2.3.1 Intenzionalità e comunicazione

Il problema del ruolo dell'intenzionalità nella comunicazione è stato ed è spesso dibattuto essenzialmente per decidere se l'intenzionalità sia o meno un requisito essenziale della definizione della comunicazione. Tra i sostenitori della prima tesi troviamo Blakar [1980], secondo il quale la comunicazione si distingue da un semplice flusso di informazioni perché l'emittente ha l'intenzione di rendere noto qualcosa a qualcuno. Tra i sostenitori della seconda tesi, Watzlawick e altri [1967], secondo i quali la comunicazione è qualsiasi comportamento che accada in presenza di un'altra persona: non occorre né intenzione né consapevolezza e perciò in ogni sistema di interazione tra presenti, non esiste la possibilità di non comunicare. Che se ne rendano conto o no infatti, i partecipanti si influenzano tra loro inviando informazioni tramite il loro comportamento.

A partire da simili opposte posizioni, il dibattito su intenzionalità e comunicazione si è sviluppato nella direzione di valorizzare dell'intenzionalità non tanto il fatto di esserci come fenomeno mentale del singolo individuo, quanto la sua imputazione (corretta o meno) agli altri durante il processo della comunicazione [Ricci Bitti e Zani 1983, 34 ss.]. Così ciò che distingue una comunicazione da qualcosa che non lo è, non è il fatto che si possa direttamente verificare se esistono nelle menti altrui le intenzioni corrispondenti (cosa impossibile), ma solo che queste possano essere presupposte (imputate) dai partecipanti. Naturalmente questo non vuol dire che gli stati mentali dei partecipanti siano irrilevanti, poiché ciò che si realizza poi di fatto come comunicazione dipenderà dal modo in cui le imputazioni sulle intenzioni altrui sono state effettuate, in particolare se in modo corretto o scorretto [1] .

Dunque, dato che da sorgente a destinatario non può esserci trasmissione di informazione (nel senso di passare al secondo quello che è nella prima cosicché la prima non abbia più ciò che ha passato) e dato che ciò che conta è come imputano sorgente e destinatario, allora che cosa è la comunicazione tra uomini? E che posto ha in essa l'intenzionalità di sorgente e destinatario? Che rapporto c'è tra intenzionalità e effetti della comunicazione? Ci può essere comunicazione senza intenzione?

Alla prima domanda va risposto che la comunicazione è una socializzazione delle aspettative dei comunicanti, una <<attualizzazione comune di senso>> [Habermas e Luhmann 1973, 26 ss.]. "Socializzazione" significa che a partire dalle proprie aspettative sulle aspettative dell'altro si modificano (o meno) le proprie aspettative sulle aspettative dell'altro per il futuro, ovvero per le prossime interazioni, a seconda di come si è internamente disposti (ad es. se con aspettative cognitive o normative, cioè disposti a mutare le aspettative o no). Se questo viene fatto tramite atti del comunicare, allora avviene una comunicazione (ma potrebbe avvenire, e di fatto avviene, anche tramite semplice percezione dell'altro). Questo è anche il modo in cui funziona il condizionamento sociale, che è un fatto emergente, non il prodotto deterministico della volontà di caste o organizzazioni, che sono già condizionate a loro volta (anche se questo non esclude che, ad esempio, le organizzazioni siano capaci di condizionamenti, ma solo a partire dalle possibilità aperte dal condizionamento sociale primario).

La risposta alla seconda domanda è che il posto dell'intenzionalità della sorgente è quello di aspettarsi le aspettative del destinatario, e in base a questa sua (della sorgente) aspettativa, costruire il messaggio. L'intenzionalità del destinatario gioca il ruolo complementare, ovvero si aspetta le aspettative della sorgente, e in base a questa sua (del destinatario) aspettativa, decodifica il messaggio [2] . Rommetveit [1979] definisce questi due fenomeni rispettivamente come decodifica anticipatoria (la sorgente codifica il messaggio tenendo conto di come il destinatario presumibilmente lo decodificherà) e decodifica orientata verso il parlante (il destinatario decodifica il messaggio tenendo conto di come la sorgente lo ha presumibilmente codificato), e parla della comunicazione come inscritta in una "architettura dell'intersoggettività", che implica l'esistenza di condizioni dell'intersoggettività che devono essere date normalmente per scontate, cioè non possono essere prodotte dalla comunicazione. "Aspettative sulle aspettative dell'altro" è quindi un modo in cui si può intendere l'intenzionalità in un dominio sociale, ovvero in un rapporto ego-alter.

