Il maestro di setticlavio
I
L'uno insisteva timidamente:
"Eppure, maestro, mi scusi. In fondo è un buon giovine. Ha un
gran capitale in quella sua voce da Mirate".
L'altro ripeteva risolutamente:
"No, no e poi no. Tu non capisci niente. Gli basterebbe
mangiarsi quel po' di dote. È uno scavezzacollo. Povera Nene!".
L'uno stava alla coda del pianoforte, in piedi, con la testa bassa;
l'altro seduto alla tastiera. Al di là dell'uscio chiuso si sentiva una
vocina soave canterellare.
Il meno vecchio, quegli che stava in piedi, era alto di statura,
magro, sbarbato; aveva intorno a sessant'anni, ma ne mostrava di più,
sebbene i capelli fossero tuttavia folti e quasi neri, ed i denti
grandi, quando l'ampia bocca si apriva, apparissero tutti regolari e
candidi. Vedendolo passare in cotta fra gli altri cantori nella
lunghissima fila della processione del Corpus Domini, che in quegli anni
aveva ancora luogo attorno alla piazza di San Marco, sembrava tale e
quale uno dei cantori dipinti l'anno 1496 da Gentile Bellino nel gran
quadro della processione famosa delle Reliquie. Un veneziano puro e
pretto. Naso lungo aquilino, mento grosso un poco sporgente, labbra
sottili. Cantava il basso profondo, scendendo al Do sotto, toccando
appena il Re sopra; e non ostante gorgheggiava con facilità,
interrompendosi spesso per ischiarirsi la gola con tanto fragore, che
pareva una cannonata. Conduceva spesso i suoi allievi a cantare in coro
nella cappella di San Marco; ma prima voleva che andassero in un bacaro
a berne un quartuccio per uno (egli faceva qualche ritornello) ed a
mangiare un'aringa, appena scaldata sulla graticola, perché giurava che
le aringhe salate ripuliscono, e ingigantiscono la voce. Quando, di
botto, cacciava fuori una nota, tremavano le piccole invetriate della
bettola.
L'altro, che diceva risolutamente di no, era un vecchietto piccolo,
snello, vispo, pulito, di ottant'anni passati, con un'aureola d'argento
intorno alla fronte senza rughe, con le guance nude rosee, e due
occhietti in cui si leggeva la bontà serena. Allievo del Furlanetto,
cantava da tenore; e ancora, socchiudendo appena le labbra, lasciava
uscire una vocina flebile flebile; intonatissima, limpidissima, che
pareva scendesse dall'alto. Da cinquant'anni aveva l'ufficio di maestro
dei cori nella cappella.
Il basso, Luigi Zen, non sapeva fare sul pianoforte altro che qualche
accordo. Cercava ben bene le note una ad una, poi, contento di averle
alla fine trovate, si sfogava a pestar sui tasti; e intanto gli scolari
attendevano che il secondo accordo nascesse sotto le lunghe dita.
Finivano per cantare senza nessun accompagnamento, salvo le battute
d'aspetto picchiate dal maestro fragorosamente coi piedi e con le mani e
contate a gran voce.
L'accompagnamento lo faceva sentire di quando in quando il maestro
dei cori, Annibale Chisiola, in casa sua, sopra uno strumento, che stava
tra il gravicembalo e la spinetta; e le bianche mani del vecchietto
andavano sulla tastiera senza scosse, senza scatti, mentre le dita,
incurvate sotto le palme, non pareva si muovessero affatto. Eppure le
scale, i trilli, i gruppetti, gli arpeggi si succedevano con una
precisione, una rapidità, una scorrevolezza ammirabili. Le più
intricate fughe delle partiture manoscritte erano sgrovigliate
all'improvviso. I canoni, le imitazioni, i moti contrari assumevano
sotto quei dorsi convessi delle piccole mani una chiarezza lampante.
Se il canto degli allievi procedeva liscio sopra l'accompagnamento,
che udivano per la prima volta; se i duetti ed i terzetti andavano
innanzi senza intoppi, la faccia dello Zen raggiava di consolazione. Il
Chisiola, indulgente, bisbigliava:
"Non c'è male. Proprio benino. Bravi figliuoli".
Ma talvolta interrompeva per dare un consiglio, per correggere uno
sbaglio, per far ripetere un passo, ed allora lo Zen, rannuvolandosi,
prendeva le difese del proprio scolaro, e rifaceva il canto con il suo
vocione portentoso, sicché il vecchietto finiva per turarsi le
orecchie, dicendo:
"Si sente che l'hai proprio mangiata oggi l'aringa salata".
Il basso Zen era conservatore arrabbiato. Per esempio, non poteva
soffrire le opere del Verdi: ne diceva un mondo di male, specialmente
del Rigoletto, allora fresco fresco; resisteva, finché poteva, al
desiderio dei giovani, quando volevano studiarle; si bisticciava perciò
anche col Chisiola, il quale gli aveva insegnato a cantare quasi mezzo
secolo addietro. Un giorno che, a proposito di uno scolaro, baritono
verdiano per la pelle, la questione s'era incalorita più del solito, il
vecchietto roseo, fissando in volto il suo bisbetico discepolo con uno
sguardo di rimprovero affettuoso, gli disse:
"Il Verdi, sai, vale quanto il Rossini, il Cimarosa od il
Furlanetto" e l'altro, scandalizzato, alzava le spalle, ghignando.
"Tu vorresti" continuava il maestro "che il mondo si
fosse fermato agli anni della tua giovinezza, quelli degli amori e della
presunzione; ma, vedi, fra noi e la musica c'è questa differenza, che
noi abbiamo una sola maniera di essere onesti, mentre la musica ha
infinite maniere di essere bella; e noi invecchiamo e siamo mortali (anzi'
io me ne sto già mezzo in sepoltura), mentre la musica è eterna".
Lo Zen abbassò la testa, come un can barbone scottato; poi se ne
andò nello sguancio di una finestra, ove un giovinetto stava ripassando
da sé, con la musica sotto gli occhi, un allegro, che diceva: Amor
perché mi pizzichi, mi pizzichi, mi pizzichi perché? e continuava:
Amor perché mi stuzzichi, mi stuzzichi, mi stuzzichi perché? Il basso
borbottò nelle orecchie del giovinetto, credendo di parlare sottovoce:
"È un sant'uomo. Darei gli ultimi anni della mia vita per
allungare la sua. Ma in musica, per Bacco, è un carbonaro".
"E tu" replicò sorridendo il vecchietto, che aveva l'udito
fine "sei un sanfedista".
Per una cosa lo Zen si sarebbe fatto squartare innanzi di cedere: pel
metodo di legger musica. Aveva da essere il setticlavio, non altro che
il setticlavio. E se qualcuno gli faceva osservare che oramai tutti
leggevano col metodo comune, egli, fremendo di bile, tuonava:
"Non è possibile. Asini hanno da essere senza il setticlavio.
Il setticlavio è il vangelo della musica: la sola vera credenza".
Quando poi uno gli domandava che cosa fosse il famoso metodo, egli,
assumendo un'aria soddisfatta e mettendosi a sedere, principiava:
"In quattro parole te lo spiego, perché la cosa è lucente come
il sole. Dimmi, quale è la tonica nella chiave di Do?".
"Il Do".
"Bene. E il Mi che cosa è?".
"La terza".
"E il Si?".
"La settima".
"Ora senti, dal Do al Mi che salto si fa?".
"Di terza maggiore".
"Dunque quando dici Do Mi dici e canti una terza maggiore".
"Sicuro".
"Quando canti Si Do che intervallo fai?".
"Di mezzo tono".
"Dunque quando dici Si Do come Mi Fa dici e canti un mezzo
tono".
"Certamente".
"Adesso rispondi. Se nel tuo maledetto sistema di lettura, che
chiamano comune, canti, per esempio, in chiave di Re, il Do Mi che cosa
diventa?".
"Una terza minore".
"E il Mi Fa o il Si Do?".
"Un tono intiero d'intervallo".
"Oh, vedi, vedi che miserabile, che infame confusione. Si legge
una cosa e si canta l'altra. Non c'è più regola, non si capisce più
nulla".
"E come ci si rimedia?".
"Nel modo più semplice di questo mondo. Chiama sempre Do la
tonica, sempre Mi la terza, sempre Si la settima e così via tutte le
altre note della scala in qualunque tono tu debba cantare, e l'imbroglio
sparisce, e gl'intervalli corrispondono sempre agli stessi nomi delle
medesime note".
"Ma gli accidenti?".
"Gli accidenti sono accidenti, e si vedono scritti chiari e
tondi quali eccezioni alla regola. Il proverbio dice appunto, che le
eccezioni confermano la regola".
"Ma bisogna dunque imparare a leggere in tutte le chiavi?".
"Certo, e non sai leggere tu in due? E non ci sono degli
strumenti, che obbligano a leggere in tre? La voce umana è sì o no il
più nobile degli strumenti?".
"È il più nobile, senza dubbio".
"Ergo dev'essere il più difficile. I pigri vadano al
diavolo".
"Scusi, maestro, ma le modulazioni, i cambiamenti di tono, che
non si trovano scritti in testa al pezzo?".
"Te li trovi da te, in nome del cielo, con un poco di pazienza,
con un tantino di pratica d'armonia. Poi ti senti solido, ti senti
incrollabile come il campanile di San Marco".
E il vecchio lungo, entusiasmato, schizzava scintille dagli occhi, e
solfeggiava tuonando:
"Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si, Do Do".
II
La fanciulla, che canterellava in un'altra stanza, mentre i due
vecchi si bisticciavano sul conto della musica verdiana, la Nene, era
figliuola della figlia d'una sorella del maestro Chisiola, il quale, non
avendo nessun altro parente sulla terra, concentrava nella dolce nipote,
rimasta orfana sin da bambina, tutti gli affetti di padre e di madre,
anzi di nonno e di nonna. E la fanciulla lo aveva sempre chiamato nonno.
Ella non mancava mai alle funzioni cantate di San Marco, grandi e
piccole, nei dì di festa e nei giorni di lavoro. Conduceva il nonno
fino a' piedi della scaletta, che sale alla cantoria dei cori, quella
dalla parte della sagrestia; poi se ne andava dritta dritta, a passi
corti e frequenti, nella cappella a sinistra dell'altar maggiore, e si
metteva a sedere in un angolo buio, raccogliendo le vesti per occupare
il minor spazio possibile, tenendo il libro di preghiere aperto sulle
ginocchia, e rimanendo con gli occhi bassi, finché il nonno, dopo la
messa cantata, la benedizione od i vespri, non andava a pigliarla,
camminando tale e quale come lei a passetti solleciti e uguali.
Veramente da un poco di tempo la ragazza non fissava sempre lo
sguardo sul libro o sugli intrecci del pavimento di marmi e di porfidi;
ma lo alzava spesso alla cantoria, la quale, a stare nel cantuccio della
cappella, si vedeva tutta dal sotto in su. Apparivano appena di tratto
in tratto le teste dei cantori di prima fila, spesso nascoste dai fogli
di musica spiegati sul leggìo o tenuti innanzi agli occhi con le due
mani.
Del maestro Chisiola, corto di statura, non si scorgeva che la fronte
bianca circondata dai capelli d'argento, sebbene, quando non c'era
orchestra, egli montasse davanti all'organista sul rialzo del maestro di
cappella; e indicava le battute agitando un grosso scartafaccio, con cui
picchiava forte i quarti sul parapetto della cantoria, massime se mutava
il tempo della musica, se il canto affrettava e se alcune parti dovevano
entrare. Gli stava accanto, a sinistra, lo Zen, primo basso, che faceva
rimbombare anche nei pieni le sue lunghe note profonde, vibranti come
pedali d'organo, mentre la grande bocca si apriva al pari d'una caverna
sotto al naso imponente.
Fra tutte quelle facce sbarbate di uomini attempati o di vecchi
spiccava il volto del giovane tenore, soprannominato Mirate dal nome
d'un tenore grande e grosso e di potentissima voce, che faceva furore al
teatro della Fenice. Portava con alterigia un bel paio di folti baffi
neri ed il pizzo lungo, segni della sua indipendenza dalla fabbriceria e
dai canonici; non vestiva la cotta, non andava in processione e non
cantava nelle funzioni dozzinali. Già i parrochi delle altre chiese lo
ricercavano, già se lo strappavano per le messe solenni nei dì di
sagra anche nelle pievi della vicina terraferma, già egli aveva aperto
delle trattative segrete con qualche agente teatrale per gettarsi nel
mare magno del palcoscenico. Doveva condurre il negozio misteriosamente
per questa cagione, che s'era legato con uno strozzino a dargli metà di
tutti i propri guadagni, finché non saldasse con novemila svanziche un
debito di tremila, fatto durante i due anni in cui aveva studiato il
canto presso il maestro Zen, cui veniva in aiuto il maestro Chisiola. I
maestri non gli erano costati un soldo, ma bisognava pur vivere, e senza
troppe angustie. Ora lo strozzino non si fidava di lasciarlo andare
lontano da Venezia, pel timore di non saperlo acchiappare mai più.
Figlio d'un gondoliere e d'una lavandaia, era stato egli pure
barcaiuolo di traghetto. Cantava a orecchio, facendo strabiliare i
forestieri, segnatamente gli inglesi, che menava in gondola; e, celebre
fra i suoi compagni di barca, trionfava in una società di cantori,
quasi tutti orecchianti come lui, che andavano la sera in un battello,
ornato di palloncini variopinti, a cantar cori in Canal Grande, sotto le
finestre dei principali alberghi. Una delle più recenti canzonette
principiava: Vieni la barca è pronta - vieni l'auretta spira...
