Il maestro di setticlavio (Novelle veneziane), di Camillo Boito

Il maestro di setticlavio Il maestro di setticlavio Il maestro di setticlavio Il colore a Venezia
Il maestro di setticlavio Il demonio muto Il maestro di setticlavio Quattr'ore al lido

Il demonio muto

I

Nipote mio, ho compiuto quest'oggi i miei novant'anni, e ho fatto il mio testamento. Lascio quasi tutti i miei soldi, circa un centinaio di mila lire, a tua sorella Maria, che ha sette figliuoli ed è vedova, con il patto di passare tremila lire l'anno alla mia buona Menica, la quale è troppo vecchia e stanca per attendere agli affari. Vero è che la mia buona Menica mi fa arrabbiare tutte le sante sere. Non vuole andare a letto prima di me, per quanto io la preghi e scongiuri; e mentre scrivo al lume di questa lucerna e ne smoccolo i lucignoli, ecco lì tua zia, dall'altra parte di questa tavola, che dorme col gatto nero sulle ginocchia. Da mezzo secolo si fa la stessa vita placida e dolce e tanto rapida che le settimane volano come giorni; e la mia cara vecchietta tutta linda, con la sua cuffia bianca inamidata, quando si sveglia e, alzando il capo, fissa a un tratto gli occhi ne' miei, e mi chiama: "Carlo!" mi fa ribollire nelle vene un sangue da giovinotto.

Per conto tuo non hai bisogno di nulla. Sei solo, agiato e non avido. Ma sai che, sebbene io ti veda troppo di rado in queste montagne, pure ho sempre sentito un grande affetto per te, e lo meriti; e mi rincrescerebbe che, quando sarò volato via da questa terra, tu non avessi nessuna occasione di rammentarti dell'antico parente. Da parecchi giorni vado dunque intorno in questa casa mezzo diroccata per trovare un oggetto che possa non dispiacerti. Ma ogni cosa è logora, sbeccucciata, sbiadita, sconnessa: corrisponde insomma ai capelli canuti ed alle rughe dei padroni. Da trent'anni non sono neanche più andato a Brescia: si può dire ch'io non abbia più comperato nulla. Le cose più belle in questo polveroso palazzo, dove le finestre mostrano ancora i loro vetri tondi, ondulati dal centro alla periferia, come fa un sasso quando si butta nell'acqua, dove i pavimenti paiono un mare in burrasca, sono le cose più vecchie. Sai che ho quattro di quelle casse di legno intagliato, che si mettevano a' piedi del letto degli sposi, tutte a putti che giuocano, ad amorini alati e ninfe nude; e vi stanno gli antichi stemmi della nostra famiglia. Poi ho dei seggioloni enormi a grossi fogliami nei bracciuoli e nella spalliera, che punzecchiano le mani e la schiena, e certe lettiere spropositate a colonne ed a timpani, che paiono monumenti sepolcrali. Poi ho quegli otto grandissimi ritratti nelle loro massicce cornici d'un oro diventato nero: memoria dei nostri augusti antenati, che Dio li abbia in gloria: quei ritratti che, quando da bambino venivi qui a passare i mesi delle vacanze, ora ti facevano ridere ed ora ti mettevano paura.

La dama, ti ricordi? con il guardinfante verdone e con una piramide rossa per acconciatura, che pare una bottiglia sigillata; il cavaliero con il grande cappellaccio alla spagnuola, il tabarro bruno, la mano sull'elsa e l'occhio truce, e poi il Beato Antonio, il Santo Missionario, il grande onore della Val Trompia, che ti faceva scappar via. E pallido come un fantasma, magro stecchito, con gli occhi infossati e un sorriso sulle labbra da far ghiacciare il sangue. In mano ha due cilicii spaventosi, l'uno a scudiscio pieno di terribili punte, l'altro a ruote dentate. Mi raccontava Giovanni (sai? devo avertene parlato, il servitore che in gioventù assisteva il Beato Antonio, quand'era infermo, e da vecchio aveva cura di me e mi conduceva alla scuola) Giovanni mi raccontava, ed io tremavo di spavento, che una mattina, essendo entrato all'improvviso nella nuda camera del Santo, vide in un angolo una camicia, che stava in piedi da sé sola e ch'era di color pavonazzo. Guarda, tocca: il sangue, di cui appariva inzuppata, raggrumandosi e indurando, aveva ridotto la tela rigida come un legno.

Don Antonio aveva le mani così scarne e le dita così slogate, che con le unghie poteva toccar l'avambraccio. Era un miracolo di eloquenza, un miracolo di abnegazione. Parlava a dodici a quattordicimila persone, che correvano a udirlo dalle valli, dai monti lontani, e si faceva sentire da tutti. Eppure, se tu vai a Brescia, puoi vedere nella chiesa di San Filippo, appesa all'altare del Santo, una lingua d'argento, voto di Don Antonio, quando per intercessione di Filippo Neri guarì dalla balbuzie. A Roma, poco prima di morire, predicando nella chiesa del Gesù, fece piangere il Papa. Aveva per consuetudine, ne' siti dove egli andava, di parlare contro i vizii che più dominavano in paese. A Desenzano tuonò contro l'ubbriachezza. Il dì dopo tutte le osterie, tutte quante le bettole erano chiuse, e l'Autorità dovette farne aprire alcune per forza a servizio dei forestieri. All'ultimo sermone non voleva altro che i miserabili: era la predica sulla Povertà. Dopo avere mostrato la vanità delle ricchezze, dopo avere eccitato gli animi al disprezzo degli agi, chiamava ad uno ad uno i suoi ascoltatori, e divideva con essi tutto intiero il guadagno del Quaresimale e i pochi panni che gli restavano.

Senti questa. Giovanni stava dietro al pulpito, mentre Don Antonio predicava un dì sull'Inferno. Dopo una pausa, il Beato Antonio con voce rimbombante grida:

"Pentitevi, figliuoli, tornate nella via della virtù; giacché per voi, o perversi, che continuate a vivere nel peccato, che state duri nel vizio, i sepolcri" e gridava sempre più alto, come ispirato dal cielo "i sepolcri si spalancheranno, e, precipitando sulle ossa degli antichi scheletri, nella notte e nel gelo, sarete a poco a poco rosicchiati vivi dai vermi".

