da "I ricordi del Capitano d'Arce" (1891)
Prima e poi
- No - m'avete detto. - Non sciupiamo il bel sogno d'oro, Riccardo! -
Ah, voi non sapete cos'è quel sogno d'oro nei vostri occhi che cercano i
miei, e il fascino che metteva allora nel vostro pallido sorriso la triste scienza del poi!
Tutto, tutto l'ho assaporato quel terribile fascino - nel dolce lividore che i
baci altrui v'hanno lasciato sulle palpebre, nella rugiada di cui sono ancora umide le
vostre labbra, nel molle abbandono con cui vi appoggiavate al parapetto del battello, nel
gesto carezzevole della vostra mano che additava Capri, laggiù in fondo, a Casalengo -
lui che non trema, né impallidisce più nel parlarvi.
No, non voglio pensare a lui. Mi sembra d'impazzire. Avete indovinato quanto
ho sofferto in quell'eterna gita di piacere? E anche voi! Ho sentito tremare la vostra
mano mentre vi aiutavo a scendere nella barca. Oh, Ginevra, quando vi siete abbandonata
trasalendo contro il mio petto nel buio della Grotta Azzurra!... Che m'importa di
Casalengo, che m'importa del poi, che ve ne importa anche a voi, poiché le vostre
pupille s'intorbidano e si smarriscono figgendosi nelle mie?...
Sentite, ieri sera son tornato da voi, sapendo che vi avrei trovato quell'altro
e che non mi avreste ricevuto. Gioconda m'ha detto infatti: - La signora non c'è -. E
s'è fatta rossa, vedendomi così pallido.
Avevo visto del lume nel vostro salotto. Mi son fermato nella via sino alle
undici per vederlo ancora e sentirmene ardere gli occhi ed il sangue - sino all'ora in cui
l'altro se n'è andato. Ho cercato di indovinare se l'amate ancora, dal suo passo e
dalla sua andatura. Se avessi visto quel lume nella vostra camera da letto mi sarei
ucciso.
Oggi avete risposto alla domanda insidiosa della vostra amica Gemma con uno
scherzo amaro: - Né mai, né sempre! - Ah, com'era dolorosa la vostra gaiezza in quella
gita di piacere! e quanto avete dovuto amare quell'uomo, per non voler più amare!
Ho sentito parlarne sin laggiù, in capo al mondo, dove l'avventura di Alvise
Casalengo metteva in rivoluzione il quadrato degli ufficiali, e il vostro bel nome correva
come un bacio sulla bocca dei giovani allievi.
Voi mi avete preso sin d'allora, colla curiosità o la vaga gelosia che
m'ispiravate, quando pensavo a voi che non conoscevo, nelle lunghe vigilie di quarto,
sotto le stelle di un altro emisfero. M'avete preso colle vostre bianche mani, dandomi il
ventaglio da tenere, la prima volta che c'incontrammo, vi rammentate? Voi, mondana, non
immaginaste neppure ciò che poteva essere una vostra parola o un semplice gesto pel
giovane selvaggio che vi arrivava da Zanzibar già innamorato e pauroso di voi, quanta
avida e gelosa penetrazione fosse negli occhi che divoravano la vostra bellezza offerta
alteramente, il sorriso noncurante col quale ne accoglievate l'omaggio, l'abbandono ch'era
nel concedervi ai vostri ballerini, il suono della voce con cui parlavate ad Alvise - e in
cui sentivo le dolci parole che gli avrete dette - l'ebbrezza che provai io stesso
la prima volta che mi deste del voi, quasi m'aveste già dato qualcosa della vostra
persona. Vi rammentate? quel giorno che sorprendeste il primo lampo di follìa e
d'adorazione nei miei occhi, e vi faceste di porpora, odorando il mazzo di fiori che vi
aveva mandato Casalengo, per coprirvene il seno?... Così m'avete preso, per sempre!
