Violante: seduta 37
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        PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE
                          INDICE
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Seguito dell'esame della relazione sui rapporti tra mafia
e politica:
Violante Luciano, Presidente, Relatore ................ 1701
              1708, 1709, 1710, 1712, 1714, 1716, 1719, 1721
              1722, 1724, 1725, 1728, 1729, 1733, 1734, 1736
                    1738, 1739, 1747, 1749, 1754, 1755, 1756
Ayala Giuseppe Maria ................ 1711, 1716, 1719, 1721
Bargone Antonio ....................................... 1736
Brutti Massimo ...................... 1710, 1712, 1721, 1749
Buttitta Antonino ............................... 1712, 1714
Cabras Paolo .............................. 1740, 1742, 1750
Cappuzzo Umberto .................... 1731, 1733, 1734, 1755
Crocetta Salvatore .................................... 1750
Cutrera Achille ................................. 1709, 1710
                                            1744, 1747, 1749
De Matteo Aldo ............................ 1726, 1728, 1729
Ferrauto Romano ....................................... 1722
Folena Pietro ................................... 1733, 1738
Frasca Salvatore ................................ 1724, 1735
                                1736, 1737, 1738, 1739, 1740
Fumagalli Carulli Ombretta ...................... 1706, 1708
                                      1709, 1710, 1711, 1712
Galasso Alfredo ..................... 1722, 1724, 1725, 1726
                                1728, 1729, 1737, 1742, 1756
Grasso Gaetano ........................................ 1729
Imposimato Ferdinando ................................. 1701
Mastella Mario Clemente ......................... 1725, 1755
Olivo Rosario ................................... 1753, 1754
Ranieri Umberto ....................................... 1715
Rapisarda Santi ....................................... 1704
Ricciuti Romeo ............................ 1710, 1726, 1728
Taradash Marco ........................................ 1722
Tripodi Girolamo .......................... 1740, 1754, 1756
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La seduta comincia alle 9,15.
(La Commissione approva il processo verbale della
seduta precedente).
            Seguito dell'esame della relazione
            sui rapporti tra mafia e politica.
  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito
dell'esame della relazione sui rapporti tra mafia e politica.
Proseguiamo la discussione.
  FERDINANDO IMPOSIMATO. Credo occorra riconoscere che la
Commissione verrebbe meno ad un suo dovere fondamentale se non
formulasse un'approfondita analisi sui rapporti mafia-politica
in questo momento storico ricco di conoscenze, episodi ed
avvenimenti che sembrano gettare luce sugli anni foschi
dell'ultimo trentennio. Negli ultimi anni è stata raccolta una
massa ingente di elementi, dati, notizie, informazioni, atti
processuali e di relazioni delle Commissioni d'inchiesta che
consentono di delineare un quadro non generico, astratto ed
inconcludente, ma concreto e definito dei rapporti tra mafia e
politica.
   Dalle indagini dei magistrati di Palermo, di Caltanissetta
e di Firenze sui rapporti tra mafia, politica e massoneria,
sul golpe Borghese, sulla strage di Piazza Fontana e sulla
strage del treno 904, è possibile cogliere alcune linee
essenziali dell'intreccio mafia-politica, indipendentemente
dall'esito dei processi. Questo perché alcuni processi, anche
se sfociati in assoluzioni, come quello sul golpe Borghese, o
quello di Palermo a carico di 114 oppure tuttora pendenti
davanti all'autorità giudiziaria, hanno accertato l'esistenza
materiale di fatti e di legami significativi ed il
coinvolgimento in essi di alcuni uomini politici ai diversi
livelli, al di là del giudizio sulle penali responsabilità
degli imputati ed indagati, che non è di competenza di questa
Commissione.
   Né può attendersi per la formulazione di un giudizio
politico la definizione di una serie di procedimenti penali,
poiché la loro conclusione, a causa della loro complessità,
non appare né facile né breve; non è possibile, cioè,
allinearsi ai tempi necessariamente lunghi dei processi penali
per dare una valutazione politica di fatti accertati. I due
livelli di indagine, infatti, quello giudiziario e quello
politico, hanno diversi strumenti conoscitivi, diversi
obiettivi e diverse garanzie. Sulla base di una simile regola
metodologica si può concludere che le indagini compiute dalle
varie autorità giudiziarie della Calabria, della Campania,
della Sicilia, della Puglia, della Lombardia e della Toscana e
quelle delle Commissioni parlamentari d'inchiesta sulla mafia
(ricordo quella presieduta dal senatore Carraro), sulla P2,
sul caso Sindona e sul sequestro Moro rappresentano nel loro
insieme una base quanto mai solida per un giudizio sul
rapporto mafia-politica che abbia al suo centro il ruolo di
alcuni esponenti del mondo politico.
   A questo punto credo si debba rivalutare tutta una serie
di inchieste insabbiate e mai portate a compimento per il
comportamento di alcuni esponenti degli stessi apparati di
sicurezza.
   Ho letto con molta attenzione la proposta di relazione
presentata dal presidente Violante e l'ho trovata estremamente
equilibrata, prudente, aderente alla
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realtà. Certamente non poteva essere esaustiva di tutte le
complesse tematiche dei rapporti mafia-politica: dà una
definizione dei programmi, delle organizzazioni, del modo di
agire, dei collegamenti e delle connessioni della mafia; fa
inoltre alcuni riferimenti abbastanza precisi al rapporto con
la massoneria e con esponenti dell'eversione e dei servizi
segreti. Credo che forse sarebbe stato opportuno dedicare un
apposito capitolo a ciascuno di questi temi, perché sono
troppo importanti per potere essere affrontati un poco di
sfuggita, come è stato fatto nella relazione.
   Ritengo che dobbiamo ripercorrere antichi sentieri,
rivalutare una serie di fatti che, presi isolatamente, non
hanno alcun significato, mentre oggi, nel loro insieme, alla
luce di cose accertate ed emerse indiscutibilmente, rivivono
ed acquistano una nuova valenza non tanto sul piano
giudiziario quanto su quello politico.
   Le assoluzioni di molti mafiosi e di terroristi neri sono
state la conseguenza inevitabile di depistaggi di "spezzoni"
dei servizi segreti, di parti consistenti delle logge
massoniche affiliate alla massoneria ufficiale, di esponenti
della magistratura, di uomini politici che hanno impedito per
anni la ricerca della verità e provocato la disintegrazione di
indagini spesso avviate nella direzione giusta.
   Bene, quindi, fa la relazione a ricordare la vicenda della
confessione di Leonardo Vitale che, fin dal marzo 1973 (sono
passati venti anni), parlò di cose, uomini, programmi, omicidi
e alleanze di Cosa nostra, ma venne considerato un pazzo,
condannato, abbandonato a se stesso, infine scarcerato ed
assassinato dalla mafia. Questo sempre perché si è voluto
improntare l'azione della Commissione, anche nelle passate
legislature, a criteri di doverosa prudenza, che però non può
essere considerata come sinonimo di cecità e di incapacità di
percepire la valenza di alcuni fatti ed avvenimenti.
