
da "Don Candeloro e C." (1894)
La vocazione di suor Agnese
Era venuta dopo, alla povera Agnese, la vocazione di prendere il velo,
quando la sua famiglia, caduta in rovina, fu costretta a farla monaca per darle un tozzo
di pane.
Prima era destinata al mondo. A casa sua filavano e tessevano la biancheria
pel corredo di lei, mentr'essa terminava l'educandato a Santa Maria degli Angeli. Suo
padre, don Basilio Arlotta, l'aveva già fidanzata col figliuolo del dottor Zurlo, un
partitone che faceva gola a tutte le mamme del paese, malgrado la bassa nascita. Bel
giovane, bianco rosso e trionfante, egli faceva l'innamorato con tutte quante le ragazze.
Com'era figlio unico, e donna Agnesina Arlotta avrebbe portato la nobiltà nei Zurlo,
s'era lasciato fidanzare a lei, e aveva preso gusto anche a scaldarle la testa, recitando
la sua parte di primo amoroso del paese. Babbo Zurlo che mirava al sodo, e a quella
commedia ci credeva poco, diceva in cuor suo: - Il suggeritore lo faccio io. Se don
Basilio Arlotta non snocciola la dote in contanti, spengo i lumi e calo la tela -.
Don Basilio arrabattavasi appunto a mettere insieme la dote confacente alla
nascita della sua Agnese, giacché di nobiltà in casa ce n'era assai, ma pochi beni di
fortuna, e imbrogliati fra le liti per giunta. Il pover'uomo che voleva far contenti
tutti, e non ci vedeva dagli occhi per la figliuola ingolfavasi nelle spese: venti salme
di maggese alle Terremorte seminate tutte in una volta; la lite di Palermo spinta innanzi
a rotta di collo. - Come chi dicesse un pazzo che giuoca ogni cosa su di una carta, a fin
di bene, sia pure, per amor della famiglia; ma fu quella la sua rovina.
Lavorava come un cane, sempre in faccende, di qua e di là, con gente d'ogni
colore che gridava e strepitava. Partiva all'alba pei campi, e tornava a tarda sera,
sfinito, coll'aria stravolta, sognando anche la notte i seminati in cui aveva messo il
poco che gli rimaneva, e tutte le sue speranze. - San Giovan Battista! - Anime del
Purgatorio, aiutatemi voi! - Così pregava la Madonna dell'Idria, accendendole di nascosto
ogni sabato la lampada, dinanzi all'immagine benedetta del Papa, perché facesse piovere.
Teneva nascoste ai suoi le lettere dell'avvocato che gli parlavano della causa. In casa
sforzavasi di mostrarsi allegro, il poveraccio. Rispondeva alle occhiate timidamente
ansiose della moglie: - Va bene - Non c'è male - Domeneddio non ci abbandonerà in questo
punto... - Si confessò e si comunicò a Pasqua; si mise in grazia di Dio, pregando
coll'ostia in bocca per la buon'annata, per la vittoria della lite, per la buona riuscita
del matrimonio che doveva far felice la sua creatura...
Essa pure, l'Agnesina, il bene che le volevano se lo meritava. Buona,
amorevole, ubbidiente, quando le avevano fatto vedere lo sposo attraverso la grata - una
lontana parente - e la mamma le aveva detto all'orecchio: - È quello lì. Ti piace? -
Essa aveva chinato il viso, rosso qual brace:- Sì -. Poi, successa la catastrofe, come le
fecero intendere che bisognava rinunziare a don Giacomino e darsi a Dio, chinò il capo di
nuovo e disse: - Sì -.
Era stato il giorno di Pasqua che glielo avevano fatto conoscere, quel
cristiano. L'aspettava, lo sapeva quasi. Le avevano messo in capo quel brulichìo le
confidenze delle amiche, le visite insolite delle parenti di lui, certe mezze parole della
mamma... Ah, che festa quella mattina che la mamma le aveva fatto dire di scendere in
parlatorio, dopo le funzioni! Che dolcezza nel suono dell'organo, quante visioni nelle
nuvolette azzurre che recavano sino al coro il profumo dell'incenso! Che batticuore in
quell'attesa! Ogni cosa che rideva, ogni cosa che risplendeva d'oro e di sole, ogni cosa
che sembrava trasalire allo scalpiccìo della gente che entrava in chiesa, quasi
aspettasse, quasi sapesse già... Non lo dimenticò più quel giorno di Pasqua, la
poveretta. Ancora, dopo tanti anni, quando udiva lo scampanìo allegro che correva su
tutto il paese, le sembrava di rivedere il giardinetto tutto in fiore, le compagne
appollaiate alle finestre, un cinguettìo di passeri, un chiacchierìo giulivo di voci
note e care, un ronzìo nelle orecchie, uno sbalordimento, e lui, quel giovine, col
sorriso già bell'e preparato, e la destra nel panciotto, e l'occhiata tenera che sembrava
sfuggirgli suo malgrado, in mezzo ai suoi parenti, al di là della soglia del portone
spalancato...
