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Capitolo sesto
Nei tempi di carestia, cioè nelle settimane che precedevano la raccolta dell'orzo, e
la gente, terminata la provvista del grano, ricorre all'usura, la vecchia Pottoi andava a
pescare sanguisughe. Il suo posto favorito era una insenatura del fiume sotto la Collina
dei Colombi presso il poderetto delle dame Pintor.
Stava là ore ed ore immobile, seduta all'ombra di un ontano, con le gambe nude
nell'acqua trasparente verdognola venata d'oro; e mentre con una mano teneva ferma sulla
sabbia una bottiglia, con l'altra si toccava la collana.
Di tanto in tanto si curvava un poco, vedeva i suoi piedi ondulare grandi e giallastri
entro l'acqua, ne traeva uno, staccava dalla gamba bagnata un acino nero lucente che vi si
era attaccato, e lo introduceva nella bottiglia spingendovelo giù con un giunco. L'acino
s'allungava, si restringeva, prendeva la forma di un anello nero: era la sanguisuga.
Un giorno, verso la metà di giugno, ella salì fino alla capanna di Efix. Faceva un
gran caldo e la valle era tutta gialla sotto il cielo d'un azzurro velato.
Il servo intrecciava una stuoia, all'ombra delle canne, con le dita che tremavano per
la febbre di malaria; vedendo la vecchia che gli si sedeva ai piedi con la bottiglia in
grembo, sollevò appena gli occhi velati e attese rassegnato, quasi sapesse già quello
che ella voleva da lui.
«Efix, sei un uomo di Dio e puoi parlarmi con la coscienza in mano. Che intenzioni ha
il tuo padroncino? Egli viene a casa mia, si mette a sedere, dice al ragazzo: suona la
fisarmonica (gliel'ha regalata lui), poi dice a me: manderò zia Ester, a chiedervi la
mano di Grixenda; ma donna Ester non si vede, e un giorno che io sono andata là, donna
Noemi mi ha preso viva, e morta m'ha lasciata, tanti improperi mi ha detto. Tornata poi a
casa, Grixenda m'ha anche lei mancato di rispetto, perché non vuole che vada dalle tue
padrone. Io non so da qual parte rivolgermi, Efix; non siamo noi che abbiamo chiamato il
ragazzo dalla strada: è venuto lui. Kallina mi dice: cacciatelo fuori. Ma lei lo caccia
fuori, quando ci va?»
Efix sorrise.
«Là non va certo per far all'amore!...»
Allora la vecchia sollevò irritata il viso e il suo collo parve allungarsi più del
solito, tutto corde.
«E in casa mia viene forse a far all'amore? No; egli è un ragazzo onesto. Neppure
tocca la mano a Grixenda. Essi si amano come buoni cristiani, in attesa di sposarsi. Dimmi
in tua coscienza, Efix, che intenzioni ha? Fammi questa carità, per l'anima del tuo
padrone.»
Efix diventò pensieroso.
«Sì, una sera, alla festa, egli mi disse: la sposerò... In mia coscienza credo però
che egli non possa.»
«Perché? Egli non è nobile.»
«Non può, ripeto, donna!», disse Efix con più forza.
«Per denari ne ha, questo si vede. Spende senza contare. E il tuo padrone morto
diceva, mi ricordo, quando anche lui veniva a sedersi a casa mia ed era giovane e viveva
mia nonna: l'amore è quello che lega l'uomo alla donna, e il denaro quello che lega la
donna all'uomo.»
«Lui? Diceva così? A chi?»
«A me, sei sordo? Sì a me. Ma io avevo quindici anni ed ero senza malizia. Mia nonna
cacciò via di casa don Zame e mi fece sposare Priamu Piras. E Priamu mio era un
valent'uomo: aveva un pungolo con una lesina in cima e mi diceva, avvicinandomelo agli
occhi: vedi? ti porto via la pupilla viva se guardi don Zame quando ti guarda. Così
passò il tempo. Ma i morti ritornano: eccoli, quando don Giacintino sta seduto sullo
sgabello e Grixenda sulla soglia della porta, mi par di essere io e il beato morto...»