Altrimenti rischiamo di fare una relazione che è molto meno
avanzata e coraggiosa di quella della prima Commissione
antimafia, presieduta dal senatore Carraro, nella quale erano
già contenuti episodi, riferimenti, indicazioni su uomini e su
rapporti con esponenti del mondo politico che tuttora hanno un
grande valore.
   Ieri ho letto ciò che quella Commissione ha scritto su
Lima, Ciancimino e sui collegamenti che questi due uomini già
avevano con esponenti della criminalità organizzata e del
malaffare; è impressionante che questi dati siano stati per
anni sottovalutati e che il lavoro prezioso svolto da quella
Commissione non abbia avuto quello sviluppo che avrebbe dovuto
avere.
   Possiamo dire che la storia del nostro paese è costellata
da eccessive prudenze ed eccessive omissioni, che hanno
portato poi alla svalutazione e sottovalutazione di
collaborazioni formidabili, fornite da uomini non solo di Cosa
nostra, ma anche al di fuori di questa organizzazione.
   Un'altra occasione perduta riguarda, infatti, la
collaborazione di Giuseppe Di Cristina, il quale anticipò
l'omicidio dell'onorevole Cesare Terranova e parlò delle
famiglie emergenti della mafia e dei legami con esponenti del
crimine organizzato. Vorrei ricordare un'altra vicenda che
coinvolse anche la magistratura e gli esponenti del mondo
politico, cioè l'attentato a Mangano che si verificò venti
anni fa. In quel periodo furono accertate le responsabilità
del procuratore generale della corte di appello Spagnuolo;
furono fatte intercettazioni da cui emersero anche
collegamenti tra Frank Coppola e l'allora ministro
dell'interno Restivo; addirittura furono accertati
collegamenti fra il mafioso Coppola e l'allora segretario
della Commissione antimafia Romolo Pietroni, che venne poi
processato e condannato; furono accertate infiltrazioni della
mafia all'interno della regione Lazio. Insomma, tutta una
serie di fatti ed episodi, risalenti a venti anni fa, che sono
stati svalutati ed assorbiti dalla mafia, perché subito dopo,
a parte il clamore di questi episodi, lo Stato non è stato in
grado di reagire in maniera efficace e di predisporre un piano
che potesse contrastare la
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penetrazione della mafia in tutti i livelli e in tutte le
regioni.
   Voglio dire qui queste cose, perché ho colto anche la
preoccupazione dei colleghi della democrazia cristiana e del
partito socialista, preoccupati di possibili speculazioni.
   Devo dare atto alla Commissione, per la breve esperienza
che ho maturato in essa, della grande obiettività e prudenza
che ha ispirato tutti i commissari; credo che tutti noi siamo
ispirati dal desiderio di conoscere la verità e di evitare
speculazioni, perché abbiamo un compito che va oltre quello
che ci compete come appartenenti ai nostri rispettivi partiti.
Tuttavia questo è un fatto che mi preoccupa molto, nel senso
che non possiamo commettere l'errore, compiuto in passato, di
disperdere l'occasione importante per cercare di definire
alcuni rapporti, anche riprendendo in esame fatti ed episodi,
che qui vorrei ricordare brevemente, anche se il tempo non ce
lo consentirebbe.
   Vorrei ricordare, per esempio, che nell'indagine sulla
banda della Magliana emersero legami tra Flavio Carboni,
Diotallevi, Calò ed un ministro della giustizia. A tale
vicenda si collegò poi quella relativa all'uccisione di Calvi.
Ebbene, in tutti questi casi lo Stato ha perso occasioni
storiche per attaccare la struttura militare
dell'organizzazione mafiosa ma anche per denunciare i rapporti
tra mafia e politica.
   Vorrei anche ricordare quello che è emerso da alcuni atti
della relazione sul caso Moro: vi sono alcuni richiami ad
esponenti del mondo politico e anche finanziario che non
possiamo dimenticare. Questa relazione, perciò, forse avrebbe
dovuto far riferimento ad un fatto importante: oggi si sa con
certezza, a seguito di sentenze passate in giudicato, che
personaggi come Michele Sindona- dei quali alcuni anni fa non
si sapeva che avessero avuto un ruolo fondamentale sia nei
rapporti con l'eversione sia nei rapporti con la mafia - sono
stati processati e condannati per omicidi di stampo mafioso,
per associazioni a delinquere di stampo mafioso e per
bancarotta fraudolenta, sicché i loro rapporti con esponenti
del mondo politico oggi acquistano un valore fondamentale. Mi
riferisco ai rapporti di Sindona con il senatore Andreotti,
rapporti nei quali certamente quest'ultimo avrà avuto una
serie di distrazioni ma che adesso acquistano una valenza ed
un valore più allarmante e preoccupante. Non stiamo certamente
facendo il processo ad Andreotti però non possiamo ora non
prendere in esame i fatti accertati da altre Commissioni e da
giudici con sentenze passate in giudicato, fatti che servono
anche a ridefinire e ridelineare i rapporti tra mafia e
politica.
   Dice l'onorevole Gerardo Bianco, uomo giusto e prudente,
che nei fatti odierni che coinvolgono la democrazia cristiana
c'è la maledizione di Moro. Credo che vi sia qualcosa di più:
vi è stata la profezia di Moro basata sulla sua testimonianza.
Vediamo cosa scrisse Moro nei suoi diari segreti trovati in
via Montenevoso. In particolare, a pagina 122 dell'allegato 2
alla relazione Moro leggiamo: "A proposito di indebite
amicizie, di legami pericolosi tra finanza e politica, non
posso che ricordare un episodio per sé minimo ma, soprattutto
alla luce delle cose che sono accadute poi, pieno di
significato. Essendo io ministro degli esteri fra il 1971 ed
il 1972, l'onorevole Andreotti, allora presidente del gruppo
DC della Camera, desiderava fare un viaggio negli USA e mi
chiedeva una qualche investitura ufficiale. Io gli offersi
quella modesta di rappresentante di un'importante commissione
all'ONU ma l'offerta fu rifiutata. Venne poi fuori il discorso
di un banchetto ufficiale che avrebbe dovuto qualificare la
visita che Andreotti avrebbe dovuto fare in America. Poiché
all'epoca Sindona era per me uno sconosciuto, fu
l'ambasciatore Ortona a saltare su per disprezzare e deprecare
questo accoppiamento tra Sindona e Andreotti. Ma il consiglio
dell'ambasciatore e quello mio modestissimo non furono tenuti
in conto ed il banchetto si fece come previsto. Forse non fu
un gran giorno per la democrazia cristiana".
   Questo disse testualmente Moro a proposito dei rapporti
tra il senatore Andreotti
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 e Sindona. Quest'ultimo ha avuto un ruolo sinistro in tutte
le vicende di questi anni, per i suoi rapporti con la mafia,
con la massoneria, con il terrorismo nero e per i suoi piani
eversivi. Moro, parlando della lotta di Andreotti per il
controllo dei servizi segreti in competizione con Cossiga,
disse: "Questa persona" cioè Andreotti "detiene nelle mani un
potere enorme, all'interno e all'estero, di fronte al quale i
dossier dei quali si parlava ai tempi di Tambroni,
francamente impallidiscono. La situazione deve essere
considerata tenendo presente l'inquinamento del trentennio che
deprechiamo".