Allora Giovanni udì come un fruscìo, un muoversi improvviso, ma sordo, lamenti soffocati, singhiozzi repressi. Guarda dal parapetto del pulpito, e vede, cosa strana! nella chiesa, la quale prima era così zeppa di gente, che una presa di tabacco - diceva Giovanni tabaccone - non avrebbe potuto cadere in terra, vede il pavimento nudo in larghi spazii, vede scoperte di popolo tutte le grandi lapidi delle tombe. La gente, spaventata dalle parole del Missionario, s'era ritirata dai sepolcri, e, sempre in ginocchio, piangendo e picchiandosi il petto, si pigiava, si schiacciava, si accatastava a gruppi, e implorava sotto voce il perdono di Dio.

Di questi ritratti neri e di questi mobili tarlati tu non sapresti che cosa fare. Qui invece stanno bene, così impietriti al loro posto. Dopo tanti anni che le pareti, le masserizie, i quadri si guardano, e forse nel loro linguaggio si parlano sommessamente, lo strappare qualcosa parrebbe un'amputazione, sarebbe una crudeltà. Quando i figliuoli di tua sorella, diventati forti giovinotti, vorranno passare alcune settimane cacciando sui monti, uccellando nelle valli o pescando le trote rosee nel lago d'Idro o nel Chiese, troveranno intatta l'antichità di questo palazzaccio. Si scalderanno al fuoco del caminone di marmo giallo, in cui dodici uomini possono stare comodamente seduti; guarderanno i soffitti a travature sagomate e dipinte, e cammineranno su e giù nella galleria dove, tra gli stucchi sgretolati, il vento gavazza. Tu sentissi che musiche sa comporre il vento in queste gole alpestri e in questo muraglie rovinose: sono tripudii o spaventi, fischii lieti e trilli e scale e accordi sonori e poi il finimondo, e sempre continua il pedale, come dicono gli organisti, del romore sinistro, che le acque del Chiese fanno nel loro letto sassoso ed erto.

II

Ho trovato, nipote mio, quel che ti devo lasciare. È una cosa che mi salvò quasi la vita.

Prima che tu nascessi, i medici di Brescia e di Milano mi avevano spacciato. Una maledetta malattia nervosa del ventricolo s'era ostinata a volermi spingere al mondo di là, ed ero ridotto, per tutto pasto, a nutrirmi di pezzettini di cacio lodigiano che tenevo in bocca, e di cui a poco a poco succhiavo la sostanza. Pigliai questo malanno, il primo e l'ultimo della mia vita, cacciando nelle valli; quando, dopo avere mal dormito qualche ora in un casolare, alle tre della notte mi alzavo, camminavo fino alle sei in cerca del miglior sito della palude, con il freschetto del dicembre o del gennaio ed una sottile umidità che entrava nelle ossa, e poi dall'alba al tramonto mi piantavo immobile nell'acqua e nella nebbia ad aspettare una folaga, la quale molto spesso non voleva mostrarsi. Mi scordavo di mangiare. Bevevo, io che sono sempre stato mezzo astemio, de' larghi sorsi di acquavite. Vedi bestia che è l'uomo! Amando le montagne e le balze, cacciarsi con tanta fatica e con sì misero fine dentro ai pantani! Tornavo a casa, dopo qualche giorno, affranto, sfinito. La Menica mi dava brodi, petti di pollo, latte di gallina, vino vecchio e il suo sorriso tutta bontà; ma io non avevo fame e digerivo male. Pensa che malinconia m'era venuta addosso!

Non potevo uscire di camera: andavo dal letto al lettuccio. Se per caso giravo gli occhi allo specchio, vedendo un coso allampanato, con le guance smunte, gli occhi spenti, il quale non somigliava affatto al mio signor io, non sapevo vincere l'ombra di un tristissimo sorriso, che mi correva sulle labbra e si trasmutava tosto in due lagrime lente. Da quindici giorni, all'aprirsi della primavera, mangiavo, non ostante, un pochino di più, dicevo qualche parola volentieri, cavavo qualche accordo flebile con meno stento dalla mia amata chitarra, la quale mi stava accanto sul sofà o sul letto. Quand'ecco a un tratto, una sera, mi sento esinanire. La Menica si spaventa. Era un gran pezzo ch'ella non dormiva sotto le coltri, non andava nel brolo a respirare una boccata d'aria, non faceva altro che starmi intorno sollecita, sempre attenta ad un'allegria fiduciosa e serena, che non le veniva dal cuore, ma che ella simulava virtuosamente per il suo povero infermo. Ell'aveva pensato fino allora al mio corpo: pensò in quel punto alla mia anima.

Mezz'ora dopo entrò il curato e, sottovoce, mi chiese s'io voleva confessarmi. Gli occhi della Menica m'imploravano. La camera era buia, silenziosa, sepolcrale. Mi confessai a spizzico, quasi senza fiato; ma non fu cosa lunga, poiché non credo in mia vita di avere mai desiderato male a nessuno. Toccai la mano alla mia buona infermiera, che mi ringraziò con effusione angelica e mi baciò sulla fronte.

Mi sentivo sollevato. Il prete stava sempre in piedi a sinistra del letto, duro duro, brontolando le sue preghiere. Negl'infermi le impressioni son rapide come il lampo. Guardai fisso il volto del prete, e nell'osservarlo provai dentro un irrefrenabile impeto di riso.

Bisogna che tu sappia come quel curato, uomo di mezza età, rubicondo, tarchiato, panciuto, ottimo di cuore, ma un po' beone e mangiatore insaziabile, era il più gioviale matto di questa terra. Cantava certe canzonette da fare sbellicare dalle risa, faceva certi giuochi di prestigio con i bussolotti da maravigliare un mago, scriveva sonetti buffoneschi, imitava con la sola varietà dei fischi la predica del Vescovo biascicone e con la sola varietà delle inflessioni di voce tutte le lingue, compresa la turca; faceva dietro una tela bianca le ombre cinesi con le mani, figurando cigni, lepri, porci, elefanti, gatti e una pantomima di burattini, in cui Arlecchino era innamorato di Rosaura e bastonava Pantalone; finalmente con la faccia rappresentava il temporale, agitando ora lenti, ora impetuosi tutti i muscoli delle gote, del naso, della bocca, del fronte, persino le orecchie, così che pareva proprio di vedere i primi lampi, di sentire il rombo dei primi tuoni, e poi via via crescere la tempesta e, scrosciare la pioggia e scoppiare le folgori, finché un po' alla volta, con qualche ritorno di vento e d'acqua, la bufera si dileguava e, rinata la calma, tornava a splendere la viva luce del giorno. Tu avessi visto come a questo punto il viso del prete sbocciava, come s'irradiava, come brillava: era il sole tale e quale.

