"La Secchia Rapita" di Alessandro Tassoni

Canto 11


ARGOMENTO

Il conte di Culagna entra in furore,
e sfida a duellar Titta prigione.
Ma, sciolto che lo vede, ci perde il core,
e cerca di fuggir dal paragone.
Vi si conduce al fine: e perditore
un nastro rosso il fa de la tenzone.
De la vittoria sua spande la nuova
Titta, e pentito poi se ne ritrova.

1

Poiché la fama al fin con mille prove
mostrò l'infamie sue scoperte al conte,
e gli fece veder come si trove
con la corona d'Atteone in fronte,
contra la moglie irato in forme nuove
si volse a vendicar l'ingiurie e l'onte;
e per farla morir con vituperio
l'accusò di veleno e d'adulterio. 

2

Per tutto il campo allor si fe' palese
quel ch'era prima occulto o almeno in forse.
La donna francamente si difese,
e le querele in lui tutte ritorse;
e fe' rider ognun quando s'intese
com'ella seppe al suo periglio opporse,
e d'inganno pagar l'ingannatore,
ch'ebbe poscia a cacar l'anima e 'l core. 

3

Il conte, che si vede andar fallato
contra la moglie il suo primier disegno,
pensa di vendicarsi in altro lato,
e volge contra Titta ogni suo sdegno.
sa che per ritrovarsi imprigionato,
per forza ha da tener le mani a segno.
lo chiama traditor solennemente
e aggiugne che se 'l nega, ei se ne mente; 

4

e che gliel proverà con lancia e spada
in chiuso campo a publico duello;
e perché la disfida attorno vada,
la fa stampar distinta in un cartello;
e vantasi d'aver trovata strada
da non potere in qual si voglia appello
d'abbattimento o giusto o temerario
sottoporsi al mentir de l'avversario

5

Ma gli amici di Titta avendo intesa
la disfida, s'uniro in suo favore;
e feron sí che la sua causa presa
e terminata fu senza rigore:
anzi, perch'ei serviva in quella impresa
contra Bologna e 'l Papa suo signore,
fu scarcerato come ghibellino
senza fargli pagar pur un quattrino.

6

Sciolto ch'ei fu, rivolse ogni pensiero
a la battaglia pronto e risoluto;
preparò l'armi e preparò il destriero,
né consiglio aspettò, né chiese aiuto.
Poco avanti da Roma un cavaliero
nel campo modanese era venuto,
di casa Toscanella, Attilio detto:
e fu da lui per suo padrino eletto. 

7

Questi era un tal piccin pronto ed accorto,
inventor di facezie e astuto tanto,
che non fu mai Giudeo sí scaltro e scorto
che non perdesse in paragone il vanto.
Uccellava i poeti, e per diporto
spesso n'avea qualche adunata a cantO;
ma con modi sí lesti e sí faceti,
che tutti si partían contenti e lieti. 

8

In armi non avea fatto gran cose,
però ch'in Roma allor si costumava
fare a le pugna, e certe bellicose
genti il governator le castigava.
ma egli ebbe un cor d'Orlando, e si dispose
d'ire a la guerra, perché dubitava
de' birri, avendo in certo suo accidente
scardassata la tigna a un insolente

9

Il conte allor che vide al vento sparsi
tutti i disegni e 'l suo pensier fallace,
cominciò con gli amici a consigliarsi
se v'era modo alcun di far la pace.
vorrebbe aver taciuto, e ritrovarsi
fuor de la perigliosa impresa audace;
ché sente il cor che teme e si ritira,
e manca l'ardimento in mezzo a l'ira. 

10

Ma il conte di Miceno e 'l Potta stesso
e Gherardo e Manfredi e 'l buon Roldano
gli furo intorno, e 'l vituperio espresso,
dov'ei cadea, gli fêr distinto e piano.
indi promiser tutti essergli appresso,
e la pugna spartir di propria mano;
ond'ei riprese core, e per padrino
s'elesse il conte dI San Valentino. 