   E poi, concludendo la sua requisitoria, Moro dice, secondo
quanto riportato a pagina 154 dell'allegato 2: "Tornando poi a
lei, onorevole Andreotti, per nostra disgrazia e per disgrazia
del paese che non tarderà ad accorgersene, non è mia
intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una
colpa... Durerà un po' di più, un po' di meno ma passerà senza
lasciare tracce... Che cosa ricordare di lei? La sua
confermata amicizia con Sindona? Il suo viaggio americano con
il banchetto offerto da Sindona, malgrado il contrario parere
offerto dall'ambasciatore? La nomina di Barone al Banco di
Napoli?". E qui parla di un prestito di Sindona concesso alla
democrazia cristiana e all'onorevole Andreotti.
   Questa è soltanto una parte di un atto importante
contenuto nella relazione Moro ma vi è qualcosa di più; vi
sono i rapporti tra il senatore Andreotti e Gelli, del quale
adesso sono noti i legami non solo con il terrorismo nero ma
anche con la mafia e la camorra. Sono di questi giorni le
notizie dei giornali in cui si parla delle visite fatte da
esponenti della camorra a Gelli.
   Dobbiamo ritenere che certamente il senatore Andreotti è
andato incontro ad una serie di gravi distrazioni; non
possiamo però non tener presente il ruolo importante che egli
in questi anni ha avuto all'interno del paese come ministro
della difesa, ministro degli esteri, Presidente del Consiglio.
I suoi rapporti con Lima e Ciancimino ora acquistano nuova
valenza perché nel frattempo Ciancimino è stato condannato per
associazione per delinquere di stampo mafioso mentre,
all'epoca della Commissione Carraro, Ciancimino, il cui
ritratto è stato fatto con estrema decisione, non era ancora
né indagato né imputato, era semplicemente sospettato di
collusioni mafiose.
   Forse faremmo bene a riprendere in esame e a collegare
episodi già emersi e consacrati alla storia negli atti di
varie Commissioni parlamentari d'inchiesta. Devo dare atto
all'onorevole Teodori dello studio approfondito che ha fatto
sui rapporti tra Andreotti e Sindona, il quale ebbe modo
ripetutamente di tentare di ricattare il senatore Andreotti
nel momento in cui le sue banche fallirono. Sindona fu colpito
da mandato di cattura per effetto della bancarotta fraudolenta
delle sue banche italiane e straniere.
   Ebbene, dagli atti di diversi processi, soprattutto da
quelli relativi alla strage di Bologna, emerge chiaramente che
vi erano stati coinvolgimenti del senatore Andreotti anche con
esponenti del terrorismo nero. Nel 1974 al giudice Tamburrino
è stata fatta una dichiarazione molto precisa da parte di
Cavallaro secondo cui a capo del tentativo eversivo ci sarebbe
stato Andreotti in quanto finanziato da Sindona e
fiancheggiato dal generale americano Johnson.
   Ho citato a caso queste fonti, ho ricordato questi episodi
proprio perché ritengo che abbiamo il dovere di essere
sommamente prudenti ma abbiamo anche quello di far rivivere
dichiarazioni, testimonianze, confessioni, atti, di rivalutare
inchieste che sono state insabbiate e che invece debbono
essere sicuramente a base di una relazione più completa di
quella predisposta, relazione sicuramente molto equilibrata e
prudente ma tale da poter essere sviluppata in alcune parti.
  SANTI RAPISARDA. Signor presidente, quale parlamentare
siciliano e come componente di questa Commissione desidero
partecipare al dibattito su questa relazione, che condivido
pienamente. Nel
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suo contesto sono evidenziati con puntualità tutti i lavori
svolti negli ultimi mesi da questa Commissione che ci hanno
portato ad audizioni di pentiti, di magistrati, di alte
cariche dello Stato eccetera.
   Desidero quindi esprimere alcune considerazioni che a mio
parere potranno essere integrative di quanto è stato detto e
scritto. Nella relazione non si fa menzione degli stretti
rapporti che ci sono stati e continuano ad esserci in Sicilia
fra la mafia ed una certa parte dell'aristocrazia siciliana
che, secondo me, in molte occasioni è stata protagonista e
parte integrante del fenomeno mafioso, soprattutto in alcuni
settori dell'economia siciliana che dovrebbero essere oggetto
di approfondimento.
   Nella relazione sono evidenziate come attività lucrose
primarie per la mafia siano stati e sono gli illeciti proventi
ricavati dallo spaccio di stupefacenti e dal controllo negli
appalti pubblici, sui quali fra alcuni giorni presenterà una
relazione il senatore Cutrera a nome della sottocommissione
che vi ha lavorato.
   A questo punto vorrei evidenziare un altro dato che
riguarda un settore in cui la mafia ha avuto ed ha
partecipazioni determinanti, la gestione dei piani regolatori
dei comuni che tanto flusso di denaro hanno apportato sia alle
associazioni mafiose sia a chi molto imprudentemente si è ad
esse affidato. Chiedo quindi attenzione da parte della
Commissione antimafia poiché quella da me richiamata è
un'altra rilevante fonte di risorse per i criminali e per chi
ne protegge e ne aiuta gli interessi.
   Desidero evidenziare anche l'attività della pesca e del
pescato che da sempre è stata gestita dalla mafia mantenendone
il monopolio assoluto ed imponendo prezzi di mercato a
discapito di tutta quella povera gente che trascorre in mare
molto tempo della propria esistenza correndo spesso pericoli
per la propria vita.
   Vorrei ora accennare all'attività politico-amministrativa
di molti comuni e province siciliane ed in particolare delle
grandi città come Palermo, Catania e Messina. In riferimento
alla città di Palermo, oltre a tutto quello che già sappiamo,
sarebbe opportuno acquisire notizie e documenti, anche con la
presenza della stessa Commissione, su come è stato gestito
soprattutto negli ultimi vent'anni il territorio, con
un'azione di controllo tecnico-amministrativa sulle attività
condotte da tutti i sindaci, le giunte e le commissioni
edilizie che si sono susseguite nel corso degli anni. Facendo
ciò sicuramente si evidenzieranno grandi speculazioni fatte
sulla pelle dei cittadini a discapito dell'ambiente e della
stessa città.
   Per quanto riguarda Catania e Messina, oltre al controllo
della gestione del territorio, al quale bisogna prestare la
stessa attenzione che sopra dicevo per Palermo, desidero
citare due esempi che ritengo molto importanti e di notevole
interesse per questa Commissione.
   A proposito di Catania cito la gestione e la costruzione
delle scuole da parte del comune e della provincia ed il
centro sportivo che dovrebbe sorgere a Camporotondo, già
finanziato dalla provincia in maniera secondo me illegale.
   Per quanto riguarda Messina, è sufficiente citare i 112
miliardi del progetto del ponte sullo Stretto, di cui si
dovrebbero approfondire alcuni elementi gestionali e mettere
in evidenza quali siano le motivazioni per cui la società
Ponte sullo Stretto non abbia voluto prendere in
considerazione la comparazione di un progetto alternativo a
quello del ponte e che riguarda la realizzazione di un tunnel
sommerso, progetto di cui la società è in possesso. Su questo
argomento mi riservo di dare maggiori chiarimenti e
delucidazioni in un'altra seduta.