Il gaio curato veniva, prima della mia malattia, tutte le domeniche a desinare da noi, e di quando in quando, bevuta una bottiglia di quel vecchio, ci dava lo spettacolo esilarante del suo temporale. Ora, al vedere il muso tondo, comicamente solenne, a cui neanche l'aspetto della morte avrebbe potuto cancellare l'impronta della giovialità, borbottare le orazioni fra i denti agitando le labbra, battendo le ciglia ed increspando la fronte, mi tornò alla memoria il temporale, e scoppiai in una fragorosa e interminabile risata. Il prete, che era lesto di cervello, capì in un attimo la ragione delle mie risa e, scordando il suo ministero, non potendosi più tenere cominciò a sghignazzare a crepapelle. La Menica e la serva, che erano presenti, ci credettero impazziti; ma, giacché il riso è contagioso ed il prete riesciva tanto bizzarro nei suoi contorcimenti, si misero a ridere anch'esse. La solennità dell'olio santo s'era trasformata così in una farsetta da carnevale.

Allora io pigliai da lato la mia chitarra e cominciai gli accordi, e il prete intonò una canzone delle sue più sguaiate; ed egli cantava con pazza gioia ed io accompagnavo con tanto felice ardore, che mi pareva di esser il dio della contentezza. Ma la saggia Menica mi fece smettere per forza, e, mandò via il curato bislacco, che si sentiva ridere ancora sulle scale e in istrada di questo suo penitente mezzo morto, resuscitato.

Il dì seguente mi svegliai con un rabbioso appetito. Due giorni dopo giravo tutta la casa; quattro giorni appresso andavo nel brolo e nel paese, e, passata una settimana, mi arrampicavo sui monti e avrei mangiato i gusci delle ostriche.

La mia guarigione fu cominciata dalle smorfie del prete, ma fu compiuta dalla chitarra. Tu non puoi pensare quale beatitudine fosse la mia nel potere di nuovo agitare fieramente le corde di quello strumento, che amo sin da fanciullo, e che mi è sempre stato una grande consolazione nelle traversie della vita giovanile e ne' piccoli fastidii della vecchiaia. Tu mi hai sentito suonare. Sono un buon chitarrista, non è vero? Ho le mie ambizioncelle anch'io, caro nipote. Quando andavo sotto il balcone della Menica, settant'anni addietro, e suonavo dolce dolce un minuetto del Monteverde, la gente stava ad ascoltarmi a bocca aperta, e il cuore batteva forte alla mia fidanzata, che mi scoccava dalle imposte socchiuse delle occhiate assassine.

Adesso ancora mi diverto a cercare nelle antiche melodie le antiche memorie. Vado nella cappella del palazzo, che è, come tu sai, all'angolo della galleria, ed ha l'altare tutto di legno ad angeli paffuti e a cartocci barocchi, i quali mostrano ne' luoghi più riposti i segni delle scomparse dorature: e vi sono i vetri a figure colorate, qua e là rotti e restaurati con pezzi di vetri bianchi, sicché ad un Santo manca la testa, all'altro un braccio o una gamba: e non ostante la chiesetta ha qualcosa di severo e di sacro nella sua mezza oscurità. Non c'è neanche un quadro; le pareti son nude; solo da una parte si vede appesa ad un chiodo la mia chitarra, che è quasi una reliquia. Stacco lo strumento, e, salendo dallo scalone interno, quello scalone lungo e diritto, che ha i suoi dugento gradini tutti sconnessi, vado pian piano nel giardino alto, da cui si domina il villaggio e la valle, e mi metto a sedere sui graticci, i quali, servendo solo per i bachi da seta, restano quasi tutto l'anno accatastati nel padiglione delle feste. Questo magazzino, gioia dei topi e dei ragni, era una piccola reggia tre secoli addietro. I nostri antenati vi godevano le loro orgie, che non invidio: donne, balli, buffoni, cene, le quali non terminavano prima dell'alba e lasciavano uomini e femmine arrotolati per terra. Col vino scorreva qualche volta il sangue. I muri portano ancora, quasi cancellati dal tempo, i nomi ed i motti di qualcuno dei violenti e gaudenti cavalieri. V'è, tra le altre, sotto al disegno rozzo di un cuore trafitto, l'impresa: Dopo il bacio il pugnale.

Così, seduto al fresco ne' bei giorni d'estate, strappo alle corde i miei vecchi ricordi in questi ultimi anni, che sono i più tranquilli e i più lieti della mia vita. Lascio morire flebilmente le armonie sotto la vòlta della sala, seguendo attentissimo con l'orecchio le ultime oscillazioni, che si dileguano nel brontolìo lontano del Chiese. Poi, sentendomi ringalluzzito, picchio forte su tutte quante le corde e comincio un allegro amoroso, una gavotta saltellante; ma pur troppo la mia mano sinistra ha perduto un poco di agilità, e la mia destra è scemata un poco di vigore. Oggi son più valente negli adagi, nelle ariette patetiche: ai vecchi s'addice meglio il rimpianto.

La mia chitarra ha cinque corde doppie; sale dal la al mi, due ottave e mezzo. È uno strumento ammirabile per la sonorità e l'eleganza. La rosa, intagliata a minuti intrecci e trafori di cerchi, di triangoli, di foglioline, pare un'opera in filigrana. Il manico, intarsiato di avorio e di ebano con dei filetti d'oro, rappresenta una caccia in figure alte un'oncia: cavalcatori, dame, falconieri, con cani, caprioli, lepri, cignali e ogni sorta di selvaggina. Al basso della cassa armonica s'ammira poi una figuretta d'argento, un Apollo sdraiato che suona la cetra, cosa che più graziosa al mondo non si potrebbe vedere. Oltre a ciò, accomodate in vago ornamento, stanno un centinaio di perle, alcune assai grosse, e così bene incastonate, che sette soltanto si sono rotte o perdute. Insomma questa chitarra magnifica desidero, dopo la mia morte, lasciarla al mio caro nipote. Fors'è un'ubbia dello zio quasi rimbambito, ma non vorrei che la chitarra uscisse dalla nostra famiglia. C'è sotto una storiella. Te la racconterò, prima perché giova che tu la sappia, e poi per amore di me medesimo. Non posso dormire, come accade ai vecchioni, più di due o tre ore la notte, e ho gli occhi sani, e non cavo troppo gusto a leggere libri per cagione della memoria, che mi serve benissimo nelle cose lontane, ma pochissimo nelle vicine, sicché alla fine di un volume rischio di non rammentarmi il principio. Bisogna dunque ch'io metta un poco di nero sul bianco per occupar la sera in qualcosa, mentre la Menica, tenendo in grembo il suo micio, pisola nel seggiolone.