11

Questi, che ne la scherma avea grand'arte,
subito gl'insegnò colpi maestri
da ferire il nemico in ogni parte,
e modi da parar securi e destri;
indi rivide l'armi a parte a parte
del cavaliero e i guernimenti equestri.
ma un petto, senza cor, che l'aria teme,
non l'armerían cento arsenali insieme. 

12

La notte a la battaglia precedente,
che fra i due cavalier seguir dovea,
volgendo il conte l'affannata mente
al periglio mortal ch'egli correa,
ricominciò a pensar tutto dolente
di nol voler tentar, s'egli potea;
e innanzi l'alba i suoi chiamò fremendo,
un gran dolor di ventre aver fingendo. 

13

Il padrin, che dormía poco lontano,
tutto confuso si destò a quell'atto;
con panni caldi e una lucerna in mano
Bertoccio suo scudier v'accorse ratto:
e 'l barbier de la villa e 'l sagrestano
di Sant'Ambrogio v'arrivaro a un tratto;
e 'l provido barbier, ch'intese il male,
gli fe' subitamente un serviziale. 

14

Ed egli per non dar di sé sospetto,
cheto se 'l prese e si mostrò contento;
ma fingendo che poi non fésse effetto,
né prendesse il dolore alleggiamento,
chiamò gli amici e i servidori al letto,
e disse che volea far testamento;
onde mandò per Mortalin notaio,
che venne con la carta e 'l calamaio. 

15

La prima cosa lasciò l'alma a Dio,
e lasciò il corpo a quell'eccelsa terra
dov'era nato, e per legato pio
danari in bianco e quantità di terra.
indi tratto da folle e van desio
a dispensar gli arredi suoi da guerra,
lasciò la lancia al Re di Tartaria
e lo scudo al Soldan de la Soria;

16

la spada a Federico Imperatore
ed al popol romano il corsaletto;
a la reina del mar d'Adria, onore
del secol nostro, un guanto e un braccialetto;
l'altro lasciollo a la città del Fiore,
e al greco Imperator lasciò l'elmetto:
ma il cimier, che portar solea in battaglia,
ricadeva al signor di Cornovaglia.

17

Lasciò l'onore a la città del Potta,
poi fe' del resto il suo padrino erede.
D'intorno al letto suo s'era ridotta
gran turba intanto, chi a seder, chi in piede;
fra' quali stando il buon Roldano allotta,
che non prestava a le sue ciance fede,
gli dicea a l'orecchia tratto tratto:
- Conte, tu sei vituperato a fatto.

18

Non vedi che costor t'han conosciuto
che per tema tu fai de l'ammalato?
Salta su presto, e non far piú rifiuto;
ché tu svergogni tutto il parentato.
Noi spartiremo e ti daremo aiuto
subito che l'assalto è incominciato. -
Il conte si ristrigne e si lamenta,
e si vorría levar, ma non s'attenta.

19

Di tenda in tenda in tanto era volata
la fama di quell'atto, e ognun ridea.
Renoppia, che non era ancor levata,
un paggio gli mandò che gli dicea
che stava per servirlo apparecchiata,
e accompagnarlo in campo; e ben credea
ch'egli si porterebbe in tal maniera
ch'ella n'avrebbe poscia a gire altiera. 

20

Quest'ambasciata gli trafisse il core
e destò la vergogna addormentata:
e cominciaro in lui viltà ed onore
a combatter la mente innamorata.
S'alza a sedere, e dice che 'l dolore
mitigato ha il favor de la sua amata,
e s'adatta a vestir, ma la viltade
finge che 'l dolor torni, e giú ricade. 

21

E la pittrice già de l'oriente
pennelleggiando il ciel de' suoi colori
abbelliva le strade ad dí nascente,
e Flora le spargea di vaghi fiori;
quindi usciva del sole il carro ardente,
e di raggi e di luce e di splendori
vestiva l'aria, il mar, la piaggia e 'l monte,
e la notte cadea da l'orizonte: 

22

quando comparve il conte di Miceno
col medico Cavalca in compagnia.
Il medico a l'orina in un baleno
conobbe il mal che l'infelice avía;
e fattosi recare un fiasco pieno
di vecchia e dilicata malvagía,
gli ne fece assaggiar tre gran bicchieri;
ed ei pronto gli bebbe e volontieri. 

