da "Vagabondaggio" (1887)
La festa dei morti
Nella collina solitaria, irta di croci sull'occidente imporporato, dove non
odesi mai canto di vendemmia, né belato d'armenti, c'è un'ora di festa, quando l'autunno
muore sulle aiuole infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano
verso il sole che tramonta. Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati di
cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe.
Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c'era una chiesuola
abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori.
Solo un istante i vetri della sua finestra s'accendevano al tramonto, quasi un faro pei
naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca
nell'azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a
picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell'abisso già nero, sprofondavasi una caverna
sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il
riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.
Narrava la leggenda che la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso,
fosse in comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il
dì dei Morti - nell'ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e
giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi
bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio
gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti - un prete
sepolto da cent'anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola
indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura,
colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che
chiamavasi per ciò «la Camera del Prete». Dal largo, verso Agnone, i naviganti
s'additavano l'illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra
riviera.
Tutto l'anno, i pescatori che stavano di giorno al sole sugli scogli
circostanti, colla lenza in mano, non vedevano altro che lo spumeggiare della marea,
quando s'internava muggendo nella «Camera del Prete», e il chiarore verdognolo che ne
usciva colla risacca; ma non osavano gettarvi l'amo. Un palombaro che s'era arrischiato a
penetrarvi, nuotando sott'acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno
che lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il chiarore
ch'era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che s'accendono da sé nei
cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di
sasso tutt'intorno, rosi dall'acqua, e bianchi quali ossa al sole. L'onda che s'ingolfava
gorgogliando nella caverna, scorreva lenta e livida nell'ombra, e non tornava mai
indietro; come non tornò più quel poveretto che s'era strascinato via. L'estate,
nell'ora in cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti,
l'onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava verso le
sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia. - Così quel prete, un
sant'uomo, aveva perso l'anima e la ragione dietro i fantasmi delle terrene voluttà, il
giorno in cui Lei - la tentazione - era venuta a confessargli il suo peccato, nella
chiesetta solitaria ridente al sole di Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il
riflesso dei vetri scintillanti accendeva delle fiamme impure. Da cent'anni le sue ossa,
consunte dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata. Ivi
non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né il canto
bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei fanciulli
abbandonati. La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia, e andava a
posarsi, uno dopo l'altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei cataletti, sino in
fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un istante delle figure strane.
L'alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al fuggire delle ombre sembrava far correre
un ghigno sinistro sulle mascelle sdentate. Il giorno lungo della canicola indugiava sotto
le arcate verdognole, con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all'immobilità
di quei cadaveri.
Erano defunti d'ogni età e d'ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se
fossero state rase ieri l'ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie
irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo
spiraglio aperto nell'azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i
gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i
riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel
sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il
vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d'angoscia su caste membra
amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
Poscia, nell'ore in cui il sole moriva sull'orlo frastagliato dello spiraglio,
il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le
occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato
fino alla sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci
recitate all'altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della
chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide. Le raffiche
delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un
pensiero per coloro che in quell'ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli
irti d'orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne
che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle
lagrime che videro forse, nell'ora torbida dell'agonia, e che bagnarono quegli stessi
fiori che adesso vanno da una bara all'altra, come li porta il vento. - Così le lagrime
si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che composero nella
bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche che pareva non dovessero
accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a balbettare i loro nomi ai bimbi
inginocchiati ai piedi dello stesso letto, colle piccole mani in croce, perché i buoni
morti lascino dei buoni regali ai loro piccoli parenti che non conobbero. - Tanto tempo è
passato, insieme alle bufere della notte, e al soffio d'aprile, colle ore che suonano
uniformi e impassibili anch'esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito!
A quell'ora tutti gli scheletri si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate,
coi legacci cascanti sulle tibie spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote,
e scendono in silenzio nella «Camera del Prete», recando nelle falangi scricchiolanti le
ghirlande avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.
Più nulla! più nulla! - Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio
nudo. - Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde
portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano
durare eterni? - E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in
mano a quell'altro l'arma omicida. - Né le lagrime che si piangevano attorno a quel
letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall'agonia. - Né le ansie
delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell'attesa già disperata. - Né
le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e i dolori di quella
maternità. - E neppure le lotte in cui l'uno si è logorato. - Né le speranze che hanno
accompagnato l'altro sin là. - Né i fiori del campo per cui si è tanto sudato. - Né i
libri sui quali si è vissuto tanta e tanta vita. - Né la bestemmia del marinaio che
stringe ancora le alghe secche nelle falangi contratte. - Né la preghiera del prete che
implora il perdono dei falli umani. - E non l'azzurro profondo del cielo tempestato di
stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. - L'onda che s'ingolfa
gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola del Prete»
si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa.
Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e
scoperchiano la sepoltura. La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro
e limpido, e l'argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l'enorme
pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran
numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che
avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall'incantesimo. Il mare
spumeggiante sotto la catena dell'argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e
scancellò per sempre la leggenda della «Camera del Prete».
Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga
processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che
parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne
cavarono tre numeri pel lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo.
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