Il giovane gondoliere era stato ammirato più volte dal soprano della
cappella di San Marco. Questi non aveva nulla di comune con i rotondi
soprani di cappella Sistina e di alcuni drammi di Metastasio: misero,
verdastro, rachitico, era riuscito a produrre sei figliuoli brutti e
cachetici, proprio il ritratto suo, e per i quali avrebbe coniato moneta
falsa. Poco mancava in realtà che non ne coniasse: faceva di tutto.
Nella cappella era entrato quale basso profondo; ma poi, sciupatasi la
voce, passò a cantare in falsetto, quando la musica esigeva il
contralto o il soprano: e, a sentirlo, pareva assolutamente una donna.
Ma la paga era magra, ed i figliuoli, benché mezzi storpi, avevano un
appetito da lupi. S'appigliò alle anticaglie: comperava ceramiche
fesse, mobili tarlati, stoffe sfilate, avori slabbrati, ogni sorta di
ferramenta arrugginite, e, se gli capitava per un tozzo di pane, qualche
oggetto da museo. La bottega di straccivendolo s'alzava via via alla
dignità del ferravecchio, del rigattiere, dell'antiquario. Risparmiati
un po' di quattrini, li cominciò a prestare senza rischio a certi
impiegati imperial-regi, o previo deposito di vecchi oggetti, che gli
restavano spesso pel decimo del loro valore. Finalmente rischiò
l'affare con Mirate, perché lo strozzino era lui.
Qui al soprano mancò la consueta prudenza. Il giovinotto avrebbe
dovuto seguitar nel mestiere del barcaiuolo; senonché, non potendo
attendere al remo tutta la giornata, il soprano si impegnava di
anticipargli una svanzica al giorno per un anno e mezzo o per due,
finché non avesse imparato sufficientemente a cantare. Dopo, sui primi
guadagni, il tenore doveva restituire tre volte tanto: intorno a 1600 o
2200 svanziche al più. Visti i tempi inclinati alle dispendiose
cerimonie ecclesiastiche, tenuto conto della voce meravigliosa, due
anni, anche lasciando stare il teatro, dovevano bastare ad estinguere il
debito, sanzionato, del resto, con contratti fittizi regolarissimi.
Nei primi mesi le cose procedettero abbastanza bene. Era la bella
stagione: Mirate vogava la sera, studiava di giorno; il soprano copiava
con le sue proprie mani la musica che occorreva al tenore. Ma presto il
remo gli principiò a pesare: diceva che quell'esercizio faticava il
petto, che il respiro si faceva troppo frequente, che l'espirazione
diventava corta. Il maestro Zen gli dava ragione: la gondola fu ceduta,
e la svanzica non bastò più. Il padre e la madre del futuro
grand'uomo, per soccorrerlo di qualche soldo, raddoppiarono il lavoro:
quegli al traghetto, assumendo spesso il servizio dei compagni, questa
al mastello, ove stava a lavare anche buona parte della notte. Il bucato
della biancheria nuova del figliuolo, di bella tela fina cucita dalla
mamma instancabile, si faceva a parte, essendo oggetto di cure speciali
per la lisciva, per il sapone, pel modo delicato, quasi a dire
rispettoso, di torcerla, di batteria, di sciacquarla, di tenderla. Il
bianco lucente di quelle camicie con il largo goletto, con il davanti
piegolinato, con i polsini che coprivano metà delle mani, non sembrava
mai abbastanza candido per toccare la pelle del nobile rampollo, dal
quale la famiglia attendeva gloria e ricchezze. Egli di giorno in giorno
gonfiava sempre più, e diventava nervoso. Bastava una macchietta gialla
del ferro, un goletto poco inamidato, perché, bestemmiando, sbattesse a
terra innanzi alla madre due o tre camicie, che la poveretta, con gli
occhi umidi e le labbra sorridenti, raccoglieva e tornava a lavare e a
stirare. Lo stanzino, ch'egli occupava accanto alle due cameracce
terrene dei genitori, non era più sufficiente alla sua voce ed alla sua
persona; non rifiniva di lamentarsi che per andare in piazza di San
Marco o dal maestro gli toccasse di fare un viaggio. Si trovò dunque
una buona stanza nel centro, in Frezzeria, dove con i suoi gorgheggi
metteva sossopra il vicinato. Da allora in poi andò tre volte la
settimana dal barbiere, desinò all'osteria, mutò i compagni,
frequentò donne galanti, si vergognò della madre e del babbo, che
faceva passare per la propria stiratrice e per il proprio lustrino, e
che andava di tempo in tempo a vedere con la speranza di spillare
qualcosa.
Ci voleva altro? Il rinfranco veniva dal soprano, il quale, dopo
avere snocciolato parecchie centinaia di svanziche, si sentiva
incatenato al suo debitore assai più di quanto il debitore credesse di
rimanere legato a lui. Già Mirate non si degnava più di andar a
chiedere con questa scusa o con quella; mandava a dire all'altro che
venisse, e subito. Le chiamate avevano luogo, per solito, verso le dieci
della mattina, mentre il tenore era ancora a letto.
"Mi occorrono quattrini".
"Non ne ho".
"Isacco figlio di Abramo, mi abbisognano dugento lire,
altrimenti non posso saldare una cambialuccia al barbiere, il quale ha
meno spirito di te, e mi caccierà dritto in prigione".
"Non lo farà. Dovrebbe pagarti il vitto".
"Pagherà, tanto è puntiglioso. E poi vuol dare un famosissimo
esempio agli altri suoi avventori morosi, cui ha prestato al cento per
cento".
"Non lo farà, ti ripeto; ma se quell'usuraio sordido lo
facesse, che cosa ne importerebbe a me?".
"Non te ne importerebbe, cuore di vero soprano! È dunque
sbandito dal tuo animo ogni resto di pietà? Vuoi che ti canti una
melodia in Mi minore per impietosirti? Poi, pensaci bene, l'umidità del
carcere, la mancanza di moto, l'arrugginirsi della gola (perché non mi
lascierebbero forse solfeggiare dalla mattina alla sera), gli insetti,
il cattivo mangiare, e sopra tutto l'avvilimento: in una settimana sarei
bello e spacciato".
E il tenore parlava con enfasi melodrammatica, mutandosi di camicia e
mettendosi i calzini.
"Anzi" replicava l'altro con lo sforzo di un sogghigno, che
in quella faccia triste e macilenta diventava una contorsione pietosa
"anzi la continenza forzata ti farebbe un gran bene. Usciresti di
gattabuia, al pari d'un canarino, più grasso e più canoro".
"Giacobbe figlio d'Isacco, sai che non mi piacciono gli scherzi,
massime quando escono da una bocca tetra come la tua. Sono un buon
figliuolo, ma non farmi scappare la pazienza. In fondo, chi mi spinse a
chiedere danaro al factotum della città? Tu, che non volesti darmelo;
ed io ne avevo urgenza per comperare musica, pastiglie pettorali,
eccetera, eccetera. Del rimanente non ignori che la mia vita costa una
miseria. Il più è questa camera piccola e buia. A desinare e a cena
sono spesso invitato, in grazia delle serenate, dei concerti di famiglia
o delle orgie musicali tra scapoli; e le donnette per me, piuttosto che
una uscita, sono una entrata; la lavandaia mi serve gratis; il sarto
confida nella mia prossima gloria, come confidi tu, mio protettore
generoso".
Parlava a intervalli, badando a vestirsi, finché, dopo essersi unto
bene i capelli, i baffi ed il pizzo con una pomata di muschio, si
accomodò i solini e la cravatta.
Intanto l'antiquario lo seguiva con lo sguardo e lottava dentro di
sé. Finalmente disse:
"Insomma, anche questa volta farò un sacrifizio. Ti darò le
dugento lire".
"Oltre la mesata, s'intende".
"Oltre la mesata; ma, per carità, regolati nelle spese, non mi
rovinare, se no avrai sulla coscienza la sventura d'un padre e di sei
figliuoli. A proposito, ieri pensavo a te".
"Grazie di cuore. Vuoi dire che pensavi all'affar d'oro, che hai
fatto meco".
"No, proprio al tuo bene: pensavo a darti moglie".
"Così subito?".
"Fossi matto! Fra un anno o poco più, quando sarai entrato
nell'arte sul serio ed avrai uno stato sicuro. Intanto si potrebbe
gettare l'amo".
"Intendo. Quel che ti preme è che io non pericoli in alto mare
o non vada a frangermi in uno scoglio. Preferisci di farmi arenare
tranquillamente, come una gondola, in secco. Poi un uomo innamorato
mangia meno, si svaga meno, spende meno. Poi la dote, perché ci deve
essere una dote...".
"Sicuramente".
"La dote servirebbe subito a risarcirti col trecento per cento
(altro che il parrucchiere!) delle tue liberali anticipazioni, senza
nemmeno il disturbo di aspettare qualche anno".
"Sei ingrato".
"E chi è la bella?".
"Ora non te lo voglio più dire".
"Dimmelo, mio buono, mio adorato Giacobbe".
Era, insomma, la nipotina del maestro Chisiola; la quale aveva
ereditato dal babbo un capitaletto, che, fatto fruttare per molti anni e
ingrossato dal nonno, poteva ascendere oramai ad una trentina di mila
svanziche, senza contare che il nonno, benché rubizzo, non avrebbe
tardato molto a lasciarle il resto. Il tenore dichiarò di non avere mai
guardato molto attentamente quella monachetta, pure avendola veduta
molte volte in chiesa e in istrada mentre accompagnava il vecchio, ed
anche in casa di lui, ma di rado. Gli era sembrata una piccola beghina
scipita; ma in conclusione, trattandosi di un affare lontano, non diceva
né sì, né no. Avrebbe guardato e pensato meglio.
I due si lasciarono questa volta pienamente rabboniti, sebbene in
Mirate, malgrado la lettura di romanzi e poesie, cui s'era dato, e la
nuova compagnia di persone abbastanza civili, rimanesse inalterata
l'indole volgarmente sarcastica e impertinente del barcaiuolo. Ma
nell'animo dell'altro era cresciuto un affetto quasi paterno e
indulgente ed ansioso verso quel giovine, nel quale in principio non
aveva veduto altro che l'utile vittima dell'usuraio; tanto che ora si
compiaceva, in fondo, della bellezza, della forza, della spavalderia,
degli stessi vizi del suo pupillo musicale, idealizzando ogni cosa, e
gli sarebbe sembrato impossibile che una fanciulla lo rifiutasse per
marito ed una famiglia non si tenesse orgogliosa d'imparentarsi con lui.
Trascorso poco più di un anno, Mirate entrò nella cappella di San
Marco quale supplente del vecchio tenore sfiatato; ed, una settimana
dopo, il soprano aveva già persuaso lo Zen di chiedere al maestro
Chisiola per il novello cantore la mano della sua nipotina. S'è visto
come il nonno rispondesse con una negativa tanto risoluta ed asciutta,
che lo Zen non ebbe più ardire d'insistere. Il rifiuto stupì e
addolorò lo strozzino, in cui interesse e cuore cospiravano insieme; ma
offese vivamente, nel suo amor proprio di bel giovane conquistatore e di
famoso cantante, Mirate, il quale per la prima volta guardò con
interessamento la modesta fanciulla, giurando a sé medesimo che di quel
no il vecchio si sarebbe presto pentito.
III
Quando Nene seppe della richiesta e della ripulsa, si pose a ridere
come di cosa bizzarra, che non la riguardasse. Le piaceva la voce del
giovinotto, che da parecchi giorni ammirava in chiesa, e prima aveva
udita alcune volte in casa, ma dalla camera accanto, perché il nonno
non la bramava presente mentre c'erano gli scolari. Si rammentava che,
sentendo discorrere di lui e dirne un gran male, aveva osservato come
non si potesse poi pretendere che, da un giorno all'altro, un gondoliere
diventasse un signore per bene; si ricordava pure i suoi occhi neri
insolenti, che, incontrandolo, le facevano abbassare lo sguardo con un
senso di strano timore.
Del resto, la fanciulla non aveva mai pensato al matrimonio. Era
vissuta sempre fra il nonno e la serva, una ottima donna, che le voleva
un ben di vita e ch'era stata domestica di sua madre. Da quattro anni
divideva la sua giornata fra lo studio del canto, nel quale la sua voce
non robusta, ma estesa e morbida, era riescita ammirabile di agilità e
di grazia, ed i fiori del piccolo orto, chiuso da alti muri di cinta, in
uno dei quali s'apriva verso il canale l'arcata della riva d'approdo. Un
poco di tempo lo dava alla cucina, per comporre con le proprie mani,
piccole e polpute, qualche manicaretto, che piaceva al nonno. Non usciva
con altri che con lui, leggeva poco, cuciva poco, faceva trine e ricami:
era soddisfatta di sé e della vita.
Dalla cantoria il tenore, durante i riposi, piombava giù ai piedi
dell'altare di San Clemente delle occhiate incendiarie, che incontravano
gli sguardi della Nene, la quale si sentiva ogni volta una lieve
trafittura nel cuore ed una fiamma al viso, che lo faceva diventar di
carminio. I capelli, più rossi che biondi e naturalmente ricciuti,
circondavano la fronte non alta e le guance paffute, lasciando vedere le
delicate orecchie, da cui pendevano due perle piccine. Quando il tenore
cantava con gli occhi alzati alla cupola d'oro popolata di santi
bizantini, allora si scorgevano fra le tumide labbra della fanciulla,
del color di ciliegia, i denti candidi tutti uguali, e un leggiero
fremito scorrerle per le membra rotonde, e gli occhi cilestri non grandi
assumere una nuova espressione di vivacità e di sentimento. La ragazza
si andava trasformando: diventava inquieta e, non di rado, impaziente:
sembrava cresciuta di statura.