   Un'attenzione particolare va rivolta anche alla gestione
delle USL siciliane su cui molto ci sarebbe da dire e su cui
mi riservo di riferire in seguito.
   Concludo facendo riferimento all'attività dei governi
della regione siciliana che con il beneplacito
dell'opposizione hanno governato la Sicilia permettendo
sciupii di denaro pubblico in modo assurdo e clientelare;
basterebbe verificare le migliaia di miliardi spesi in tutti
questi
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anni per opere pubbliche richieste dai comuni, sollecitate da
parlamentari siciliani di tutti i gruppi politici (desidero
puntualizzare questo aspetto), senza una programmazione e
senza averne verificato l'effettivo beneficio generale,
agevolando così l'attività delle organizzazioni mafiose che
per raggiungere i propri obiettivi si sono servite molto
spesso di politici e di funzionari pubblici corrotti.
   Anche su questo aspetto mi riservo di presentare una lunga
e dettagliata relazione che spero darà un contributo alla
lotta che si sta conducendo contro la mafia e alla grande
rivoluzione democratica che sta avvenendo in Sicilia e in
tutta Italia.
   Spero che queste osservazioni possano diventare parte
integrante della relazione del presidente Violante per una
maggiore completezza e per avere un quadro ancora più chiaro
del fenomeno mafioso siciliano.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Signor presidente, onorevoli
colleghi, mi pare che dagli interventi finora svolti sia
emersa la complessità della situazione dei rapporti fra mafia
e politica e sia emerso come non sia sufficiente ridurli - mi
pare lo abbia già detto l'onorevole Sorice - ai meri rapporti
mafia-politica, ma si debba avere come oggetto d'indagine
anche il rapporto mafia-istituzioni-politica. In questo senso,
del resto, anche l'allora nostro capogruppo onorevole Scotti
si era rivolto ai colleghi ed alla presidenza perché l'analisi
fosse più ampia.
   Ho ascoltato vari interventi, tra i quali quello
dell'onorevole Folena ieri e quello del senatore Imposimato
oggi: entrambi mirano a precisare - e do loro atto di queste
osservazioni - che nessuno, tantomeno la relazione, vuole
criminalizzare un solo partito, la democrazia cristiana, e che
pertanto ogni semplificazione è dannosa. Convengo che la
relazione non criminalizza affatto un partito in modo globale,
ma punta la sua attenzione su diversi schieramenti politici,
facendo le opportune distinzioni al loro interno. Do altresì
atto al presidente Violante di aver ben puntualizzato tale
questione quando ieri ha introdotto i nostri lavori. Vorrei
tuttavia dire ai colleghi che, se ogni semplificazione è
certamente dannosa, ciò che preoccupa non è soltanto la
valutazione politica che una lettura frettolosa può fornire al
riguardo della democrazia cristiana o di suoi esponenti, ma è
la possibile interpretazione, magari fatta in modo frettoloso
(prendendo due brani, staccandoli dal contesto e mettendoli a
confronto), che si può dare ad una sorta di rapporto
necessitato fra le forze politiche di Governo e la mafia. Mi
preoccupa soprattutto questo aspetto della relazione.
   In diversi punti la relazione - convengo, forse più
nell'implicito che non nel veramente esplicitato - lascia
intravvedere una specie di equazione, secondo la quale il
sistema democratico italiano, almeno fino agli anni settanta,
si è imperniato sulla mafia: democrazia italiana fino agli
settanta .004 mafia. Ripeto, signor presidente, che se si
leggono attentamente i vari passi della relazione si deve
riconoscere che si tratta di un'interpretazione frettolosa ed
anche errata. Temo tuttavia che qualche interprete della
relazione, magari anche qualche giornalista poco attento,
possa giungere a queste conclusioni. L'equazione democrazia
italiana .004 mafia (fino agli anni settanta perché dagli
anni settanta in poi, ne convengo, vi è una riflessione
diversa sulla quale non sto a soffermarmi) non riguarda per la
verità soltanto la democrazia cristiana, ma - e forse questo è
anche peggio - il Governo democratico del nostro paese,
cosicché si potrebbe quasi concludere, sempre in base a
un'interpretazione frettolosa, che la prima Repubblica è la
repubblica della mafia. Della relazione del presidente mi
preoccupano soprattutto le possibili speculazioni e
semplificazioni che su di essa possono essere fatte.
   Del resto ieri l'onorevole Folena ha affermato in un
inciso del suo intervento - ero presente - che l'effetto della
guerra fredda, se ha causato una mancanza di libertà nei paesi
dell'est (quindi delle grosse compromissioni dei regimi
democratici
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 dell'est), ha però determinato nel nostro paese un intreccio
di rapporti con la mafia, lasciando in un certo senso sfocato
il quesito se sia stata la mafia ad aver bisogno del potere o
il potere essere vittima della mafia. Sono queste le
interpretazioni che mi preoccupano, signor presidente.
   Posso convenire con la relazione che la mancanza di
alternanza - perché il dato politico è questo - ha certamente
provocato, anche se non è stata l'unica causa, l'esplosione
della corruzione; su questo posso essere d'accordo, del resto
io stesso l'ho affermato in più occasioni. Tuttavia, dalla
degenerazione della corruzione come conseguenza, almeno
parziale, della mancanza di alternanza, non mi sento di fare
un ulteriore passo in là: cioè di affermare che la mancanza di
alternanza, almeno fino agli anni settanta, ha in un certo
senso costretto la nostra democrazia, il nostro modello
democratico a venire a patti con la mafia, o addirittura ad
avere la mafia al suo centro motore. Non mi sento di
condividere questa valutazione politica, onorevoli colleghi,
ma la vedo implicita in qualche frase della relazione del
presidente, anche se ritengo che non sia affatto intenzione
del collega Violante affermare questo. Del resto egli lo ha
detto esplicitamente anche nell'introduzione di ieri.
   Non sono d'accordo anche perché la stessa relazione fa
riferimento all'esperienza Milazzo, importante per la vita e
l'impostazione politica della nostra società, non solo
siciliana, ma italiana in generale. L'esperienza Milazzo
citata nella relazione, a mio avviso forse con un'analisi
politico-storica che avrebbe bisogno di ulteriori
approfondimenti, non può considerarsi una semplice eccezione
del teorema o dell'equazione democrazia cristiana .004 mafia,
oppure forze di Governo tradizionali .004 mafia.   Questa è
la prima osservazione che mi permetto di fare poiché non sono
d'accordo su questa linea. Vorrei pertanto che su questi
aspetti la relazione venisse integrata e chiarita, che
affermasse in modo più esplicito quello che a mio avviso è
implicito così da non indurre il lettore a cadere nell'errore.
   Allo stesso modo non mi sento di accogliere la definizione
che la relazione dà della mafia come soggetto politico. Non mi
dilungo su questo punto perché lo ha già trattato l'onorevole
Sorice e mi riconosco nelle osservazioni da lui fatte, del
resto non solo relativamente al punto specifico della critica
alla relazione. Una critica, signor presidente, che non vuole
essere distruttiva (lo voglio far presente anche qui e non
soltanto attraverso le dichiarazioni alla stampa) ma
costruttiva. Nessuno di noi vuole distruggere la sua
relazione: la consideriamo anzi un punto di partenza, ma
vogliamo opportune modificazioni ed opportune integrazioni,
eliminando altresì alcune sbavature.