Le avevano pure fatto una gran festa all'uscire dal monastero, tutti i
parenti, anche quelli di lui. Il babbo era tanto contento quella sera! I dispiaceri e i
bocconi amari se li teneva per sé, il poveretto. Per gli altri invece aveva fatto
preparare dolci e sorbetti che Dio sa quel che gli erano costati. Dio e lui solo! E nessun
altro. - Né la ragazza per cui si faceva la festa, né il giovane che le avevano fatto
sedere allato. - Se don Giacomino avesse sospettato in quel momento quanti pasticci
c'erano in quella casa, e come la dote che gli avevano promessa tenesse proprio al filo
della buona o cattiva annata, avrebbe preso il cappello e sarebbe andato via, senza
curarsi di far più l'innamorato.
E sarebbe stato meglio; ché allora la giovinetta non aveva ancora messa tutta
l'anima sua in quel giovine, al vederlo tutti i giorni, quasi fosse già uno della
famiglia, che veniva a farle visita, quasi anche lui non potesse stare un giorno senza
vederla, e si metteva a sedere accanto a lei, e le diceva tante cose sottovoce. E la mamma
era contenta lei pure, e aspettava anche lei l'ora in cui egli soleva venire, e adornava
colle sue mani la sua creatura. Le avevano fatta una veste nuova color tortorella;
l'avevano pettinata alla moda, colla divisa in mezzo. Allora aveva dei bei capelli
castagni, che gli piacevano tanto a lui. Le diceva che sarebbe stato peccato doverli
tagliare per farsi monaca. Discorreva anche di tante altre cose, con la mamma o col babbo,
di ciò che gli avrebbe assegnato suo padre, del come intendeva far fruttare la dote che
gli avevano promesso, del modo in cui voleva che andasse la casa e tutto. La mamma faceva
segno ad Agnese di stare attenta e di badare a ciò che diceva lui, che doveva essere il
padrone. Un giorno egli le aveva regalato un bel paio d'orecchini, e aveva voluto
metterglieli colle sue stesse mani, in presenza della mamma. Come passavano quei giorni!
Le ore in cui egli era lì, vicino a lei, le ore in cui essa l'aspettava, le ore in cui
pensava a lui - le sue parole, il suono della sua voce, i menomi gesti, tutto - col cuore
gonfio, colla testa piena di lui, china sul lavoro, agucchiando allato alla mamma. La
mamma sembrava che le penetrasse nell'anima, con quegli occhi amorosi che la covavano, se
taceva, in tutto quel che diceva, fin nei consigli che le dava intorno al taglio di un
corpetto o pel ricamo di un guanciale su cui dovevasi posare il capo della sua figliuola,
accanto a quello dello sposo. Ci pensava spesso la giovinetta, col viso chino, facendosi
rossa fino al collo. E la mamma sembrava che le leggesse il pensiero dolce negli occhi
fissi ed assorti, che ne giubilasse anche lei, povera vecchia, senza alzare gli occhi dal
lavoro, fingendo di non vedere, quando il giovane cercava di nascosto la mano tremante
della ragazza, quella volta che approfittando della confusione di tutto il parentado
venuto a farle visita le sfiorò il viso fra un uscio e l'altro, come a caso. Venivano
spesso i parenti e le amiche, tutti che pigliavano parte alla gioia comune. C'era un'aria
di festa nella casa, nei mobili ripuliti, nei mucchi di biancheria sparsi qua e là, nel
va e vieni di sarte e di operaie, nelle donne che cantavano affaccendate. Il babbo però
aveva un certo modo di esser contento che toccava il cuore. Gli spuntavano le lagrime, a
volte, nell'abbracciare la figliuola. Le diceva: - Che Dio ti benedica! Che Dio ti
benedica, figliuola mia! - E le mani gli tremavano, accarezzando la sua Agnese, e
rinfrancava la voce così dicendo, per dare ad intendere ai gonzi che dormiva su due
guanciali, riguardo ai suoi interessi. A San Giovanni che il paese intero bestemmiava Dio
e i santi, lagnandosi della malannata, aveva il coraggio di dire soltanto lui: - Non c'è
tanto male, poi. Potrebbero andar peggio le cose. Lì, a Terremorte, ci ho venti salme di
maggese. Calcoliamo pure sulla media... Ho avuto buone notizie della lite, laggiù... -
Ma parlava così perché nel crocchio che stava a sentir la musica in piazza
era pure la sua figliuola, seduta accanto allo sposo, colla veste di mérinos e il
cappellino comprato a credenza. Sembrava così intenta, la cara fanciulla, senza un
pensiero e senza un sospetto al mondo! Il dottor Zurlo invece aveva certi occhi
inquisitori, e insisteva con certe domande indiscrete che facevano sudar freddo il povero
don Basilio: - E quanto credete che vi daranno le Terremorte? E che n'è della causa? Vi
siete messo in una grossa impresa, voi. Io nei vostri panni non dormirei più la notte...