La terza risposta è che intenzionalità ed effetti della comunicazione non sono collegati in maniera semplice, ma non sono nemmeno completamente indipendenti. L'intenzionalità serve proprio a ridurre l'incertezza della sorgente nella composizione del messaggio (ovvero rispondere alla domanda: quale messaggio scegliere tra i vari possibili, tenuto conto del contesto e dell'interlocutore?) e l'incertezza del destinatario nella lettura del messaggio (quale significato attribuire tra i vari possibili, tenuto conto del contesto e dell'interlocutore?). L'intenzionalità quindi, rispetto a una mera scelta casuale, aumenta le chances sia della sorgente di costruire un messaggio sensato (ed eventualmente efficace) per il destinatario, sia del destinatario di comprendere il significato del messaggio nello stesso modo in cui era stato inteso dalla sorgente, ricostruendo dentro di sé un'ipotesi dell'intenzionalità della sorgente, che si può verificare operativamente nel prosieguo dell'interazione [3] .

All'ultima domanda infine (se ci può essere comunicazione senza intenzione) rispondiamo che non è direttamente una questione di esistenza di intenzione, ma di sua corretta imputazione. Bisogna prima di tutto far notare, non solo che il destinatario non può conoscere direttamente l'intenzione (le aspettative) della sorgente ma le deve ipotizzare (o dare per scontate), ma anche che deve decidere da sé prima di tutto se imputare o meno alla sorgente l'intenzionalità di comunicare (cioè se ciò che lui percepisce è un'atto del comunicare). Se gliela imputa, la considererà come un partner valido della comunicazione, altrimenti la considererà un oggetto di esperienza.
Tutto ciò indipendentemente da quello che la sorgente pensi di sé (che però è importante per il prosieguo dell'interazione), dal fatto che essa sia percepibile come corpo dal destinatario (altrimenti non si potrebbe capire in che senso ad esempio un libro, una telefonata o un fax sono una comunicazione) e persino dal fatto che si possa provare che tale sorgente esista, come nel caso esemplare della comunicazione con Dio [4] . Anche in tale caso limite in cui la sorgente non possa essere direttamente percepita, avremo una perturbazione del medium del destinatario (un evento interpretato come un "segno" o semplicemente la comunicazione di un tale evento da parte di qualcuno, comunicazione nella quale "si ha fede") che viene imputata da quest'ultimo a una sorgente (Dio), perturbazione che verrà decodificata e letta dal destinatario secondo i suoi codici [5] . La diminuzione moderna della capacità di comunicazione con interlocutori non umani (gli animali, Dio, gli spiriti, i morti, la natura stessa), vale a dire la tendenza ad assumere come partners validi della comunicazione solo gli esseri umani vivi, è dovuta al fatto che, per fattori culturali, nelle società attuali di preferenza non si imputa più a esseri non umani l'intenzionalità di comunicare (la competenza comunicativa) [6] . Infatti, in generale, con un concetto di comunicazione che prevede, perché essa sia tale, che il destinatario imputi intenzionalità alla sorgente, non è possibile considerare come comunicazioni quelle perturbazioni dei media percettivi che il destinatario non imputa come volute dalla sorgente. Le perturbazioni imputate come non volute, cioè come non prodotte da un atto della comunicazione, vengono fatte cadere da ego non nel campo della comunicazione ma in quello dell'esperienza (sono considerate "fatti").


[1] E' importante rimarcare che qui "corretto o scorretto" non è da intendersi come corrispondente o meno a una realtà esterna oggettiva per tutti gli osservatori, ma solo come conforme o meno alla aspettativa del potenziale interlocutore. Torna Su
[2] Tutto questo non significa affatto che si cerchi necessariamente di soddisfare ciò che ci si aspetta siano le aspettative altrui, ma solo che ci si basa su questa (lo ripetiamo, propria) aspettativa per decidere se soddisfarle o meno. Torna Su
[3] Il rovescio della medaglia di questo potenziale dell'intenzionalità è costituito dal rischio di amplificazione inavvertita di un errore di interpretazione reciproca. Questo fenomeno di fraintendimento è un'esperienza quotidiana abbastanza comune. Lo si usa molto tra l'altro nel teatro e nel cinema comico nonché nelle barzellette. Torna Su
[4] E tutto questo vale, mutatis mutandis, anche per la sorgente nei confronti del destinatario. Torna Su
[5] Questo meccanismo non vale solo per la comunicazione religiosamente fondata, ma in generale per tutta la comunicazione. La comunicazione non può infatti funzionare (produrre effetti) senza una quota di fiducia in ciò che dice l'altro (e ciò vale non solo per l' "amichevole confidenza", ma anche ad esempio per la fiducia nella verità delle minacce che l'altro ci fa) e per noi stessi vale il fatto che una grandissima quantità delle cose che sappiamo è basata sulla fiducia e non sulla sperimentazione diretta: d'altronde fiducia e sperimentazione sono due forme di conoscenza che di norma funzionano in coppia, amplificandosi o inibendosi a vicenda. La religione si distingue solo perché tenta un "eccesso" (inflazione) di ricorso alla fiducia incondizionata come base per far accettare le proprie comunicazioni ("parola di Dio"). Torna Su
[6] Ammettiamo che ci sono senz'altro eccezioni (ad es. gli animali domestici), ma di scarso significato strutturale. Torna Su