Quando ella incominciava a divagare così non la finiva mai, ed Efix che lo sapeva la
mandò via infastidito.
«Andate in pace! Cercate anche voi un uomo con un buon pungolo, per nipote vostra!»
E la vecchia contenta di sapere che il ragazzo una sera alla festa aveva detto: «la
sposerò» andò via senz'altro. Efix rimase solo in faccia alla luna rossa che saliva tra
i vapori cinerei della sera, ma si sentiva inquieto: nel sopore in cui tutta la valle era
immersa, il mormorio dell'acqua gli pareva il ronzio della febbre, e che i grilli stessi
col loro canto si lamentassero senza tregua.
No, la vita che Giacinto conduceva non era quella di un giovane onesto e timorato di
Dio: giorno per giorno le grandi speranze fondate su lui cadevano lasciando posto a vere
inquietudini. Egli spendeva e non guadagnava; ed anche il pozzo più profondo, pensava
Efix, ad attingervi troppo si secca.
Qualche sera Giacinto scendeva al poderetto per portare in paese le frutta e gli
ortaggi che le zie poi vendevano a casa di nascosto come roba rubata, poiché non è da
donne nobili far le erbivendole, e tutto questo era quanto di più utile egli faceva: il
resto del tempo lo passava oziando di qua e di là per il paese. Ma eccolo che vien su per
il sentiero trascinandosi a fianco come un cane la bicicletta polverosa: arriva ansante
quasi venga dall'altro capo del mondo e dopo aver gettato da lontano un involto al servo
si butta per terra lungo disteso come morto.
E di un morto aveva il viso pallido, le labbra grigie; ma un tremito gli agitava la
spalla sinistra, tanto che Efix spaventato trasse di tasca un tubetto di vetro, fece
cadere sulla palma della mano due pastiglie di chinino e gliele mise in bocca.
«Mandale giù. Hai la febbre!»
Giacinto ingoiò le pastiglie e senza sollevarsi si strinse la testa fra le mani.
«Come sono stanco, Efix! Sì, ho la febbre: l'ho presa, sì! Come si fa a non
prenderla, in questo maledetto paese? Che paese!», aggiunse come parlando fra sé,
stanco. «Si muore: si muore...»
«Alzati», disse Efix, curvo su lui. «Non star lì: l'aria della sera fa male.»
«Lasciami crepare, Efix! Lasciami! Che caldo! Non ho mai conosciuto un caldo simile:
almeno da noi si facevano i bagni...»
Che dirgli, per confortarlo? «Perché non sei rimasto là?» Efix sentiva
troppa pietà di tanta miseria prostrata davanti a lui, per parlare così.
«Che hai fatto oggi?», domandò sottovoce.
«E cosa vuoi che faccia? Non ce niente da fare! Scender qui a portarti il pane, tornar
là a portare l'erba! E loro che vivono come tre mummie! Zia Noemi oggi però s'e
inquietata un poco, perché zia Ester mi diceva che non riesce a metter su i denari per
l'imposta. Si capisce! Spendono per me, e da me non vogliono niente! Io dissi a zia Ester:
non preoccupatevi, andrò io dall'esattore. - Una furia, zia Noemi! Aveva gli occhi come
un gatto arrabbiato. Non la credevo così collerica. Ebbene, mi disse persino: coi tuoi
denari, se ne hai, compra un'altra fisarmonica a Grixenda. Che male c'è, Efix, s'io vado
da quella ragazza? Dove si va, se no? Zio Pietro mi porta alla bettola, e a me non piace
il vino, lo sai; il Milese vuole che io giochi (così s'è fatto la fortuna, lui!) ed a me
non piace giocare. Vado là, dalla ragazza, perché è buona, e la vecchia dice cose
divertenti. Che male c'è, dimmi. Dimmi?»