III

Ti scrivo di giorno all'ombra dell'antico padiglione e all'aria aperta, nel giardino ora tutto intralciato e spinoso, che sta innanzi al padiglione ed è protetto da balaustri spezzati e da pilastri, su cui piantano de' mozziconi di Ercoli, di Diane e di Veneri. La roccia scende a perpendicolo dietro il palazzo, del quale da questa altura si dominano i tetti vicini; più giù, a sinistra, si vede la piazza del paese, e più giù ancora il ponte ed una lunga e sinuosa striscia di fiume.

È un'afa, che non si può respirare. Me ne sto qui da un pezzo a guardare le montagne ed il cielo. Le curve ripide e rotte del monte di San Gottardo alla destra e dell'altro, che gli sorge di contro, pare si tocchino a' piedi, tanto è stretta la spaccatura del Chiese. In mezzo a quelle due chine brulle d'un colore cupo rossastro si vede quasi orizzontale il dorso celestino di un monte lontanissimo. Le nubi s'erano squarciate e, sul largo campo azzurro, da quell'angolo basso saliva saliva una nuvola bianca, illuminata dal sole. Prima sembrò una corona d'argento posta sul culmine del monte lontano; poi si espanse, invase una gran parte del cielo. Pigliò figura di un toro immane, che si avanzasse con la sua testa cornuta. Le corna venivano sino alla metà della vòlta celeste; una gamba poggiava sopra uno dei monti, l'altra sull'altro. Poi, in un minuto, il toro mutò apparenza: la testa da grossa che era si allungò, diventò il grugno di un porco, le corna si accorciarono in orecchie, le gambe si restrinsero a zampini, e la figura, che prima era maestosa, diventò grottesca. Poi la nuvola grande si sciolse in diverse nuvolette candide: qua e là de' gruppi di punti argentei si raccoglievano come in tanti palloncini aereostatici, i quali vagavano un pezzo innanzi di ridursi al nulla. L'aria è restata d'un celeste purissimo, su cui le due montagne vicine tagliano scure, e l'ultimo monte appena stacca in quasi impercettibile sfumatura. Intanto il Chiese, ingrossato dalle ultime piogge, mugghia più iracondo che mai. Le case, brune, ancora bagnate, hanno de' bizzarri scintillamenti, e gli alberi sono lustri. Giù nelle strade fangose le capre passano, accompagnate da fanciulli, che portano sul capo immerse frasche fronzute di castagno o di quercia, sotto alle quali restano curvati e nascosti. Son piante che camminano; e quando diciotto o venti di quei ragazzi scendono così dai sentieri delle montagne l'un dietro all'altro, pare che un pezzo di bosco si muova, e si pensa - non mi rammento bene, ma qualcosa mi resta nella memoria di spaventoso - a quel re, a cui, dopo la profezia di certe orribili streghe, venne incontro così una foresta minacciante e vendicatrice.

Dalla parte di San Gottardo sai che si va a Bagolino, costeggiando il melanconico Lago d'Idro, passando dalle mura merlate della Rocca d'Anfo e camminando un pezzo sulla stupenda strada, che lascia ben basso il Caffaro, e dai parapetti della quale si vedono i precipizi vertiginosi, dove nella cupezza del fondo le acque del torrente, col rimbalzare da un masso all'altro, col piombare in cascate, col frangersi alle roccie, mostrano il luccichìo della loro spuma. In quelle orridezze si rovesciano spesso uomini e cavalli e, senza che la loro caduta mandi il più lieve rumore, vanno a seppellirsi nella gran fossa del monte. La via bellissima è sparsa di panporcini e di croci.

O quante volte son passato su quella strada cantando, con il mio fucile a pietra sulla spalla, la fiaschetta piena di polvere, la ventriera fasciata alla vita e ben provvista di palle e pallini, e la carniera ad armacollo! Avevo con me Lampo e Bigio, oppure Livia e Toti. Non c'è una svolta ch'io non ricordi, né una cappelletta, né una pietra migliaria. A Nozza, avendo pigliato una scorciatoia, trovai sul viottolo rasente al Chiese due vipere, ed una ne uccisi coi tacchi de' miei grossi stivali: A Vestone il povero Lampo ebbe un formidabile calcio da un ciuco, e continuò poi a guaire tutta la giornata. Ad Anfo c'era un'ostessa gobbetta e zoppa, la quale mi dava il vino bianco e le tinche fritte. Facevo centro a Bagolino, ma poi, partendo all'alba e spesso non tornando la sera, correvo lontano a cacciare i camosci sulle balze e le starne nei boschi.

La prima volta che salii solo alla cittaduzza alpestre, e avevo allora, che ero giovane, un'aria baldanzosa ed una gran barba nera, un vecchietto mi venne incontro e, togliendosi rispettosamente il cappello e sorridendo con malizia, mi fece segno di seguirlo. Dopo avermi condotto, senz'aprir bocca, un trecento passi all'in su e all'in giù per quelle viuzze sudicie e strette, il vecchietto si ferma e alzando il braccio mi mostra coll'indice una lapide antica infissa nella rovinosa muraglia di una casa. Vi leggo a stento questi bei versi:

Oggi non è il tempo
Né la stagione
Di stare in questo loco
Chi non sta a ragione.

Prima che avessi agio di pigliarmela col sardonico vecchietto e chiedergli la causa della sua minaccia, egli se l'era prudentemente svignata. Lo cercai tutt'in giro senza poterlo trovare.