   Dicevo che non mi dilungherò sul perché non sia
accoglibile la definizione della mafia come soggetto politico.
Lo ha già detto l'onorevole Sorice: la mafia è un soggetto
criminale. La soggettività politica, almeno secondo i nostri
schemi politico-costituzionali, è ben altro; non può essere
un'associazione criminale ridotta alla categoria del soggetto
politico o, peggio ancora, elevata alla categoria del soggetto
politico.   Sottolineo piuttosto che il fenomeno mafioso mi
pare e mi è parso in tutti questi anni nei quali vado
approfondendo questi temi (sia in Commissione antimafia in
questa legislatura ed in quella precedente sia quando facevo
parte del Consiglio superiore della magistratura e chiesi,
insieme a Galasso, la costituzione di un comitato antimafia
all'indomani dell'omicidio del generale Dalla Chiesa) molto
più complesso di quello tracciato dalla relazione ed anche
molto più inquientate.   Sono d'accordo, almeno in parte, su
quanto ha detto l'onorevole Imposimato e ritengo anch'io che
vi siano molti più interrogativi che rimangono insoluti, molti
più misteri ed anche molti più veleni che non vengono
affrontati. Mi rendo conto della difficoltà di stendere una
relazione e, beninteso, queste osservazioni da parte mia non
sono di critica distruttiva; le faccio proprio perché sono
                        Pag. 1708
consapevole di tutta la difficoltà di stendere un rapporto
globale che si faccia carico di tutti i problemi e di tutti
gli interrogativi, non soltanto di alcuni. Come ha giustamente
puntualizzato il presidente, non ci occupiamo di tutto il
fenomeno mafia o di tutte le associazioni criminali di stampo
mafioso, ma soltanto di Cosa nostra; tuttavia, anche così
delimitata e circoscritta l'indagine al fenomeno di Cosa
nostra, sorgono più interrogativi di quelli che sono contenuti
e ricevono una risposta, accettabile o meno che sia, nella
relazione del presidente. Perché, per esempio, non considerare
l'atteggiamento delle forze politiche in Parlamento di fronte
alle varie tappe della legislazione antimafia? Sono stata
relatore - i colleghi della Camera se lo ricorderanno - di
diversi decreti che il Governo ha presentato per contrastare
l'avanzata sempre più spregiudicata, pericolosa e sprezzante
dell'antistato contro lo Stato e ho avuto molti dubbi nello
svolgimento delle mie funzioni di relatore su quei decreti,
perché alcuni di essi mi parevano contrastanti con le regole
dello Stato di diritto. Ed era così. Ricordo il famoso
"decreto salvaprocessi" della scorsa legislatura: ero in aula,
pressoché sola insieme con il ministro Vassalli, e si trattava
di evitare che uscissero dei mafiosi dal carcere. Quel decreto
stava in piedi molto a fatica dal punto di vista dei
presupposti di costituzionalità...
  PRESIDENTE. Si riferisce a quello sui mandati di
cattura?
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Sì.
  PRESIDENTE. Non era Martelli il ministro di grazia e
giustizia?
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. No, era Vassalli (si
trattava del decreto precedente). Me lo ricordo per un motivo
particolare: l'onorevole Mellini, che allora era nostro
collega, ebbe parole dure in Assemblea contro il relatore, che
ero io, e contro il ministro Vassalli, dichiarandosi stupito
che proprio due giuristi facessero passare provvedimenti come
quello, che violavano le regole dello Stato di diritto. Ce ne
rendevamo conto, ma eravamo di fronte ad uno stato di
necessità. Non dico balbettando, ma con un qualche imbarazzo
arrivammo a quelle approvazioni. Era un punto necessitato,
un'approvazione necessitata. Era necessitato per noi votarla.
Ma altre forze politiche contrastavano quella legge, e lo
facevano anche sotto profili di legittimi dubbi di conformità
ai princìpi dello Stato di diritto. Alcuni decreti vennero
reiterati diverse volte: l'onorevole Scotti mi ricordava
qualche giorno fa che alcuni suoi decreti sono stati reiterati
ben quattro volte, perché il Parlamento tentennava, non li
voleva far passare. Eppure erano decreti che poi si sono
dimostrati necessari nell'opera di contrasto alla criminalità
mafiosa.
   Credo che anche di questo dovrebbe parlare, almeno per
rapidi cenni, la relazione, perché è giusto riconoscere che
abbiamo dovuto in certi momenti mettere da parte le regole
dello Stato di diritto. Vorrei che qualche passo della
relazione lo dicesse. Non solo, ma vorrei anche che si dicesse
chiaramente quali sono state le forze politiche che in
Parlamento hanno votato quelle leggi, e quindi attraverso quei
provvedimenti hanno contrastato l'avanzata della criminalità
mafiosa.
   Così anche mi domando: perché non facciamo l'analisi del
voto, specie nelle elezioni amministrative o nelle elezioni in
cui c'è un collegio uninominale per il Senato? L'analisi del
voto nei quartieri o nelle località ad alta densità mafiosa
costituirebbe una specie di monitoraggio, un'indagine da fare.
E quali conseguenze trarre da vittorie elettorali in questi
collegi?
   Oggi sentivo dalla rassegna stampa di Radio radicale
(non ho ancora letto i quotidiani) che qualche giornale questa
mattina faceva riferimento al collegio senatoriale di
Corleone-Bagheria, località ad alta densità mafiosa. Dalla
rassegna stampa che - ripeto - ho solo sentito (mi scuso con i
colleghi per non essere più preparata) ho appreso che lì c'è
                        Pag. 1709
un senatore della Rete, ad esempio. Questo ci deve condurre a
valutazioni frettolose, affrettate? Personalmente sarei più
cauta, ma certo è che una relazione che voglia farsi carico di
tutti gli aspetti del problema, della presenza della mafia e
dei rapporti con le istituzioni e la politica deve anche
affrontare questi temi come deve affrontarne altri.
   Perché allora non approfondire (io non li ho trovati,
onorevole presidente, ma forse non mi sono rivolta alle
persone adatte nei giorni scorsi) le disposizioni date negli
ultimi dieci anni dal Comitato interministeriale per la
sicurezza, presieduto dal Presidente del Consiglio dei
ministri? Perché non guardiamo quali disposizioni sono state
date dal CIS alle forze dell'ordine per il contrasto alla
mafia? Anche questo dovrebbe essere una sorta di monitoraggio
(o di indagine, chiamatelo come volete) necessario per avere
un quadro completo dei rapporti mafia-istituzioni. Non è
un'istituzione anche il Comitato interministeriale per la
sicurezza?
   Le risposte che lo Stato dà nel contrasto alla criminalità
mafiosa non sono soltanto le leggi, le risposte dalla
magistratura, ma sono anche tutte le attività di impulso che
vengono date alle diverse articolazioni dello Stato nei vari
settori. Dai verbali del Comitato (non so se siano pubblici o
segreti: probabilmente sono segreti, ma possiamo acquisirli,
io credo) si potrebbe ricavare se dal Governo siano state date
istruzioni adeguate alle forze dell'ordine o se invece si
rimane nell'inadeguatezza e nell'ambiguità.