Con una malannata simile! Le meglio famiglie non sanno come va a finire, vi dico! A metter
su casa ci penserà bene ogni galantuomo, quest'anno! - Per poco non si sfogò col
figliuolo che non badava ad altro, lui, in quel momento, pigliando fuoco ai begli occhi di
donna Agnesina, eccitato dalla musica che suonava e dalla bella serata tepida.
Però don Giacomino non era sciocco neppur lui. Oltreché, nei piccoli
paesi tosto o tardi si vengono a scoprire gli imbrogli di ciascuno. Il povero don Basilio
Arlotta friggeva proprio come il pesce nella padella, assediato dai creditori, stretto da
tanti bisogni, le spese della causa, il fitto delle terre, le paghe dei contadini. Correva
da questo a quell'altro, s'arrapinava in ogni guisa, cercava di far fronte alla tempesta,
dava la faccia al vento contrario almeno, pagava di persona. Quando, al tempo della messe,
fu colto da una perniciosa che fu a un pelo di portarselo via - e sarebbe stato meglio per
lui - non diceva altro, nel delirio: - Lasciatemi alzare. Non posso stare a godermela in
letto. Bisogna che vada. Bisogna che cerchi... So io!... So io!... -
E lo sapevano anche gli altri, primo di tutti don Giacomino, il quale batteva
freddo colla sposa e si faceva tirar le orecchie per tornare in casa di lei, ogni volta;
tanto che donna Agnesina piangeva notte e giorno, e sua madre non sapeva che pensare. Le
povere donne avevano ancora gli occhi chiusi sul precipizio che inghiottiva la casa,
perché don Basilio cercava ancora di nascondere il sole collo staccio, soltanto per
risparmiare loro più che poteva quel dolore che se lo mangiava vivo. Ogni giorno che
tardavano a conoscere il vero stato delle cose era sempre un giorno di meno di quelli che
passava lui!...
Tacque dell'usciere che venne a sequestrare quel po' di raccolta alle
Terremorte. Tacque della scena terribile coi contadini che l'avevano minacciato colle
forche, vedendo in pericolo le loro giornate. Alla moglie che scopava già il granaio pel
frumento che doveva venire dalle Terremorte, disse d'averlo venduto sull'aia. Come essa
aspettava i denari della vendita disse che glieli avevano promessi a Natale. - Domani -
Doman l'altro - Alla fine del mese -. Il pover'uomo pigliava tempo con tutti, balbettando
delle bugie alle quali quasi quasi credeva anche lui, tanto aveva perduta la testa. - Alla
vendemmia - Alla raccolta delle olive - E l'usciere era stato pure nelle vigne e
nell'oliveto. Finalmente, nella novena di Natale, che le donne avevano fatto voto di
digiunare tutti i nove giorni perché Gesù Bambino facesse succedere il matrimonio senza
intoppi, scoppiò la bomba.
