
   
CAPITOLO I
ESPERIMENTI DEL CURATO E DEL BARBIERE SOPRA LA MALATTIA
DI DON CHISCIOTTE.

Cid Hamet Ben-Engeli nella seconda parte di questa istoria, e nella terza uscita di don
Chisciotte, racconta che il curato ed il barbiere lasciarono scorrere un mese prima che si
facessero vedere da lui, per non ridurgli alla memoria le passate cose. Non per questo
mancarono di visitare sua nipote e la serva, raccomandando loro di blandirlo molto, e di
fargli mangiare cose confortative e appropriate al cuore e al cervello, dal cui
sovvertimento doveva credersi che procedesse tutta la sua disgrazia; e furono assicurati
da ambedue che si sarebbero data la più viva premura, scorgendo già nel padrone un
qualche segno che ei ritornava nel suo pieno giudizio. I due amici n'ebbero molto
contento, avvisandosi di essersi attenuti al più sano consiglio col ricondurlo come
incantato sul carro tirato dai buoi, siccome si è detto nell'ultimo capitolo della prima
parte di questa altrettanto grande che veridica istoria. E così si determinarono di
visitarlo e di conoscere se fosse reale quel miglioramento da loro tenuto quasi per
impossibile; ma nel tempo stesso convennero di non toccare punto alcuno della errante
cavalleria per non correre pericolo di riaprire una ferita ancor troppo fresca.
Si recarono dunque a fargli visita in casa, e lo trovarono seduto nel suo letto con
indosso una camiciuola di rovescio verde, ed in capo un berrettino rosso di quei di
Toledo; ed era sì secco ed allungato e stecchito che pareva proprio una mummia. Ebbero da
lui cortese accoglienza, ed avendolo interrogato di sua salute ne ricevettero giudiziose
ed acconce risposte. Versò il tema dei loro discorsi intorno a quella che si denomina
Ragione di Stato, e intorno alla maniera di governare, emendando il tal abuso, riprovando
il tal altro, promovendo la riforma del tal costume, sbandendone un'altra e costituendosi
ognuno dei tre qual novello legislatore, quasi moderno Licurgo e fervente Solone,
rinnovavano a parole il governo della cosa pubblica come se avessero posto lo Stato in un
crogiuolo, e cavatone fuora un altro a loro senno più bello e perfetto. Parlò don
Chisciotte sugli argomenti tutti discussi con tanta saggezza, che i due esaminatori si
persuasero fermamente lui essere guarito affatto dalla vecchia pazzia.
Erano presenti a questi colloqui e la nipote e la serva, le quali rendevano
incessanti grazie al Signore vedendo il loro zio e padrone ricondotto interamente al buon
senno: ma il curato scostandosi un giorno dal suo primo divisamento, ch'era di non muovere
parola intorno a cose di cavalleria, volle avere più compiuta esperienza se falsa o
veritiera fosse la guarigione di don Chisciotte. Passando perciò da uno in altro
proposito si fece a narrare certe nuove ch'erano venute dalla Corte e tra le altre disse
che il Turco calava con assai poderosa armata senza potersi punto indovinare i disegni
suoi, ed ignorandosi ove andasse a scaricarsi quel nembo terribile, timore che quasi ogni
anno fa dare all'armi la nazione, tiene la cristianità tutta in grande apprensione, ed
obbliga sua Maestà a guarnire le coste di Napoli e di Sicilia e l'isola di Malta. Rispose
a ciò don Chisciotte:
— Ha la Maestà sua adempite le parti di prudentissimo guerriero nell'aver
messi a tempo i suoi Stati in difesa sicché non possa coglierlo alla impensata l'inimico;
ma se accettato avesse un mio consiglio, insinuato io le avrei di valersi di un
provvedimento che da sua Maestà fino adesso non fu mai considerato.�
Appena il curato ciò intese, disse tra sé medesimo:
— Dio ti tenga sopra la sua santa mano, povero don Chisciotte, che già mi sembra
di vederti piombare dall'alto vertice della tua pazzia al profondo abisso della tua
semplicità.�
Ma il barbiere, ch'era venuto nel pensiero stesso del curato, domandò a don Chisciotte
qual era il provvedimento ch'egli reputava sì utile; probabilmente, soggiunse, potrà
aggiugnersi al novero dei molti impertinenti consigli che si sogliono dare ai principi.
— Il mio, signor barbitonsore, non sarà già impertinente, ma appartenente,
replicò don Chisciotte.