   Insomma, il panorama, a mio avviso, onorevole presidente -
mi rivolgo a lei anche come relatore - deve farsi carico di
molti aspetti, di molti più interrogativi di quelli che sono
affrontati, perché lo scenario è più complesso e credo più
inquietante di quello che risulta dalla relazione. Questo è il
punto, onorevole presidente: è più inquietante!
   Ci sono stati momenti della nostra storia nazionale che
hanno visto l'opera di contrasto alla criminalità mafiosa in
grave difficoltà. Dobbiamo riconoscere che forse non lo
abbiamo compreso, come istituzione; vi è stata una difficoltà
di comprensione del fenomeno e quindi una difficoltà di
delineare la strategia istituzionale nel contrastarlo. Era
necessario - l'ho già detto prima, ma vorrei tornare un
momento su questo punto che è molto importante - in certi
momenti superare le garanzie dello Stato di diritto di fronte
ad emergenze che continuavano ad esplodere attraverso fatti di
sangue gravissimi, omicidi, assassini. Peraltro, ci rendevamo
conto in Parlamento di tutte le insidie che per lo Stato di
diritto la legislazione di emergenza comportava.
  PRESIDENTE. Voglio ricordarle, onorevole Fumagalli
Carulli, che ha quasi esaurito il suo tempo. Le rimane qualche
minuto.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Mi dispiace, ma ho molte
altre cose da dire. Chiedo a un collega se... Ieri ho sentito
che parlavano...
  PRESIDENTE. Venti minuti!
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI.  ... molto più a lungo.
  PRESIDENTE. I tempi sono quelli.
  ACHILLE CUTRERA. Tutti abbiamo problemi di tempo. Oggi è
una giornata particolare.
  PRESIDENTE. Comunque, onorevole Fumagalli Carulli, il
tempo è esaurito. Veda lei...
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Chiedo ai colleghi se mi
lasciano proseguire ancora perché...
  ACHILLE CUTRERA. Se vogliamo rinviare la seduta, non ho
nulla in contrario, ma i tempi di oggi sono problematici per
tanti.
  PRESIDENTE. Le do altri cinque minuti, onorevole
Fumagalli.
                        Pag. 1710
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Signor presidente, sono
dispiaciuta di questo perché la complessità dell'argomento è
tale che non possiamo limitarci così ad un dibattito...
  PRESIDENTE. Mi scusi, lei ha esaurito il suo tempo. I
tempi sono stati stabiliti dal regolamento della Camera e da
tutti quanti noi: li abbiamo decisi insieme. Lei può integrare
il suo intervento anche con un documento scritto, anzi le
sarei grato se lo potesse fare.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Non l'ho scritto,
l'intervento, altrimenti lo farei.
  PRESIDENTE. Può anche mandarlo domani, eventualmente per
fax.
   Stiamo perdendo tempo inutilmente: continui il suo
intervento, che magari contempereremo con altri interventi.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Mi dispiace, onorevole
presidente, perché avevo varie osservazioni molto complesse da
fare.
   Vorrei almeno puntualizzare che il nostro giudizio
politico non può appiattirsi sul giudizio politico dato dai
pentiti. Questa è la sensazione che io ho leggendo parte della
relazione: tutto mi sembra più misterioso, tutto più intriso
di veleni. Credo che la relazione debba scavare più in
profondo.
   Mi sono fatta portare questa mattina, onorevole
presidente, i verbali del Consiglio superiore della
magistratura con l'audizione del giudice Falcone, che a mio
avviso è un punto di essenziale importanza per la comprensione
del fenomeno mafioso. Chiedo alla pazienza dei colleghi di
lasciarmi almeno esporre questo punto.
  ACHILLE CUTRERA. Data l'importanza delle argomentazioni,
sarebbe forse più opportuno fissare un'altra seduta, ad
esempio lunedì.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Purtroppo non posso venire.
Sai che verrei ben volentieri.
  PRESIDENTE. Comunque, onorevole Fumagalli Carulli, ha
esaurito il suo tempo.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. No, non ho esaurito.
  PRESIDENTE. Non gli argomenti, il tempo!
  ROMEO RICCIUTI. Rinunciamo ad un altro intervento del
nostro gruppo: ne abbiamo quattro, ne svolgeremo solo tre.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Allora facciamo così: il mio
gruppo rinuncia ad un intervento e vado avanti io. Ringrazio i
colleghi per la loro disponibilità.
  PRESIDENTE. E' una composizione un po' libanese, però...
va bene.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Onorevole presidente, vorrei
chiedere a tutti i colleghi di questa Commissione di leggere i
verbali del Consiglio superiore della magistratura della
seduta del 15 ottobre 1991, ore 9,30. E' un'audizione
drammatica del giudice Falcone, convocato davanti al Consiglio
superiore della magistratura, a fronte di osservazioni fatte
in un memoriale da Orlando, Galasso, Mancuso, oggi deputati
della Rete: sono quelli che lo accusavano allora di tenere le
prove nel cassetto.
   Un consigliere gli domanda come mai Orlando lo attacchi,
in quale occasione i rapporti tra Orlando e Falcone, fino
allora ottimi - c'era la famosa "primavera di Palermo" -, si
siano guastati. Anche Ayala ricorderà questo problema.
  MASSIMO BRUTTI. Ricordiamo anche quello che lei scriveva
qualche tempo prima!
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. E Falcone si sfoga
lamentando che l'Unità si allinei con la tesi
dell'insabbiamento. Falcone, dice: "l'Unità, preferì
insabbiare
                        Pag. 1711
 tutti". E Falcone ricorda la frase di Enzo Biagi: "Si può
uccidere anche con la parola".
   Un consigliere legge il memoriale che ricorda che nel
giugno 1990 è stato richiesto ed ottenuto dalla procura di
Palermo un mandato di cattura contro Vito Ciancimino,
aggiungendosi sempre nel memoriale: "Come era prevedibile, il
provvedimento, superato il clamore della stampa, è stato
revocato e Ciancimino è stato rimesso in libertà". Il
consigliere dice di avere chiesto a Galasso il significato di
quel "prevedibile". La risposta è che era fragile la
motivazione, quasi un mandato ad pompam. Falcone
risponde che la revoca era stata pronunciata dalla Cassazione
ma - ed è questo un punto importante - che i colleghi credono
a questa indagine, se è vero, come è vero (è a pagina 89-90
dell'audizione Falcone, per chi voglia andare ad
approfondire), che i giudici hanno chiesto il rinvio a
giudizio di Ciancimino. Soggiunge: "Questo mandato di cattura"
(anzi Falcone dice: " No, è un'ordinanza di custodia
cautelare, non è un mandato di cattura") "non è piaciuto
perché dimostra che anche quando era sindaco Orlando la
situazione degli appalti continuava ad essere la stessa e
Ciancimino continuava ad imperare sottobanco. Difatti, sono
stati arrestati non solo Ciancimino, ma anche Vaselli,
factotum di Ciancimino per le attività imprenditoriali".
Falcone conclude: "Devo dire che probabilmente Orlando ed i
suoi amici hanno preso come un'inammissibile affronto alla
gestione dell'attività amministrativa del comune un mandato di
cattura che in realtà si riferiva ad una vicenda che
riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi,
riguardanti la gestione del comune di Palermo".
