da "Novelle rusticane " (1883)
Malaria
E' vi par di toccarla colle mani - come dalla terra grassa che fumi, là,
dappertutto, torno torno alle montagne che la chiudono, da Agnone al Mongibello
incappucciato di neve - stagnante nella pianura, a guisa dell'afa pesante di luglio. Vi
nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra
navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e
l'estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell'autunno, e il
fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche,
slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle
sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto
pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto. Quando
risuona il campanaccio della mandra, nel gran silenzio, volan via le cutrettole,
silenziose, e il pastore istesso, giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude
un istante le palpebre gonfie, levando il capo all'ombra dei giunchi secchi.
È che la malaria v'entra nelle ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca
per parlare, mentre camminate lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi
sentite mancar le ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all'ambio, colla
testa bassa. Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come
pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si circondano di
aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa gli abitanti per le vie
spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case scalcinate dal sole, tremanti di
febbre sotto il pastrano, e con tutte le coperte del letto sulle spalle.
Laggiù, nella pianura, le case sono rare e di aspetto malinconico, lungo le
strade mangiate dal sole, fra due mucchi di concime fumante, appoggiate alle tettoie
crollanti, dove aspettano coll'occhio spento, legati alla mangiatoia vuota, i cavalli di
ricambio. - O sulla sponda del lago, colla frasca decrepita dell'osteria appesa all'uscio,
le grandi stanzucce vuote, e l'oste che sonnecchia accoccolato sul limitare, colla testa
stretta nel fazzoletto, spiando ad ogni svegliarsi, nella campagna deserta, se arriva un
passeggiero assetato. - Oppure come cassette di legno bianco, impennacchiate da quattro
eucalipti magri e grigi, lungo la ferrovia che taglia in due la pianura come un colpo
d'accetta, dove vola la macchina fischiando al pari di un vento d'autunno, e la notte
corruscano scintille infuocate. - O infine qua e là, sul limite dei poderi segnato da un
pilastrino appena squadrato, coi tetti appuntellati dal di fuori, colle imposte
sconquassate, dinanzi all'aia screpolata, all'ombra delle alte biche di paglia dove
dormono le galline colla testa sotto l'ala, e l'asino lascia cascare il capo, colla bocca
ancora piena di paglia, e il cane si rizza sospettoso, e abbaia roco al sasso che si
stacca dall'intonaco, alla lucertola che striscia, alla foglia che si muove nella campagna
inerte.
La sera, appena cade il sole, si affacciano sull'uscio uomini arsi dal sole,
sotto il cappellaccio di paglia e colle larghe mutande di tela, sbadigliando e stirandosi
le braccia; e donne seminude, colle spalle nere, allattando dei bambini già pallidi e
disfatti, che non si sa come si faranno grandi e neri, e come ruzzeranno sull'erba quando
tornerà l'inverno, e l'aia diverrà verde un'altra volta, e il cielo azzurro e
tutt'intorno la campagna riderà al sole. E non si sa neppure dove stia e perché ci stia
tutta quella gente che alla domenica corre per la messa alle chiesuole solitarie,
circondate dalle siepi dei fichidindia, a dieci miglia in giro, sin dove si ode squillare
la campanella fessa nella pianura che non finisce mai.
Però dov'è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si
coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c'entra il
vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una
spiga matura, perché il Signore ha detto: «Il pane che si mangia bisogna sudarlo». Come
il sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di granoturco, e non
c'è più bisogno di solfato né di decotto d'eucalipto, lo si carica sulla carretta del
fieno, o attraverso il basto dell'asino, o su di una scala, come si può, con un sacco
sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola solitaria, sotto i fichidindia spinosi di
cui nessuno perciò mangia i frutti. Le donne piangono in crocchio, e gli uomini stanno a
guardare, fumando.