Lo guardava di sotto in su, supplichevole, con gli occhi dolci lucidi alla luna. Efix
aveva preso l'involto del pane, ma non poteva mangiare; sentiva la gola stretta da
un'angoscia profonda.
«Nessun male! Ma la ragazza, benché buona, è povera e non è degna di te.»
«L'amore non conosce né povertà né nobiltà. Quanti signori non han sposato ragazze
povere? Che ne sai tu? Più di un lord inglese, più di un milionario d'America han
sposato serve, maestre, cantanti... perché? Perché amavano. E quelli son ricchi: sono i
re del petrolio, del rame, delle conserve! Chi sono io, al loro confronto? E le donne? Le
principesse russe, le americane, chi sposano? Non s'innamorano di poveri artisti e persino
dei loro cocchieri e dei loro servi? Ma tu che cosa puoi sapere?»
Efix stringeva fra le mani un pezzo di pane e gli sembrava di stringere il suo cuore
tormentato dai ricordi.
«Eppoi dicono di credere in Dio, loro! Perché non mi lasciano sposare la donna che
amo?»
«Taci, Giacinto! Non parlare così di loro! Esse vogliono il tuo bene.»
«Allora mi lascino formare la mia famiglia. Io, magari, porterò Grixenda in casa loro
ed essa le aiuterà. Ormai esse sono vecchie. Io lavorerò. Andrò a Nuoro, comprerò
formaggio, bestiame, lana, vino, persino legna, sì: perché adesso, con la guerra, tutto
ha valore. Andrò a Roma e offrirò la merce al Ministero della Guerra. Sai quanto c'è da
guadagnare?»
«Ma! E i capitali?»
«Non ci pensare, li ho. Basta mi lascino in pace, loro. Io non sono venuto per
sfruttarle né per vivere alle loro spalle. Ah, ma zia Noemi è terribile!», egli gemette
a un tratto, nascondendosi il viso fra le mani. «Ah, Efix, sono così amareggiato! Eppoi
mi fa tanta vergogna vederle così misere; vederle vender di nascosto le patate, le pere e
i pomi ai bambini che entrano piano piano nel cortile, col soldo nel pugno, e domandando
la roba sottovoce quasi si tratti di cosa rubata! Mi vergogno, sì! Questo deve cessare.
Esse torneranno quelle che erano, se mi lasceranno fare. Se zia Noemi sapesse il bene che
le voglio non farebbe così...»
«Giacinto! Dammi la mano: sei bravo!», disse Efix commosso.
Tacquero, poi Giacinto riprese a parlare con una voce tenue, dolce, che vibrava nel
silenzio lunare come una voce infantile.
«Efix, tu sei buono. Ti voglio raccontare una cosa accaduta ad un mio amico. Era
impiegato con me alla Dogana. Un giorno un ricco capitano di porto in ritiro, un buon
signore grosso ma ingenuo come un bambino, venne per fare un pagamento. Il mio amico
disse: Lasci i denari e torni più tardi per la ricevuta che dev'essere firmata dal
superiore. Il capitano lasciò i denari; il mio amico li prese, andò fuori, li giocò e
li perdette. E quando il capitano tornò, il mio amico disse che non aveva ricevuto nulla!
Quello protestò, andò dai superiori; ma non aveva la ricevuta e tutti gli risero in
faccia. Eppure il mio amico fu cacciato via dal posto... sì, saranno quattro mesi... sì,
ricordo, in carnevale. Egli andò a ballare. Si stordiva, beveva: non aveva più un soldo.