Era giunta fino ai diciott'anni senza avere mai guardato dentro nel
proprio animo, senza essersi mai resa nessun conto della propria
coscienza, poiché alle pratiche religiose, alle preghiere, alla
confessione attendeva con gravità umile, ma così per usanza, come
operazioni di un rito, il quale avesse la sua radice ed i suoi intenti
al. di sopra, al di fuori di lei. La fede era tanto indiscussa, la
morale così bene ridotta a precetti ed a formule, che il pensarci
diventava inutile: non già che ai gradini dell'altare, di contro alla
grata del confessionale, prostrata innanzi al Crocifisso della sua
cameretta non sentisse una viva emozione, ma era cosa sentimentale o
fantastica, non meditativa. Né il nonno, il quale non contava nella
lunga vita una cattiva azione od una cattiva intenzione da espiare,
aveva mai parlato alla nipote dei doveri e della dignità della donna.
Gli sarebbe parso di mancare di rispetto alla virginità se avesse
creduto necessario di ammaestrarla per via di consigli o di libri sulle
tentazioni del godimento, sulla malvagità e la ipocrisia di molti
uomini, e rispetto alle seduzioni interiori della passione e del
desiderio, come intorno ai fatali inganni ed agli ancora più fatali
sopori della coscienza. Egli stesso era vissuto senza mai sgarrare, ma
come un orecchiante della virtù.
La prima volta che Nene scrutò nel proprio petto, vi trovò una
immagine d'uomo profondamente impressa, la quale non le ragionava
rispettosa di matrimonio e di maternità, non le bisbigliava sommessa le
soavi canzoni dell'affetto ideale, ma parlava sfacciatamente di ardori
ancora vaghi ed oramai irresistibili. La fanciulla, seduta nell'ombra
cupa del piccolo chiosco dell'orto, tutto coperto e circondato di fresca
edera arrampicante, si lasciava vincere dai fantasmi dei desiderii
inconsci, ripetendo di tratto in tratto, come stupita di sé medesima:
"Eppure, se il nonno avesse risposto di sì, io non lo vorrei
sposare!".
Si destava in lei, contemporaneamente all'amore, la vanità. Ammirava
la propria voce, notava i pregi del proprio modo di canto, si guardava
nello specchio, ora tentando di lisciare i capelli rossi ricciuti, ora
arruffandoli, e dolendosi delle macchiette verdastre di lentiggini, che
picchiettavano l'incarnato del viso e delle spalle, e la pelle lattea
del collo e del seno. Confessava a sé stessa di esser piuttosto corta
di statura; ma si giudicava tutta ben fatta dalla testa ai piedi, e
meglio grassa che magra. Talvolta, è vero, invidiava gli occhi neri
quanto il carbone della sua pettegola vicina, la Gigia, perché
supponeva che le bionde con gli occhi neri dovessero esercitare un
terribile fascino; poi subito si confortava, notando come le pupille
celesti s'accordino ammirabilmente con l'oro rossigno della
capigliatura, e, benché più mansuete, non sieno meno potenti. Metteva
spesso i suoi migliori abiti, che dianzi giacevano nell'armadio, il suo
più grazioso cappellino, già destinato alle messe dei giorni solenni;
chiamò una sarta, suggeritale dalla Gigia, per rimodernare le fogge dei
vestimenti antiquati, e pregò lo zio di comperarle il raso cangiante
per un abito nuovo alla moda. Sbagliava i punti dei ricami e delle
trine, che ogni tanto buttava nel cestino e ripigliava svogliata.
Passeggiava nell'orto, anche durante le ore più infuocate di
quell'estate caldissima, sbadigliando, aspirando con le larghe narici
del naso leggermente camuso gli effluvi acri e salsi del vicino canale,
ed i profumi dei fiori, mezzo disseccati nei loro vasi, perché ella non
si curava più di mondarli né di adacquarli. Non le piaceva l'olezzo
delicato della vaniglia, dei gerani, dei pelargonii, dei gelsomini,
degli amorini; preferiva, da poco, l'odore inebbriante della gardenia,
del garofano, della tuberosa.
Una mattina di buon'ora, facendo fischiare in aria una sottile
vermena di salcio, quasi volesse staffilare qualcuno, spiccò netto
dallo stelo il grande fiore d'un giglio, che le sembrava troppo alto: in
quell'istante si sentì alla porta di casa una furiosa scampanellata.
Andò ad aprire. Era il maestro Zen, che, senza nemmeno salutar la
fanciulla, corse dritto, tutto trafelato e sbuffante, nella camera da
studio del Chisiola, ed asciugandosi il sudore sul volto con un
fazzoletto a fiorami pavonazzi, sudicio di tabacco, esclamò:
"Maestro son disperato".
Il vecchio lo guardò sorridendo amorevolmente, come si farebbe
innanzi alle buffe disperazioni di un bimbo, e chiese:
"Si tratta del setticlavio?".
L'altro continuava:
"Sono rovinato, sono rovinato, maestro, se ella non mi
soccorre!".
Allora il vecchio diventato serio, disse:
"Via, in che cosa posso aiutarti? Sai che ti ho sempre voluto
bene, come ad uno de' miei più vecchi discepoli".
Lo Zen s'era posto a sedere, accasciato, presso ad un tavolino, su
cui stava una caraffa d'acqua, e ne aveva bevuto due grandi bicchieri:
"Ecco... ma prima ella mi deve promettere di non dirmi di
no".
"Promettere così ad occhi chiusi non posso. Ho molta fiducia
nel tuo cuore, ma pochissima nel tuo cervello. Dio sa in quali pasticci
ti sei cacciato".
"La colpa non è mia, glielo giuro. Non è di nessuno. Se n'è
immischiato il diavolo".
"Dunque?".
"Dunque ella sa, o forse non sa, perché è un pezzo che non
vengo da lei, ed ella non legge i giornali: avevo promesso
pubblicamente, solennemente di dare questa sera con i miei allievi un
concerto per gli azionisti della mia scuola di setticlavio e di canto,
invitandovi i gazzettieri della città".
"Un concerto! Sei dunque infedele al tuo amico pianista, oppure
hai imparato a trarti d'impaccio sulla tastiera?".
"Maestro, mi corbella? Con queste mani da granchio! Ma sapevo
troppo bene ch'ella non avrebbe approvato il mio impegno, anzi avrebbe
tentato di dissuadermene. Non volevo mancarle di rispetto col resistere
a' suoi consigli. Pregai dunque il nostro organista di San Marco, il
quale, a patto d'intascare venti svanziche anticipate, ha consentito
volentieri. Si fecero le prove, tutto andava a gonfie vele..."
"Ed ora all'ultimo momento, l'organista s'ammala, e vieni da me
a pregarmi di sostituirlo".
"No, maestro. Ella non esce di casa la sera, e poi con questo
caldo, in una sala affollata! Non vorrei proporle una cosa che le
potesse far male, se credessi di dovermi gettare in acqua con un macigno
al collo. Del resto, l'organista sta benone".
"E allora?".
"Peggio che un accidente all'organista, mille volte peggio: s'è
infreddata la Carlottina Bianchi, ch'ella conosce, la mia più
ammirabile allieva, quella che legge musica col setticlavio spedita e
franca quanto un prete il breviario, la mia speranza, la mia stella.
Ieri all'ultima prova non istava bene. Stamani, prima di venir qua, vado
da lei; la trovo a letto con la febbre, una tosse da spaccar le costole,
un cataplasma sul petto, e tale abbassamento di voce da non poter
pronunciare una sillaba. Il medico dichiara che, se non seguono altri
malanni, fra due o tre settimane potrà cantare. Io intanto sono
spacciato. Senza la Carlottina vanno in fumo quattro pezzi sopra otto, i
più belli; e poi Mirate, che mi ha accompagnato sin qua, giura di non
aprir bocca se non può cantare il terzetto della Lucrezia e il duetto
dell'Elisir d'amore. Così perdo anche O
sì per voi già sento, ch'egli dice da Dio. Rimandare il concerto è
impossibile. I giornali, aggirati dagli altri maestri di canto, i quali
vedono di mal occhio la mia scuola gratuita, mi sono tutti contrari: la
'Lira' mi bistratta, la 'Gazzetta' mi stritola, il 'Sior Antonio Rioba'
mi canzona. Domani sarebbe già troppo tardi. Gli azionisti..".
"Li chiami azionisti! Vorrai dire i contribuenti alle spese
della scuola. Quanti sono ora?".
"Sarebbero ottantasei, impegnati con la firma a dare sei
svanziche l'anno; ma di ottantasei, indovini, maestro, quanti hanno
pagato. Sedici, sedici soltanto, e dopo quante sollecitazioni! Pensare
che se avessero pazienza di aspettare che gli allievi diventassero tutti
cantanti le azioni guadagnerebbero il cento per cento, a dir poco.
Invece me le rimandano accompagnate da sarcasmi o da contumelie.
Insomma, un concerto con i miei sette scolari basta a mettere in luce la
verità, a sbugiardare i giornalisti, a confondere gli altri maestri di
canto, a moltiplicare gli azionisti..".
"Bastasse almeno a pagare i tuoi debiti!" soggiunse il
maestro Chisiola, sorridendo con tristezza.
"Debiti ne ho parecchi, maestro; ma, per dire il vero, ci penso
poco. A me basterebbe poter pagare la pigione delle due stanze ove tengo
la scuola, e il nolo del pianoforte e della musica. Continuerei
volentieri, come faccio da due mesi, a mangiare una volta al giorno
pesce comperato dal friggitore e polenta annaffiata di un solo
quartuccio di vino".
"Povero amico mio, vittima del setticlavio! Dimmi alla fine come
posso aiutarti".
Lo Zen, che sapeva come la propria domanda avrebbe sorpreso e
addolorato il maestro, esitò un momento, poi rapidamente rispose:
"Permettendo alla signorina Nene di cantare questa sera, in
luogo della Carlotta".
Il vecchio nonno si rannuvolò. Guardava in faccia lo Zen tacendo,
come se nuove idee, nuovi timori gli confondessero la mente. Fece per
rispondere, ma la parola parve troncata da un altro pensiero triste.
Già la nipote, durante le ultime due settimane, lo aveva turbato nelle
sue aspirazioni e nelle sue consuetudini, poiché dianzi si era andato
via via persuadendo che nulla avrebbe alterato mai la serena pace della
casetta e dell'orto; e come egli, presso alla fine de' suoi giorni,
sentiva l'anima schiva da ogni agitazione mondana, così sperava dovesse
essere nel cuore della giovane, la quale non conosceva ancora la vita.
L'istinto dell'affetto gli figurava il primo passo nella via della
vanità quale una voragine, in cui sarebbe presto scomparsa l'esistenza
solitaria e felice della fanciulla e di lui. Fece uno sforzo sopra di
sé e, aperto l'uscio, chiamò:
"Nene".
Appena la ragazza fu entrata, il vecchio continuò con voce
tremolante, e interrompendosi spesso per respirare: "Senti, mia
cara, l'amico Zen ti chiede un favore, una cosa che non hai fatto mai
sino ad ora, e che ripugna certo alla tua indole delicata e restia.
Vorrebbe che tu cantassi in un concerto questa sera, in compagnia di
alcuni suoi discepoli, fra i quali il così detto Mirate, per sostituire
Carlottina Bianchi, improvvisamente ammalata".
"Signorina Nene, dica di sì" interruppe lo Zen: "la
mia vita è nelle sue mani".
"Sì, canterò" rispose la fanciulla, calma e sicura, senza
nemmeno badare allo Zen, che gongolava e le baciava le mani. A un tratto
il basso profondo, picchiandosi la fronte, si rivolse al vecchio:
"Maestro, mi scordavo un incarico ricevuto or ora dal tenore, qui
sulla porta. Desidera farle sapere che la richiesta di matrimonio fu un
brutto imbroglio del soprano, nostro collega nella cappella,
quell'usuraio lurido, indegno di appartenere all'onorato corpo dei
cantori di San Marco. Egli sperava di combinare il negozio per certe sue
ragioni d'interesse, mentre all'incontro Mirate è innamorato matto di
un'altra: non mi ha detto di chi".
La notizia fu di qualche sollievo al vecchio: la fanciulla invece
l'accolse con altera incredulità. Avvicinatasi ai nonno per di dietro,
gli diede un bacio sui capelli bianchi, bisbigliandogli:
"Vedo che la mia risoluzione ti affligge. Perdonami. Sarebbero
proprio riescite inutili tante tue cure per insegnarmi a cantare, se
dovessi continuar tutta la vita a gorgheggiare con gli usignuoli
dell'orto. Vedrai, mio buon nonno, che ti farò tanto onore".
Nene conosceva i pezzi che doveva eseguire. Bastò una prova rapida
in casa del maestro Chisiola, il quale, scordandosi un poco delle ubbie
di prima, dava volentieri qualche savio suggerimento, e non sapeva
vincere una certa compiacenza nell'ascoltar la nipote. Dopo finito un
rondò del Cimarosa, rinzeppato di agilità e di trilli, il vecchio non
poté trattenersi dall'esclamare:
"Brava".
Lo Zen farneticava di giubilo. Anche l'organista, tondo, sbarbato, un
faccione da corcontento, súonava con ardore, non ostante alle sue mani
rattrappite nell'uso quotidiano della piccola tastiera dell'organo, e
cercava i pedali, che non c'erano, pestando sul pavimento.