— Non parlò con mala intenzione, rispose il barbiere, ma perché la sperienza ci
ammaestra che la maggior parte dei disegni che si assoggettano a sua Maestà, si riduce a
cose impossibili o spropositate, da riuscir poi in danno del re e del regno.
— Il mio, replicò don Chisciotte, non è però impossibile né spropositato, ma
il più giusto e il più agevole e pronto che potesse cadere in mente di qualsiasi
ministro di Stato.
— Non indugi più a dirlo, signor don Chisciotte, soggiunse il curato.
— Io non vorrei, ripigliò don Chisciotte, esporlo adesso qua, e che poi domani
mattina pervenuto fosse agli orecchi dei signori consiglieri, ed altri cogliesse il frutto
ed il premio dell'opera mia.
— Quanto a me, disse il barbiere, se questa sua risposta mi riguarda, giuro in
faccia agli uomini e a Dio che non mi uscirà di bocca una sola delle parole di
vossignoria né con re, né con Rocco, né con uomo terreno; giuramento che appresi dalla
canzone del curato, il quale nel Prefazio con questa formola avvisò il re di chi gli
aveva rubate le cento doble e la mula dell'ambio.
— Io non so di tante storie, disse don Chisciotte, ma essendo certo della onestà
del signor barbiere, tengo per valido il suo giuramento.
— Quando nol fosse, soggiuse il curato, io garentisco per lui che non parlerà
più di un muto, sotto pena di sottostare al pagamento di quanto sarà giudicato con
definitiva sentenza.
— E chi dà guarentigia per vossignoria, signor curato? disse don Chisciotte.
— Il mio ministero, rispose il curato, che m'impone di guardare il segreto
gelosamente.
— Or bene, soggiunse allora don Chisciotte; e che altro occorre se non che sua
Maestà comandi per pubblico banditore che abbiano in un dato giorno a trovarsi uniti alla
corte tutti i cavalieri erranti che sono dispersi per la Spagna? Ché quando ne comparisse
niente più di una mezza dozzina, già basterebbero per distruggere l'immensa potestà del
Turco.
Mi onorino le vostre signorie della loro attenzione, ed accompagnino il mio
ragionamento. Sarebbe forse novità che un solo cavaliere errante avesse sbaragliato un
esercito di dugentomila combattenti, come se tutti insieme fossero stati di paste dolci e
soltanto con una gola? E in prova di questo favoriscano dirmi: quante storie non abbondano
elleno di siffatte maraviglie? Vivesse di presente almeno (venga malanno a me, che ad
altri non lo vo' augurare!) il famoso don Belianigi o alcuno degli innumerevoli
discendenti da Amadigi di Gaula, che se oggidì si trovasse alcuno di quel lignaggio, e
venisse alle prese col Turco, in verità che non lo manderebbe al prete per la penitenza:
ma Dio Signore avrà cura del suo popolo, e farà uscir in campagna taluno che se non
avrà la gagliardia dei trapassati cavalieri erranti, non sarà al certo inferiore ad essi
nel coraggio; e Dio m'intende, e non dico altro.
— Ahi, ahi, sclamò la nipote a questo punto, ch'io possa morire se al mio buon
zio non è tornato il capriccio di riprendere l'esercizio della cavalleria errante!�
Cui don Chisciotte:
— Cavaliere errante sono, e cavaliere errante morrò, se ne venga il Turco o se ne
vada, e con quante forze gli pare; e torno a dire che Dio m'intende.�
Soggiunse allora il barbiere:
— Supplico le signorie vostre a permettermi di raccontare loro un piccolo caso
occorso in Siviglia che per cadere ora perfettamente a proposito mi viene voglia di non
tacerlo.�
Glielo permisero don Chisciotte e il curato; tutti gli prestarono attenzione, ed egli
cominciò in questa guisa:
�Viveva nella casa dei pazzi in Siviglia un uomo collocatovi dai suoi parenti perché
giudicato fuori di senno; era addottorato nei canoni in Ossuna, ma lo fosse pur anche
stato in Salamanca, come alcuni dicono, fatto sta ch'era pazzo. A capo di molti anni da
che viveasi rinchiuso si persuase di essere ritornato savio e giudizioso, e con tale
supposizione egli scrisse all'arcivescovo, supplicandolo con grande istanza e con molto
bene accomodate parole che lo facesse trarre dalla miseria in cui viveva, poiché per la
misericordia del Signore aveva ricuperato il senno: soggiungendo che l'ingordigia dei
parenti, i quali gli usurpavano gli averi suoi, era la sola cagione per cui lo teneano
rinserrato, e voleasi che in onta al vero foss'egli trattato da pazzo infino alla morte.