Così s'erano portato il camparo di Valsavoia, che si chiamava massaro Croce,
ed erano trent'anni che inghiottiva solfato e decotto d'eucalipto. In primavera stava
meglio, ma d'autunno, come ripassavano le anitre, egli si metteva il fazzoletto in testa,
e non si faceva più vedere sull'uscio che ogni due giorni; tanto che si era ridotto pelle
ed ossa, e aveva una pancia grossa come un tamburo, che lo chiamavano il Rospo
anche pel suo fare rozzo e selvatico, e perché gli erano diventati gli occhi smorti e a
fior di testa. Egli diceva sempre prima di morire: - Non temete, che pei miei figli il
padrone ci penserà! - E con quegli occhiacci attoniti guardava in faccia ad uno ad uno
coloro che gli stavano attorno al letto, l'ultima sera, e gli mettevano la candela sotto
il naso. Lo zio Menico, il capraio, che se ne intendeva, disse che doveva avere il fegato
duro come un sasso e pesante un rotolo e mezzo. Qualcuno aggiungeva pure:
- Adesso se ne impipa! ché s'è ingrassato e fatto ricco a spese del padrone,
e i suoi figli non hanno bisogno di nessuno! Credete che l'abbia preso soltanto pei begli
occhi del padrone tutto quel solfato e tutta quella malaria per trent'anni? -
Compare Carmine, l'oste del lago, aveva persi allo stesso modo i suoi
figliuoli tutt'e cinque, l'un dopo l'altro, tre maschi e due femmine. Pazienza le femmine!
Ma i maschi morivano appunto quando erano grandi, nell'età di guadagnarsi il pane. Oramai
egli lo sapeva; e come le febbri vincevano il ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre
anni, non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon vino
e si metteva ad ammanire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde stuzzicare
l'appetito al malato. Andava apposta colla barca a pescare la mattina, tornava carico di
cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi diceva al figliuolo, ritto dinanzi al
letto e colle lagrime agli occhi: - Tè! mangia! - Il resto lo pigliava Nanni, il
carrettiere per andare a venderlo in città. - Il lago vi dà e il lago vi piglia! - Gli
diceva Nanni, vedendo piangere di nascosto compare Carmine. - Che volete farci, fratel
mio? - Il lago gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono
bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco, maccheroni,
salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come un lupo che abbia fame e
freddo. In tal modo coloro che restavano si consolavano dei morti. Ma a poco a poco
andavano assottigliandosi così che la madre divenne curva come un gancio dai crepacuori,
e il padre che era grosso e grasso, stava sempre sull'uscio, onde non vedere quelle
stanzacce vuote, dove prima cantavano e lavoravano i suoi ragazzi. L'ultimo rimasto non
voleva morire assolutamente, e piangeva e si disperava allorché lo coglieva la febbre, e
persino andò a buttarsi nel lago dalla paura della morte. Ma il padre che sapeva nuotare
lo ripescò, e lo sgridava che quel bagno freddo gli avrebbe fatto tornare la febbre
peggio di prima. - Ah! - singhiozzava il giovanetto colle mani nei capelli, - per me non
c'è più speranza! per me non c'è più speranza! - Tutto sua sorella Agata, che non
voleva morire perché era sposa! - osservava compare Carmine di faccia a sua moglie,
seduta accanto al letto; e lei, che non piangeva più da un pezzo, confermava col capo,
curva al pari di un gancio.