Il concerto ebbe luogo in una sala offerta allo Zen per mezzo del
famoso soprano, che tutti maledivano, ma che, lesto e ficchino com'era,
o per via di prestiti o per altri servizi, si rendeva quasi sempre
indispensabile. Stretta e lunga, la sala pareva un ampio corridoio, male
illuminato da poche lampade ad olio pendenti dal soffitto basso, ove
avevano lasciato dei larghi cerchi di filiggine. Prima delle otto già
era quasi piena di un pubblico vario: impiegati, bottegai con le loro
mogli e figliuole; bellimbusti amici di Mirate con alcune ragazze un po'
scollacciate, qualche prete con le sorelle vecchie vestite di bruno; né
mancavano parecchi signori della nobiltà, senza le dame, qualcuno cioè
di quegli ultimi sedici azionisti, che continuavano a pagare la loro
quota. I giornalisti ed i maestri di canto stavano in piedi, nel fondo,
ammiccandosi, parlandosi nell'orecchio, indicando l'uno all'altro le
più belle fanciulle, e ridendo, ghignando alle barzellette ed ai motti
di questo o di quello.
Nene sembrava propriamente bella. I capelli rossi abbondanti, tirati
alti sul capo e ornati di fiori candidi; il roseo fine del volto, in cui
spiccavano le labbra coralline e gli occhi celesti; il collo di neve; la
persona non alta, ma formosa; sopra tutto quella sua nuova espressione
di fermezza e di contentezza, le davano un aspetto singolare ed
attraente.
Il vecchio nonno, che aveva voluto per forza trascinarsi fin là, e
s'era messo a sedere nella stanza destinata ai cantanti, presso
all'uscio, il quale conduceva al palco rialzato di due gradini, non si
saziava di guardar la nipote; e quando, durante i pezzi in cui cantava e
dopo la cadenza, scoppiavano gli applausi lunghi, ripetuti, fragorosi,
ed era chiesto con entusiasmo il bis, dagli occhi del nonno scorrevano
giù per le guance le lagrime. Poi abbracciava la nipote, dicendole tra
i singhiozzi:
"Nene, mia cara Nene, come sono contento di te!".
Finito il concerto ed uscito il pubblico, in una svolta buia delle
scale, scendendo, Mirate circondò col braccio sinistro la fanciulla
alla cintola e, tenendole con la mano destra il mento, le diede un
vigoroso bacio sulle grosse labbra, che rimasero aperte e fidenti.
IV
I giornali veneziani si occuparono del concerto. Tutti lodarono la
nipote e allieva del maestro Chisiola, insistendo però nell'avvertire
che qui la scuola dello Zen non ci entrava proprio per nulla. Mirate fu
giudicato con poca benevolenza: voce potente, di buon timbro, abbastanza
intonata, ma fredda e grossolana; cantante immaturo, più da chiesa che
da teatro; insomma, qualità preziose, ma scuola pessima. Gli altri
allievi, messi in un fascio, venivano tartassati spietatamente.
Conclusione: gli azionisti buttavano via i loro quattrini per far
sciupare le belle voci o far cantare dei cani. Il giornale teatrale,
"La Lira", se la pigliava poi col setticlavio, accusando
questo metodo di molti peccati: incertezza nella intonazione,
perplessità negli attacchi, pesantezza nel modulare; e negava
assolutamente che gli scolari dello Zen sapessero leggere a prima vista.
Proponeva un giudizio, pronunciato da cinque maestri, due eletti dallo
Zen, due dalla direzione del giornale e il quinto dai primi quattro
insieme.
Lo Zen, fuori di sé per il dispetto di tante censure e per il timore
di vedersi togliere la sua amata scuola, ma più che altro per causa
delle imputazioni contro il setticlavio, abboccò subito; e scrisse al
giornale una lettera, stampata immediatamente, con cui accettava la
proposta, si riserbava di indicare due nomi, e si dichiarava disposto a
soggiacere alla sentenza se, cosa impossibile, gli dovesse riescire
contraria. Corse dal maestro direttore della cappella di San Marco a
pregarlo di essere uno degli arbitri. Questi, uomo prudente, rispose:
"Vi pare! Nella mia posizione, farmi dei nemici fra i maestri e
fra i giornalisti! Grazie della fiducia, ma non vorrei rovinarmi".
Corse dal giovine e celebre direttore d'orchestra al teatro della
Fenice, che gli strinse cordialmente la mano, lo fece sedere in
poltrona, gli offrì una chicchera di caffè, ma rispose:
"Ben volentieri, maestro Carissimo, se non ci fosse un ostacolo.
Io ignoro assolutamente che cosa sia setticlavio".
"Oh, non importa, in un quarto d'ora la metto in grado di
esserne professore. Il metodo splende da sé, come il sole. Quale è la
tonica nella chiave di Do?".
"Le sono riconoscente, maestro, veramente riconoscentissimo di
volermi istruire, e la pregherò anzi di farlo un'altra volta. Ma le
sembra che uno possa impancarsi da arbitro in una materia che conosce a
mala pena e da poche ore e per sola teoria? Bisognerebbe essere troppo
sfacciati".
Tali ad un dipresso furono le risposte degli altri maestri, cui lo
Zen si rivolse. Il pover'uomo era già stato tre volte alla casa del
maestro Chisiola; ma questi, un po' indisposto dopo la sera del
concerto, non voleva assolutamente vedere nessuno. Non sapendo dove dar
del capo s'avviò a gran passi verso la bottega dell'antiquario usuraio
e soprano.
Le faccende dello Zen s'imbrogliavano. Ai quattrini suoi, quando ne
aveva in tasca, ed a quelli degli altri che si faceva prestare, non
attribuiva nessuna importanza; e stupiva nel vedere la gente affannarsi
per guadagnare e per ammassare. Il suo stipendio di primo basso nella
cappella di San Marco era sequestrato da parecchi mesi; gli azionisti
della sua scuola gratuita gettavano appena, in un anno, un centinaio di
svanziche, e dagli allievi, anche se gli avessero offerto danaro, non
avrebbe accettato un soldo, ma veramente, invece di offrire, chiedevano,
ed egli, se aveva, dava, o, mentre era al verde, li conduceva al bacaro
a mangiare ed a bere, finché l'oste gli faceva credenza. Qualcosa
beccava cantando nelle sagre, perché la sua voce rimbombante piaceva ai
preti; qualcosa spilluzzicava correggendo bozze di stampa per una
tipografia, componendo sonetti per nozze, per nascite, per ricuperata
salute, per prima messa, per regresso di parroco, per l'applaudito
quaresimalista come per la furoreggiante Tersicore, per il negoziante,
che apriva bottega di vestiti fatti, come per il bottegaio, che aveva
ricevuto un carico di baccalà. Un giorno gli viene in mente di
pubblicare un giornale in dialetto per mettere in sempre maggior luce il
setticlavio e dire al prossimo la verità: fortuna che in meno di un
mese il foglio era bello e sotterrato. Un altro giorno annunzia su tutte
le cantonate della città la Storia del canto dall'antichità fino ad
oggi, raccoglie firme e quote di associati: l'opera rimane alla prima
faccia della prefazione.
Scriveva più sciolto in versi che in prosa, ma il meglio era la
poesia vernacola, in cui apparivano qua e là l'ironia sferzante, la
canzonatura ridente dei migliori poeti veneziani; scriveva sempre alla
bottega da caffè, in quella del sottoportico dei Dai, quasi seppellita
dal ponte vicino, in quella sotto i portici di Rialto, accanto al
mercato, ove, splendendo fuori il sole, ci si vedeva appena, ed i
sensali, i venditori, i compratori in giacchetta od in maniche di
camicia si bisticciavano insieme romorosamente, o rallegravano i
contratti di bicchierini con indiavolato baccano. Nel bugigattolo, che
portava il sonoro nome di Caffè della Gloria e che stava tra una
bottega di straccivendolo e un botteghino del lotto, il calamaio era
formato da una chicchera slabbrata priva di manico, nella quale lo Zen
trovava l'ispirazione.
L'antiquario soprano stava contrattando con una donna pallida, mentre
lo Zen entrava ansante nella bottega. Si trattava di una Vergine col
Putto in braccio, alta due palmi, tutta in avorio, su cui si scoprivano
le tracce di dorature e colori, e nello zoccolo si leggeva una epigrafe
del trecento.
"Anni addietro" diceva la donna sommessamente, con gli
occhi lagrimosi "anni addietro avrei potuto pigliarne cinque
marenghi; e non volli, perché questa Madonna era tanto cara alla mia
povera mamma, e, quando la pregavo, sorrideva anche a me; come sorride
ora".
"Insomma, le vuole le quindici lire?".
"Almeno venti me ne dia".
"No" e l'antiquario si rivolse allo Zen, che
s'impazientiva. La misera donna uscì; ma, dopo qualche minuto,
ricomparve, e, posando la statuetta lentamente sopra una tavola ingombra
di ciarpami d'ogni sorta, mormorò:
"Se la prenda: i bimbi m'aspettano con il pane".
Intascò il denaro e fece per andarsene; ma, trattenuta da un
rimorso, tornò indietro, prese in mano la figuretta con delicatezza
paurosa, accostando le labbra tremanti al viso soave in atto di
baciarlo. Uscita finalmente dalla bottega si asciugava le lagrime,
mentre correva dal fornaio.
"Oh, appunto, se non capitavi sarei venuto io a destarti"
brontolò l'antiquario, guardando lo Zen; e gli domandò in tono brusco:
"Non pensi a pagare?".
"Ho altro per il capo io. Volevo chiederti un consiglio, perché
sei uomo avveduto e so che, in fondo, mi vuoi bene. Leggi la
'Lira?'".
"Capisco. Ti sei accorto di avere fatto una delle tue solite
bestialità, accettando la proposta del giudizio musicale, e vorresti
rimediare".
"No davvero. Venivo a sentire da te un parere circa i due nomi
di autorevoli maestri, cui potrei indirizzarmi".
"Quanti t'hanno detto di no fino ad ora?".
"Facciamo il conto" e pronunciava i nomi, e numerava sulle
dita: "Sette".
"Puoi stare certo che per l'una ragione o per l'altra, col bel
garbo o villanamente, tutti, in conclusione, ti risponderanno del pari.
Smettila, smettila col tuo setticlavio".
"Intanto non potresti accettare tu?".
"Io? Sei matto. Ma lasciamo stare per ora queste baggianate.
Intendi di pagare sì o no? Sono stato io la bestia di mettermi innanzi
col proprietario della sala ove hai tenuto il famoso concerto, col
fornitore delle seggiole, con quello delle lampade, e via via: una
ottantina di svanziche".
"E non mi hai svergognato in faccia a tutti i nostri compagni
della cappella, facendomi sequestrare lo stipendio? Paga con
quello".
"Mi canzoni? Lo stipendio era già sequestrato più di mezzo;
sicché, per riavere le somme, che ti prestai da amico troppo
disinteressato, dovrò pazientare la bellezza di quasi due anni. Siamo
vecchi, caro collega, e se non si perderà presto la vita, si perderà
certo la voce. Begli affari ho fatto con te e con Mirate!".
"Pensiamo dunque a un rimedio".
"Hai nulla?".
"Nulla. Anzi fra una settimana rischio di farmi cacciare di
casa, sequestrare i pochi mobili, e portar via il pianoforte e la
musica. Che cosa sarà della mia povera scuola?".
"Mi avevi parlato, tempo fa, di una somma che certi tuoi
conoscenti t'avevano spedito, non so da quale cittaduzza, per la stampa
di una strenna, scritta da essi, e che dovrà uscire gli ultimi giorni
dell'anno. Mancano ancora cinque mesi".
"Mi tempestano di lettere, aspettano ansiosamente di giorno in
giorno le bozze, minacciano di venire a Venezia. Bisogna pure che io
consegni il manoscritto al tipografo, e ritrovi il denaro già
sfumato".
"E il pianoforte?".
"Non è mio, lo sai bene. Lo ho a nolo mensualmente".
"Sì, ma se tu trovassi da venderlo, non potresti continuare a
pagar la mesata, finché ti riescisse di saldare al proprietario il
prezzo totale dello strumento? Perderesti qualcosa, ma non si può avere
nulla per nulla".
"E come farei senza pianoforte a insegnare il
setticlavio?".
"Pigliane un altro a nolo, da un altro negoziante,
s'intende".
"Di questi affari non capisco niente. Salvami la scuola: ti
domando soltanto questo. Mi fido di te".
"Troverò io il compratore. Ad un patto però, che il mio nome
non debba essere pronunciato in nessun caso. Me lo prometti?".
"Lo giuro" e lo Zen, dopo qualche altra parola, uscì con
la testa alta, il passo snello, zufolando un'arietta allegra, come se
avesse assicurato la scuola per l'eternità. Della "Lira"
oramai si dava poco pensiero.
V
Era un caldo d'inferno: l'estate si sfogava. Mancavano due giorni
alla sagra del Redentore, e già gli operai dell'arsenale stavano
connettendo nel canale della Giudecca il lungo ponte di barche, il quale
serve a congiungere, durante la solennità, le Zattere al tempio; già i
più solleciti rivenduglioli e barcaiuoli cominciavano a piantare le
baracche e ad addobbare i battelli.
Nella notte del Redentore, fra le scelte compagnie di cantori
figurava da quattro anni la scuola dello Zen, che faceva sentire, oltre
alcune barcarole e serenate delle opere teatrali, anche certi vecchi
madrigali ed una canzone fresca fresca, scritta apposta da qualche
giovine compositore veneziano. Era più di un mese che lo Zen esercitava
gli allievi; ma la canzone nuova, una marinaresca a tre voci, che doveva
far epoca, gli era stata consegnata allora, appena quarantott'ore prima
di doverla eseguire. Il tenore, s'intende, era Mirate, cui anche premeva
farsi sentire da un impresario spagnuolo, il quale faceva un giro in
Italia a scritturare cantanti. La parte del basso, tutta a note di
accordi e pedali, riesciva adattissima allo stesso Zen con le sue canne
da organo ambulante. Quanto al soprano, per cui occorreva un usignuolo,
tanti erano i trilli, i gruppetti, le volate, i gorgheggi, Carlottina
Bianchi, anche se non fosse stata ammalata, sarebbe ad ogni modo apparsa
insufficiente. Una unica virtuosa poteva trionfare in sì ardue
difficoltà: la Nene. Solo a figurarsi il terzetto uscire dalle tre
gole, il maestro Zen si sentiva venire l'acquolina alla bocca.