   Insomma, in queste pagine Falcone scopre che dietro gli
appalti al comune di Palermo all'epoca della gestione Orlando
c'era Ciancimino, e poi tutta la vicenda della COSI e della
SICO viene indicata nelle pagine successive (sulla quale mi
dispiace di non potermi soffermare per ovvie ragioni di
tempo).
   Così come più avanti, sul terzo livello, Falcone dice:
"Magari ci fosse un terzo livello!". Ancora più avanti - devo
andare proprio per cenni, e mi dispiace di non poter leggere i
verbali dell'audizione del giudice Falcone - a proposito degli
attacchi che gli vengono rivolti da Orlando, da Galasso,
insomma dalla Rete (perché oggi questi sono parlamentari della
Rete, mentre allora erano personaggi che facevano politica in
altro modo), si oppone dicendo: "La cultura del sospetto"
(ricordate, onorevoli colleghi, che l'onorevole Orlando dice
sempre: "La cultura del sospetto è l'anticamera della verità")
"è l'anticamera del khomeinismo". E in polemica con Orlando e
compagni afferma: "Se mi fossi comportato come loro, avrei
dovuto dire che prima di interrogare Pellegriti", il famoso
pentito, "ci sono state tutta una serie di strane
frequentazioni del personaggio, poi vi sono stati i convegni
carcerari in cui certe persone hanno incontrato Pellegriti".
Queste sono parole che io ho ripreso ed ho riscritto proprio
dalla voce, purtroppo ormai mancata, di Falcone.
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Sono processuali queste cose...
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Sono riprese
dall'audizione...
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Lo racconta Falcone ma c'è un
riscontro processuale.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Vi sono riscontri
processuali, dice il collega Ayala.
   E più avanti Falcone dice altre cose in quella stessa
audizione drammatica, onorevoli colleghi. Giustamente, prima
qualcuno mi ha ricordato che avevo criticato Falcone. Certo,
prima l'ho detto, onorevole presidente. Io stessa criticai
certi atteggiamenti di Falcone, ma rileggendoli adesso rimango
ancora più colpita quando dice: "I sospetti sono stati
lanciati, non si può andare avanti in questa maniera. Questo è
un linciaggio morale
                        Pag. 1712
continuo". Questo dice Falcone a proposito delle accuse
rivolte contro di lui. E aggiunge: "Io sono in grado di
resistere ma altri colleghi un po' meno" (queste parole mi
sono venute in mente quando c'è stato il suicidio del pubblico
ministero Signorino!).
   "Io vorrei", dice Falcone, "che voi vedeste che tipo di
atmosfera c'è per adesso a Palermo; facendo in certa maniera,
le conseguenze saranno incalcolabili, ma veramente
incalcolabili!".
   Signor presidente, onorevoli colleghi, ho voluto
riprendere questa parte dell'audizione drammatica - dico
drammatica e invito tutti a leggerla - di Falcone davanti al
Consiglio superiore della magistratura perché un aspetto della
lotta alla mafia è anche quello culturale: non è soltanto il
contrasto, attraverso leggi, provvedimenti, attraverso
l'azione della magistratura, della polizia e delle istituzioni
ma è anche l'aspetto culturale.
   E con questo vorrei concludere: ma voi ritenete che con la
cultura del sospetto si possa per davvero pensare di
combattere - non dico sconfiggere - in modo leale e visibile,
in modo che sia almeno minimamente vincente un fenomeno tanto
inquietante come la mafia? Anche di questo vorrei si parlasse
nella relazione.
   Ringrazio il collega che mi ha dato la possibilità di
concludere il mio intervento, anche se, purtroppo, ho dovuto
sacrificare altre cose: mi ero appuntata diversi spunti, li
accenno solo brevemente in conclusione.
   Tutta la questione di Di Pisa resta un enigma, un punto
interrogativo lasciato dalla scorsa legislatura e dalla
precedente Commissione antimafia e che resta ancora adesso.
Rimane tuttora oscura la vicenda del corvo. Di Pisa aveva
avviato proprio l'inchiesta su COSI e SICO. Va ricordato anche
questo...
  PRESIDENTE. Aveva chiesto l'archiviazione.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Sto facendo una valutazione
politica, non mi addentro nei passaggi giudiziari perché
altrimenti dovrei dilungarmi anche su altri aspetti.
  MASSIMO BRUTTI. Se l'onorevole Fumagalli fosse stata
presente al dibattito di ieri, saprebbe che è stata chiesta
l'acquisizione di quel fascicolo per vedere chiaro. L'ho
chiesta io.
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. Mi fa piacere, perché non so
quale sia stata la vicenda, che qualche altro collega lo abbia
fatto. Ma quello che io ricordo è che proprio quell'indagine,
così inquietante, venne avviata prima da Di Pisa, poi, credo,
da Falcone. Non ricordo se se ne occupò prima l'uno o l'altro,
comunque se ne occuparono entrambi.
  PRESIDENTE. Onorevole Fumagalli, sta rischiando di dover
ringraziare un terzo collega!
  OMBRETTA FUMAGALLI CARULLI. So che ci sono colleghi
molto gentili, molto cavalieri, ma non voglio abusare oltre...
  PRESIDENTE. Quello è un terreno scivoloso!
   La ringrazio, onorevole Fumagalli.
  ANTONINO BUTTITTA. Ho avuto l'opportunità di leggere con
molta attenzione la proposta di relazione e dico subito che ne
condivido la sostanza. Penso anche che sia giusto e doveroso
che la Commissione esprima la propria gratitudine al
presidente per il lavoro assai oneroso che ha svolto.
   Si trattava, come è ovvio, di sintetizzare in un numero di
pagine limitato eventi assai complessi che si sono succeduti
nel corso di alcuni decenni. E come sempre accade quando si
passa dalla realtà alla scrittura, si trattava di convertire
la sintagmatica della storia nella paradigmatica della
conoscenza e del giudizio: una operazione di necessità
riduttiva, costretta a trascurare fatti e soggetti a torto o a
ragione ritenuti
                        Pag. 1713
marginali. E' proprio su questo che si possono quindi
determinare valutazioni diverse. L'attribuzione di minore o
maggior peso a questo o a quell'avvenimento, da parte
dell'estensore, rispetto a quanto da altri diversamente
giudicato, a mio giudizio non toglie nulla al valore e al
significato dell'impianto generale della relazione.
   D'altra parte, come è detto, si tratta di una proposta e
come tale soggetta a integrazioni e correzioni, ove ritenute
opportune. A mio giudizio, per esempio, talune parti, in
quanto impertinenti - nel senso di non pertinenti, anche se
assai interessanti - potrebbero essere cancellate. Faccio un
solo esempio: la notizia relativa alle tecniche omicide
preferite dalla mafia - argomento assai suggestivo soprattutto
per chi ama gli spettacoli truci - potrebbe anche essere
cancellata, proprio perché non direttamente connessa al tema
della relazione.
   Altre affermazioni meritano di essere meglio precisate.