Persuaso l'arcivescovo dalle molte sue lettere prudenti e assennate, spedì un suo
cappellano perché s'informasse dal rettore della casa se vero fosse quanto il dottore
scriveva, e venisse eziandio a ragionamento col pazzo, e lo rendesse pure alla libertà
quando sembrato gli fosse da vero ritornato in buon cervello. L'ordine fu puntualmente
eseguito dal cappellano, ed il rettore lo assicurò che pazzo tuttavia era quell'uomo; il
quale, quantunque parlasse talvolta come persona di buon discernimento, pure non la finiva
senza dare nei più madornali spropositi ch'erano tanti e sì grandi da far cadere al
confronto gli attimi della sua saggezza; della qual cosa avrebbe egli potuto far prova
passando col pazzo ad un colloquio.
Volle infatti il cappellano porsi a discorso col pazzo per più di un'ora, nel corso
della quale non gli uscì di bocca parola meno che ragionevole, anzi si espresse con sì
grande antivedimento che il cappellano trovossi obbligato a tenere il pazzo per uomo
ricondotto alla sana ragione.
Tra le altre cose dette una si fu che il rettore lo guardava bieco per non perdere i
regali che gli faceano i parenti suoi sollecitandolo a disseminare la voce ch'egli era
pazzo benché avesse dei lucidi intervalli; che il maggior nemico che avesse a sua
disgrazia si era la pingue sua facoltà; che gli voleano male per solo fine di
usurpargliela; e avvalorando l'inganno, rendevano dubbiosa la grazia fattagli da Dio
signore di restituirlo al pristino stato di sana mente. Infine parlava egli in maniera che
faceva sospettare del rettore, dell'avidità e barbarie dei parenti; e appariva sì saggio
che il cappellano si determinò di menarlo seco, affinché l'arcivescovo lo vedesse, e
toccasse con mano la verità del fatto.
Con questa persuasione il cappellano indusse il rettore a consegnare al dottore i
vestiti coi quali era entrato nell'ospedale. Il rettore disse al cappellano che tenesse
gli occhi aperti perché il dottore senza dubbio veruno era ancora pazzo. A nulla
servirono gli avvertimenti, e convenne obbedire, poiché l'arcivescovo così comandava. Si
restituirono al dottore i suoi abiti ch'erano nuovi e decenti; ed egli come si vide
vestito da uomo sciolto da ogni apparenza di pazzia, supplicò il cappellano che per atto
di carità gli desse permissione di andare a pigliar commiato dai pazzi già suoi
colleghi. Gli disse il cappellano che in ciò gli volea essere compagno anche per vedere i
pazzi che si trovavano nell'albergo. In effetto montarono all'alto accompagnati da alcuni
individui che si trovavano presenti, ed appressatisi ad una gabbia dove stava un pazzo
furioso, benché allora tranquillo, gli disse il dottore:
— Fratello, datemi i vostri comandi, che me ne vo adesso a casa mia, da che
piacque alla infinita pietà e misericordia di Dio Signore di farmi, senza mio merito,
ritornare il mio buon giudizio: io sono già sano e guarito, ché al potere di Dio nulla
è impossibile: ora sperate anche voi, ed abbiate in lui confidenza, poiché avendo a me
restituita la sanità, a voi pure la ridonerà se in lui confiderete; io mi prenderò cura
di farvi capitare qualche cosa da mangiare, e ve ne ciberete, mentre, come uomo
sperimentato, io giudico che tutte le vostre pazzie procedano dall'avere lo stomaco
digiuno ed il cervello pieno di vento: datevi animo, sforzatevi all'allegria che
l'avvilimento delle disgrazie, col consumare la salute, ci va affrettando la nostra ultima
ora.�
Un altro pazzo che rinchiuso era in un'altra carcere dirimpetto a quella del furioso se
ne stava ascoltando il discorso del dottore e rizzandosi sopra una vecchia stuoia, dove
tutto ignudo giaceva, dimandò con sonora voce chi era colui che se ne partiva sano e in
cervello.
— Sono io, rispose il dottore: quello io sono, o fratello, che me ne vado, non
essendo oramai più necessario qui il mio soggiorno: e rendo infinite grazie al Cielo per
così segnalato favore.