Senonché v'era un ostacolo grave, forse insormontabile: persuadere
l'ombroso Chisiola a lasciar venire la nipote in barca, di notte,
insieme con parecchi giovani, senza la vigilanza del nonno, che non
avrebbe potuto reggere al disagio, e tutt'al più con l'accompagnatura
della vecchia e miope donna di servizio. Lo Zen, consultato Mirate,
nella fantasia del quale la fanciulla rimaneva, dalla sera del concerto
in poi, impressa quale un bocconcino da principe, decise di non
affrontare da sé la fortezza, mandando invece ad espugnarla l'alleata,
perché non dubitava che Nene sarebbe entrata subito nella lega.
Bastarono, infatti, poche parole dello Zen, dette in furia nell'entrata
della casa.
"Lasci fare a me, maestro" esclamò la ragazza, e salì
alla stanza del vecchio. Il vecchio non voleva; resisteva alle moine,
alle preghiere; parlava della propria responsabilità; non si fidava
della testa dello Zen e della oculatezza della fantesca; aveva piena
fiducia nel senno della nipote, ma temeva lo scandalo.
"Si tratta di un'ora o due, nonno".
"Nemmeno dieci minuti".
Allora Nene diventò, di botto, tanto pallida che fin le labbra
s'erano fatte livide, e ripeteva:
"Lasciami andare, nonno, lasciami andare".
Il vecchio, sgomentato dal nuovo tono minaccioso di quella voce,
nella quale non aveva dianzi conosciuto altro che mansuetudine, e dal
nuovo lampo iracondo di quegli occhi, in cui s'era assuefatto a leggere
soltanto la dolcezza e l'affetto, chinò la testa, mormorando:
"Va' pure, e ricordati la tua santa madre".
La mattina del Redentore il vecchio volle vedere insieme lo Zen e
Maria, la donna di servizio. Li tenne in camera quasi mezz'ora, ed
uscirono entrambi commossi.
Mirate aveva voluto presiedere lui all'ornamento della barca, la
quale sembrava una pergola galleggiante, dalla cui verdura scendevano
lampioncini di vari colori e lunghe fettucce di carta rossa e turchina.
I sedili erano coperti e rammorbiditi da vecchi cuscini stretti e lunghi
di stoffa fiorita, la quale dai larghi strappi lasciava uscire
l'imbottitura di stoppa. Già vi stavano seduti i cantanti, due
suonatori di chitarra ed il compositore della marinaresca, un giovinetto
biondo e sentimentale. Lo Zen non poteva rimanere fermo: a ogni momento
s'alzava, facendo dondolare la barca, picchiava il capo in un
palloncino, sfondava la volta fronzuta, pestava ora questo ora quello. I
tre rematori durarono fatica a condurre nel rio stretto e curvo il
grosso battello, il quale, mentre echeggiavano i rintocchi di
mezzanotte, si fermò alla riva d'approdo, innanzi all'orto del Chisiola.
Il vecchio non aveva voluto coricarsi: pareva rassegnato, anzi desiderò
di accompagnare ancora una volta sul pianoforte la musica, che Nene
doveva cantare e che ella, per non affaticar la voce, accennava appena.
Nene, incurvandosi, raccogliendo le vesti, mise il piedino sul trasto
e, ridendo, fece un salto nella barca, seguita dalla grave Maria, che
dovette essere quasi alzata di peso. In pochi minuti furono nel Canale
della Giudecca. All'uscire dal rio cupo e silenzioso apparve come uno
spettacolo d'incendio. I fuochi di bengala rossi gettavano fiamme sui
palazzi e sulle case delle Zattere, sui prospetti e sulle cupole dei
templi, sul popolo infinito, che si pigiava nelle fondamenta, sugli
alberi delle navi ancorate presso alla riva; e innumerevoli ombre
d'uomini e di remi, gigantesche, interminabili, passavano rapide sulle
facciate incandescenti, mentre il fumo denso saliva in un cielo
profondamente scuro. Poi, spenti i fuochi, si riaccendevano le stelle in
alto; e sulla laguna comparivano a miriadi i lumicini, che si
inseguivano, si rincorrevano, e si specchiavano, oscillando, nei brevi
spazi d'acqua lasciati liberi ora qua ora là. Poi ancora scoppiavano e
crepitavano i razzi, ricominciava la pioggia di scintille, ripigliavano
i fuochi di bengala bianchi e verdi, che facevano splendere ogni cosa di
luce argentea, finché tornava l'inferno dei fuochi rossi con i demonii
neri, di cui si scorgevano proiettati sulle pareti un braccio teso, una
mano aperta, un profilo di testa, che occupava lo spazio d'una casa, due
gambe a rovescio, che oltrepassavano il tetto, oppure degli
intrecciamenti di masse informi e confuse come battaglie fantastiche; e
quanto più il vivido lume si avvicinava alla figura, che mandava
l'ombra, tanto più questa s'ingrandiva fino a diventar smisurata, ed
allora, in un attimo, sfumava via per lasciare luogo alla incalzante
ridda delle altre. Era una trasformazione sfolgoreggiante di forme, di
tinte, di luci, in cui di quando in quando si apriva uno squarcio di
tenebre tanto fitte, che si credeva di avere la repentina visione
dell'infinito; e in mezzo a quella festa abbacinante ci si sentiva
attratti a cercare con gli occhi in alto o in basso il mistero di
coteste macchie nerissime.
Intanto nelle fondamenta delle Zattere e della Giudecca il passeggio
della enorme folla era impedito dalle baracche e dalle tende, ove,
vociando a più non posso, vendevano ogni sorta di roba, specialmente
vino, liquori, gelati, aranci, frittelle, galani inzuccherati, e grandi
mazzi di finocchio in seme. Il ponte di piatte scricchiolava sotto i
piedi dei passanti, che dovevano procedere lenti e fermarsi a ogni poco,
tanta era la calca; scricchiolavano sull'acqua i battelli, le gondole, i
sandoli, le barche d'ogni genere, che, non ostante alla maestria ed alle
bestemmie dei rematori, si urtavano come se dovessero sconquassarsi. I
ferri lucidi delle prore davano il cozzo nelle forcole, che in quella
ressa non potevano più servire al loro uso; ed i remi o stavano
inoperosi o giovavano a formare cuneo tra le bande delle barche vicine.
In certi momenti si sarebbe potuto passare a piede asciutto dalle
Zattere alla Giudecca su quel brulicame di piccoli navigli, che si
muovevano tutti insieme, lentamente, maestosamente, a seconda dell'acqua
in riflusso; in certi altri momenti si poteva credere di trovarsi nella
frenesia degli abbordaggi, degli arrembaggi d'un combattimento navale. I
barcaiuoli mostravano i pugni, si dimenavano furiosamente, minacciavano
di saltare sopra le gondole per ammazzarsi: e tutto finiva in burletta
quando il motto canzonatorio d'un compagno, gridato con accento buffo,
faceva sbellicare dalle risa i popolani, i gondolieri e i contendenti
medesimi. Nel tutt'insieme un baccano indiavolato, un pandemonio allegro
e indescrivibile. Ma ecco principiano in un battello i canti: già gli
accordi si odono dai più vicini, già si comincia a chiedere silenzio,
già si tace, si ascolta, ed i suoni si diffondono in uno spazio via via
maggiore, disturbati soltanto da qualcuno che grida zitto, e dai
frastuoni lontani, fra i quali si distinguono le voci fesse dei
rivenditori ambulanti.
Il gran trionfo fu per il concerto dello Zen e specialmente per la
marinaresca a tre parti: i battimani non finivano più, si voleva il
bis, si acclamavano i cantanti, si vociava: fuori il compositore, che,
pallido e raggiante, dovette rizzarsi in punta di piedi sui dorso della
poppa. Nene e Mirate, nella melodia patetica, la quale andava a
successioni di seste, si stringevano forte le mani e si guardavano fissi
negli occhi; lo Zen aveva mangiato la sua brava aringa salata. Esaurito
il programma, Nene, verso le due, avrebbe desiderato di tornare a casa,
tanto più che alla Maria minacciava un po' di mal di stomaco per
cagione del dondolìo della barca; ma una occhiata di Mirate ed un
invito dello Zen, ch'era stato accettato con entusiasmo da tutta la
comitiva, vinsero facilmente la riluttanza della fanciulla.
Lo Zen dalla vendita del pianoforte non suo aveva cavato, per mezzo
dell'amico antiquario, intorno a trecento svanziche, di cui un
centinaio, poco più, era rimasto nelle sue proprie tasche. Gli
pesavano. Veramente, durante il giorno, gli era corsa nella fantasia la
fisima di pagare un qualche acconto dei molti debiti; ma quei buoni
giovanotti avevano cantato tanto bene, dovevano avere la gola tanto
arida, che il non offrir loro un po' di cena sarebbe parsa una
crudeltà.
Andarono dunque tutti nel giardino Checchia alla Giudecca, meno la
Maria che, non sentendosi bene, pregò di essere lasciata in barca, dopo
avere con le lagrime agli occhi sollecitato la padroncina a sbrigarsi
per timore che il povero nonno fosse sveglio e stesse in angustia.
Il giardino vastissimo era tutto a pergolati bassi, che formavano una
serie di piccoli viali coperti, ove, intorno alle frequenti tavole
lunghe e strette, stava un mondo di gente a cenare. L'illuminazione
consisteva nei soliti fanaletti e lampioncini penzolanti e in candele
circondate da cartocci di vari colori, per proteggerle dal ventolino,
che rinfrescava ed esilarava dopo la soffocante giornata. Il canto e gli
applausi avevano aguzzato l'appetito persino della fanciulla nei capelli
rossi della quale l'auretta scherzava; e si lasciava fare nell'orecchio
da Mirate, seduto al suo fianco, le più audaci dichiarazioni d'amore e
sorrideva e sospirava e beveva il vino, che il tenore le versava spesso
dal boccale panciuto, su cui stavano dipinte certe rose non meno
pavonazze delle chiazze della tovaglia. Dopo il salame ed i polli
arrosto capitarono le frittelle: i giovani cantanti mangiavano e nello
stesso tempo guardavano i due innamorati, ghignando sotto i baffi e
parlando tra loro ad alta voce in gergo furbesco; i chitarristi
tacevano, divoravano e mettevano in saccoccia; lo Zen aveva afferrato il
maestrino, autore della marinaresca, il quale era giunto a Venezia da
pochi giorni raccomandato al maestro dai suoi amici scrittori della
strenna, e gli stava snocciolando le virtù del setticlavio.
"Quale è la tonica nella chiave di Do?".
"Il Do".
"Mi canti una terza maggiore".
"Do Mi".
"Una minore".
"Re Fa".
"E la tonica nella chiave di Re?".
"Re".
"Niente affatto".
"Come?"
"È sempre il Do".
"Non intendo".
"Intenderà subito. Faccia il salto di terza".
"Re Fa".
"È una terza maggiore o minore?".
"Maggiore".
"Signor no".
"Ella stesso mi diceva dianzi ch'è minore".
"Minore nella chiave di Do e maggiore in quella di Re".
"E Do Mi?".
"Nella chiave di Re è minore".
"Oh confusione, oh babilonia! Sempre gli stessi nomi hanno da
essere e sempre i medesimi intervalli. Stia a sentire" e il maestro
continuava imperterrito il ragionamento, e si sgolava solfeggiando: Do
Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do Si, Do Do.
Intanto Nene, che aveva le fiamme al viso, si era alzata, umida di
sudore, e al braccio di Mirate, girando nei pergolati più tranquilli,
s'allontanava. Uscirono dal cancello posteriore, che non metteva sulla
via, ma in un campaccio disabitato. S'avanzarono nelle tenebre e nel
silenzio sull'erba alta: Nene traballava. Il cielo s'era annuvolato; se
non fossero stati i bagliori, che di quando in quando guizzavano
sull'orizzonte, cielo e laguna si sarebbero confusi in una oscurità
sepolcrale. I rumori distanti, i pallidi riverberi dei lumi oltre il
muro di cinta facevano sembrare più cupa la nerezza e la taciturnità
del luogo, ove non pareva più di essere accanto a Venezia, di vivere
nella realtà di questo mondo. Un gatto si cacciò fra i piedi della
fanciulla, scappando; ella cadde sull'erba.
"Hai paura?" le domandò il tenore.
"No" rispose Nene, e gli stese le braccia, perché la
rialzasse.
Il vento, che fischiava, stava spegnendo le candele sui deschi,
malgrado il riparo dei cartocci, e faceva scappar la gente, quando Nene,
sul cui volto un triste pallore aveva sostituito il rosso acceso di
prima, tornò alla tavola con Mirate. Lo Zen, sorseggiando l'ultimo
mezzo boccale, continuava a disputare sul setticlavio; ma il maestrino,
appena vide comparire i due giovani, colse la buona occasione per
salutare in fretta e darsela a gambe. Gli altri se l'erano svignata
prima, non senza una certa curiosità di sapere ove si fossero cacciati
Giulietta e Romeo. Avevano anzi cercato, invano, di scovarli.
Il battello con i lumi tutti smorzati e il grande felze di verdura e
la Maria sopita e i barcaiuoli morti dal sonno, aveva un aspetto
sinistro. Attraversò il canale della Giudecca fra poche barche piene di
donne e d'uomini briachi, mentre scoppiava l'ultimo razzo e s'accendeva
l'ultimo moccolo di fuoco di bengala. Passando sotto un ponte, nel rio
stretto e buio, udirono un corpo cadere sui gradini e due persone, che
s'erano fermate a guardare, dirsi fra loro:
"S'è rotto il capo: vedi quanto sangue".