In casa Arlotta avevano fatto il pane quella mattina. L'Agnese, tutta
contenta, stava anche preparando per don Giacomino certe paste che le avevano insegnate al
Monastero. E lui stava a vedere, sopra pensieri, piluccando di tanto in tanto un pizzico
di pasta frolla e dicendole sbadatamente, soltanto per dire qualche cosa, che essa aveva
le mani più bianche del fior di farina... - lì, in cucina, dinanzi al forno, col
cappello in testa, proprio come uno della famiglia - quando comparve Menica, la serva, col
fascio di sermenti ch'era scesa a prendere in corte, e l'aria sconvolta: - Signora!
signora!... - Nell'anticamera udivasi la voce di don Basilio che pregava e scongiurava. La
signora corse subito a vedere e non tornò più, senza curarsi che lasciava soli don
Giacomino colla figliuola. La povera ragazza, si strinse allora allo sposo, quasi sapesse
già che non le rimaneva altro aiuto ed altro conforto: - Cos'è stato, don Giacomino, per
l'amor di Dio!... -
Ah, quando vide il babbo con quella faccia! La faccia che doveva avere in
punto di morte. Barcollava come un ubbriaco; andava di qua e di là senza sapere quel che
facesse, chiudendo le imposte e le finestre, perché la gente che passava non vedesse
l'usciere in casa sua. Imbattendosi a un tratto nel fidanzato di sua figlia, don Basilio
lo guardò stralunato, col sudore dell'agonia in viso. Giunse le mani e aprì la bocca
senza dir nulla. Allora don Giacomino si mise a cercare il bastone e il pastrano senza dir
nulla, facendo ancora finta di non saper niente di niente, per cortesia, ed anche per
evitare una scena che gli seccava, borbottando:
- Scusate... Sono d'incomodo... Mi dispiace... -
Ma come don Basilio voleva continuare a fare la commedia dell'uomo tranquillo,
coi goccioloni dell'agonia in fronte e pallido più di un morto: - Ma, don Giacomino!...
Figuratevi!... Un momento e li sbrigo subito... Passate un momento in camera mia colle
donne... - don Giacomino si fermò a guardarlo, verde dalla bile, sul punto di
spiattellargli in faccia: - A che giuoco giuochiamo? Finiamola adesso questa commedia! Se
lo sanno tutti che siete rovinato! Mi meraviglio di voi che volete imbrogliare un
galantuomo... -
Ma tacque ancora per prudenza. Soltanto non ci furono Cristi per trattenerlo.
Né la vista dell'Agnesina che gli faceva la scena dello svenimento. Né le lagrime della
madre che lo supplicava tremante: - Don Giacomino... Figliuolo mio!... - Egli disse che
tornava subito, per cavarsi d'impiccio: - Mi dispiace. Non posso, proprio!... Un momento.
Vado e torno -.
Tornò invece il notaio Zurlo, a restituire i regali che venivano dalla sposa:
il berretto di velluto e pantofole ricamate, facendo il viso compunto per procura del
figliuolo, un viso fra il padre nobile e il burbero benefico, tornando a dire anche lui: -
Mi dispiace davvero!... Era il mio più gran desiderio. Ma voi non ci avete colpa, donna
Agnesina!... Ne troverete degli altri coi vostri meriti... -
E volle lasciarle anche una carezza paterna sulla guancia, con due dita,
sorridendo bonariamente.
Ma come vide barcollare la ragazza, bianca al par di un cencio, si asciugò
persino gli occhi col fazzoletto e conchiuse:
- Che disgrazia, figliuola mia!... Scusate se vi chiamo così. Vi tenevo già
per figlia mia!... Che crepacuore mi avete dato... -
Ecco com'era venuta la vocazione alla povera donna Agnese. Il cappellano
del monastero la citava in esempio alle altre novizie che mostravansi sbigottite nel punto
di pronunciare i voti solenni: - Guardate suor Agnese Arlotta! Specchiatevi su di lei che
ha provato quel che c'è nel mondo. C'è l'inganno e la finzione. - Imbrogliami che
t'imbroglio. - Una cosa sulle labbra e un'altra nel cuore. - E poi che resta alla fine di
tante angustie, di tanti pasticci? Un pugno di polvere! Vanitas vanitatum!... -
Così, a poco a poco, la poveretta s'era distaccata completamente dalle cose
terrene, e s'era affezionata invece all'altare che aveva in cura, al confessore che la
guidava sul cammino della salvazione, al cantuccio del dormitorio dov'era il suo letto da
tanti anni, al posto che occupava al coro e nel refettorio, al suono della campana che
regolava tutte le sue faccenduole, sempre eguali, alle pietanze che tornavano
invariabilmente secondo il giorno della settimana, alla stessa ora, nello stesso piatto.