Desinai all'osteria del Pavone, e poi, essendo domenica e non avendo sentito messa, m'arrampicai sulle interminabili gradinate della chiesa ed entrai a pregare. Il sole mandava i suoi raggi quasi orizzontalmente dalle finestre della facciata sino all'altar maggiore, gettando su questo la luce infiammata del tramonto e facendo scintillare la custodia dorata del ciborio. La chiesa era deserta. Solo si sentiva un leggiero picchio a intervalli regolari ora di qua ora di là. Una vecchia, tanto curva che il suo mento giungeva appena all'altezza delle panche, passava abbastanza lesta da un altare all'altro, mettendo innanzi ad ogni passo il suo bastoncino, su cui poggiava il peso del corpo cadente. Mentre uscivo, ell'era accanto alla pila dell'acqua santa. Le diedi qualche soldo: mi ringraziò tremolando.

Il sole scendeva in quei punto dietro le montagne. Non sapendo come passare il tempo, mi posi a sedere sul parapetto del portico e guardai intorno le chine verdi; ma nell'abbassare lo sguardo, sopra un quadratello di marmo bianco, incassato nelle lastre scure del pavimento, mi parve di vedere il nome della nostra famiglia. Sentii punzecchiarmi dalla curiosità e guardai bene. Potei leggere, oltre al casato, Don Antonio, e l'anno MDCCLXX; ma il resto, tra l'essere logoro dallo stropiccìo de' piedi e l'essere scritto in latino, non mi entrava nel cervello. Stavo così lambiccandomi da dieci minuti, quand'odo dietro di me una voce fessa e biascicante, la quale brontola, come se ripetesse una lezione imparata a memoria:

"Sui sagrato di questa chiesa Don Antonio, maestro di virtù, fece ardere in benefica pira gli strumenti del peccato, e scacciò il Demonio muto dal cuore dei penitenti".

Non capii nulla neanche nella traduzione, e, vincendo il ribrezzo che la vecchia mi metteva addosso, le chiesi s'ella poteva spiegarmi il mistero dell'epigrafe.

Mi pigliò per il braccio con la sua mano adunca, che pareva un artiglio, e mi trascinò sul piazzale, nel mezzo, tra il portico della chiesa e le gradinate della roccia, le quali scendono al paese; poi, sempre tenendosi al mio braccio, fece il segno con la punta del suo bastoncino di un largo circolo intorno a noi, e disse:

"Qui, proprio qui. Era un gran fuoco. Pareva un incendio. I ragazzi avevano portato le fascine secche; gli uomini avevano accomodato le legne in una immensa catasta; le donne con le mani giunte, inginocchiate, pregavano. Poi una si alza e, togliendosi i pendenti dalle orecchie, li getta nelle fiamme; e, dopo questa, tutte, ad una ad una, o un monile, o un braccialetto, od uno spillone, o quel che hanno di prezioso e di bello gettano nel fuoco. Le litanie si sollevano al cielo: lo scoppiettare e lo stridere del rogo pare un inferno. Si avanzavano gli uomini come spiritati. È notte, e le fiamme, tingendo la chiesa e le case di un rosso sanguigno, dànno ai devoti l'aspetto di demonii. Ecco che volano sul fuoco mandolini, flauti, tamburini, tiorbe. Due alzano una spinetta, e giù sulle brace. Quante chitarre! Una, fra le altre, di avorio, di ebano, d'oro, di perle! Che bellezza!..".

Mi sentii serrare il braccio più forte. La vecchia s'era interrotta, tremava in tutte le membra, e sulle guance grinzose e terrose sgocciolava qualche lagrima. Si percuoteva il petto col pomo del bastoncino. Durò un pezzo a rimettersi, e poi alzò sopra di me gli occhi così stravolti, che ne ebbi paura. Certo, era matta. Continuò, facendo da sé sola dieci passi indietro e picchiando tre volte col bastoncino in terra:

"Qui stava il Santo, immobile, maestoso. Guardava in alto. Qualche volta faceva un gesto con la mano, e allora quelli che gli erano vicini gridavano: Silenzio. E tutti tacevano, e si sentiva, accompagnata dal romore della legna ardente, la voce di lui, che gridava: 'Distruggete, fratelli, disperdete gli strumenti del vizio. Quegl'infami oggetti sono del diavolo. Regalateli a me, ch'io li dono a Dio. Non più balli, non più suoni, non più gioielli. Via gli eccitamenti alla corruzione, le tentazioni al peccato. Vivete, pensando solamente alla morte ed al cielo'. E di quando in quando si sentiva la stessa voce, che dominava il turbinoso frastuono del popolo, ripetere: 'Distruggete, fratelli, disperdete gli strumenti del vizio'".

Mi sembrò che i pochi capelli bianchi della vecchia le si rizzassero sul cranio. Dopo una pausa ripigliò:

"Io era giovane allora, bella, sana, ricca, empia. Mi scaldavo le mani alla catasta e ridevo".

Puoi pensare, nipote mio, se queste parole della strega avevano solleticato la mia voglia di sapere ogni cosa, e se io la tempestassi d'interrogazioni. Ma ella non rispondeva più niente. Pareva che fantasticasse a qualcosa di là dal mondo. Finalmente, infastidita dalla mia insistenza, mi chiese con ira:

"Chi è lei che m'interroga? Che cosa importa a lei di queste storie di mezzo secolo addietro? Non può lasciarmi quieta nelle mie memorie e ne' miei rimorsi?".

Cercai di placarla, e per iscusare la importunità le dissi il mio casato e ch'io ero pronipote del Beato Antonio.

"Nipote!" gridò, spalancando gli occhi cisposi.

"Figlio del figlio d'un suo fratello".

"Figlio del figlio d'un suo fratello" mormorava la vecchia fra le gengive, come se studiasse questo grado di parentela.

Mi guardò nel volto con attenzione minutissima, e invasa da una crescente contentezza:

"È lui" esclamò "lui stesso. Ecco il naso aquilino, il fronte alto, le labbra sottili, le folte sopracciglia, gli occhi neri. È lui, lui, proprio lui!".

Nel sottopormi a questo esame la vecchia decrepita s'accostava al mio viso, vicino vicino, giacché il crepuscolo cominciava a imbrunire. Sentivo l'acre respiro di quel cadavere ischeletrito.

"Lo stesso sguardo" continuava "e la stessa voce! È lui, proprio lui".

E intanto si faceva il segno della croce, e mi baciava il lembo della cacciatora.