"No, è vino. S'alzerà domattina".
Cominciava la pioggia a goccioloni. Nene aveva freddo e tremava.
In quel frattempo il nonno non trovava pace. Dacché Nene era montata
in barca egli aveva ripetuto cento volte a se stesso: "Ho fatto
quanto potevo. Che colpa ho io se la ragazza non somiglia a sua madre e
a sua nonna? Da chi ha ella ereditato tanta disobbedienza, tanta
ostinazione, tanta vanità, tanta smania per gli svaghi mondani? Potevo
io chiuderla in un convento o serrarla in una prigione? Ho l'animo
tranquillo, proprio tranquillo". E sentiva dentro una inquietudine,
una impazienza, che non si ricordava di avere provato mai. Era andato a
letto, aveva spento il lume, s'era rivoltato da tutte le parti: le
materasse pungevano. Allora aveva preso la risoluzione di tornare a
vestirsi; era sceso giù nell'orto. Tendeva le orecchie: le foglie
stormivano.
Poi, traversata l'ortaglia sino alla riva e alzato il grosso
saliscendi arrugginito, che mandò un acuto cigolío, aveva aperto.
S'era appoggiato allo stipite: fissava l'acqua nera sotto i piedi. Si
udivano a distanza i rumori della festa, le grida allegre; si vedevano i
razzi, i riflessi dei fuochi. A poco a poco sui gradini bagnati e
sdrucciolevoli i grossi topi ricominciarono le loro corse, senza curarsi
del vecchio, il quale rimaneva immobile e assorto. Anzi un sorcione
finì per tentare di rodergli le pantofole, ricamate da Nene. Allora il
vecchio si riscosse, e rientrò, passo passo, in casa. Si pose a sedere
innanzi al pianoforte e suonò, senza pensarci, alcune battute della
marinaresca, le quali ancora gli ronzavano nelle orecchie; ma si
interruppe tosto, seccato da quella musica scipita e triviale. Frattanto
gli correvano nella mente certi ricordi della sua giovinezza: un amore
profondo e calmo per la figliuola del suo maestro, finita etica di
vent'anni, in memoria della quale aveva composto, la sera stessa della
morte, una marcia funebre. Cercò di rammentarsela; provava, riprovava;
i primi accordi non venivano, ma certi brani del canto sì; poi di nuovo
s'annebbiava la seconda parte, svaniva la cadenza. Ma a forza di
studiare, la marcia tornò tutta intera, tale e quale, nella memoria e
sotto le dita del maestro, che ne provò una viva compiacenza, quasi una
sensazione di gioia.
Una barca, che passava con gravi tonfi di remi e strepiti di gente
avvinazzata, destò il vecchio dai cari sogni lontani; andò alla
finestra; gli tornò la spina nel cuore. Guardava e, dopo un istante,
riguardava l'orologio. Non si fidava della lancetta; contava sulle dita
le ore e i quarti, quando suonavano e ribattevano al campanile vicino.
"E non torna!" ripeteva "Non torna! Non si rammenta
più del suo povero nonno!".
Poi s'affaticava a ragionare:
"Le mie sono fisime da rimbambito. Che male c'è, in fondo, nel
cantare e nel farsi sentire, nel desiderare un passatempo onesto, nel
volere una qualche libertà dopo tanta soggezione? Può una ragazza
starsene tappata in casa tutta la vita, perché manca di madre e di
padre, e perché l'unico suo parente è un vecchio fastidioso e
decrepito? La colpa è mia, che ho preteso troppo. Sono stato io
l'egoista: non ho voluto scomodarmi, non ho saputo fare nessun
sacrifizio. La giovinezza ha i suoi diritti, che la vecchiaia non deve
calpestare. Altro è l'estate, altro l'inverno. Sarebbe bella ch'io me
la pigliassi con l'estate perché fa caldo!".
Si gettò sul letto, vestito.
"Eppure" bisbigliava "sarebbe ora che tornasse. Quei
giovinastri, quello scavezzacollo di Mirate, quella testa bislacca dello
Zen non mi lasciano quieto".
Si alzò di nuovo; andò di nuovo al balcone, ove soffiava il vento
fresco e umido, che agitava i suoi capelli candidi come aveva sconvolto
quelli di Nene; guardò le nubi dense, illuminate dai repentini
bagliori. Cominciava la piogga, minacciava il temporale; "Dio, Dio,
che cosa succede di lei!" e stava per discendere ancora nell'orto
in preda ad un'angoscia sempre crescente ed oramai insopportabile,
quando udì la gran chiave nel portone della riva alzare il saliscendi.
Respirò. Sentì la voce della nipote e ringraziò il cielo; ma chiuse
in fretta la finestra e spense il lume. Non voleva che si indovinassero
i suoi affanni.
VI
La mattina seguente Nene si alzò mutata. Gli occhi parevano
diventati più grandi e più infossati nella faccia smorta; ma il
sorriso aveva ripreso tutta la sua dolcezza, e nelle sue maniere
ricomparivano la modestia e la calma di qualche settimana addietro. Per
il nonno non aveva mai mostrato tanta devozione, tanta sollecitudine.
Tornò ai fiori, al lavoro, talvolta alla cucina. Dal suo animo s'era
dileguata quella irrequietezza dell'amore ignoto, che la faceva
diventare impetuosa e cattiva; tutto le si presentava sotto un aspetto
diverso di prima: la vita acquistava uno scopo, e il vedersi tracciata
innanzi un'unica via le metteva in petto una sicurezza, un riposo,
ch'ella scambiava quasi con la felicità.
L'amante per lei era diventato un altro uomo; non che fossero
scomparsi tutti i suoi difetti, bensì codesti difetti le si
affacciavano come conseguenze od eccessi di qualità belle e forti. La
passione, che la spingeva a lui, non riesciva meno intensa, meno
infrenabile; solo assumeva una giustificazione nuova, una specie di
nuova dignità e, quasi a dire, virtù. Oramai non pensava ad altro che
al matrimonio, ma senza impazienza o sospetti; anzi non sentiva nemmeno
il bisogno di parlarne a Mirate, quando egli, vogando da sé, giungeva
con un leggero sandolo verso il tocco dopo la mezzanotte alla riva
dell'orto, mentre il vecchio nonno e la serva dormivano. Nell'andare
incontro al suo sposo Nene non provava nessun rimorso; scendeva le scale
in punta di piedi, lentamente, origliando, apriva la pesante porta, la
quale girava senza cigolare, dacché la prudenza aveva consigliato di
ungere i cardini e il catenaccio, conduceva Mirate per mano nel chiosco
circondato e coperto di rampicanti, e si metteva a sedere accanto a lui.
Dopo un'ora o poco più, il giovinotto diceva addio e, memore del suo
primo mestiere, balzava sulla poppa del sandolino e s'allontanava
cantando.
Nene qualche volta lo aspettava invano, con il portone della riva
socchiuso, con l'orecchio intento ad ogni lieve rumore, senza curarsi
degli enormi topi, che di solito la facevano strillare di ribrezzo.
Udiva suonare le due, le tre, le quattro; aspettava il crepuscolo quasi
senza pensare, dominata dall'unico sentimento d'una speranza, che ad
ogni minuto scemava.
Una notte, appena Mirate ebbe messo il piede sul gradino, gli disse:
"Devi farmi un piacere: conducimi a casa tua".
"Sei matta?".
"Per mezz'ora, per pochi minuti, tanto da conoscere il luogo ove
dormi, e pensare meglio a te, quando non vieni".
"Pazzie. Se qualcuno ti vedesse!".
"Chi vuoi che mi veda a quest'ora, imbacuccata nello
scialle?".
"La casa dove sto non ha riva: bisogna percorrere un buon tratto
di Frezzeria. È un capriccio".
"Sia pure, ma è un capriccio innocente. Contentami".
"E poi se il maestro si sentisse male, se chiamasse".
"Insomma non mi vuoi condurre. Temi forse di
comprometterti?".
Il tenore fece una risata, esclamando:
"Non c'è pericolo".
Nene ebbe un sussulto di gelosia, ma non disse nulla; solo insistette
ancora più per andare, finché l'altro aderì. Entrata cautamente nel
sandolino, si mise a sedere sul trasto di prora; e sebbene la barchetta
snella ondeggiasse ad ogni movimento, quasi ad ogni colpo di remo, la
donna innamorata non sentiva nessuna paura, e ripeteva con compiacenza
al giovinotto:
"Come sei bravo!".
Nel percorrere invece al suo fianco un ramo della Frezzeria, ella si
nascose con lo scialle la faccia, ch'era diventata rossa di vergogna.
La camera le piacque poco: tende annerite, pareti sudicie, biancheria
e vestiti sossopra, puzzo di muschio, molti ritratti qua e là, persino
sul comodino, di ballerine e d'altre femmine mezzo svestite. Nene
avrebbe voluto andarsene subito, ma non ardiva; e nel guardare le
correvano per la mente cento pensieri, che si riassumevano in questo
rammarico: "Dio sa quante ne ha amate prima di me!"; poi si
confortava, pensando come per mezzo dell'affetto e delle cure pazienti
lo avrebbe reso migliore, come gli avrebbe creato intorno un nuovo mondo
di gioie domestiche e pure, tali da fargli dimenticare il passato.
Cominciava l'alba quando Nene rientrò nell'orto e sali nella sua
camera; un'alba nebbiosa, umida, piena di tristezza. Nel passare vicino
alle piante del suo giardinetto la giovane donna aveva loro gettato uno
sguardo: sembravano melanconiche anch'esse in quella scialba luce
crepuscolare, e, invece di rizzarsi attendendo il bacio del primo raggio
di sole, chinavano verso terra le foglie e i fiori. A letto Nene non
poté chiudere occhio, tanto era contristata dalla sicurezza di non
vedere l'amante per quattro interi, per quattro interminabili giorni.
Glielo aveva detto lui dianzi nel darle l'ultimo abbraccio. Eppure ella
non poteva negare che avesse ragione: doveva in queste sere andarsene a
casa di buon'ora, tenersi riparato dall'aria della notte, curare la
gola, se voleva presentarsi con tutta la freschezza della propria voce
nella solenne messa delle esequie al Soldini, per la quale un celebrato
maestro bolognese aveva scritto apposta la musica. Questi dirigeva le
prove da più di due settimane, e aveva saputo destare la curiosità di
tutti, così abbondavano i giornali ed anche i cantori ed i professori
d'orchestra di strabocchevoli lodi. Uno dei pochi che, modestamente, ci
trovasse a ridire era il maestro Chisiola, cui non piaceva nella casa di
Dio e per onorare un morto quello sfoggio di canti teatrali, di cori
strepitosi e di strumenti assordanti.
"Spezziamo le tradizioni della nostra gloriosa cappella!"
diceva sospirando. Ma, appunto per questo, era un'ansia per la città,
quanto se si fosse trattato di un'opera nuova del Verdi al teatro della
Fenice: nelle botteghe da caffè, nei ritrovi, passeggiando su e giù in
piazza di San Marco o sul Molo non si parlava d'altro. C'era come
l'attesa di una rivoluzione musicale. Già il pubblico si divideva in
progressisti e conservatori, in liberali e codini.
Ogni sotterfugio pareva buono pur di assistere alle prove; e chi non
poteva ficcarsi nella gran sala del Ridotto, ove avevano luogo, si
contentava di starsene nell'atrio o giù in calle, e, dopo finiti i
pezzi, applaudivano freneticamente. Poco mancava che gridassero, come la
notte del Redentore, fuori il maestro. Si sentivano zufolare, magari
sotto le Procuratie e nei salotti aristocratici, i più spiccati motivi
della messa; si sapeva quante arie, quanti duetti e terzetti, quanti
cori formavano la partitura; si sapeva come Mirate, unica bella voce
della cappella e vera colonna della messa, cantasse quasi dal principio
alla fine; si sapeva come il maestro bolognese, dopo avere udito il
primo basso, quel seccante maniaco di setticlavio, non l'avesse voluto a
nessun patto, anzi avesse fatto venire dalla basilica di San Petronio un
cantore stupendo, talché il disgraziato basso veneziano doveva sfogarsi
nei pieni; si sapeva come vi fosse un coretto delizioso di voci bianche,
eseguito dai bimbi dell'Orfanotrofio, ai quali insegnava il Chisiola,
quel vecchio, che ha quella tal nipote bruttina, amante di quella buona
lana del tenore, i quali se ne vanno insieme di notte con tanto scandalo
per le vie della città, ed il vecchio, che sembra un santarello, vede e
chiude gli occhi. Non s'ignorava inoltre che il maestrone aveva lasciato
fuori la solita fuga, con viva soddisfazione dei più, che la
dichiaravano un vecchiume da parrucconi, e con sommo sdegno dei meno, i
quali borbottavano:
"Allora addio musica religiosa, tanto conta di far ballare la
gente anche in chiesa; ma la fuga, se non l'ha fatta, vuol dire che non
ha saputo farla: è una bestia".
