da "Vagabondaggio" (1887)
Lacrymae Rerum
Alla finestra dirimpetto, si vedeva sempre il lume che vegliava, la notte -
le lunghe notti piovose d'inverno, e quando la luna di marzo, ancora fredda, imbiancava la
facciata della casa silenziosa. La stanza era gialla, con una meschina tenda di velo
appesa alla finestra. A volte vi apparivano dietro delle ombre nere, che si dileguavano
rapidamente.
Ogni sera, alla stessa ora, si vedeva passare un lume di stanza in stanza,
sino alla camera gialla, dove la luce si avvivava intorno a un letto bianco circondato
dalle stesse ombre premurose. Indi la casa tornava scura e sembrava deserta, nel gran
silenzio della via. Solamente, allorché vi saliva lo schiamazzo notturno di un ubbriaco,
o il passaggio di una carrozza faceva tremare i vetri nelle finestre, una di quelle ombre
tacite e dolorose si affacciava a spiare nella via, e poi si dileguava.
Di giorno tutte quelle finestre chiuse sembravano quasi misteriose. Al balcone
della camera gialla c'era un vaso di garofani che morivano di incuria, spioventi sul muro
umidiccio, agitati dal vento perennemente. Verso il tramonto si fermava dinanzi alla porta
un legnetto, che dei visi pallidi stavano ad attendere ansiosamente dietro i vetri;
s'intravedeva un affaccendarsi per le stanze, e il lume che si accendeva anche di giorno
nella camera solitaria. L'ultima visita che fece il legnetto nella stradicciuola solitaria
fu più breve delle altre. Un vecchio dai capelli bianchi, col piede sul montatoio,
scrollava pietosamente il capo, rispondendo a una giovinetta che le era scesa dietro
supplichevole sino alla porta, colle mani giunte e il viso disfatto; anch'essa diceva di
sì col capo, macchinalmente, cogli occhi sbarrati e quasi pazzi in quelli del vecchio.
Poi quando egli fu partito, si celò il viso nel fazzoletto e rientrò nell'andito.
Era una sera di primavera, tepida e dolce. Dalla strada saliva la canzone
nuova, e il chicchierìo delle ragazze innamorate, nel plenilunio d'aprile. Al primo piano
della casa, dietro una ricca tenda di broccato, si udiva sonare il valzer di Madama Angot.
Più tardi, per la via deserta si udì una squilla, lo scalpiccìo e il
borbottare dei fedeli che accompagnavano il viatico; s'affacciarono i vicini, alcuni
ginocchioni, col lume in mano, e la folla s'ingolfò sotto la porta spalancata a due
battenti, fra due file di lanterne che andavano balzelloni.
Tutte le finestre del quartierino desolato si illuminarono per la prima volta,
dopo tanto tempo, per l'ultima solennità, mentre la folla degli estranei ingombrava la
casa, con un luccichìo tremolante di ceri, nella camera gialla. E dopo che tutti quanti
furono partiti, la casa rimase sempre illuminata e deserta, quasi per una lugubre festa.
Vi si vedeva solo di tanto in tanto il passaggio delle solite ombre che correvano
all'impazzata, in un affaccendarsi disperato.
Nel silenzio alto dell'ora tarda, dietro quei vetri lucenti sulla facciata
bianca di luna, sembravano correre delle invocazioni deliranti, dei singhiozzi soffocati,
delle braccia supplichevoli stese verso il cielo sereno. Un usignolo si mise a cantare
all'improvviso da un terrazzino tutto verde di pianticelle odorose, nel silenzio della
luna alta, dimenticando forse in quell'ora la sua prigione, pei cespugli del bosco nativo.
Di quarto d'ora in quarto d'ora l'orologio squillava lentamente, dall'alto della torre.
La quiete greve della notte cadeva lenta anche su quella casa desolata. Il
lume vegliava sempre tristamente nella camera silenziosa. Solo le ombre desolate si
agitavano più frettolose e più smarrite, e nell'angolo dove ogni sera si ravvivavano i
lumi, luccicavano adesso due fiammelle funebri. Verso la mezzanotte si era udito bussare
alla porta, e per le stanze si era notato un via vai. Poi tutto si era raccolto in
quell'attesa sconfortata. La luna ora lambiva il pavimento, mentre i lumi si spegnevano.