— Guardate bene quello che dite, o dottore, né vi lasciate ingannare dal demonio,
replicò il demente: non movete passo e restatevene in santa pace dove siete, che così vi
risparmierete l'incomodo del ritorno.
— Io so che mi sento guarito, replicava il dottore, né occorrerà più andare e
tornare innanzi e indietro.
— Voi guarito? soggiunse il pazzo; oh la vedremo! andate pure con Dio, ma io giuro
a Giove, la cui maestà rappresento su questa bassa terra che per questo peccato solo che
oggi si commette nella città di Siviglia, col lasciarvi uscire di questa casa come se
già foste guarito, voglio darle sì terribile castigo che abbiasene a ricordare nei
secoli dei secoli amen. E non sai tu, dottorello imbecille, che sta in mio potere il
farlo, essendo io, come ti ho detto altre volte, Giove tonante che tiene in sua mano le
fulminatrici saette colle quali soglio minacciare e posso incenerire l'universo? In un
modo solo per altro io darò castigo a questo ignorante popolo; e lo farò col negare la
pioggia alla città, al suo distretto e ai contorni per tre anni da computarsi dal giorno
e dal punto in cui ho proferita questa minaccia: tu libero, tu risanato, tu in cervello, e
io pazzo, io infermo, io fra i ceppi? che io possa restare morto se non interdico la
pioggia! Alle voci e alle dichiarazioni del pazzo ponevano gli astanti somma attenzione;
ma il nostro dottore voltosi al cappellano e prendendolo per mano, gli disse:
— Non abbia paura la signoria vostra e non faccia conto dell'espressione di questo
pazzo, perché se egli è Giove che nega la pioggia, io che sono Nettuno, padre e nume
delle acque, farò piovere ogni volta che me ne venga il destro e ne conosca il bisogno.
Qui il cappellano:
— Non sarà bene per altro, signor Nettuno mio, il provocare lo sdegno del signor
Giove: resti vossignoria nella sua abitazione, che ciò vedremo un altro giorno a più
comodo ed agio.
Fecero grandi risate il rettore e gli astanti, del che prese molto collera il
cappellano, ma intanto al povero dottore furono tolti di nuovo i vestiti e restò
all'ospedale, e così termina l'istorietta.�
— E questo è dunque il racconto, disse al barbiere don Chisciotte, che per cadere
bene in acconcio ella non ha potuto far meno di esporci? Ah, signor barbitonsore, è pure
un gran cieco colui che non vede per la tela di uno staccio! Ed è egli possibile che non
conosca vossignoria come i paragoni che si fanno da ingegno a ingegno, da valore a valore,
da bellezza a bellezza, da prosapia a prosapia sono sempre odiosi e male accetti? Io,
signor barbiere mio, non sono Nettuno il nume delle acque, né pretenderei di essere
tenuto per savio se tale non fossi; né altro fo che affaticarmi per far conoscere al
mondo l'errore in cui giace di non rinnovare a proprio vantaggio il felicissimo tempo in
cui campeggiava l'ordine della errante cavalleria; ma non merita di godere sì eccelso
bene la depravata età nostra come era fruito nei tempi nei quali gli erranti cavalieri
pigliavano sopra di sé la difesa dei regni, la protezione delle donzelle, il soccorso
degli orfani e dei pupilli, il castigo dei superbi e l'esaltamento degli umili. La maggior
parte dei cavalieri d'oggidì fanno più vistoso sfarzo dei damaschi, dei broccati e delle
ricche tele di cui si vestono, che della maglia di cui dovrebbero armarsi; non v'è più
un cavaliere che dorma pei campi esposto al rigore del cielo, e armato da capo a piedi
più non si trova chi senza levare i piè dalle staffe, appoggiato alla sua lancia si
contenti di dormicchiare a foggia degli antichi cavalieri eroi: nessuno oggimai più si
trova che uscendo di questo bosco si metta per quella montagna, e di là si conduca alla
infeconda e deserta spiaggia di un oceano il più delle volte procelloso e agitato, ove
trovando un piccolo legno senza remi, vele, alberi e sarte, entri con intrepido cuore,
abbandonandosi alle onde implacabili del mare profondo che ora lo innalzano alle stelle,
ed ora lo cacciano giù nell'abisso; ed affrontando la implacabile burrasca, si trovi
scostato dal luogo del suo imbarco per tremila leghe: sicché poi trasportato in rimote e
incognite terre, cose gli accadono degne di essere scritte non in pergamene, ma in bronzi.
