di castelli, di tombe
ciclopiche, di città argentee, di boschi azzurri coperti di nebbia; ma gli sembrava che
il suo corpo fosse come un sacco vuoto, sbattuto dal vento, lacero, sporco, buono solo da
buttarsi fra i cenci.
E i suoi compagni non erano di più di lui. Camminavano, camminavano, non sapevano
dove, non sapevano perché; i luoghi di spasso ove andavano erano per loro indifferenti,
non più lieti né tristi delle solitudini ove facevano tappa per riposarsi o per
mangiare.
Eppure litigavano fra loro, urlavano parole oscene, parlavano male di Dio, si
invidiavano: avevano tutte le passioni degli uomini fortunati. Efix, stanco morto, con la
febbre fin dentro le ossa, non tentava di convertirli, e neppure sentiva pietà di loro;
ma gli pareva di camminare in sogno, portato via da una compagnia di fantasmi, come tante
volte laggiù nelle notti del poderetto; era già morto ed errava ancora per il mondo,
scacciato dai regni di là.
A Fonni, dove i mendicanti si collocarono nel cortiletto intorno alla Basilica piena di
gente di lontani paesi, egli cominciò a provare un nuovo tormento. Aveva paura di esser
riconosciuto, e tentava di nascondersi dietro il suo compagno.
Accanto a loro stavano altri due mendicanti, un vecchio cieco e un giovane che prima
d'arrivare si era punto il petto sotto la mammella destra sfregandovi su il latte di
un'erba velenosa per formarvi un gonfiore che esponeva alla folla come un tumore maligno.
Efix provava rabbia per quest'inganno, e quando le monete cadevano nel cappello del suo
compagno, arrossiva sembrandogli di ingannare anche lui i pietosi.
E le monete cadevano, cadevano. Egli non aveva mai immaginato che ci fossero tanti
pietosi, al mondo: le donne soprattutto erano generose, e un'ombra dolce velava i loro
occhi ogni volta che il falso tumore del mendicante giovane appariva gonfio e scuro come
un fico tra le pieghe della camicia slacciata.
Quasi tutte si fermavano, col viso reclinato, interrogando. Alcune erano alte, sottili,
fasciate di orbace, coi grembiali ricamati di geroglifici gialli e verdi e i cappucci di
scarlatto, e pareva venissero di lontano, dall'antico Egitto: altre avevano i fianchi
potenti, il viso largo con due pomi maturati per guance, la bocca carnosa, ardente e umida
come l'orlo d'un vaso di miele.
Efix rispondeva a occhi bassi alle loro domande, e raccoglieva con tristezza
l'elemosina.
Ma anche alcuni uomini si fermarono intorno al vecchio cieco e al falso infermo, e uno
si curvò per guardar bene il tumore.
«Sì, così Dio mi assista», disse, «era proprio così. Ed è campato solo un
anno.»
«Un anno solo?», gridò un altro. «Ah, non mi basterebbe neanche per condurre a
termine tre delle mille cose che penso. Su, prendi!»
E gettò all'infermo una moneta d'argento. Allora fu una gara a chi più offriva al
condannato a morir presto: le monete piovevano sulla sua bisaccia, tanto che il compagno
di Efix diventò livido e la sua voce tremò per l'invidia. A mezzogiorno rifiutò da
mangiare; poi tacque e parve meditare qualche cosa di fosco. Infatti, quando la folla si
radunò nuovamente nel cortile e le donne passando si frugavano in tasca per dare
l'elemosina al finto malato, egli cominciò a gridare:
«Ma guardatelo bene! È più sano di voi. S'è punto con un ago avvelenato».
Allora qualcuno si curvò a guardare meglio il falso tumore, e il mendicante, pallido,
immobile, non reagì, non parlò; ma il vecchio cieco suo compagno s'alzò a un tratto,
alto, tentennante come un fusto d'albero scosso dal vento; mosse qualche passo e
s'abbatte: su Istène battendogli i pugni sulla testa come due martelli.
Dapprima Istène chinò la testa fin quasi a mettersela fra le ginocchia; poi si
sollevò, afferrò le gambe del suo assalitore e lo scosse tutto e non riuscendo ad
abbatterlo gli morsicò un ginocchio. Non parlavano e il loro silenzio rendeva la scena
più tragica: dopo un momento però un grappolo di gente fu sopra di loro e gli strilli
delle donne s'unirono alle risate degli uomini.
«Io però vorrei sapere come ha fatto a vederlo!»
«Ma se non è cieco! Malanno li colga tutti, fingono dal primo all'ultimo.»
«E io gli ho dato tre volte nove reali! Come te lo hai fatto il tumore?... Dimmelo, ti
do altri nove reali; che così me lo faccio anch'io per non andare al servizio militare.»
«Guarda che vengono i soldati.»
«State zitti: roba da niente.»
La gente si divise per lasciar passare i carabinieri: alti, col pennacchio rosso e
azzurro svolazzante come un uccello fantastico, stettero sopra i due mendicanti
raggomitolati per terra.
Il vecchio tremava di rabbia, ma non apriva bocca; l'altro aveva ripreso la sua
posizione e disse con voce triste che non sapeva nulla, che non si era mosso, che aveva
sentito un uomo piombargli addosso come un muro che crolla.
Li fecero alzare, li portarono via. La folla andò loro dietro come in processione.
Efix seguiva anche lui, ma le gambe gli tremavano, un velo gli copriva gli occhi.
«Adesso arrestano anche me, e vengono a sapere chi sono, e vengono a sapere tutto e mi
condannano.»
Ma nessuno badava a lui, e dopo che i due ciechi furono dentro in caserma la gente se
ne andò ed egli rimase solo, a distanza, seduto su una pietra ad aspettare.
Aveva paura ma per nulla al mondo avrebbe abbandonato il cieco. Rimase lì un'ora, due,
tre. Il luogo era silenzioso: la gente era giù alla festa e il villaggio in quell'angolo
pareva disabitato. Il sole batteva sui tetti di schegge delle casette basse e umili come
capanne, il vento del pomeriggio portava un odore di erbe aromatiche e qualche grido,
qualche suono lontano.
Quella pace aumentava il turbamento di Efix. Per la prima volta gli appariva chiaro,
come la roccia là sui monti attraverso l'aria diafana, l'errore della sua penitenza. No,
non era questo ch'egli aveva sognato.
E le sue povere padrone che pativano laggiù, sole, abbandonate? Per la prima volta
pensò di tornare, di finire i suoi giorni ai loro piedi come un cane fedele. Tornare,
condannarsi anche l'anima, ma non farle soffrire: questa era la vera penitenza. Ma non
poteva abbandonare il compagno. Ed ecco che la porta della caserma si apre e i due ciechi
ne escono, tenendosi per mano come fratelli.
Efix andò loro incontro, prese per mano il suo compagno. Così in fila tornarono al
cortile della Basilica, e vi fecero il giro cercando il falso malato. La gente ballava e
suonava, il tramonto tingeva di rosa il campanile, i tetti, gli alberi intorno; dalla
chiesa usciva un salmodiare di laudi che accompagnava il motivo della danza, e un profumo
d'incenso che si mescolava all'odore degli orti.
Ma per quanto lo cercassero, il finto malato non si trovò nel cortile, né in chiesa e
neppure nelle strade attorno. Qualcuno disse che era scappato per paura dei carabinieri.
Così Efix rimase con tutti e due i ciechi.
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