Uscendo dal ballo prese una polmonite e cadde su una panchina di un viale. Lo portarono
all'ospedale. Quando uscì, debole e sfinito, non aveva casa, non aveva pane. Dormiva
sotto gli archi del porto, tossiva e faceva brutti sogni: sognava sempre il capitano che
lo inseguiva, lo inseguiva... come nelle scene del cinematografo. Ed ecco una sera, ecco
proprio il capitano che va a cercarlo sotto gli archi del porto. L'amico credeva di
sognare ancora; ma l'altro gli disse: sa, è da un pezzetto che la cerco. So che è fuori
di posto per via del versamento, ma a me preme che i suoi superiori e tutti sappiano la
verità. È meglio anche per lei: dica in sua coscienza: li ho versati o no, i denari? -
L'amico rispose: sì. - Allora il capitano disse: - Cerchiamo di aggiustare le cose. Io
non voglio rovinarla: venga a casa mia, ecco il mio indirizzo: venga domani e assieme
andremo dai suoi superiori. - Va bene! Ma l'indomani né poi l'amico andò. Aveva paura.
Aveva paura. Eppoi il tempo era orribile ed egli non si muoveva di là. Tossiva e un
facchino gli portava di tanto in tanto un po' di latte caldo. Che tempo era? Che tempo!»,
ripeté Giacinto, e sollevò il viso guardandosi attorno quasi per accertarsi che la notte
era bella.
Efix ascoltava, col gomito sul ginocchio e il viso sulla mano, come i bambini intenti
alle fiabe.
«Ma un giorno mi decisi e andai...»
Silenzio. Il viso dei due uomini si coprì d'ombra ed entrambi abbassarono gli occhi.
La spalla di Giacinto tremava convulsa; ma egli la sollevò e la scosse come per liberarsi
dal tremito, e riprese con voce più dura:
«Sì, ero io, tu avevi capito. Andai dal capitano. Non era in casa, ma la cameriera,
una ragazza pallida che parlava sottovoce, mi fece aspettare in anticamera. La stanza era
quasi buia, ma ricordo che quando un uscio s'apriva il pavimento rosso luccicava come
lavato col sangue. Aspettai ore ed ore. Finalmente il capitano tornò; era con la moglie,
grossa come lui, bonaria come lui. Sembravano due bambini enormi; ridevano rumorosamente.
La signora aprì gli usci per vedermi bene: io tossivo e sbadigliavo. Si accorsero che
avevo fame e m'invitarono ad entrare nella sala da pranzo. Io, ricordo, mi alzai, ma
ricaddi seduto battendo la testa alla spalliera della cassapanca. Non ricordo altro.
Quando rinvenni ero a letto, in casa loro. La cameriera mi portava una tazza di brodo su
un vassoio d'argento e mi parlava con grande rispetto. Rimasi là più di un mese, Efix,
capisci: quaranta giorni. Mi curarono, cercarono di rimettermi a posto; ma il posto era
difficile trovarlo perché tutti ormai sapevano la mia storia. D'altronde anch'io volevo
andarmene lontano, al di là del mare. Ciò che io ho sofferto durante quel tempo nessuno
può saperlo: il capitano, sua moglie, la serva io li vedo sempre in sogno; li vedo anche
nella realtà, anche adesso, lì, davanti a me. Essi erano buoni, ma io vorrei
sprofondarmi per non vederli più. E il peggio è che non potevo andarmene da casa
loro. Stavo lì, istupidito, seduto immobile ad ascoltare la signora che parlava parlava
parlava, o in compagnia della serva che taceva: sedevo a tavola con loro, li sentivo
scherzare, far progetti per me, come fossi un loro figliuolo, e tutto mi dava pena, mi
umiliava, eppure non potevo andarmene. Finalmente un giorno la signora, vedendomi
completamente guarito, mi domandò che intenzioni avevo. Io dissi che volevo venire qui
dalle mie zie, di cui avevo parlato come di persone benestanti. Allora mi comprarono il
biglietto per il viaggio e mi regalarono anche la bicicletta. Io capii ch'era tempo
d'andarmene e partii: venni qui. Che liberazione, in principio! Ma adesso, in casa delle
zie, sono ancora come là... e non so...».