Ora la infingardaggine trionfa della diligenza, l'ozio del travaglio, il vizio della
virtù, l'arroganza del valore e la teorica della pratica delle armi che furono e
risplendettero nell'età dell'oro e dell'errante cavalleria. E chi fosse di contrario
avviso mi risponda per un poco: chi fu mai più onesto e valoroso del celebre Amadigi di
Gaula? chi più assennato di Palmerino d'Inghilterra? chi più accomodato e manieroso di
Tirante il Bianco? chi più galante di Lisvarte di Grecia? chi più feritore e ferito di
don Belianigi? chi più intrepido di Perion di Gaula? chi più affrontatore di pericoli di
Felismarte d'Ircania? chi più sincero di Splandiano? chi più precipitoso di don
Zeriongilio di Tracia? chi più bravo di Rodomonte? chi più prudente del re Sobrino? chi
più ardimentoso di Rinaldo? chi più invincibile di Roldano? e chi più avvenente e
gentile di Ruggero? Tutti questi e molti altri cavalieri dei quali potrei parlare, furono,
signor curato mio, cavalieri erranti, luce e gloria della cavalleria. Questi ovvero altri
a loro simili vorrei che fossero quelli da me prescelti; che tali essendo ne avrebbe
ottimo servigio la Maestà sua, risparmierebbe molte spese, e al Turco toccherebbe di
strapparsi la barba pelo a pelo. Eh! appoggiato a queste vere dottrine non voglio io
starmene a casa mia, se anche il cappellano non viene a trarmene fuori: e se Giove, come
disse il Barbiere, non farà piovere, sono qua io che darò pioggia quando me ne venga la
voglia: e dico questo perché sappia quel caro signor bacino da barba ch'è da me ben
inteso.
— In verità, signor don Chisciotte, rispose il barbiere, che io non dissi per
offenderla, né dee vossignoria aversene punto a male.
— Se io debba o no avermene a male, ciò a me si appartiene, replicò don
Chisciotte.
A tal passo soggiunse il curato:
— Non avendo io sinora quasi mai favellato, non vorrei restarmene con uno scrupolo
che mi rode e carica la coscienza, e che nasce da quanto pronunziò il signor don
Chisciotte: posso parlare o no?
— Su questo e su altri più importanti soggetti, rispose don Chisciotte, può
liberamente spiegarsi il signor curato e faccia pur noti i suoi dubbi, che non è bene lo
starsene cogli scrupoli sulla coscienza.
— Poiché mel concede, rispose il curato, dico che il mio scrupolo consiste nel
non potermi persuadere a verun patto che tutta la caterva degli erranti cavalieri testé
riferiti da vossignoria sieno stati realmente e veracemente persone in carne ed ossa al
mondo: e piuttosto crederei che tutto fosse finzione, favola, menzogne e sogni raccontati
da uomini desti, o per meglio dire mezzo addormentati.
— Questo è un altro sproposito, rispose don Chisciotte, in cui caddero molti che
non ebbero per vera l'esistenza di questi cavalieri nel mondo, ed io più volte in diversi
luoghi e in differenti occasioni ho procurato d'illuminare i ciechi, e di trarli da questo
universale inganno. Non vi sono qualche volta riuscito, ma talora sì bene, perché ho
appoggiato alla verità le mie dimostrazioni: verità tanto incontrastabile, che sto per
dire di avere veduto cogli occhi miei propri che Amadigi di Gaula era un uomo di alta
statura, di bianca carnagione nel viso, di bellissima barba, tuttoché nera, di guardatura
tra il mansueto e il feroce, di poche parole, restìo nello sdegnarsi e facile a deporre
l'ira. E come qui ho disegnato Amadigi, potrei, a parer mio, dipingere e far conoscere di
persona quanti cavalieri erranti si trovano nelle istorie del mondo. Questa perfetta mia
cognizione dell'essere loro deriva dal fondamento di ciò che di essi mi ha tramandato la
storia particolare; dalle imprese colle quali si segnalarono, ed infine dalle stesse loro
qualità ricavare si può per filosofica induzione la fisonomia, il colore e sino la
statura loro.
— Di che grandezza crede vossignoria, mio signor don Chisciotte, domandò il
barbiere, che debba essere stato il gigante Morgante?