"Avrei dato" ripigliò "tutta la poca vita che mi resta per trovare un discendente del Santo. Ora posso morire in pace. Restituirò al nipote ciò che ho rubato all'avo. Venga con me fino al mio casolare, là sulla montagna. Non c'è tempo da perdere. Potrei morire da un momento all'altro" e s'incamminò.

Già cominciava a far buio. Il cielo, che s'era tornato a coprire di nubi, diventava nero. Scendemmo dietro la chiesa un centinaio di passi; poi, entrati in una viuzza, si principiò a salire. La vecchia ansava. La strada era formata di sassi puntuti e sconnessi, con pozzanghere ad ogni tratto e qualche torrentello. Incespicavo negli sterpi. Dei tronchi d'albero disseccati sbarravano il sentiero. Udivo de' fruscii ne' cespugli: vidi la coda di un lungo serpe nero guizzare in una buca. La vecchia andava a piccoli sbalzi, picchiando sempre con il suo bastoncino, e voltandosi indietro a guardarmi. Ad una svolta si fermò e si mise a sedere in terra. Sembrava una pallottola.

"Ero dunque giovane" disse "e bella. Avevo sposato Angelo il Moro, il sicario. Egli viaggiava per le sue faccende, e quando tornava, dopo tre o quattro mesi, mi portava tanto oro, ch'io duravo fatica a spenderlo tutto in vesti, in balli, in orgie. Angelo mi regalava i gioielli rapiti alle dame. Una volta mi portò una chitarra, una maraviglia, rubata a una duchessa di Milano. Io, che mi divertivo a suonare quello strumento, ne fui beata; ma l'amante mio, che amavo ancora più della chitarra, me la chiese, e gliela diedi. L'infame mi tradì poco dopo".

Da quel fagotto schiacciato al suolo continuava a uscire una voce rauca:

"Ero alta di corpo, snella; avevo gli occhi bruni ed i capelli biondi. Ballavo dal tramonto all'alba, nuotavo nel lago d'Idro, facevo all'amore. Una sera, sentendo che il Beato Antonio, di cui parlavano le valli e i monti, ma che io non avevo ancora veduto, ordinava di bruciare gli strumenti da musica e gli ornamenti delle donne, volli goder lo spettacolo. Alcuni de' miei corteggiatori s'erano convertiti alla fede del Santo, altri non si attentarono ad accompagnarmi, uno solo venne con me travestito per non farsi conoscere. Quella sera sentivo dentro un diavolo: ero ubbriaca di peccato. A un tratto vidi il mio amante traditore accanto a me, il quale stava per gettare nel fuoco la mia chitarra. Sentii ribollirmi il sangue. Nel baccano e nella confusione, appena la chitarra fu sul rogo, io, al rischio di bruciarmi le vesti, mi scagliai sulle fiamme e la trassi fuori intatta. Qualche giorno appresso Angelo fu appiccato in Brescia. Mi ammalai: restai povera e sola".

La megera si alzò, e continuò il cammino. Era notte scura; non vedevo dove mettessi i piedi; sdrucciolavo; tre o quattro volte fui lì lì per cadere. Il nome del Moro mi rammentava i raccapricci d'infanzia, quando il mio vecchio servo Giovanni raccontava le prodezze del famoso assassino, il quale, per esperimentare la curiosità d'una sua fidanzata; le aveva lasciato in deposito un paniere coperto di foglie fresche, proibendole di guardarvi dentro, e dopo un'ora torna e trova la ragazza in deliquio, perché ella aveva trovato nel paniere una testa d'uomo tagliata.

La vecchia continuava interrottamente, fermandosi ad ogni venti passi:

"Mi nacque a poco a poco nel cuore una cosa nuova, il rimorso. Entrai qualche volta in chiesa; ascoltai qualche messa. Passato un anno, tornò a Bagolino il Beato Antonio. M'acconciai per il primo sermone accanto al pulpito, e vidi il Santo pallido, smunto, salire faticosamente i gradini. Annunziò con voce fioca l'argomento della predica: Il Demonio muto. La sua parola era lenta, quasi stentata, ma tanto semplice, tanto chiara, che nasceva negli ascoltatori una certa maraviglia di non avere pensato prima da sé a così naturali discorsi.

'Nell'animo nostro (egli diceva) noi nascondiamo quasi sempre, spesso senza volerlo, qualche volta senza saperlo, la memoria o il desiderio di un peccato. Come non lo confessiamo al prete, così non lo confessiamo a noi stessi. E pure quel punto, quella piccola ulcera venefica un po' alla volta s'allarga, si estende e incancrenisce via via l'anima intera. Ci credevamo giusti, ci troviamo iniqui'".

E il Santo veniva agli esempli: la moglie, che dal grato ricordo di una stretta di mano scivola alla infedeltà; il negoziante, che dalla prima menzogna sul prezzo di una merce scende al fallimento bugiardo; il servo, che ruba prima un soldo sulla spesa, e poi, vedendo come la padrona non se n'accorge, ne ruba due, dieci, venti, e finisce col rubare nella borsa e nello scrigno; il giovinotto, che dal primo stravizio precipita all'ubbriachezza: e così per ognuno quasi degli ascoltatori c'era una parola che lo toccava dentro.

"Nella più remota e angusta cameretta del cuore alloggia il Demonio muto. Egli se ne sta lì accovacciato, arrotolato, silenzioso; ma poi, quando gli pare che l'uomo sia più distratto o più fiacco, stende le membra, s'adagia, s'impadronisce di una stanza, dell'altra, e riesce ad occupare tutta quanta la casa della nostra coscienza. La nostra coscienza diventa allora un inferno. Tutto sta dunque nel guardarci dentro e nel trovare il nostro mortale nemico, quand'egli è ancora quasi impercettibile: tutto sta nel cacciare via subito il piccolo Demonio muto".

Ma il Santo cangiava voce. Da dolce e insinuante ch'era il principio, diventava aspra, violenta, terribile. Parlava sul Demonio muto delle coscienze già infami: delle donne empie, degli uomini perversi, che occultano un peccato obbrobrioso. Terminò tuonando, sicché la chiesa rimbombava: "Furti, assassinii, inganni, sacrilegii, lordure d'ogni specie, venite fuori dal petto di voi che m'ascoltate, entrate nelle mie orecchie; e salga il vostro rimorso e il vostro pentimento a Dio. Dio è misericordioso!".

Il popolo si gettava per terra e, piangendo, gridava: "Pietà, pietà!".

