da "Racconti e bozzetti" (1880-1922)
Olocausto
Il sermone del Paradiso chiudeva il corso degli esercizi spirituali per le
monache, dopo la sottile analisi delle colpe recondite, la fosca descrizione del gastigo,
e gli anatemi contro il peccato. La voce del predicatore adesso levavasi alta ed esultante
nel sole di Pasqua che scintillava sulle dorature della vòlta. Giù in chiesa una dozzina
di donnicciuole pregavano inginocchiate dinanzi all'altare della Vergine splendente di
ceri. Dietro la grata del coro biancheggiavano confusamente i soggoli e i visi delle suore
impalliditi nella clausura e nella penitenza; luccicavano degli occhi perduti nell'estasi
di visioni luminose. La voce del missionario, grave e calda, scendeva ai toni bassi come
una confidenza e una carezza, saliva trionfante come un inno, modulava i pensieri e le
aspirazioni di tutte quelle vergini tentate e sbigottite dal mondo, andava a ricercare le
più intime fibre di quei cuori chiusi nelle sacre bende e li faceva palpitare avidamente,
aveva tutti gli slanci, le trepidazioni, come dei sospiri d'amore e d'estasi che morivano
ai piedi della croce, e facevano intravvedere quasi un balenìo d'ali iridescenti, dei
brividi di carni rosse di cherubini che passavano fra nuvole trasparenti, in un'aureola,
in ampie distese color di cielo e color d'oro. L'uomo era tutto in quella voce, in
quell'inno, in quella letizia: il viso scorgevasi appena, come trasfigurato, nell'ombra
del pulpito: degli occhi luminosi, ardenti di fede, pieni di visioni celesti, il viso
pallido ed ascetico, immateriale, il segno austero della tonsura sui capelli giovanili, e
la mano bianca ed immacolata che accennava, essa sola in luce, fuori della nicchia scura,
e pareva stendersi verso le peccatrici, per sollevarle al cielo in un amplesso di perdono
e d'affetto, dopo essersi levata minacciosa a fulminare, dopo esser scesa a frugare nei
cuori, dopo aver sentito palpitare la tentazione, e i fremiti e le ribellioni della carne.
Ora quella mano facevasi lieve, morbida e carezzevole, al pari della voce che addolcivasi
in un mormorio affettuoso e in una promessa soave, nella quale passava l'alito di carità,
di pietà immensa, e si umiliava, e implorava, e facevasi complice delle povere anime
turbate e derelitte, per incoraggiarle, sostenerle e attirarle a Dio.
Egli parlava rivolto al coro, quasi attratto anch'esso dalla simpatia ardente
che vi destava, come indovinasse i cuori che rispondevano al suo e gli si aprivano
sitibondi. Ivi pure delle teste tonsurate si chinavano, delle labbra tremavano commosse,
dei veli candidi palpitavano sui seni incontaminati, sfiorati soltanto dai fremiti che
sorgono nelle tenebre, nelle notti irrequiete e paurose.
Il sagrestano s'alzò d'appiè del pulpito e andò ad accendere le altre
candele dell'altare - una gloria di fiammelle tremolanti, delle gocce di splendore nella
mattinata limpida, nella gaiezza primaverile, nel profumo dei fiori, e dell'incenso, nel
suono grave dell'organo che levavasi dalle profondità misteriose del coro - un canto
alato, un inno di grazie e di gloria che irrompeva, e libravasi al cielo trionfante. Fra
le monache raccolte nel coro una voce bella e fresca intuonò il Tantum ergo, una
voce di donna che sembrava cantare la giovinezza, l'amore, il sogno, l'azzurro, i fiori e
la vita in quell'inno religioso, una voce che aveva le lagrime, le estasi, i sorrisi, la
gioventù, la bellezza, e li deponeva trepidante ai piedi dell'altare. Il frate orava in
ginocchio, a capo chino. Sembrava che a quel canto si riverberassero delle sfumature rosee
sulla nuca bianca d'adolescenza casta e prolungata. Egli stesso sembrava quasi immateriale
fra le pieghe molli della tonaca nera che cadeva sui gradini dell'altare, simile a una
veste muliebre. Poi sorse un'irradiazione abbagliante, una gloria di raggi che ecclissò,
nell'aureola dell'ostensorio gemmato, l'uomo segnato dalla stola d'oro, come in una croce,
sulla cotta spumante di trine al pari di un abito da sposa. Tutte le teste si prostrarono
umiliate. Le campane squillarono alte in un coro festante, insieme alle note gravi e
sonore dell'organo che vibravano sotto la vòlta dorata della chiesa, irrompevano dalle
finestre dipinte, pel cielo azzurro, nella primavera gioconda, sotto il sole radioso,
mentre il canto moriva in un'estasi sovrumana.