— Quanto ai giganti, rispose don Chisciotte, variano le opinioni se sieno o no
stati al mondo: ma la Sacra Scrittura, che non può un attimo discrepare dalla verità ci
fa sapere che vi furono, raccontandoci la storia di quel filisteaccio di Golia ch'era alto
sette cubiti e mezzo, il che costituisce una smisurata grandezza. Anche nell'isola di
Sicilia si sono trovati stinchi e spalle sì grandi da dovere concludere necessariamente
che furono giganti quelli dei quali formavano parte, e ch'erano grandi come alte torri:
verità alla quale conduce una induzione geometrica ed infallibile. Non saprei asserire
con certezza quanto grande fosse Morgante; ma io credo che non debba essere stato molto
smisurato; perché trovo osservabile nella storia, in cui si fa menzione particolare
dell'eroiche sue gesta, che molte volte dormiva al coperto: e potendo stare in abitazioni
coperte dal tetto è cosa evidente che non fosse sterminata la sua persona.
— Così è per lo appunto, disse il curato, il quale pigliava gusto a sentirlo
dare in sì grossi svarioni: e gli dimandò allora come la intendesse rispetto alle facce
di Rinaldo di Montalbano, di Orlando e dei dieci Paladini di Francia, poiché furono tutti
erranti cavalieri.
— Quanto a Rinaldo, rispose don Chisciotte, ardisco dire che fosse largo di
faccia, rosso di colore, cogli occhi irrequieti e un po' in fuora, puntiglioso e collerico
soverchiamente, amico dei ladri e della gente perduta; quanto a Roldano o Rotolando od
Orlando (ché tutti questi nomi gli dànno le istorie) sono di avviso, e mi confermo, che
fu di statura media, largo di spalle, con le gambe un po' torte, brunetto il viso, di
barba castagniccia, peloso nel corpo, di guardatura feroce, riservato in parlare, ma
fornito di cortesia e di bel costume.
— Se Orlando non fu di migliore presenza di quella ora descritta da vossignoria,
replicò il curato, non fa maraviglia, che Angelica la bella, lo rifiutasse per
appigliarsi alla gentilezza, al brio ed alla buona grazia di cui dovea essere dotato il
moretto imberbe al quale si abbandonò: ed ebbe ragione di amare piuttosto la piacevolezza
di Medoro, che la rustichezza di quel paladino.
— Questa tale Angelica, rispose don Chisciotte, o signor curato, fu una donzella
di poco buon odore, vagabonda, capricciosetta, e lasciò il mondo tanto pieno delle sue
impertinenze quanto della fama della sua bellezza; disprezzò mille signori, mille
valorosi, mille prudenti, e si contentò di un paggetto zerbinello senz'altri averi od
altro nome che quello che poté dargli la affezione mostrata, da lei al suo amico. E il
cantore della bellezza il famoso Ariosto, non osando o non volendo cantare ciò che
avvenne a quella signora dopo di essersi data obbrobriosamente in preda all'amante, che
certo non dovettero essere cose molto oneste, lasciò a mezzo la storia col dire:
E come del Catai ricevè 'l scettro
Fors'altri canterà con miglior plettro.
� certo che questo linguaggio dee considerarsi come una profezia, tanto più che i
poeti si sogliono anche chiamare vaticinatori: e questa è verità incontrastabile,
perché d'indi in poi un celebre poeta dell'Andalusia pianse e cantò le sue lagrime, come
un altro famoso ed unico poeta castigliano cantò e mise a cielo la sua bellezza.
— Mi dica, signor don Chisciotte, soggiunse qui il barbiere: non vi fu mai alcun
poeta che abbia composto qualche satira contro questa signora Angelica fra quei tanti che
celebrarono i suoi meriti?
— Io sono di opinione, rispose don Chisciotte, che se Sacripante o Roldano fossero
stati poeti avrebbero ben bene lavato il capo a quella donzella; giacché è proprio e
connaturale ai poeti sdegnati e non accolti dalle finte o vere loro dame (cioè da quelle
che trascelsero per arbitre della volontà loro) di togliersene vendetta con satire e con
libelli; vendetta certamente indegna di un animo generoso; ma non seppi sin ora che sia
stata scritta contro la signora Angelica poesia alcuna infamante, tuttoché ella avesse
posto il mondo sossopra.
— Miracolo!� disse il curato; ma in questo udirono che la nipote e la serva, che
già aveano lasciata a mezzo la conversazione, gridavano forte verso la corte, e tutti
accorsero a quel rumore.
   
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