Lei, ridotta a quel modo, e suo marito grasso e grosso avevano il cuoio duro,
e rimasero soli a guardar la casa. La malaria non ce l'ha contro di tutti. Alle volte uno
vi campa cent'anni, come Cirino lo scimunito, il quale non aveva né re né regno, né
arte né parte, né padre né madre, né casa per dormire, né pane da mangiare, e tutti
lo conoscevano a quaranta miglia intorno, siccome andava da una fattoria all'altra,
aiutando a governare i buoi, a trasportare il concime, a scorticare le bestie morte, a
fare gli uffici vili; e pigliava delle pedate e un tozzo di pane; dormiva nei fossati, sul
ciglione dei campi, a ridosso delle siepi, sotto le tettoie degli stallazzi; e viveva di
carità, errando come un cane senza padrone, scamiciato e scalzo, con due lembi di mutande
tenuti insieme da una funicella sulle gambe magre e nere; e andava cantando a squarciagola
sotto il sole che gli martellava sulla testa nuda, giallo come lo zafferano. Egli non
prendeva più né solfato, né medicine, né pigliava le febbri. Cento volte l'avevano
raccolto disteso, quasi fosse morto, attraverso la strada; infine la malaria l'aveva
lasciato, perché non sapeva più che farsene di lui. Dopo che gli aveva mangiato il
cervello e la polpa delle gambe, e gli era entrata tutta nella pancia gonfia come un otre,
l'aveva lasciato contento come una pasqua, a cantare al sole meglio di un grillo. Di
preferenza lo scimunito soleva stare dinanzi lo stallatico di Valsavoia, perché ci
passava della gente, ed egli correva loro dietro per delle miglia, gridando, uuh! uuh!
finché gli buttavano due centesimi. L'oste gli prendeva i centesimi e lo teneva a dormire
sotto la tettoia, sullo strame dei cavalli, che quando si tiravano dei calci, Cirino
correva a svegliare il padrone gridando uuh! e la mattina li strigliava e li governava.
Più tardi era stato attratto dalla ferrovia che costrussero lì vicino. I
vetturali e i viandanti erano diventati più rari sulla strada, e lo scimunito non sapeva
che pensare, guardando in aria delle ore le rondini che volavano, e batteva le palpebre al
sole per capacitarsene. La prima volta, al vedere tutta quella gente insaccata nei
carrozzoni che passavano dalla stazione, parve che indovinasse. E d'allora in poi ogni
giorno aspettava il treno, senza sbagliare di un minuto, quasi avesse l'orologio in testa;
e mentre gli fuggiva dinanzi, gettandogli contro la faccia il fumo e lo strepito, egli si
dava a corrergli dietro, colle braccia in aria, urlando in tuono di collera e di minaccia:
uuh! uuh!...
L'oste, anche lui, ogni volta che da lontano vedeva passare il treno sbuffante
nella malaria, non diceva nulla, ma gli sputava contro il fatto suo scrollando il capo,
davanti alla tettoia deserta e ai boccali vuoti. Prima gli affari andavano così bene che
egli aveva preso quattro mogli, l'una dopo l'altra, tanto che lo chiamavano
«Ammazzamogli» e dicevano che ci aveva fatto il callo, e tirava a pigliarsi la quinta,
se la figlia di massaro Turi Oricchiazza non gli faceva rispondere: - Dio ne liberi!
nemmeno se fosse d'oro, quel cristiano! Ei si mangia il prossimo suo come un coccodrillo!
- Ma non era vero che ci avesse fatto il callo, perché quando gli era morta comare Santa,
ed era la terza, egli sino all'ora di colazione non ci aveva messo un boccone di pane in
bocca, né un sorso d'acqua, e piangeva per davvero dietro il banco dell'osteria. -
Stavolta voglio pigliarmi una che è avvezza alla malaria - aveva detto dopo quel fatto. -
Non voglio più soffrirne di questi dispiaceri -.
Le mogli gliele ammazzava la malaria, ad una ad una, ma lui lo lasciava tal
quale, vecchio e grinzoso, che non avreste immaginato come quell'uomo lì ci avesse anche
lui il suo bravo omicidio sulle spalle, quantunque tirasse a prendere la quarta moglie.