Suor Crocifissa era rimasta accanto all'organo, colle mani ancora erranti
sulla tastiera, le labbra palpitanti dell'inno d'amore mistico, smarrita nella visione
interiore di quegli splendori che alla sua anima esaltata dalla musica, dalla reclusione,
dal digiuno, dal cilicio e dalla preghiera in comune recavano uno sgomento e una dolcezza
nuova della vita, un turbamento degli echi e degli incitamenti che venivano a morire sotto
le mura del convento colla canzone errante, coi rumori del vicinato, colla carezza della
luna che entrava dall'alta inferriata a posarsi sul lettuccio verginale, e tentava il
mistero pudibondo della cella solitaria, e vi destava le curiosità timide, le fantasie
vagabonde, e gli scrupoli vaghi che annidavansi nell'ombra. Ella sentiva ora una bramosia
calda, un desiderio quasi carnale di mondarsi l'anima e lo spirito di quelle allucinazioni
peccaminose, di difendersi dal mondo, di agguerrirsi contro la tentazione, coll'aiuto di
quell'uomo il quale discerneva la via della colpa coi suoi occhi luminosi e insinuavasi
nei cuori colla voce soave, e scacciava il peccato colla mano fine e bianca, e parlava
dell'amore eterno con accento d'innamorato. - Accostarsi a lui, essere con lui,
confondersi in lui. - Avere in quell'uomo purificato dal sacramento il consigliere, il
conforto, l'amico, il confidente, il perdono, la verità e la luce.
Una suora la toccò dolcemente sull'omero. Ella si scosse e la seguì
vacillante, cogli occhi ardenti di fede, premendo colle mani ceree in croce sul seno il
cuore che sbigottiva di passione, chinando il capo umiliato dall'umana miseria nella benda
che chiudeva le trecce recise e incorniciava il viso di un'altra bianchezza fredda,
sbattuta, stirata d'angoscia, illividita da vigilie tormentose, come la sua povera anima
sbigottita, e chiese alla superiora il permesso di confessarsi al predicatore. L'abbadessa
acconsentì, alzando la mano a benedire, leggendo forse le stesse inquietudini dolorose
che avevano provato la sua giovinezza trascorsa in quelle sopracciglia lunghe e nere, e in
quelle labbra dolorose, soltanto vive nel viso mortificato ed austero.
Lì, attraverso la grata del confessionario che aguzzava il mistero e
rincorava la coscienza trepida, aprirgli il cuore, tutto, coi suoi palpiti, colle sue
angosce, coi suoi pudori. Parlare d'amore con lui, parlargli di colpa e di perdizione,
dirgli quello che non avrebbe osato mormorare sottovoce, da sola ai piedi del crocifisso
muto. Udire il suono delle proprie parole, colla fronte ardente su quella grata di ferro
dietro alla quale lui ascolatava. Intravvedere il riflesso dei propri pensieri, delle
proprie allucinazioni, dei propri terrori su quella testa china. Vedere arrossire e
impallidire del pari quella fronte pura. Aver lì, sotto il proprio anelito concitato,
quel sacerdote, quella coscienza, quell'intelletto, quella carità, quel turbamento,
quella simpatia, quell'uomo, trasfigurato dall'abito sacro, legato dal vingolo
indissolubile, segnato fra gli eletti dalla tonsura religiosa, agitato al par di lei,
sbigottito come lei, palpitante come lei, mentre la sua voce velata giungeva a lei come
attraverso la lapide di una tomba, per consigliare, per sorreggere, per consolare,
sommessa, confidente, nel mistero, nel segreto delizioso della chiesa deserta. E vederlo
trasalire sotto l'angoscia della passione di lei, vederlo arrossire al riverbero della sua
vergogna, vedere il soffio infocato della sua parola che implorava aiuto, scendere sino in
fondo a quell'uomo, e destare in lui le debolezze istesse perché ne sentisse la miseria e
la pietà, e rifiorirgli nei brividi e nei pallori improvvisi della carne. Sentirsi
ricercare nel più profondo del cuore e delle viscere da quella voce dolce e insinuante,
nel più vivo, nel segreto, dove s'annidiavano e rabbrividivano pensieri, e desideri, e
palpiti ch'essa stessa non avrebbe neppur sospettato - la confusione dolce, il rossore
trepido, l'abbandono del pudore violentato, - e darsi tutta a lui come in uno smarrimento
dei sensi. Scorgere in lui, nel consigliere, nel ministro, nel forte, la simpatia di
quelle debolezze, la pietà di quei dolori; sentire nella sua voce commossa l'eco e il
fascino trepido delle medesime inquietudini - con una tenerezza trepida per lui,
maggiormente esposto al pericolo, votato alla lotta col peccato, solo nel mondo, nella
tentazione, senza altra difesa che quell'abito che trasfigurava l'uomo, e il segno
irrevocabile della tonsura come un marchio di castità sui capelli castagni - con un
desiderio materno di stringersi al petto quel viso impallidito e sbattuto dalle medesime
angosce, quel capo tonsurato in cui bollivano le stesse febbri, onde proteggerlo e
difenderlo.