23

Cominciò il vino a lavorar pian piano,
e a riscaldar il cor timido e vile,
e a mandar al cervel piú di lontano
stupido e incerto il suo vapor sottile:
onde il conte gridò ch'era già sano,
che 'l dolor gli avea tolto il vin gentile,
e balzando del letto i panni chiese,
e tosto si vestí l'usato arnese. 

24

Indi tratto fremendo il brando fuora,
tagliò Zefiro in pezzi e l'aura estiva,
e se non era il suo padrino, allora
a la battaglia senz'altr'armi ei giva.
L'almo liquor che i timidi rincora
puote assai piú che la virtú nativa;
ben profetò di lui l'antica gente
ch'era sovra ogni re forte e possente. 

25

Or mentre s'arma, ecco Renoppia viene
e 'l coraggio gli adoppia e la baldanza,
che con dolci parole e luci piene
d'amor gli fa d'accompagnarlo instanza.
Egli che 'l foco acceso ha ne le vene,
commosso da desio fuor di speranza
e da furor di vino, ambo i ginocchi
a terra inchina; e dice a que' begli occhi: 

26

- O del cielo d'Amor ridenti stelle
onde de la mia vita il corso pende;
d'amorosa fortuna ardenti e belle
ruote dove mia sorte or sale, or scende;
imagini del sol , vive facelle
di quel foco gentil che l'alme incende,
il cui raggio, il cui lampo, il cui splendore
ogn'intelletto abbaglia, arde ogni core: 

27

occhi de l'alma mia, pupille amate,
lucidi specchi ove beltà vagheggia
sé stessa; archi celesti ond'infocate
quadrella aventa Amor ch'in voi guerreggia;
de le vostre sembianze onde il fregiate,
cosí splende il mio cor, cosí lampeggia,
ch'ei non invidia al ciel le stelle sue,
benché sian tante, e voi non piú che due. 

28

Come a i raggi del sole arde d'amore
la terra e spiega la purpurea veste;
cosí a i vostri be' raggi arde il mio core,
e di vaghi pensier tutto si veste.
Quest'alma si solleva al suo fattore,
e ammira in voi di quella man celeste
le meraviglie, e dal mortal si svelle,
o degli occhi del ciel luci piú belle. 

29

Rimiratemi voi con lieto ciglio
del cieco viver mio lumi fidati,
siate voi testimoni al mio periglio,
e scorgetemi voi co' guardi amati;
ché fia vana ogni forza, ogni consiglio:
cadrà l'empio e fellon ne' propri aguati,
e non che di pugnar con lui mi caglia,
ma sfiderò l'inferno anco a battaglia. 

30

Cosí detto risorge, e 'l destrier chiede
tutto foco ne gli atti e ne' sembianti;
e fa stupire ognun che l'ode e vede
sí diverso da quel ch'egli era innanti.
Ma Titta armato già dal capo al piede
con armi e piume nere e neri ammanti
in campo era comparso, accompagnato
dal solo suo padrin senz'altri a lato.

31

La desïosa turba intenta aspetta
che venga il conte, e mormorando freme;
s'empiono i palchi intorno, e folta e stretta
corona siede in su le sbarre estreme;
e da i casi seguiti omai sospetta
che 'l conte ceda, e la sua fama preme.
Quando a un tempo s'udîr trombe diverse
da quella parte, e 'l padiglion s'aperse. 

32

Ed ecco, da cinquanta accompagnato
de' primi de l'esercito possente,
il conte comparir ne lo steccato
con sopravesta bianca e rilucente,
sopra un caval pomposamente armato
che generato par di foco ardente:
sbuffa, anitrisce, il fren morde, e la terra
zappa col piede e fa col vento guerra. 