Pure la moglie ogni volta la cercava giovane e appetitosa, ché senza moglie l'osteria non
può andare, e per questo gli avventori s'erano diradati. Ora non restava altri che
compare Mommu, il cantoniere della ferrovia lì vicino, un uomo che non parlava mai, e
veniva a bere il suo bicchiere fra un treno e l'altro, mettendosi a sedere sulla panchetta
accanto all'uscio, colle scarpe in mano, per lasciare riposare i piedi. - Questi qui non
li coglie la malaria! - pensava «Ammazzamogli» senza aprir bocca nemmeno lui, ché se la
malaria li avesse fatti cadere come le mosche non ci sarebbe stato chi facesse andare
quella ferrovia là. Il poveraccio, dacché s'era levato dinanzi agli occhi il solo uomo
che gli avvelenava l'esistenza, non ci aveva più che due nemici al mondo: la ferrovia che
gli rubava gli avventori, e la malaria che gli portava via le mogli. Tutti gli altri nella
pianura, sin dove arrivavano gli occhi, provavano un momento di contentezza, anche se nel
lettuccio ci avevano qualcuno che se ne andava a poco a poco, o se la febbre li abbatteva
sull'uscio, col fazzoletto in testa e il tabarro addosso. Si ricreavano guardando il
seminato che veniva su prosperoso e verde come il velluto, o le biade che ondeggiavano al
par di un mare, e ascoltavano la cantilena lunga dei mietitori, distesi come una fila di
soldati, e in ogni viottolo si udiva la cornamusa, dietro la quale arrivavano dalla
Calabria degli sciami di contadini per la messe, polverosi, curvi sotto la bisaccia
pesante, gli uomini avanti e le donne in coda, zoppicanti e guardando la strada che si
allungava con la faccia arsa e stanca. E sull'orlo di ogni fossato, dietro ogni macchia
d'aloe, nell'ora in cui cala la sera come un velo grigio, fischiava lo zufolo del
guardiano, in mezzo alle spighe mature che tacevano, immobili al cascare del vento, invase
anch'esse dal silenzio della notte. - Ecco! - pensava «Ammazzamogli». - Tutta quella
gente là se fa tanto di non lasciarci la pelle e di tornare a casa, ci torna con dei
denari in tasca -.
Ma lui no! lui non aspettava né la raccolta né altro, e non aveva animo di
cantare. La sera calava tanto triste, nello stallazzo vuoto e nell'osteria buia. A
quell'ora il treno passava da lontano fischiando, e compare Mommu stava accanto al suo
casotto colla bandieruola in mano; ma fin lassù, dopo che il treno era svanito nelle
tenebre, si udiva Cirino lo scimunito che gli correva dietro urlando, uuh!... E
«Ammazzamogli» sulla porta dell'osteria buia e deserta pensava che per quelli lì la
malaria non ci era.
Infine quando non poté pagar più l'affitto dell'osteria e dello stallazzo,
il padrone lo mandò via dopo 57 anni che c'era stato, e «Ammazzamogli» si ridusse a
cercar impiego nella ferrovia anche lui, e a tenere in mano la bandieruola quando passava
il treno.
Allora stanco di correre tutto il giorno su e giù lungo le rotaie, rifinito
dagli anni e dai malanni, vedeva passare due volte al giorno la lunga fila dei carrozzoni
stipati di gente; le allegre brigate di cacciatori che si sparpagliavano per la pianura;
alle volte un contadinello che suonava l'organetto a capo chino, rincantucciato su di una
panchetta di terza classe; le belle signore che affacciavano allo sportello il capo
avvolto nel velo; l'argento e l'acciaio brunito dei sacchi e delle borse da viaggio che
luccicavano sotto i lampioni smerigliati; le alte spalliere imbottite e coperte di trina.
Ah, come si doveva viaggiar bene lì dentro, schiacciando un sonnellino! Sembrava che un
pezzo di città sfilasse lì davanti, colla luminaria delle strade, e le botteghe
sfavillanti. Poi il treno si perdeva nella vasta nebbia della sera, e il poveraccio,
cavandosi un momento le scarpe, seduto sulla panchina, borbottava: - Ah! per questi qui
non c'è proprio la malaria! -
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