La brina sgocciolava ghiacciata sui vetri. A un tratto, in quella semioscurità, nacque un
correre affannato, un affaccendarsi di gente smarrita, colle mani nei capelli, uno
sbattere d'usci. Poi la camera gialla si illuminò vivamente sulla facciata di tutta la
casa nera.
L'alba imbiancava pallida e piovigginosa; allora si vide per la prima volta,
dopo tanto tempo, la finestra della camera gialla spalancata, e le due candele che
ardevano immobili al capezzale del letto bianco. Più tardi vennero degli estranei che
andavano e venivano per la stanza, indifferenti, col cappello in capo. Uno che fumava un
sigaro alla finestra, si chinò a fiutare il garofano rugginoso che penzolava; aveva una
faccia pallida da malato o da prigioniero, colle gote azzurrognole di una folta barba
accuratamente rasa.
Di poi quella finestra rimase chiusa e buia la notte; e le altre accanto si
aprirono ogni mattina a lasciare entrare l'estate che veniva. E la sera perfino vi si
affacciavano timidamente delle giovanette vestite di nero, che ascoltavano in silenzio la
canzone nuova, il suono del pianoforte di sotto, e il chiacchiericcio dei vicini.
Una mattina di settembre si videro tutte le finestre spalancate, e le stanze
vuote, anche quella gialla, che si era spogliata delle meschine tende bianche, e mostrava
una gran macchia di un giallo più carico al posto del letto che non c'era più. Quelle
povere masserizie erano sgomberate silenziosamente nella notte, coll'umile famigliuola
timida. Una vecchia serva venne a pigliare il vaso di garofani, mentre il padrone di casa
andava guardando per ogni dove coi muratori, gridando e bestemmiando. Egli additava le
macchie della vecchia tappezzeria gialla, e i mattoni rotti del pavimento, sputando pel
disgusto su quei guasti: tanto che la vecchierella se ne andò a capo chino, portandosi
sotto lo scialle il vaso di garofani come una reliquia.
I muratori si misero a scrostare e martellare da per tutto. E da mattina a
sera udivasi la sega del falegname che strideva. Nell'ultima camera avevano alzato un gran
ponte, e attraverso quei trespoli si vedevano pendere i brandelli della carta gialla. Dopo
vennero pittori tappezzieri, e le persone ch'erano sloggiate un mese prima non avrebbero
ritrovato più le memorie delle loro ore d'angoscia in quelle stanze tappezzate di nuovo e
ridenti. Il lume vegliava un'altra volta sino a notte tarda nell'antica camera gialla,
dietro le tende di trina foderate di seta celeste; ma le due ombre che si vedevano sempre
accanto, cercandosi, correndosi dietro, si confondevano con molli ondulazioni, si univano
in una sola; e la mattina si vedeva pure qualche volta una testolina bionda e rosea, che
sollevava la tendina allato a una testa bruna e sorridente. Nella sala attigua, sotto un
grande specchio dorato che rifletteva la luce di una lumiera velata da un paralume color
di rosa, si udivano alle volte le note allegre di un pianoforte, nello scrosciare della
pioggia notturna. Quando giunse la primavera, e l'usignolo tornò a cantare fra il verde
del terrazzino, e le ragazze al lume di luna, i due innamorati presero il volo come due
farfalle, e non si videro più. Al settembre la casa mutò d'aspetto, e nella camera
azzurra venne a stare un gran letto matrimoniale, che tutte le mattine prendeva aria
onestamente dalla finestra spalancata. La casa risonò da mattina a sera del gridìo dei
bimbi, e degli strilli del neonato che la mamma allattava a piè del letto. Il marito
tornava la sera stanco, colla faccia disfatta, e litigava tutto il tempo colla moglie e
coi figliuoli. Poi rimaneva a scartabellare dei conti sulla tavola sparecchiata, sino ad
ora tarda, colla fronte fra le mani, sotto il lume che agonizzava. La mattina usciva a
buon'ora col passo frettoloso. Di tanto in tanto si udiva una scampanellata furiosa in
anticamera, e la madre correva a chiudersi in camera, facendo segno al suo ragazzo di dire
che non c'era, coll'indice sulle labbra. Il bimbo tornava, dopo un lungo ciangottare, a
parlar colla mamma, la quale riaffacciava la testa allo sbattere violento della porta che
faceva tintinnare il campanello, e l'uomo che se ne era andato così in collera, si
fermava in mezzo alla strada, a spiare la finestra chiusa. Alle volte la povera donna era
costretta a mostrarsi, per calmare il visitatore che non voleva sentir ragione, giungendo
le mani in croce, con gran gesti che volevano esser creduti. Tutte le finestre spalancate
lasciavano diffondersi pel vicinato indifferentemente pianti di bimbi e liti di genitori.