33

Disarmata ha la fronte, armato il petto,
nude le mani, e sopra un bianco ubino
gli va innanzi Renoppia, e 'l ricco elmetto
gli porta; e 'l buon Gherardo il brando fino,
il brando famosissimo e perfetto
di Don Chisotto; e 'l fodro ha il suo padrino.
Ha Voluce lo scudo, e seco a canto
Roldan la lancia, e Giacopino un guanto; 

34

l'altro ha Bertoldo, e l'uno e l'altro sprone
gli portano Lanfranco e Galeotto,
e 'l conte Alberto in cima d'un bastone
la cuffia da infodrar l'elmo di sotto:
ma dietro a tutti fuor del padiglione
l'interprete Zannin venía di trotto
sopra d'un asinel, portando in fretta
l'orinale, una ombrella e una scopetta

35

Armato il cavalier di tutto punto
e compartito il sole a i combattenti,
diede il segno la tromba, e tutto a un punto
si mossero i destrier come due venti.
Fu il cavalier roman nel petto giunto,
ma l'armi sue temprate e rilucenti
ressero, e 'l conte a quell'incontro strano
la lancia si lasciò correr per mano. 

36

Ei fu colto da Titta a la gorgiera
tra il confin de lo scudo e de l'elmetto
d'una percossa sí possente e fiera
che gli fece inarcar la fronte e 'l petto.
Si schiodò la goletta, e la visiera
s'aperse, e diede lampi il corsaletto;
volaro i tronchi al ciel de l'asta rotta,
e perdé staffe e briglia il conte allotta. 

37

Caduta la visiera il conte mira,
e vede rosseggiar la sopravesta:
e - Oimé son morto, - e' grida; e 'l guardo gira
a gli scudieri suoi con faccia mesta;
- Aita, che già 'l cor l'anima spira,
replica in voce fioca, aita presta. -
Accorrono a quel suon cento persone,
e mezzo morto il cavano d'arcione. 

38

Il portano a la tenda, e sopra un letto
gli cominciano l'armi e i panni a sciorre,
il chirurgo cavar gli fa l'elmetto,
e 'l prete a confessarlo in fretta corre.
Tutti gli amici suoi morto in effetto
il tengono: e ciascun parla e discorre
che non era da porre a tal cimento
un uom privo di forza e d'ardimento. 

39

Ma Titta poi che l'avversario vede
per morto riportar ne le sue tende,
passeggia il campo a suon di trombe, e riede
dove la parte sua lieta l'attende;
fastoso è sí che di valor non cede
a Marte stesso; e de l'arcion discende,
e scrive pria che disarmar la chioma,
e spedisce un corriero in fretta a Roma.
 

40

Scrive ch'un cavalier d'alto valore
di quelle parti, uom tanto principale
che forse non ve n'era altro maggiore
né ch'a lui fosse di possanza eguale,
avuto avea di provocarlo core,
e di prender con lui pugna mortale;
e ch'esso de gli eserciti in cospetto
gli avea passato al primo incontro il petto. 

41

Spedí il corriero a Gaspar Salviani>
decan de l'Accademia de' Mancini,
che ne desse l'aviso a i Frangipani
signor di Nemi e a i loro amici Ursini,
e al Cavalier del Pozzo e a i due romani
famosi ingegni, il Cesi e 'l Cesarini,
et al non men di lor dotto e cortese
Sforza gentil Pallavicin Marchese

42

che tutti disser poi ch'egli era matto,
quando s'intese ciò ch'era seguito.
Intanto avean spogliato il conte, a fatto
dal terror de la morte instupidito;
e gían cercando due chirurghi a un tratto
il colpo onde dicea d'esser ferito:
né ritrovando mai rotta la pelle
ricominciâr le risa e le novelle. 

43

Il conte dicea lor: - Mirate bene,
perché la sopravesta è insanguinata;
e non dite cosí per darmi spene,
ché già l'anima mia sta preparata:
venga la sopravesta. - E quella viene,
né san cosa trovar di che segnata
sia, né ch'a sangue assomigliar si possa,
eccetto un nastro o una fetuccia rossa 

44

ch'allacciava da collo, e sciolta s'era
e pendea giú per fino a la cintura.
Conobber tutti allor distinta e vera
la ferita del conte e la paura.
Egli accortosi al fin di che maniera
s'era abbagliato, l'ha per sua ventura,
e ne ringrazia Dio levando al cielo
ambe le mani e 'l cor con puro zelo. 