La vecchia, già stanca, sedeva nel mezzo della strada, e ormai l'oscurità era così fitta, ch'io appena distinguevo il corpiciattolo bruno. Sembrava che la voce uscisse di sotto terra. Cominciai a sentirmi de' brividi nelle membra, poiché tirava un vento fresco, il quale faceva stormire le foglie e produceva dei fischi e come degli ululati lamentevoli e strani. Neanche un lume lontano; neanche una stella. Il suono fesso delle parole della vecchia ricominciava:

"Uscii dalla chiesa, convertita e spaventata. Tornai a casa correndo. Mi prese una febbre, che per dieci giorni tenne il mio capo in orridi vaneggiamenti. Non ero guarita, quando una mattina scappai dal sito dove abitavo, distante un'ora, e, portando con me la chitarra, che avevo rubata al rogo del Santo, andai a Bagolino per confessarmi. Il Beato Antonio era già andato a Gardone, assai malato anch'esso, quasi morente. Presi una carrettella, e, sempre col mio strumento maledetto, partii. Il giorno appresso ero in Val Trompia, a Gardone. Corsi tosto alla chiesa, e la vidi tutta parata di nero, tutta a ceri ardenti. L'infinito popolo singhiozzava e pregava; i sacerdoti cantavano a morto. Nel mezzo, sopra un immenso catafalco, seduto in un trono maestoso, vestito degli abiti sacri, col calice in mano, stava il Santo, più livido che mai. Era immobile. Aveva gli occhi aperti e fissi. Pareva che guardasse. Il cadavere, certo, mi malediva".

La vecchia riprese a camminare assai lenta. Io le andavo dietro senza vedere più nulla.

"Siamo lontani?" le domandai.

Non rispose. Si continuò a salire la montagna. La vecchia era diventata taciturna, ma sentivo sempre il picchio del suo bastoncino sui sassi. Finalmente si giunse dinanzi ad un casolare. La vecchia spinse l'uscio ed entrò. Cercò qualcosa, e poi, battendo con l'acciarino, fece uscire dalla pietra qualche scintilla; accese l'esca e un lumino, il quale rischiarava assai male la miserabile stanza. Un po' di strame in un angolo, una panca, una ciotola; il tetto nascosto dai ragnateli; il pavimento di mota lubrica; i muri di sassi tutti sconnessi e cadenti.

La strega, gettandosi per terra, levò le foglie muffite del suo giaciglio e cominciò a raschiare con le unghie il terreno. Dopo un quarto d'ora mi fece segno di accostarmele, e vidi il coperchio di una cassa; aiutai la vecchia a levarlo, ed apparve la famosa chitarra con le sue corde spezzate. Alla luce del lumino fumoso le perle sembravano scintillette scialbe e l'argento del piccolo Apollo brillava appena. La vecchia mi porse lo strumento con un sorriso che le contorceva la bocca, e disse tra sé:

"Morirò più quieta".

Salutai la povera donna, ed uscii dal casolare, dove il tanfo cominciava a nausearmi. Solo, nelle tenebre più nere, con la chitarra sotto il braccio e senza rammentarmi il cammino, puoi pensare, nipote mio, se mi sentissi lieto. Mi guidarono le punte dei grossi sassi della via, martoriandomi i piedi. Dio volendo, a mezzanotte bussai alla porta dell'Albergo, dove tutti dormivano; e, andato a letto, sognai tutta notte lemuri, fantasmi, diavoli, megere e streghe.

Sei mesi dopo tornai a Bagolino per le mie caccie, e volli andare a salutar la mia vecchia. Trovai con grande stento il casolare. Era deserto. Domandai notizie di essa ai contadini della montagna ed allo scaccino della chiesa. Era sparita da un pezzo, proprio come una strega. Nessuno ne ha saputo più nulla.

IV

Oggi è stata una magnifica festa, di quelle che lasciano il cuore più sereno e più alto. Si cominciò ier sera con i fuochi sulle montagne. Tu avessi visto com'era bello quell'improvviso accendersi, quell'alternarsi di qua, di là, delle fiamme d'allegria, alla distanza di più miglia, dall'una e dall'altra parte della valle; e come pareva che le cime dei monti si rispondessero nel gaio linguaggio di fuoco! Le campane suonavano ora a distesa, ora a rapidi rintocchi, ed ora con una certa ingenua pretensione d'imitare qualche arietta popolare, senza colpa del campanaro se tre note su sette dovevano restar nel battaglio.

Verso le otto, che era ben buio, andai con la mia Menica nel mezzo del ponte, a godermi per una mezz'oretta questo spettacolo; e il Chiese, riflettendo i fuochi delle alture, pareva se la godesse anche lui.

Stamane poi all'alba è stato uno scoppio di gioia. Mortaletti da tutte le parti, come cannonate d'una finta battaglia; la banda musicale di Salò, che soffiava e batteva a tutto andare; il popolo, che riempiva le piazze e le vie, ilare, chiassoso, vestito da festa, con fazzoletti da collo e scialli d'un rosso scarlatto.

M'è venuto il ghiribizzo di andare incontro anch'io al nuovo Curato, che faceva il suo ingresso trionfale. Appena mi ha visto è sceso dalla carrozzetta, dove stava con il Sindaco. Ha voluto per forza che mi appoggiassi al suo braccio, e così a piedi siamo andati insieme fino al piazzale della chiesa, in mezzo a due fitte ale di popolo, che salutava rispettosamente. Il curato rispondeva ai saluti con pronta affabilità. Ha i bei capelli folti tutti d'argento, che gli circondano il capo come un'aureola; gli occhi azzurri limpidi, d'una soavità da fanciulla; i denti bianchissimi e perfetti. Veste pulito, quasi accurato. Parla con una dolcezza semplice, profonda, affettuosa, che affascina. È, dicono, il più virtuoso prete della diocesi di Brescia: dà tutto ai poveri: mangia polenta, cacio, latte soltanto; ma nasconde la sua carità e la sua povertà volontaria sotto un aspetto di persona studiosa e gentile. Mi ha detto:

"So ch'ella, signor Carlo, è il più vecchio e più savio uomo di questi monti. Permetterà ch'io venga a discorrere spesso con lei e che mi chiami suo amico".