Non ci credete voi a questa parola? Perché avete chinato il capo quando vi ho confidato
tremando il mio segreto? e avete lasciato la vostra mano nella mia? Quante cose mi avete
dette senza parlare, in quell'angolo del salotto che sono rimasto a guardare dalla strada,
stanotte! Quante cose vi ho detto chinando la fronte sul vostro ritratto che sorride dalla
cornicetta di strass posata sul tavolino! Così mi pareva di veder brillare e
sorridere a quell'altro i vostri occhi in quelle tre ore orribili che ho passato
sotto le vostre finestre. - Quando m'è sembrato di vedere Alvise dietro i vetri, quando
vi siete avvicinata a lui, forse per porgergli una tazza di thè, forse per guardare nella
via, e le vostre due ombre si sono confuse insieme... Mi avete visto voi, Ginevra,
laggiù, sotto la pioggia, coi piedi nel rigagnolo? Vi siete rammentata allora del dubbio
atroce che doveva torturarmi, e che cercate di scacciare, ogni volta, quando posate la
mano sul mio capo, pallida anche voi della mia angoscia, e balbettate: - No!... no,
Riccardo, vi giuro?... -
Vi credo, voglio credervi, ho bisogno di credervi. Perché dunque? perché mi
fate soffrire a questo modo? Perché temete di sciupare il bel sogno d'oro? Oh, se sapeste
come l'ho visto dietro le cortine color di rosa, che sembravano agitarsi e palpitare
allorché siete passata nella vostra camera da letto, e animarsi di un incarnato più vivo
quando vi siete avvicinata allo specchio, e velarsi di un'ombra pudica, dove passava la
carezza dei vostri movimenti! Poi quella stessa ombra ha trasalito quasi, e s'è dileguata
a un tratto dalla finestra del vostro spogliatoio, ed è solo rimasto il chiarore diffuso
del globo roseo che veglia sui vostri sogni dolci e sulle vostre palpebre chiuse. Oh,
struggersi e morire su quelle palpebre chiuse - perché non abbiate a temere il poi
- perché duri sempre il bel sogno d'oro! Sempre! Sempre! Il poi non esiste, quando
si ama. Non esiste il domani, non esiste quel ch'è stato ieri, non penso più a
Casalengo. Penso a voi, e vi amo, e vi voglio, come se tutta la mia vita e l'universo
intero fossero in questo momento e in questo desiderio.
Ahimè, Riccardo, il bel sogno d'oro è finito, da che vi siete svegliato
nelle mie braccia.
Non ve ne voglio, e vi prego di non volermene. Soltanto non ostiniamoci a
chiudere gli occhi, con questo bel sole che deve accompagnarvi nella vostra traversata.
Buon viaggio, amico mio. Vi scrivo seduta a quel medesimo tavolinetto della
veranda su cui posavate la vostra tazza, quando venivate a prendere il thè nel mio
salotto. La signorina del N. 17 continua a strimpellare quel valzer che vi metteva di
cattivo umore - Dolores, mi sembra - e anche a me, quando vi vedevo così uggito.
Ma adesso, non so il perché - forse il bel sole, dopo questa eterna notte in cui m'è
parso d'impazzire, forse il vostro ricordo, come che sia - mi mette in cuore delle ondate
di dolcezza malinconica, specialmente alla ripresa delle prime battute che piacevano anche
a voi, alle volte, nei momenti buoni. Ho ancora dinanzi agli occhi il movimento del vostro
capo che segnava il tempo - il bel tempo e le buone risate che si facevano, allora...
Dove vi raggiungerà questa lettera, a Lima, al Messico? Vorrei che vi
portasse il sorriso che vi piaceva tanto, una volta, e che non aveste a temere di trovarvi
né lagrime né piagnistei, prima d'aprirla. Le arie di salice piangente non mi vanno.
Anzi! M'avete sempre detto che son venuta al mondo ridendo... e civettando. È vero, sì.
Com'ero felice di vedervi fare il muso lungo! M'avete amata pazzamente e lealmente. Che
Dio ve lo renda coll'amore delle altre, di tutte quelle a cui sorriderete e a cui piacerà
il vostro sorriso. M'avete dato il bel fiore azzurro del vostro cuore e della vostra
giovinezza. Quante volte ci siamo inebriati insieme del suo profumo, tenendoci per mano,
fra gente nuova e paesi sconosciuti, sotto le altre stelle a cui davamo dei nomi dolci,
appoggiando al vostro braccio la mia persona stanca e addolorata d'aver tanto amato - e
non voi soltanto. - Vedete che vi dico tutto, e non mi faccio migliore di quel che sono.
Voi mi avete amata forse per questo; e non mi amaste più di quando sentiste ch'ero tutta
vostra, tutta, tutta, Riccardo! senza pensare al poi che doveva venire tosto o
tardi - e ch'è venuto.