Egli ascoltava, raccolto, colla fronte velata dalla mano scarna, gli occhi
vaghi e senza sguardo. Passavano dei bagliori di tanto in tanto in quegli occhi
pensierosi, dei fantasmi che dileguavano dinanzi alla volontà severa, dei fremiti destati
da quell'alito caldo e profumato di donna, dalla parola commossa, l'ombra di tutte le
debolezze, di tutte le miserie, di tutti gli allettamenti, le effusioni, le dolcezze, gli
struggimenti, le febbri, le estasi. Con lei rifaceva l'aspro cammino che avevano fatto
verso la croce quei piedi delicati. Rivedeva la fanciullezza orfana, l'adolescenza
precocemente mortificata, la gioventù scolorita e trista, l'agonia dello spirito e le
ribellioni della carne. Fuori, il cielo azzurro, l'ampia distesa dei prati, il sole, la
luce, l'aria, lontani, perduti in un mondo al quale non apparteneva più, - e la gran
rinunzia di tutto ciò, per sempre! - E pensava qual eco dovesse avere fra quelle mura
claustrali la voce di un uomo o il pianto di un bambino, il brivido che doveva portarvi il
profumo di un fiore o un raggio di primavera. - Le fronti pallide che trasalivano, gli
occhi spenti che guardavano lontano, le labbra che mormoravano inconsciamente accenti
desolati. E sentiva una grande pietà, una gran tenerezza per quelle povere anime che
tendevano al cielo strette ancora fra i legami della terra, per quei gemiti d'agonia che
si tradivano nella parola esitante e supplichevole, per quelle mani tremanti che si
stendevano verso di lui, che cercavano di aggrapparsi alla vita, al perdono, alla fede,
alla costanza, e che doveva lasciarsi cadere ai piedi, insensibile e inesorabile, che
doveva abbandonare dietro di sé continuando sulla terra il suo pellegrinaggio
d'apostolato, e scuotendo i lembi della sua tonaca perché non si contaminasse a quella
seduzione, - anch'esso solitario, legato soltanto dalla disciplina dell'ordine alla fredda
famiglia religiosa, senza genitori, senza casa, senza patria, passando sulla terra cogli
occhi rivolti al cielo, fallendo se inciampava, se le spine del cammino gli insanguinavano
le carni, o le voci del mondo penetravano nelle sue orecchie, se la vita batteva nelle sue
arterie o tumultuava nel suo cuore, se la tentazione di quell'incognita, il ricordo di
quella sconosciuta che si era data a lui in ispirito, in un momento di mistico abbandono,
veniva a turbare la sua fantasia o a fargli tremare la preghiera sulle labbra.
Un campanello squillò. Il prete cinse la stola fulgida che lo sollevava dalla
terra, e si accinse a comunicarla. Ella genuflessa dinanzi allo sportellino aperto della
grata annichilivasi nella contemplazione degli splendori celesti che apriva la sfera
d'oro. Un languore soave, una calma infinita, una dolcezza ineffabile per tutto l'essere:
la battaglia vinta, il cuore librantesi nella fede, il conforto, la forza, l'ardore di
quell'ostia consacrata che scendeva nel suo petto e si confondeva col suo sangue - l'ostia
che le posava lui stesso sulle labbra trepide, colle mani trepide, mormorando soavemente
le parole sacramentali, chinando gli occhi, dolci, come velati da una visione interiore
nelle occhiaie profonde e misteriose, sul viso sbattuto ed emaciato anch'esso. - Egli la
vide quel momento solo, in quell'abbandono, in quella bramosia arcana, in quell'estasi,
colle pupille smarrite, il viso trasfigurato, in un'irradiazione candida di veli,
sporgendo le labbra avide e innamorate.
Essa chinò il capo, nell'atto di ringraziamento, in un torpore e in uno
sfinimento delizioso di tutta se stessa. La chiesa tornò vuota e silenziosa come una
tomba.
Il missionario era andato via per sempre, continuando il suo viaggio di
carità, lasciando a lei la benedizione di quella pace e di quella fede. Essa lo
accompagnava col pensiero per strade e per paesi sconosciuti; vedeva ancora quegli occhi
dolci, quel viso emaciato, quella tonaca fluttuante dietro la sua persona esile, in altre
chiese risonanti della sua parola, dinanzi ad altre monache palpitanti; lo seguiva nei
rumori che giungevano dalla via, nelle notti stellate, nel cielo che stendevasi al di là
delle inferriate claustrali. Era un grande sconforto, un isolamento più tristo, come un
abbandono. Poi, quando la sua coscienza inquieta cominciò a ridestarsi, pregò una delle
sorelle anziane che aveva sofferto e dubitato come lei d'intercedere presso l'antico
confessore, il quale si rifiutava a confessarla geloso che essa gli avesse preferito una
volta il predicatore di passaggio. Era un vecchio incanutito nel confessionario, con dei
grandi occhi chiari e penetranti, abituati a guardare nelle tenebre dei cuori, e il
pallore delle lunghe confidenze e delle attese pazienti sulle guance incavate.
- No. Io non servo di ripiego... M'ha messo da banda una volta; si cerchi un
altro confessore...
- Ma essa aveva sempre la speranza...
- Speranza si chiama vossignoria. Essa chiamasi suor Crocifissa -.
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