Il maestro di scuola si è avanzato per leggere, balbettando, la sua poesia; una fanciulletta dell'Asilo ha recitato lesta il suo discorsino; i preti della Parrocchia hanno presentato al nuovo pastore, con una lunga orazione latina, le chiavi della chiesa, portate sopra un cuscino di seta bianca a frangie ed a nappe d'oro. Ed è cominciata la processione: stendardi rossi con la Madonna dipinta in mezzo, banderuole, croci, torchi, baldacchini; fanciulle inghirlandate di fiori e tutte vestite di bianco, le quali portavano in mano con gran compunzione quale un Agnello di carta, quale un Bambino Gesù in fasce, quale una Vergine incoronata; ragazzi con mitrie o con turbanti, e dietro una coda interminabile di donne e d'uomini, la quale, vista un poco dall'alto, sembrava tutta d'un pezzo, e pareva che così lunga lunga si muovesse flessuosamente secondo l'avvallarsi, il girare o il rialzarsi della strada.

A stare accanto alla chiesa e appartati, come abbiamo fatto la mia buona Menica ed io, che siamo troppo vecchi per cacciarci nella folla, si sentiva l'organo suonare un'allegra marcia con tutti i pedali e campanelli e tamburi e piatti, poi le campane suonavano sul nostro capo, poi scoppiavano i mortaletti, che era un frastuono da diventare sordi; ma quando per caso, in certi momenti, tutti questi romori cessavano, s'udiva, già lontano, il salmeggiare basso dei sacerdoti della processione e l'armonia vaga, lunga, angelica della risposta delle donne.

La vecchiaia è orrenda. Non ci sono lagrime negli occhi, non ci sono singhiozzi nel petto. La disperazione non si espande nella pietà degli altri, non si getta al di fuori con le parole, con i gesti, con le grida. Lo strazio è solitario. Si guarda al proprio dolore tranquilli, con le ciglia asciutte. È una calma bieca; è una freddezza spaventosa. Par di uscire da se stessi, e di aggirarsi nel nulla. Non si pensa, non si sente: si vive in una tomba.

La mia Menica è morta.

Dieci giorni sono, mercoledì sera, si sentiva un po' stanca, e s'addormentò, come al solito, nella sua poltrona. Io leggevo. Tutt'a un tratto, il micio nero sbalza in terra e miagola come impaurito. Non gli bado. Alle dieci mi alzo, e mormoro nell'orecchio della Menica:

"Mia buona, è l'ora di andare a letto".

Non risponde. Le metto, così per giuoco, le due mani sul fronte. Lo sento di ghiaccio. Era morta.

Beata lei, che è morta com'era vissuta, nella sua santa placidezza.

La casa è deserta, le montagne sono bianche di neve, e gela. A desinare, così solo, non mangio più. La sera non c'è nessuno che mi dia con affetto la buona notte, e la mattina mi vesto nella camera vuota, intristito dal silenzio fatale. La ragazza, che mi serve da pochi mesi, mi guarda con occhio indifferente, annoiato. Pensa forse che i vecchi stanno meglio nella bara. Ha ragione.

Ho un solo conforto, il Curato. È un santo uomo. Parliamo di religione, e la mia vecchia fede si ravviva. Ieri mi diceva: "Signor Carlo, si prepari alla felicità del Paradiso. Si stacchi dalle cose di questa terra. Pensi a Dio".

Non ho rimorsi, eppure un certo stringimento di cuore mi dice forse che c'è una macchia nella mia vita. Quando sono seduto al fuoco nell'interno del gran camino della sala, e vedo sulla parete di contro il ritratto del Beato Antonio, smorto, severo, minaccioso, mi sembra ch'egli apra le labbra ed alzi la mano per rimproverarmi qualcosa. Che cosa? Non ho mai fatto male apposta a nessuno. Ho amato i miei genitori, i miei parenti, la mia Menica. Ho seguito la dottrina e i riti della Chiesa. E non ostante, gli occhi dipinti del ritratto di Don Antonio, che sono vivi, mi scrutano dentro nelle viscere, mi strappano fuori un non so che dall'anima. È uno scavo nella coscienza. Forse il mio Demonio muto. Chi lo sa? Forse quell'oggetto di profano piacere, che io vagheggiavo, e che può avermi distolto spesso dalla contemplazione di Dio! Sì, quel maledetto strumento, rubato da un sicario e destinato al rogo, poi di nuovo rubato da una femmina iniqua. Certo, a quello sguardo, che scintilla fuor della tela, ci deve essere una profonda cagione. Don Antonio, bisogna ch'io ti plachi.

Interrogai il Curato. Perdonami, nipote mio: ho già provvisto a te nel codicillo del testamento, ma ritiro il dono, che ti avevo fatto. Il buon prete mi consiglia di distruggere quella mia vecchia gioia mondana, che oggi mi è occasione di rimorsi e di paure.

Ieri sera nevicava, tirava vento, si sentivano certe voci lugubri a tutte le finestre ed a tutti gli usci. Non avevo dormito da una settimana. Andai nella cappella a staccar la chitarra e la portai nella sala. Al lume del fuoco le perlette e l'oro brillavano, e la figuretta di Apollo sorrideva. Il demonio mi tentò e toccai le corde. Un suono rauco e terribile uscì dallo strumento scordato. Allora feci aggiungere molta legna sul fuoco, e quando la vampa toccò la cappa altissima del camino, fatto un supremo sforzo, gettai la chitarra sul rogo, seguendola attentamente con gli occhi. Le corde si contorsero come serpi, mandando un sibilo di dolore; il legno sottile della cassa armonica diventò nero, si spaccò in più luoghi e, senza infiammarsi, si ridusse a carbone; le perlette sparirono; il manico durò un gran pezzo a bruciare, e le figurette della caccia, staccandosi ad una ad una, caddero nella brace. Chiamai la serva, che gettasse dell'altra legna sul fuoco.

Tutto fu consumato. Nell'uscire dalla sala, passando innanzi al ritratto di Don Antonio, mentre le ultime brace ardenti lo irradiavano di una luce oscillante e sanguigna, credetti che lo sguardo del Santo mi seguisse ancora tenace, torvo, implacabile. Gelai tutto e svenni.

Mando un addio a te, a tua sorella ed ai suoi figliuoli; e mi dolgo che siate troppo lontani, perch'io vi possa vedere mai più.

Sono alzato e ti scrivo dal tavolino; ma sento dentro di me come un presentimento felice. Ho chiamato per questa sera il mio buon Curato. Mi confesserà e mi darà l'olio santo.


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