Insomma ci fu qualcuno, che la notte precedente al grande avvenimento
non andò a dormire, per essere ben sicuro di trovarsi davanti alle
porte della basilica nell'ora in cui le aprono, e assicurarsi un buon
posto. Prima delle otto la chiesa era piena; alle nove non si poteva
entrare nemmeno nelle gallerie superiori; la messa doveva principiare
alle dieci e mezzo. Sagrestani e scaccini, fendendo faticosamente la
folla a forza di gomitate, andavano qua e là per i loro servizi: si
udiva un continuo strepito di scranne e di panche, un continuo
bisbiglio, che talvolta diventava frastuono, ripercosso dalle maestose
vòlte del tempio. Nella nave di mezzo si alzava il catafalco, una
specie di tempio romano, tutto ornato di velluto nero con frangie
d'argento e di figure allegoriche, tutto circondato d'innumerevoli ceri
accesi. Ai lati stavano dall'una parte i vecchioni dell'Ospizio di
Carità, i più rubizzi, dall'altra le vecchie, le più floride, in
segno di riconoscenza al defunto per il pingue legato: curiosa serie di
profili allineati, in cui dominava la bazza.
Nene era giunta in tempo di pigliare il suo posto consueto nella
cappella di San Clemente, di fianco al presbiterio vuoto, ove si alzava,
sopra la cattedra patriarcale, l'ampio baldacchino di seta bianca a
larghi fiorami d'oro. Il cuore le batteva forte, pensando al tenore, che
doveva comparire tra poco innanzi al giudizio di tanto pubblico; e
guardava con febbrile impazienza alla cantoria ancora deserta. Poi,
fantasticando, girava gli occhi ora sulla fila dei bruni apostoli, ora
sull'angelo dorato, che minacciava di precipitare dalla sua mensola, ora
sulle gaie signore corteggiate nelle tribune. Gli scintillamenti dei
musaici d'oro finirono per produrle un grave assopimento, durante il
quale scendeva, come in un sogno, nel fondo del proprio essere. Allora
uno sgomento misterioso, una vergogna immensa la invadevano. Tentava di
distrarsi, contemplando in alto le storie dell'arcone, la Vergine con
l'angelo annunziatore, il Bambino adorato dai Magi, e mormorava:
"Dio voglia!".
Alzava lo sguardo ancora più, fino ai simboli bizantini degli
evangelisti nei sostegni della cupola. Il leone aveva l'artiglio
somigliante a una mano, a una mano che volesse frugare nella coscienza;
aveva il muso in forma di grugno da vecchia megera barbuta. E la
orribile strega continuava a fissare, bieca, minacciosa, le occhiaie
vuote e nere nel volto impaurito di Nene.
Circa alle dieci entrarono pomposamente nel presbiterio i canonici, e
si posero a sedere nei loro stalli. Un faccione tondo e ridente comparve
al parapetto della cantoria: era quello dell'organista. Seguì un
corista zoppo, che aveva in custodia la musica e disponeva sui leggii le
parti. Vennero in seguito uno ad uno gli altri quaranta cantori, tutti
in cotta bianca, fra cui il soprano, più sparuto del solito, il
Chisiola, accompagnato dai bimbi dell'Orfanotrofio, lo Zen, che non
s'era fatto la barba e aveva il viso stralunato, proprio da funerale. Il
nuovo basso bolognese, piantati i gomiti sul parapetto, cacciava in
fuori il busto quanto più poteva, per esaminare l'uditorio ed essere
veduto bene: insieme molti se lo mostravano a dito. Andò accanto al
maestro di cappella, appena questi fu entrato. Tutti presero il loro
posto, aggruppandosi fra i tenori, soprani, baritoni e bassi. Non si
vedeva ancora la testa baldanzosa di Mirate, al proposito del quale
alcuni ponevano a se stessi questo arduo quesito: "La metterà la
cotta quest'oggi, o non la metterà?".
Frattanto nell'altra cantoria, quella dell'orchestra, la quale stava
sopra la cappella di San Clemente e non poteva quindi essere veduta da
Nene, continuava il pestar dei piedi sui gradini di legno, con qualche
tonfo e vivi chiacchiericci dei professori, che andavano al loro posto,
portando il proprio strumento. Indi, acconciatisi a sedere, diedero
dentro nelle accordature, da prima sommessamente con gli archi, di poi
fastidiosamente persino con i corni e i tromboni, sicché uno zitto non
faceva cessare la babele, che poco dopo ricominciava. Doveva essersi
fatto innanzi il celebre maestro, impaziente di dirigere la propria
creazione, perché tutti guardavano da quella parte, molti rizzandosi
sulla punta dei piedi e puntando il binocolo da teatro. L'agitazione
cresceva; erano pochi quelli che non cavassero dal taschino a ogni
tratto l'orologio:
"Dieci e mezzo precise".
"No, mancano sei minuti".
"Quattro".
"Dieci".
"Due".
"Sono passate".
Quando il maestro compositore diede il primo segnale, picchiando
forte sul leggìo, si fece tale un silenzio, che si sarebbe sentito
ronzare una zanzara; ma il maestro di cappella, dalla cantoria di
rimpetto, si sbracciava nel fare segno di attendere.
Era già' comparso dalla porta della sagrestia, preceduto e seguito
da una quantità di chierici e accoliti, il venerando patriarca, tenuto
in mezzo dai due canonici mitrati. Le alte mitre d'argento, gli
splendidi piviali attrassero per un istante la curiosità della folla.
Eppure fra le due cantorie non cessavano i segnali. Il maestro di
cappella, con aria molto agitata, aveva lasciato il suo posto e dava
ordini, consultandosi con lo Zen, col Chisiola, con altri; correvano
giù dalle scale erte alquanti coristi, gettando via la cotta, e
uscivano a precipizio dalla basilica. Nene, immobile, con gli occhi
fissi alla cantoria, pareva una morta in piedi. Nel presbiterio non si
raccapezzavano; davano delle rapide occhiate in su; si scambiavano
qualche parola sotto voce, senza mostrar di perdere la calma
sacerdotale. Bensì il popolo s'impazientiva, né gli importava di
dissimularlo: era un ciarlare generale, un chiedersi a vicenda:
"Oh, che cosa succede?".
"Sia venuto male a qualcuno".
"Forse al patriarca".
"Pare di no. La confusione è nelle cantorie. Guardi lì a
sinistra, non sanno a che santo votarsi".
"Certo, è stato un colpo d'accidente".
"A chi?".
"Al maestro, forse".
"Al maestro un colpo d'accidente".
"Un colpo apoplettico al maestro".
"Morto?".
"Poveretto, era ancora giovine!".
"Quanti anni poteva avere?".
"Intorno alla sessantina".
"Li portava bene; ma veda, è lui al parapetto, che si
dimena".
"È proprio lui: chi sarà dunque il morto?".
"Dicono un incendio".
"Dove?".
"Nell'organo".
"È impossibile: non c'è indizio di fumo".
"Sarà sui tetti".
"Sarà nelle cupole".
"Senta, senta: lo scaccino annunzia che non si trova il tenore,
e che senza di lui non si può eseguire la messa".
"Mirate è scappato".
"È fuggito Mirate".
"Scappato solo?".
"Con una donna, probabilmente".
"Ha preso il volo coll'amante".
"Allora la nipote del maestro Chisiola".
"La conosce lei?".
"La ho sentita cantare".
"È bella?".
"Così così".
"Altro che amori! È Scappato per debiti".
"Si può dire che ne avesse piantati dei chiodi".
"Buona lana!".
"Mariolo, farci marcire quattro ore in chiesa con questo
sugo!".
"Ehi, ehi, signor sagrestano, è vero che è scappato
Mirate?".
"È vero che non si trova il tenore. Ci hanno mandati a quietare
la gente, e a riferire che si canterà una messa del Furlanetto".
"Roba vecchia".
"Roba noiosa".
"Abbiano pazienza, signori, abbiano pazienza".
E i sacrestani e gli scaccini s'affaticavano a girar da per tutto,
ripetendo le stesse parole. Il pubblico aveva pigliato la cosa in
burletta. Ridevano, scherzavano e, a poco a poco, alla spicciolata
uscivano dalla chiesa, formando capannelli in piazza di San Marco e
sotto le Procuratie. Quando poté principiare la messa a voci sole, la
cantoria dell'orchestra era tutta sgomberata, nelle tribune e nelle
logge non rimaneva un'anima, e le navi e le cappelle erano quasi
deserte. Solo ai fianchi dell'enorme catafalco, biascicavano e
sbadigliavano per l'appetito e per la noia i vecchi e le vecchie
dell'Ospizio di Carità.
VII
Se il soprano avesse dovuto cantare nella messa del Furlanetto,
scritta solo per tenori e bassi, non avrebbe potuto far uscire una nota
dal gorgozzule, così l'improvviso terrore di perdere i suoi quattrini
gli otturava la strozza. Non sapeva quasi più respirare: era diventato
addirittura verde. Non di meno andò a precipizio in Frezzeria dalla
donna, che appigionava la camera a Mirate, e ch'era stata allora allora
interrogata da quel corista, il quale per primo aveva recato in chiesa
la grande novella.
"È scappato?" domandò ansando.
"Scappato, un corno. È partito col suo bravo passaporto in
pienissima regola, pagandomi sino all'ultimo soldo, anzi dandomi un mese
di soprappiù".
"E quando è partito?".
"Ier l'altro verso le quattro".
"Subito dopo l'ultima prova, brigante! E come mai ieri,
allorché venni qui, mi rispondeste che non era in casa?".
"Che non fosse in casa era la verità. Ma poi m'aveva pregata di
non dir nulla della sua partenza fino alle undici di stamane, temendo di
essere rincorso da certe gonnelle".
"Gonnelle, sì davvero! Ditemi ancora: se ne andò solo, o in
compagnia di un tale, che parlava forestiero?".
"Non faccio mica la spia io. Vada ad informarsi dove vuole, ché
mi pare di avere ciarlato anche troppo" e gli serrò l'uscio in
faccia.
Il soprano corse all'osteria del Selvatico, al bacaro della Biondina,
al Caffê dei Segretari, a quello di San Luca, frequentato da cantanti
ed attori e conosciuto col nome di Caffè chiodi, poi dal famigerato
parrucchiere, che prestava quattrini agli avventori, dal sarto, dal
tabaccaio, da una certa signora Giulia: insomma in ogni luogo dove
Mirate era consueto di andare. Racimolò tante informazioni quante
bastarono a renderlo persuaso che il tenore si fosse diretto verso la
Spagna o il Portogallo, insieme con l'impresario spagnuolo, il quale fra
due brevi fermate a Venezia aveva girato mezza Europa per comporre tre o
quattro compagnie di canto e di ballo da trasportare nella penisola
Iberica. Sfogandosi nel ripetere: "Truffatore, dissanguatore,
ladro, assassino" l'ingannato soprano passò dalla propria bottega
d'antiquario a prendere nello scrigno i documenti comprovanti il debito
di Mirate, e, postili gelosamente nella tasca spaziosa ed unta del
vecchio soprabito, si recò alla Direzione generale di Polizia. Il
Direttore, un austriaco magro stecchito e piccolo, con le fedine tinte
di color biondo e gli occhiali a grossi cerchi d'oro, accolse il soprano
assai male, senza neppure invitarlo a sedere. Quando ebbe udito di che
cosa si trattava, disse, asciutto asciutto, col suo accento tedesco
queste poche parole:
"So da un pezzo ch'ella è uno strozzino. La Polizia non farà
niente per lei. Vada".
Il Governatore non volle nemmeno riceverlo.
Allora pensò agli alleati, e risolvette di parlare innanzi tutto con
la Nene, ragionando così:
"O Mirate è partito in buon accordo con lei, e scoprirò
qualcosa; o è andato via abbandonandola, ed ella diventerà la mia più
fiera compagna nel domandare che venga costretto a mantenere i suoi
impegni".
Non mise tempo in mezzo; scorsi pochi minuti suonava alla casa del
maestro Chisiola. Il vecchio, ch'era rincasato in quel punto, andò egli
stesso ad aprire, e s'infastidì un poco vedendo il soprano, per il
quale aveva sempre provato una invincibile contrarietà. Dopo i saluti,
assai freddi dall'una parte, assai impacciati dall'altra, il soprano,
che non sapeva come principiare, disse:
"Dunque è scappato".
"Chi?".
"Mirate".
"Ah, non ci pensavo più. Sarebbe stata una scena comica, se non
fosse successa in chiesa e se non fosse andata a scapito della musica,
sebbene, in verità, quella musica abbia poco del religioso".
Il soprano rimase sconcertato di contro a tanta indifferenza, pure
insinuò:
"Avrei creduto, maestro, che la scomparsa del tenore le avesse
fatto maggiore impressione".
"A me? Con i matti non ci son patti, insegna il proverbio. La
cappella non poteva contare su quella testa sconclusionata; e poi si
può dire che io da oggi non appartenga più alla cappella, come non
appartengo alla scuola dell'Orfanotrofio. Era tempo, con i miei
ottant'anni passati, di lasciar posto ai giovani" ed il maestro
sorrideva bonariamente; ma, seccato dalla presenza dell'usuraio,
continuò:
"È un gran pezzo che non ho il piacere di vederla in mia casa.
A che cosa posso attribuire il bene della sua visita?".
L'altro, confuso e con la propria idea fissa nel capo, balbettò:
"Ero venuto, passando, a informarmi della salute della signorina
Nene".
"Non è mai stata malata, Dio piacendo".
"Pure mi sembrava stamane..".
"Le sembrava?".
"Mi sembrava così pallida, ella che per solito è tanto
colorita; e aveva gli occhi stravolti".
"Quando?".
"In chiesa".
"Avrà avuto paura, non conoscendo la cagione del
trambusto".
"Io credevo anzi che si sentisse male, perché conoscesse la
causa del disordine, o la immaginasse".
A queste parole il vecchio si rammentò di un fatto, cui aveva dato
poca importanza: la domanda della mano di Nene da parte di Mirate, a
istigazione dell'usuraio. Guardò in faccia il soprano, esclamando:
"Che cosa intende ella di dire?".
"Io, niente di male. Quello che dicono tutti".