Un grido che aveva qualche cosa di beffardo attraversò il silenzio del ciglione, sopra
i due uomini, e Giacinto balzò sorpreso credendo che qualcuno avesse ascoltato il suo
racconto e lo irridesse: ma vide una piccola forma grigia lunga, seguita da un'altra più
scura e più corta, balzare come volando da una macchia all'altra intorno alla capanna e
sparire senza neppur lasciargli tempo di raccattare un sasso per colpirla.
Anche Efix s'era alzato.
«Son le volpi», disse sottovoce. «Lasciale correre: fanno all'amore. Sembrano
folletti, alle volte» riprese mentre Giacinto si buttava di nuovo per terra silenzioso.
«Hai veduto com'eran lunghe? Mangiano l'uva acerba come diavoli...»
Ma Giacinto non parlava più. Ed Efix non sapeva cosa dire, se pregarlo di riprendere
il racconto, se confortarlo, se commentare in bene o in male quanto aveva sentito. Ecco
perché era stato triste, tutto il giorno, ecco come vanno le cose della vita! Ma che
dire? In fondo era contento che il passaggio delle volpi avesse fatto tacere Giacinto;
tuttavia qualche cosa bisognava pur dire.
«Dunque... quel capitano? Si vede che era uomo savio: capiva che la gioventù... la
gioventù... è soggetta all'errore... Eppoi quando si è orfani! Su, alzati; vuoi
mangiare?»
Entrò nella capanna e tornò sbucciando una cipolla: Giacinto stava immobile,
abbattuto, forse pentito della sua confessione, ed egli non osò più parlare.
L'odore della cipolla si mischiava al profumo delle erbe intorno, della vite e della
salsapariglia; le volpi ripassarono. Efix cenò ma il pane gli parve amaro. E due o tre
volte tentò di dire qualche cosa; ma non poteva, non poteva; gli sembrava un sogno.
Finalmente scosse Giacinto, tentò di sollevarlo, gli disse con dolcezza:
«Su, vieni dentro! La febbre è in giro...».
Ma il corpo del giovine sembrava di bronzo, steso grave aderente alla terra dalla quale
pareva non volesse più staccarsi.
Efix rientrò nella capanna, ma tardò a chiudere gli occhi, e anche nel sonno aveva
l'idea tormentosa di dover commentare il racconto di Giacinto, non sapeva però come, se
in bene o in male.
«Devo dirgli: ebbene, coraggio, ti emenderai! Dopo tutto eri un ragazzo, un
orfano...»
Ma sognò Noemi che lo guardava coi suoi occhi cattivi, e gli diceva sottovoce, a denti
stretti:
«Lo vedi? Lo vedi che razza di uomo è?».
Si svegliò con un peso sul cuore; benché fosse notte ancora si alzò, ma Giacinto se
n'era già andato.
Per molti giorni non si lasciò più vedere, tanto che Efix cominciò a inquietarsi,
anche perché gli ortaggi e i pomi si ammucchiavano all'ombra della capanna e nessuno
veniva a prenderli.
Ogni sera don Predu, che possedeva grandi poderi verso il mare, passava di ritorno al
paese, e se vedeva il servo tendeva l'indice verso la terra delle sue cugine e poi si
toccava il petto per significare che aspettava l'espropriazione e il possesso del
poderetto; ma Efix, abituato a quella mimica, salutava, e a sua volta accennava di no, di
no, con la mano e con la testa.
Dopo la confessione di Giacinto s'inquietava però vedendo don Predu; gli sembrava più
beffardo del solito.
Una sera aspettò accanto alla siepe, e gli chiese:
«Don Predu, mi dica, ha veduto il mio padroncino? L'altra sera venne qui che aveva la
febbre e adesso sto in pensiero per lui».
Don Predu rise, dall'alto del cavallo, col suo riso forzato a bocca chiusa, a guance
gonfie.
«Ieri sera l'ho veduto a giocare dal Milese. E perdeva, anche!»
«Perdeva!», ripeté Efix smarrito.
«Come lo dici! Vuoi che vinca sempre?»