Un giorno, verso mezzodì, venne un vecchietto col cappello bisunto e un fascio di
cartacce in mano, seguìto da due uomini malvestiti, i quali si misero a frugare
dappertutto, scrivendo dei fogliacci in fretta. La famigliuola li seguiva di stanza in
stanza tristamente. La roba fu portata via, alcuni giorni dopo, e delle poche masserizie
rimaste caricarono un carro, e se ne andarono dietro a quello, il padre prima,
coll'ombrello sotto il braccio, e la moglie dietro coi bambini in coda e il poppante al
collo, senza neppure voltarsi a guardare quelle finestre che rimasero spalancate notte e
giorno, per mesi e mesi, come se il padrone avesse voluto farne svaporare il tanfo di
miseria che vi era rinchiuso.
Poi vi tornarono dei mobili eleganti, e delle stoffe ricche appese alle
finestre. Non vi si udirono più né strilli né schiamazzi; ma un silenzio beato
dappertutto; i lumi sembrava s'accendessero da sé, fin nella camera azzurra che aveva una
luce velata d'alcova. Non vi si vedeva nessuno; soltanto a notte alta, una testa che
faceva capolino timidamente, e guardava nella via, socchiudendo adagio adagio le persiane;
e la luce che passava fra le stecche ne indorava i capelli biondi, e si stampava sul muro
della casa dirimpetto in strisce lucenti, come un faro. Dopo alcuni minuti un passo
frettoloso e guardingo si udiva nella via, l'ombra della testa bionda appariva rapidamente
dietro le persiane, e la finestra si chiudeva. Una sera, nell'alto silenzio, squillò
all'improvviso una scampanellata minacciosa. Si videro delle ombre correre dietro le tende
all'impazzata, e le stanze illuminarsi rapidamente una dopo l'altra. Indi un silenzio
d'attesa profondo, nel quale risonarono ad un tratto delle strida di terrore e degli urli
di collera.
I vicini corsero alle finestre, col lume in mano. Ma il quartiere era tornato
silenzioso, soffocando i dolori o le collere che racchiudeva fra le sue tappezzerie
sontuose. Le finestre rimasero chiuse per un gran pezzo, e allorché si riaprirono,
entrarono nelle stanze i muratori che demolivano la casa, per far luogo alla strada nuova,
la quale passava di là.
Giorno e notte, dal muro sventrato, si vedevano le stanze nude e abbandonate,
colle pitture del soffitto che pendevano, le gole dei camini squarciate e nere. La carta
gialla ricompariva sotto la tappezzeria lacera, il segno del letto e le macchie scure, i
chiodi sul camino a cui era appeso il grande specchio dorato, il campanello ciondoloni
sull'uscio della scala spalancato. Il vento vi faceva turbinare la polvere, la pioggia le
inondava, il sole vi rideva ancora sulle pitture, gialle, verdi, azzurre; la luna e la
luce dei lampioni vi entravano ogni notte, si posavano sulla macchia unta del letto, sui
fiorami dorati del salottino misterioso, scendendo sempre, di mano in mano che il piccone
dei muratori si mangiava le rovine.
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