Il Chisiola, senza proferire parola, aprì con mano tremante la porta
di strada, facendo segno all'altro che uscisse, e gli sbatté l'imposta
dietro le spalle.
"Ov'è Nene?" domandò alla serva.
"Credo che sia in fondo all'orto" rispose la Maria dalla
cucina, continuando a tritare le cipolle per il soffritto.
Il vecchio andò sino al piccolo spazio destinato a giardino, girò
il frutteto, entrò nel chiosco: non c'era nessuno. Vide il portone
della riva socchiuso. Nene stava al di fuori, sui gradini, guardando
l'acqua verde, che le scorreva ai piedi. Singhiozzava, senza piangere;
aveva sul volto i segni della disperazione: un terribile desiderio la
invadeva tutta. Appena vide il vecchio scoppiò in pianto dirotto e gli
si gettò alle ginocchia, ripetendo con voce strozzata:
"Ti ho disonorato, nonno. Ho disonorato la memoria della mia
povera mamma. Sono una donna infame. Lasciami morire".
VIII
Per cinque giorni lo Zen aveva continuato a presentarsi alla casa del
suo maestro, supplicandolo di essere ricevuto; ma il vecchio aveva dato
ordine alla Maria di rispondergli che non voleva assolutamente veder
nessuno. Lo Zen s'informava della malattia di Nene, tornava dopo qualche
ora, e se ne andava di nuovo con l'animo pieno di afflizione. Non aveva
più né pianoforte, né scuola, né casa, né un soldo in tasca; gli
allievi lo scansavano, gli amici lo sfuggivano; viveva rintanato nel
Caffè della Gloria, scrivendo il suo Trattato sul setticlavio, e
mangiando quel poco che gli era offerto spontaneamente dagli avventori.
Improvvisava talvolta per l'uno o per l'altro un sonetto od un
epigramma, acconciava una lettera, rivedeva un contratto: era diventato
lo scrivano dei Portici di Rialto. Aiutava anche a mettere un po' di
nero sul bianco l'amico Toni, l'usciere del vicino tribunale.
Finalmente il sesto giorno la Maria scese ad aprire, dicendogli:
"Il padrone la prega di salire. Faccia piano. Nene da pochi
minuti è assopita; ma non c'è da lusingarsi. Il dottore dice che può
mancare da un momento all'altro: la poverina ha una febbre che le brucia
le viscere, e delira, delira quasi sempre. Il padrone s'illude. Meglio
per lui".
Le lagrime rigavano il volto della Maria, mentre parlava sommessa, e
faceva segno allo Zen quasi ad ogni scalino di non strisciare coi piedi.
Tornò al letto della malata.
Il maestro Chisiola, pigliato per mano il suo vecchio discepolo, lo
condusse lentamente nella stanza più lontana dalla camera di Nene, e lo
fece sedere. Egli stesso pareva affranto: cadde sopra una poltrona.
"Quando si è tanto vicini alla fossa, come sono io, non si ha
diritto di serbare rancori" e pronunciava le parole a stento,
interrompendosi spesso. Mormorò: "Ti perdono" ma, vedendo che
lo Zen non intendeva, soggiunse:
"Lo so, la colpa fu mia, che mi fidai di te e d'una serva, e
sopra tutto d'una innocente, inesperta nelle passioni e negli inganni
umani".
Gli parve di sentire un rumore; si trascinò nella camera di Nene, e
poco dopo rientrò, dicendo:
"Delira. Sono cinque giorni che delira quasi continuamente.
Parla ogni tanto della notte del Redentore. Crede di essere ingoiata in
certe macchie nere, orribili della laguna e del cielo; sente passarle un
gatto bianco fra le gambe, e precipita in un baratro senza fondo, e
continua a travolgersi nella caduta, che non finisce mai; le corrono sul
corpo dei topi immani, le rosicchiano le membra, le rodono le viscere,
le dilaniano il cuore. Altre cose aggiunge, pur troppo!" e il
vecchio si nascondeva la faccia con le due mani.
"Dio voglia che guarisca presto; altrimenti non troverà più il
suo nonno su questa terra!".
Fece uno sforzo sopra di sé per mutare discorso:
"Parliamo di te, amico mio. Come vanno le tue faccende?".
"Bene, maestro" rispose lo Zen, mentendo per non dare
fastidio con i propri guai al vecchio infelice; anzi, volendo distrarlo,
continuò:
"Tanto bene, che ho ricevuto da Milano l'offerta di un posto di
duemila svanziche l'anno, e l'ho rifiutato".
"Non vorrei che tu avessi fatto una corbelleria".
"No, maestro; ella stesso mi approverà, non ne dubito, quando
avrà udito di che cosa si tratta. Ho qui in tasca la lettera del
direttore del Conservatorio di musica".
Levò da un grosso portafogli lacero una carta, e la porse al
Chisiola. Il direttore gli scriveva che, avendolo conosciuto anni
addietro a Venezia, serbava per lui una vivissima stima, e lo
sollecitava ad accettare la cattedra di Lettura della musica, ad un
patto però, al patto di seguire il metodo comune, non quello del
setticlavio.
"Capperi!" esclamò il Chisiola. "Una bella fortuna,
sai, e la meriti. Come hai risposto?".
"Me lo domanda, maestro! Io rinnegare una verità matematica per
abbracciare l'errore; io abbandonare un metodo, che insegna a leggere in
pochi mesi, per un inganno, che lascia lo scolaro orecchiante tutta la
vita! Piuttosto morire di fame cento volte che commettere una simile
ribalderia, una così vile bassezza. Ho risposto per le rime a quello
sfacciato di direttore".
Il Chisiola guardò con ammirazione e con pietà quel martire della
propria convinzione, il quale dalla faccia e dagli abiti rivelava la sua
triste miseria. Gli pose la mano sulla spalla in atto affettuoso, mentre
usciva per vedere di Nene. Nene aveva un momento di quiete. Il vecchio
tornò a sedere nella poltrona e, con la fronte un poco rasserenata,
disse:
"Perché non sei venuto a parlarmi di tutto ciò prima di
rispondere al direttore? Forse avrei potuto persuaderti. Chi sa? C'è
ancora tempo".
"Tempo a che cosa? A diventare un rinnegato?".
"Adagio, adagio. Non esageriamo. Te lo insegnai io il
setticlavio più di quarant'anni or sono, ed ho continuato a insegnarlo
ai miei orfani sino a pochi giorni fa; ma non ignori che avevo diviso i
fanciulli in due schiere per ammaestrare l'una col setticlavio, l'altra,
più numerosa, col metodo comune. Non bisogna volere essere ciechi. Noi
siamo oggi i due ultimi rappresentanti di una scuola di lettura, che non
uscì mai da Venezia, nemmeno ai tempi del Furlanetto, e che è stata
abbandonata anche qui da vent'anni, a dir poco. Perché si deve credere
che nella musica il mondo sia imbecillito, che nessuno capisca più
nulla?".
"Non è vero, maestro, che oggi il setticlavio sia
disconosciuto" e perché lo Zen alzava la voce, il vecchio gli
accennò di moderarsi, dando un'occhiata all'uscio che menava verso la
stanza di Nene.
"Il setticlavio anzi è in onore. Ella sa, per esempio, che la
città di Arezzo deliberò di alzare, col mezzo di una colletta europea,
un monumento a Guido Monaco. Quale fu la gloriosa invenzione
dell'aretino? Il solfeggio o, per dirlo con un'altra parola, il
setticlavio. È vero o non è vero?".
"Si può solfeggiare senza setticlavio, mio caro".
"Senza setticlavio si suonerà il pianoforte, perché le note vi
stanno belle e preparate, e basta pestare sui tasti. I suonatori di
pianoforte sono appunto quelli che hanno barbaramente manomesso le
ragioni del canto; ma l'ugola è il solo strumento creato direttamente
da Dio, quindi il solo davvero divino, quello che deve imporre la regola
a tutti gli altri inventati dall'uomo. Legga, maestro, questo avviso
pubblicato l'altra settimana a Napoli" e di nuovo tirava fuori dal
pingue portafogli un'ampia carta stampata.
"E l'invito al congresso italiano. Veda, al proposito dei
quesiti sulla musica, è proposta la riforma della scuola di canto,
poiché 'più d'ogni altro ramo dell'arte il canto giace in umili ed
abiette condizioni'. È scritto proprio così. Ora, come si possono mai
rialzare le sorti del canto se non si principia dalla lettura?".
"Non nego che la lettura abbia la sua importanza; ma qui
s'intende altra cosa: s'intende la purezza dell'intonazione, il modo di
emettere la voce, la delicatezza del fraseggiare, l'agilità, la
grazia".
Maria, socchiudendo l'uscio, mostrò il suo viso stravolto. Voleva
chiamare il padrone, che non la vide; e non ebbe l'animo di scuoterlo in
quel momento di distrazione e di calma.
"È l'ultimo forse!" pensò la serva, tornando a chiudere
l'uscio.
"Ma l'avviso di Napoli ha torto" continuava il vecchio.
"Il canto è quale la musica lo vuole e lo fa. Passa il tempo
dei gorgheggi; entriamo nell'età della passione e del dramma. Quel
giovine, che tu detesti, autore dell'Ernani e del Rigoletto..".
"Ha corrotto il canto".
"Come vuoi che abbia corrotto il canto se ha dato un nuovo
impulso alla musica? Tutto muta quaggiù. Tu sei vecchio e caparbio; ma
quando diventerai ancora più vecchio, quando giungerai alla mia età,
in cui ci si distacca dal mondo, allora l'animo imparziale ti lascerà
vedere le virtù del presente come gli errori del passato. Io temo, a
dirtela schietta" proseguiva il maestro con accento dolce e
insinuante "temo che uno dei miei peccati sia stato il setticlavio.
La logica è talvolta un inganno; e per amore della semplicità teorica
si casca nella pratica in tali complicazioni da rendere vano ogni
ragionamento e ogni sforzo. Non ostinarti; accetta il posto di Milano;
continua ad essere utile alla gioventù, sacrificandole un vecchiume,
forse un pregiudizio". Mentre il Chisiola parlava, l'altro mutava
aspetto. Un grande scoramento s'impadroniva di lui; era come se la
molla, che lo reggeva in piedi, si fosse spezzata d'un tratto. Gli
caddero le braccia, ed il volto andava perdendo la sua vivace
espressione.
"Anche lei, maestro, è contro di me" mormorava "anche
lei mi abbandona. Non mi resta più nulla, nulla, nemmeno la mia cara
idea, per la quale avrei saputo morire!".
Si udì un grido acuto, straziante. Il vecchio aprì l'uscio,
precipitò nella stanza vicina, traversò l'altra correndo, entrò nella
camera di Nene, che era morta, guardò il viso bianco e cadde a terra
privo di sensi.
Era il tocco dopo la mezzanotte quando lo Zen, che aveva vagato per
le vie senza saper dove andasse, giunse, guidato dall'abitudine, al
Caffè della Gloria. A un tavolino quattro sensali giuocavano alle
carte. Uno di essi, appena vide lo Zen, gli gridò:
"Ehi, maestro, l'abbiamo fatta grossa questa volta. È stato qui
dal padrone" e il padrone russava dietro il banco "l'usciere
del tribunale, l'amico Toni, per intimarle di comparire domattina
innanzi al giudice. Due truffe alla volta, niente di meno,
maestro".
Lo Zen sbarrò gli occhi; avrebbe voluto capire. Il sensale
continuò:
"Non mi faccia lo scemo adesso. C'è di mezzo un pianoforte non
suo, venduto ad un Tizio. E l'altra truffa che cosa è? Non me ne
rammento".
Il caffettiere, svegliatosi allora allora, intervenne, sbadigliando:
"Si tratta di un libro, una strenna, credo, che questo buon
galantuomo doveva far stampare; e si mangiò il danaro. Ma dove diavolo
li caccia i quattrini, che non ha mai un soldo per isfamarsi?".
"Le donnette, le donnette" vociavano i sensali,
sganasciandosi dalle risa.
"E noi, che davamo da mangiare a questo bel mobile!".
Lo Zen era già scappato lontano. Aveva un incendio nella testa:
sentiva dentro nel cervello le fiamme che guizzavano, le case che
rovinavano, i pompieri che distruggevano ogni cosa con i loro enormi
picconi. Acqua ci voleva, acqua. Si gettò a capo fitto in un canale.
Non poté annegare; aveva fatto una giravolta, e s'era trovato in piedi
sul fondo, col capo fuori. Non gridava, non si curava di accostarsi alla
riva; anzi il fresco dell'acqua doveva essergli gradito. All'alba due
muratori, che passavano in un battello, l'alzarono su e lo condussero
all'ospedale, ove fu posto nella sale d'osservazione.
Due giorni appresso, chiuso nella camicia di forza, fu condotto al
manicomio nell'isola di San Servilio. Lì a poco a poco riacquistò le
maniere schiette di prima, il suo buon umore e la vecchia passione del
setticlavio. Era incanutito, ma ingrassava. I medici e gli infermieri
gli volevano bene; le suore ne' giorni di magro gli facevano preparare,
arrostita sulla gratella, un'aringa salata, e gli davano un bicchiere di
vin buono. Aveva scelto fra i suoi compagni, tutti tranquilli, i meno
malinconici, e s'affaccendava nell'insegnar loro a solfeggiare e a
cantare. Le sale, i corridoi e il giardino echeggiavano spesso di voci,
che ripetevano per ore ed ore: Do Re, Do Mi, Do Fa, Do Sol, Do La, Do
Si. Il maestro con lo scartafaccio del suo Trattato sul setticlavio
batteva il tempo; e negli urli dei nuovi scolari udiva le più soavi
armonie, i più stupendi cori, le più perfette fughe, una musica da
paradiso. Non c'era uomo più felice di lui. |