45

E a Titta e a la moglier sua perdonando
si scorda i falli lor sí gravi e tanti,
e fa voto d'andar pellegrinando
a Roma a visitar que' luoghi santi,
e dare in tanto a la milizia bando
per meglio prepararsi a nuovi vanti.
Cosí il monton che cozza, si ritira
e torna poi con maggior colpo ed ira. 

46

Ma come a Roma poi gisse e trattasse
in camera col Papa a grand'onore,
e l'alloggio per forza ivi occupasse
ne l'albergo real d'un mio signore,
e quindi poscia in Bulgaria levasse
co la possanza sua, col suo valore
a quel becco del Turco un nuovo stato,
fia da piú degno stil forse cantato: 

47

ché versi non ho io tanto sonori
che bastino a cantar sí belle cose.
E torno a Titta, che già uscendo fuori,
poi che a la tenda sua l'armi depose,
pel campo se ne gía sbuffando orrori
con sembianze superbe e dispettose;
quando accertato fu che la ferita
del conte nel cercar s'era smarrita. 

48

Qual leggiero pallon di vento pregno
per le strade del ciel sublime alzato,
s'incontra ferro acuto o acuto legno,
si vede ricader vizzo e sfiatato;
tale il Romano altier, che fea disegno
d'essersi con quel colpo immortalato,
sgonfiossi a quell'aviso, e di cordoglio
parve un topo caduto in mezzo a l'oglio. 

49

Ma il padrin ch'era accorto, il confortava
e dicea: - Titta mio, non dubitare:
non è bravo oggidí se non chi brava,
e, come diciam noi, chi sa sfiondare.
Se per vinto e per morto or or si dava
il conte e al padiglion si fea portare:
perché non possiam noi per tale ancora
nominarlo a le genti in campo e fuora? 

50

A te deve bastar ch'egli sia vinto
al primo colpo tuo; ché s'ei non muore,
non fu il tuo fin ch'ei rimanesse estinto,
ma sol di rimaner tu vincitore.
Lascia correr la fama, o vero o finto
che sia questo successo, egli è a tuo onore;
ed io farò che immortalato resti
da la musa gentil di Fulvio Testi. 

51

Fulvio col conte ha non vulgari sdegni,
e canterà di te l'armi e gli amori;
dirà l'alte bellezze e i fregi degni
ch'ornan colei ch'idolatrando adori;
le compagnie d'ufficio, i censi e i pegni
che per lei festi già su i primi fiori;
e i casali e le vigne e gli altri beni
c'hai spesi in vagheggiar gli occhi sereni. 

52

Gran contento a gli amanti e gran diletto
che possano veder le luci amate,
che portano squarciati i panni al petto
per godere il tesor di lor beltate!
Povero e ignudo Amor senza farsetto
dipinse con ragion l'antica etate,
ché spoglia chi per lui s'affligge e suda,
e lo fa vago sol di carne ignuda. 

53

Fra i successi d'amor canterà l'armi
e l'imprese ch'hai fatte in questa guerra;
e con sonori e bellicosi carmi
eternerà la tua memoria in terra.
E già di rimirar la Fama parmi
trombeggiando volar di terra in terra,
e contra 'l papa di tua mano a i venti
la bandiera spiegar de' malcontenti. - 

54

Cosí ragiona il Toscanella e ride,
e Titta ride anch'ei per compagnia;
ma l'amaro dal cor non si divide,
ché non sa ricoprir sí gran bugia.
Stette pensando un pezzo, e poi che vide
di non poter scusar la sua follia,
di far morire il conte entrò in pensiero
per sostener ch'egli avea scritto il vero. 

55

S'armò d'un giacco e con la spada a lato
l'andò subitamente a ritrovare.
Il conte a Sant'Ambrogio era passato
e stava con que' preti a ragionare;
Titta gli fece dir per un soldato
ch'uscisse fuor, che gli volea parlare;
il conte caricò la sua balestra,
e s'affacciò di sopra a una finestra. 