«A me disse che non giocava mai...»
«E tu lo credi? Non dice una verità neanche se gli dai una fucilata. Ma non è
cattivo: dice le bugie, così perché gli sembran verità, come i bambini.»
«Come un bambino davvero...»
«Un bambino che ha tutti i denti però! E come mastica! Vi mangerà anche il
poderetto. Efix, ricordati: son qua io! Se no, bastonate...»
Efix lo guardava dal basso, spaurito; e il grosso uomo a cavallo gli sembrava, nel
crepuscolo rosso, un uccello di malaugurio, uno dei tanti mostri notturni di cui aveva
paura.
«Gesù, salvaci. Nostra Signora del Rimedio, pensa a noi...»
Don Predu s'era già allontanato, quando Efix lo raggiunse nello stradone porgendogli
con tutte e due le mani un cestino colmo di pomi e di ortaggi.
«Don Predu, mandi questo con la sua serva alle mie padrone. Io non posso abbandonare
il poderetto... e don Giacinto non viene...»
Da prima l'uomo lo guardò sorpreso; poi un sorriso benevolo gli increspò le labbra
carnose. Sollevò una gamba e disse:
«Guarda lì, c'è posto».
Efix cacciò il cestino entro la bisaccia, e mentre don Predu andava via senza dir
altro, se ne tornò su alla capanna: aveva paura che le padrone lo sgridassero; sapeva
d'aver commesso un atto grave, forse un errore; ma non si pentiva. Una mano misteriosa lo
aveva spinto, ed egli sapeva che tutte le azioni compiute così, per forza sovrannaturale,
sono azioni buone.
Aspettò Giacinto fino al tardi. La luna piena imbiancava la valle, e la notte era
così chiara che si distingueva l'ombra d'ogni stelo. Persino i fantasmi, quella notte,
non osavano uscire, tanta luce c'era: e il mormorio dell'acqua era solitario, non
accompagnato dallo sbatter dei panni delle panas. Anche i fantasmi avevan pace,
quella notte. Il servo solo non poteva dormire. Pensava alla storia di Giacinto e del
capitano di porto, e provava un senso d'infinita dolcezza, d'infinita tristezza.
Tutti, nel mondo, pecchiamo, più o meno, adesso, o prima o poi: e per questo? Il
capitano non aveva perdonato? Perché non dovevano perdonare anche gli altri? Ah, se tutti
si perdonassero a viceversa! Il mondo avrebbe pace: tutto sarebbe chiaro e tranquillo come
in quella notte di luna.
S'alzò e andò a fare un giro nel poderetto. Sì, sul sentieruolo bianco si disegnava
anche l'ombra dei fiori: le foglie dei fichi d'India avevano le spine, nell'ombra, e dove
l'acqua era ferma, giù al fiume, si vedevano le stelle.
Ma ecco un'ombra che si muove dietro la siepe, fra gli ontani: è un animale deforme,
nero, con le gambe d'argento: scricchiola sulla sabbia, si ferma.
Efix corse giù; gli sembrava di volare.
«Sei tu! Sei tu? M'hai spaventato.»
Giacintino si tirò a fianco la bicicletta e lo seguì silenzioso; ma ancora una volta,
arrivati davanti alla capanna si buttò a terra gemendo:
«Efix. Efix, non ne posso più... Che hai fatto! Che hai fatto!».
«Che ho fatto?»
«Non so bene neppur io. È venuta la serva di zio Pietro, portando un cestino, dicendo
che lo avevi consegnato tu al suo padrone. C'erano zia Ruth e zia Noemi in casa, poiché
zia Ester era alla novena: presero il cestino e ringraziarono la serva, e le diedero anche
la mancia; ma poi zia Noemi fu colta da uno svenimento. E zia Ruth la credeva morta, e
gridò. Corsero a chiamare zia Ester; ella venne spaventata, e per la prima volta anche
lei mi guardò torva e mi disse che son venuto per farle morire. Oh Dio, Dio, oh Dio, Dio!