Ora ho civettato e riso coi vostri amici, con tutti quelli che mi conducevate
in casa per aiutarvi a passare le sere insieme a me. - Hadow specialmente, che ha i più
bei denti di cristianità e mi faceva perdere la testa colla sua gaiezza. Voi non ve ne
siete neppure accorto, ahimè!
Poi che siete partito ho paura di Hadow, e partirò anch'io, appena mi sarò
rimessa del tutto, per tornare in Europa. Questo cielo implacabilmente azzurro m'acceca e
mi fa male. Gioconda, che sta preparando i bauli, ha trovato degli oggetti che avete
dimenticato qui: una scatola di sigarette, un fazzoletto colla vostra cifra. Vi porterò
ogni cosa a Napoli, dove vi ho conosciuto, e dove ho lasciato degli altri amici come voi.
Ve lo restituirò poi laggiù, il fazzoletto, «terso di lagrime» quando vi rivedrò, se
vi rivedrò, e tornerete da me, come gli altri amici. Adesso mi sento abbastanza forte per
affrontare il viaggio di ritorno. M'avete perdonato le pene e le noie che vi ho date da
Genova sin qua? Come siete stato buono e affettuoso con questa povera ammalata! - malata
di corpo e d'anima. -
Quanto m'avete resa felice, e come m'avete guastata! Ieri sera, quando ci
lasciammo, «ho fatto i capricci» proprio come una bimba viziata. Non me ne do pace, no,
Riccardo! Gioconda pretendeva che avessi la febbre, che dovessi prendere del laudano, del
cloralio, che so io, alle quattro del mattino, figuratevi! Ah, che misera cosa non poter
cambiar d'umore come si cambia di vestito, e avere dei nervi che fanno la festa mentre si
ha voglia di dormire! La buona dormita che vorrei fare sino a Napoli, tutta d'un fiato,
senza sogni e senza sentirmi vivere, e svegliarmi laggiù, nel paese che ride e canta,
senza pensare a quel ch'è stato ieri o a quel che sarà domani! Quando ci rivedremo,
laggiù, se ci rivedremo, voglio che mi troviate savia, grassa e prosperosa come quella
bionda vergine ch'è venuta a far la tisica, qui all'albergo, e la vocina sottile per
cantare le arie del Tosti, svenendosi sul piano. Voglio che torniamo a ridere, senza musi
lunghi, e senza «dolci languori negli occhi desiosi». Oh, no! A che pro adesso? Noi ci
siamo detto tutto. E le parole amare che rimangono all'ultimo... No, Riccardo! quelle no!
Ieri sera eravate nervoso anche voi. La mano che vi ho stesa nel dirvi addio, la mano che
vi parlava altre volte, e vi diceva tante cose, non ha saputo trattenervi.
Ho persa anche la fede in quel povero neo che vi faceva perdere la testa a
voi, una volta, e che non ha saputo dirvi nulla neppure esso, ahimè!
Ecco ora che fo la sfacciata per non sembrarvi noiosa, perché l'ultima
immagine mia, l'ultimo ricordo che vi lascio sia buono, dolce, affettuoso e piacevole.
Sarà forse l'ultima civetteria che rimane, dopo la fine. Vorrei che mi vedeste
ancora come vi son piaciuta, quando vi son piaciuta, senza menzogne, senza reticenze,
senza veli, tutta per voi, anima e corpo, tutta una cosa con voi, come quando si
ama bene e molto - fin sopra ai capelli - direte voi. E la prova è che abbiamo vuotato il
sacco della felicità, voi forse più in fretta, io certo con maggior spensieratezza,
poiché dovevo sapere come vanno a finire queste cose, io che son più vecchia di voi. -
Ho cent'anni da ieri in qua, amico mio. - Ma non mi pento di avervi lasciato sfogliare
pazzamente «le rose del cammino» perché ce n'erano tante, e così belle, che sembrava
non dovessero terminare giammai; e vi ho aiutato anch'io a sfogliarle, sorridendo e
chiudendo gli occhi, come fo adesso, per non sentirne le spine. Se mentre vi scrivo per
l'ultima volta non ho saputo nascondervi tutte quelle che mi son rimaste nelle mani,
perdonatemi. Non è come cavarsi un guanto, capirete! Ma «è pena così dolce» che
tornerei a chiudere gli occhi, e a buttarmi a capofitto nelle spine. - Non con voi,
Riccardo. Con voi il bel sogno d'oro è finito, e bisogna metterci sopra la croce delle
orazioni funebri.
Il salice piangente stavolta son proprio io, la Ginevra vostra di un tempo.
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