56

E a Titta domandò quel che chiedea,
ed ei rispose che venisse giuso;
il conte si scusò che non potea;
e vedendo che l'uscio era ben chiuso,
disse che se trattar seco volea,
trattasse quivi, o ch'egli andasse suso.
Titta allor furiando si scoperse,
e l'oltraggiò con villanie diverse. 

57

Ma il conte rispondea con lieta ciera:
- Voi siete un uom di pessima natura,
a tener l'ira una giornata intiera;
io deposi la mia con l'armatura.
Non occorre a far qui l'anima fiera
con spampanate per mostrar bravura;
io v'ho reso buon conto in campo armato
e son stato con voi ne lo steccato. 

58

Quand'anch'io irato fui con l'armi in mano,
voi dovevate allor sfogarvi a fatto.
Or, Titta mio, voi v'affannate in vano,
ch'io non ho tolto a sbizzarrire un matto.
Andate, e come avrete il cervel sano
tornate, e so che mi farete patto.
Io non ho da partir nulla con voi,
però dormite e riparlianci poi. - 

59

Titta ricominciò: - Becco e poltrone,
t'insegnerò ben io,;vien fora, vieni. -
Piú non rispose il conte a quel sermone,
ma destò anch'egli al fine i suoi veleni;
e scoccò la balestra, e d'un bolzone
il colse a punto al sommo de le reni
sí fieramente che lo stese in terra,
e saltò fuori a discoperta guerra, 

60

gridando: - Per la gola te ne menti,
romaneschetto, furbacciotto, spia. ->
Titta aveva offuscati i sentimenti,
e a gran fatica il suo parlar sentía.
Ma saltaron color ch'eran presenti
subito in mezzo, e ognun gli dipartía:
e condussero Titta al padiglione
dilombato e che gía quasi carpone. 

61

Quivi dal Toscanella ei fu burlato
che dovendo levare al ciel le mani
d'aver l'emulo suo vituperato,
fosse entrato in umor bizzarri e strani
di volerlo ancor morto; e stuzzicato
sí l'avesse con atti e detti insani,
che d'una rana imbelle e senza morso
l'avesse al fin mutato in tigre, in orso. 

62

- Se tu disprezzi la vittoria, disse,
che puoi tu dir s'ella da te s'invola?
Chi va cercando e suscitando risse,
non sa che la fortuna è donna e vola. -
Tenea Titta le luci in terra fisse
mesto ed immoto, e non facea parola.
Ma tempo è omai di richiamar gli accenti
a i fatti de gli eserciti possenti.


vai alla copertina

inizio pagina copertina precedente successivo

DICHIARAZIONI
Dl GASPARE SALVIANI
ALLA SECCHIA RAPITA

[dall'edizione del 1630, attribuite ad A. Tassoni] 

CANTO UNDECIMO

S. 1a, v. 4. Torna al testo
La favola d'Atteone convertito in cervo da Diana è notissima a tutti

S. 4a, v. 8. Torna al testo
I duellisti sfuggono quanto possono il tirarsi addosso le mentite per non divenire attori.

S. 6a, v. 5. Torna al testo
Diceva prima poco dianzi. Ma l'autore l'ha mutato per isfuggire le dispute. Perciò che dianzi vuol dire poco prima, e alcuni tengono che sia un reiterar lo stesso. Con tutto ciò l'autore tiene che si possa reiterar l'istesso per significare un tempo assai prossimo, e dire poco poco prima e per conseguenza poco dianzi. Il Petrarca disse par dianzi, che fu quasi il medesimo.

S. 8a, v. 8. Torna al testo
Con certe buone coltellate levò l'insolenza a un cocchiero di Roma, che è una dell'eroiche azioni che si possano contare in quella corte, dove l'insolenza de' cocchieri, de' birri, de' barilari e de' carrattieri non può esser rappresentata con alcun superlativo.