Io bagnavo il viso di zia Noemi con l'aceto e piangevo, te lo giuro sulla memoria di mia
madre; piangevo senza sapere perché. Finalmente zia Noemi rinvenne e mi allontanò con la
mano; diceva: era meglio fossi morta, prima di questo giorno. Io domandavo: perché?
perché, zia Noemi mia, perché? E lei mi allontanava con una mano, nascondendosi gli
occhi con l'altra. Che pena! Perché son venuto, Efix? Perché?»
Il servo non sapeva rispondere. Adesso vedeva, sì, tutto l'errore commesso,
consegnando il cestino a don Predu e pensava al modo di rimediarvi, ma non vedeva come,
non sapeva perché, e ancora una volta sentiva tutto il peso delle disgrazie dei suoi
padroni gravare su lui.
«Sta' quieto», disse infine. «Tornerò io domani al paese e rimedierò tutto.»
Allora Giacinto riprese
«Tu devi dire alle zie che non son stato io a consigliarti di incaricare zio Pietro
della consegna del cestino. Esse credono così. Esse credono, e zia Noemi specialmente,
che io cerchi l'amicizia di zio Pietro per far dispetto a loro. Io sono amico di tutti;
perché non dovrei esserlo di zio Pietro? Ma le zie sanno che egli vuole comprare il
poderetto. Che colpa ne ho io? Sono io che voglio venderlo, forse?»
«Nessuno vuol venderlo. Perché parlare di queste cose? Ma tu, anima mia, tu... tu
l'altra sera dicevi questo, dicevi quest'altro: promettevi mari e monti, per far felici le
tue zie; e ieri sera, invece, sei andato a giocare...»
«Giocando tante volte si guadagna. Io voglio guadagnare, appunto per loro: no,
non voglio più essere a carico loro. Voglio morire... Vedi» aggiunse sottovoce «adesso,
dopo la scena di oggi, mi pare di essere ancora nella casa del capitano... Dio mi aiuti,
Efix!»
Efix ascoltava con terrore: sentiva d'essere di nuovo davanti al destino tragico della
famiglia alla quale era attaccato come il musco alla pietra, e non sapeva che dire, non
sapeva che fare.
«Oh», sospirò profondamente Giacinto. «Ma di qui me ne vado certo; non aspetto che
mi caccino via! Sono senza carità, le mie zie, specialmente zia Noemi. Non m'importa,
però: essa non ha perdonato mia madre; come può perdonare me? Ma io, ma io...»
Abbassò la testa e trasse di saccoccia una lettera.
«Vedi, Efix? So tutto. Se zia Noemi non ha perdonato mia madre dopo questa lettera,
come può aver l'animo buono? Tu lo sai cosa c'è, in questa lettera, l'hai portata tu, a
zia Noemi. Ed io gliel'ho presa: stava sul lettuccio, il giorno del mio arrivo: io ne
lessi qualche riga, poi la presi dall'armadio, oggi... È mia; è di mia madre; è mia...
Non è degna di stare là questa lettera...»
«Giacinto! Dammela!», disse Efix stendendo le mani. «Non è tua! Dammela: la
riporterò io, alle mie padrone.»
Ma Giacinto stringeva la lettera fra le palme delle mani e scuoteva la testa. Efix
cercò di prendergliela: supplicava, pareva domandasse un'elemosina suprema.
«Giacinto, dammela. La riporterò io, la rimetterò nell'armadio. Parlerò io con
loro, metterò pace. Tu aspettami qui. Ma dammi la lettera.»
Giacinto lo guardò. La sua spalla tremava, ma gli occhi erano freddi, quasi crudeli.
Allora Efix balzò, gli gravò le mani sulle spalle, gli sibilò all'orecchio una parola.
«Ladro!»
Giacinto ebbe l'impressione di essere assalito da un avvoltoio; aprì le mani e la
lettera cadde per terra.
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