Il suo mondo finiva lì, al cornicione della casa dirimpetto che affacciavasi sopra il
muro del giardino, al pezzetto di collina che si vedeva dalla finestra, al gomito della
stradicciuola che metteva capo al parlatorio. Le ore e le stagioni si succedevano nel
monastero allo stesso modo, col sole che scendeva più o meno basso sul cornicione, colla
collina che era verde o brulla, coi polli che razzolavano nella stradicciuola, o si
radunavano all'uscio del pollaio. Anche le voci dei vicini erano tutte note. Allorché
andò via la tessitrice che stava di faccia alla chiesuola fu un avvenimento, quando non
si udì più il battere del pettine ogni mattina. Suor Agnese non ebbe pace finché non
riescì a sapere dal sagrestano dov'era andata e perché era andata via, quella cristiana.
Non che cercasse il pettegolezzo, ma per semplice curiosità, massime da che
era divenuta sorda. Siamo fatti di carne infine, e il mondo ostinavasi a insinuarsi sin
là, pian piano, coi sermoni del confessore, colle chiacchiere del sagrestano, coi
discorsi dei parenti che venivano in parlatorio, colle liti fra le monache, e gl'intrighi
che nascevano quando trattavasi di eleggere le cariche pel triennio. Oh allora!
Suor Gabriella, ch'era la superbia in persona, si faceva umile come un agnello
pasquale; e suor Maria Faustina, otto giorni prima, aveva sulla faccia arcigna un sorriso
amabile. Fra le suore poi erano conciliaboli a tutte le ore, durante la ricreazione, o
quando si riunivano nel tinello a preparare i dolci e le paste per la solennità, a Pasqua
o a Natale. Tanto più che suor Agnese non aveva nulla da fare, perché non aveva né fior
di farina, né zucchero, né denari per comprarne, né parenti a cui mandare in regalo i
dolci. Sua madre, buon'anima, era morta da un pezzo; e anche don Basilio, quantunque fosse
campato vecchio nei guai, perché Dio aveva voluto dargli il purgatorio in terra - e anche
la zia caritatevole, che aveva sborsato le cento e venti onze della dote perché donna
Agnese potesse farsi monaca. - Pace alle anime loro, di tutti quanti, compreso don
Giacomino, che era morto carico di figliuoli, e gli avevano fatto i funerali a Santa Maria
degli Angeli. Sia fatta la volontà di Dio! a suor Agnese, povera vecchia, il Signore le
accordava la grazia. Colle sei onze all'anno della dote, e il piatto che le passava il
convento, meno di trenta centesimi al giorno, essa riusciva a mantenersi lei, la
lavandaia, e la conversa di cui non poteva fare a meno pei suoi acciacchi. Risparmiava
sulle due paia di scarpe e sulla tonaca nuova che le spettavano ogni anno. Vendeva le noci
e le mandorle della tavola che non poteva rosicchiare. Di due ova ne mangiava una lei, e
l'altro, metà per una fra la serva e la lavandaia. Aveva anche combinato che a tavola
teneva un fornello allato al piatto, e la sua porzione di minestra tornava a farla bollire
perché crescesse e potesse bastare alle due donne che avevano sempre una fame da lupi.
Essa campava d'aria, povera vecchia. Talché a furia di privazioni tirava innanzi anche
lei, e arrivava a cavare di quel poco anche il caffè e il biscotto pel confessore, ogni
mattina.
Veramente avrebbe avuto anche lei l'ambizioncella di tenere il pastorale,
almeno una volta in tanti anni. Ma alle cariche erano nominate sempre quelle monache che
sapevano intrigare meglio, e trovavano appoggio nel parentado di fuori. Basta, taceva e
ringraziava la Divina Provvidenza. - Che le mancava, grazie a Dio? Mentre fuori, nel
mondo, c'erano tanti guai! - Col buon esempio, e simili belle parole, confortava pure
quelle novizie che in convento ci venivano tirate proprio pei capelli, senza vocazione.
Una di queste però, maleducata e villana, le rispose un bel giorno chiaro e tondo:
- Sapete com'è? La mia vocazione è di sposare don Peppino Bèrtola, per
amore o per forza -.

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