S. 14a, v. 7. Torna al testo
I visi che i pittori cavano dal naturale dilettano sempre piú che gl'imaginati.

S. 17a, v. 1. Torna al testo
Alcuni s'hanno creduto che il poeta fingendo di burlare dica da dovero.

S. 20a, v. 1. Torna al testo
Inventa tutti i mezzi che possano animare un cuor vile.

S. 22a, v. 5. Torna al testo
Questo buon medico usa il rimedio che si suole usare con gli cavalli barberi che corrono al palio; i quali, per animarli maggiormente acciò che non abbiano da correre con timidità, si sogliono abbeverar di buon vino. Gli spiriti riscaldati dal calor del vino non istimano i pericoli o non gli conoscono.

S. 26a, v. 1. Torna al testo
Qui il conte poeteggia assai meglio che non fece nell'altro canto, quando non avea bevuto: perciò che qui poeteggia commosso da furor di vino, e là compone di suo natural talento. Ennio, Orazio e Torquato Tasso non sapeano comporre, se prima non avevano ben bevuto: e 'l Tasso in particulare soleva dire che la malvagia sola era quella che lo faceva comporre perfettamente.

S. 32a, v. 1. Torna al testo
A' veri paladini della poltroneria non bastano i rimorsi dell'onore, né la vergogna, né i rinfacciamenti degli amici, né l'ingiurie de' nemici, né l'esortazioni de' confidenti, né gli stimoli della dama, né il calore del vino; che finalmente vogliono anch'essere accompagnati da cinquanta difensori.

S. 34a, v. 8. Torna al testo
Questa e la salmeria del conte portatagli dietro in campo da un suo padrino parziale.

S. 41a, v. 1. Torna al testo
Nol poteva spedire a persona piú informata né piú diligente di me.

S. 41a, v. 5. Torna al testo
Intende del cavalier Cassiano del Pozzo, del principe Federico Cesi e del signor don Virginio Cesarini, famosi ingegni della loro età, come altri ancora ne fanno fede.

S. 41a, v. 8. Torna al testo
Il poeta ha mutato marchese, perché il primo per comparire in scena aveva promessi certi guanti d'ambra, che poi per esser cosa odorosa andarono in fumo. E realmente il luogo meritava d'essere occupato da un altro ingegno mirabile, come quello del marchese Sforza Pallavicino. E l'altro, che stimava piú due paia di guanti che l'immortalità, meritava d'esser levato da tappeto.

S. 44a, v. 7. Torna al testo
Gli animi vili, purché salvino la pancia, non si curano di perder l'onore.

S. 46a, v. 3. Torna al testo
S'andò a mettere in casa d'un cardinale suo paesano senza essere invitato, e convenne, volesse o no, ch'egli 1'alloggiasse; perciò che non bastarono né parole né fatti a farlo uscire di quella casa.

S. 46a, v. 7. Torna al testo
Il manuscritto dice: A quel becco del Tarco un marchesato. E veramente fu vero ch'egli da un principe greco si fece investire d'un marchesato nelle provincie del Turco, e pagò il titolo, chi dice una mano di scudi, e chi dice una dozzina di salami.

S. 51a, v. 4. Torna al testo
Alcuni interpretano costei per una certa spagnuola detta Dogna Maria di Ghir, che stette un tempo in Roma puttaneggiando, e mandò fallito questo eroe romanesco.

S. 57a, v. 1. Torna al testo
La flemma nel petto de' poltroni resiste alla collera in maniera che prima che la collera si riscaldi ci bisognano dieci guanciate. E veramente succedé un giorno che trovandosi il conte alla finestra, e passando due spagnoli, uno con la spada e l'altro prete, ed essendo la strada piena di sole, egli chiamando un suo uomo di casa, disse: Mira come questi marrani godono d'andare al sole. Gli spagnoli l'intesero: e quel dalla spada sopra la voce marrano gli diede una mentita e lo sfidò a venire a basso a duello: ma egli ridendosi di lui rispose che aveva burlato e che a Roma non si faceva quistione; e non si mosse dalla finestra, veggendo che l'uscio era chiuso.

S. 60a, v. 2. Torna al testo
L'intacca di que' vizii ne'quali per l'ordinario suole incorrere la plebe di Roma.

S. 61a, v. 3. Torna al testo
Si vituperò da se stesso: perché veramente fu vero ch'egli accusò la moglie d'adulterio, e la fece metter prigione insieme con l'adultero, ch'era persona assai vile.