Per esempio, quella che si riferisce alle elezioni palermitane
del 1987. Si dice che in quell'occasione a Palermo la mafia
votò per il PSI e per il partito radicale. In questo caso, il
referente Palermo è assai generico, perché può significare
l'intera area urbana ma può significare anche les
alentours. Proprio nei dintorni di Palermo, vi sono le
grandi capitali della mafia (Bagheria, Monreale, Partinico).
Ebbene, se, come è giusto fare, si va a controllare il voto di
queste capitali della mafia, compresa Corleone, ci si accorge
subito che quella notizia, se letta in senso estensivo, non è
corretta perché proprio nelle grandi capitali della mafia -
tranne a non volerla considerare un soggetto fragile ai fini
del trainamento elettorale - il PSI ed il partito radicale non
hanno avuto successo mentre lo hanno registrato, e grande,
altri partiti.
   Per la conoscenza che ho di quegli eventi, penso che
quella affermazione debba essere riscritta, nel senso che in
alcuni quartieri di Palermo in effetti la mafia si comportò
così, come è detto nella relazione, proprio per dare un
segnale.
  PRESIDENTE. Quindi, la correzione che propone è di usare
l'espressione "in alcuni quartieri", anziché "nella città".
  ANTONINO BUTTITTA. Sì. Bisogna, in sostanza, assumere
con maggiore cautela certe verità che risultano dalle
dichiarazioni dei collaboratori della giustizia.
   E' assolutamente vero - questa è una delle affermazioni
più acute che ho trovato nella relazione - che la mafia, in
quanto dispositivo coercitivo e violento per l'esercizio del
potere, non si riconosce in assoluto in nessun partito ma, di
volta in volta, in questo o in quell'uomo politico in quel
momento detentore delle leve del potere.
   Non è altrettanto vero, come sostenuto da un pentito, che
essa si pone o si poneva dei limiti ideologici: il sostegno -
mi dispiace dovere deludere l'onorevole Matteoli - che la
mafia diede ai diversi governi Milazzo ne è una prova
tranciante.
   A questo proposito, poiché conosco bene quel collegio,
consentitemi di correggere una affermazione che ho appena
sentito relativamente ai comportamenti della mafia nel
collegio Bagheria-Corleone. In tale collegio, per mia memoria
- ed è una memoria lunga, visto che ho i capelli bianchi - la
mafia ha sempre votato per i candidati della DC e del partito
repubblicano. Dunque, quanto è stato detto a proposito di
certe eventualità in ordine a candidature di altri partiti, è
notizia sicuramente da non assumere come concreta e seria.
   Secondo me, per questo aspetto si pone un problema di
approfondimenti necessari, anche se trovo che in buona
sostanza, per ciò che attiene ai comportamenti
politico-elettorali delle organizzazioni mafiose, la relazione
percorre una strada assai diritta, chiara e lucida che è, in
sostanza, la strada maestra che la mafia ha percorso, come
soggetto politico, da alcuni decenni a questa parte.
                        Pag. 1714
   Trovo che la relazione dia una rappresentazione del tutto
esaustiva del fenomeno mafia per ciò che riguarda la sua
dimensione storica, non solo di una storia riferita ad eventi
lontani nel tempo. Al contrario, manca a mio giudizio
un'analisi della sua struttura verticale: mentre la dimensione
orizzontale, cioè quella diacronica, è rappresentata in modo
esaustivo, la struttura verticale del fenomeno non è
sufficientemente chiarita.
  PRESIDENTE. Potrebbe specificare meglio questo aspetto?
  ANTONINO BUTTITTA. A mio avviso, la relazione avrebbe
guadagnato molto in spessore se avesse tenuto conto della
differenza esistente tra organizzazione mafiosa e società
mafiosa. La prima è la manifestazione strutturata e criminale
della seconda; la società mafiosa è invece una cultura, con i
suoi valori e le sue regole, un sistema di segni ampiamente
partecipato - ahimé! - da vasti strati della società
siciliana. Hanno necessariamente dimensione, valore, peso
politico, e anche penale, diverso, i rapporti tra soggetti
politici, professionali e burocratici operanti su ciascuno di
questi due diversi livelli. Pone un problema anche
l'accertamento della più o meno organicità o episodicità di
tali rapporti. Si tratta di un fatto di non poca rilevanza, a
mio giudizio, che impone approfonditi accertamenti prima di
arrivare a conclusioni definitive in ordine all'identità ed al
ruolo dei rappresentanti politici sospettati, a torto o a
ragione (secondo me, a ragione), di connivenze mafiose.
   Penso che lo Stato debba tenere un diverso atteggiamento
rispetto ai due livelli del fenomeno. Nei confronti del primo
(dico cose ovvie, perché vi è tutta una letteratura
meridionalista alle spalle) bisogna continuare a rafforzare
gli strumenti repressivi, tanto a livello legislativo quanto
sul piano strumentale. Riguardo al secondo, bisogna operare
attraverso scelte di politica economica diverse da quelle
tradizionali, tali da modificare radicalmente i meccanismi
della produzione ed i connessi assetti sociali. Ripeto: dico
cose ovvie, visto che, da Colajanni in poi, la letteratura
meridionalista più avanzata si è orientata in questo senso.
   In sostanza, la mafia è non solo un fatto criminale ma
anche una realtà sociale e culturale. Contro i criminali
valgono le manette e le carceri; per modificare e correggere
una società e una cultura, occorrono - com'è ovvio - strumenti
diversi. Al di là delle diverse valutazioni su avvenimenti e
soggetti, voterò comunque a favore della relazione nei tempi e
nei modi che la presidenza riterrà opportuni. Trovo tuttavia
francamente odiosa l'implicita equiparazione tra partiti e
massoneria. Mi riferisco a quella parte della relazione nella
quale si rivolge un analogo invito, ai partiti ed alla
massoneria, a purificarsi, a purgarsi. Implicitamente, questo
invito mette sullo stesso piano partiti e massoneria. I
partiti hanno un riconoscimento costituzionale ed hanno il
merito non solo di avere garantito l'esercizio delle libertà
democratiche nel nostro paese, ma di averne accompagnato anche
il progresso economico e sociale. Le diverse obbedienze
massoniche, come filosofia e come pratica, si pongono
oggettivamente, anche al di là delle intenzioni di alcuni loro
affiliati, al di fuori della Costituzione. In un certo senso e
per certi aspetti, esse hanno caratteristiche analoghe a
quelle delle diverse famiglie mafiose. Per esempio, quello che
il principe Kropotkin chiamava il "mutuo appoggio" rappresenta
una condizione che gli affiliati creano tra di loro per il
conseguimento di potere e di profitti.
   Inoltre - ed ho concluso - il non avere esaminato il
sistema bancario e finanziario, all'interno del quale - non
solo quindi nella sfera politica - si sono saldati i rapporti
tra mafia (almeno nel suo aspetto di società mafiosa) ed
esponenti politici, costituisce a mio giudizio una lacuna ai
fini dell'accertamento delle relazioni e delle connessioni
strutturate tra mafia e politica. Si tratta di una lacuna che
spero, in questa o in una prossima occasione, possa essere
colmata.
                        Pag. 1715
  UMBERTO RANIERI. A me pare che la relazione proposta dal
presidente Violante contenga una ricostruzione convincente dei
processi che hanno determinato il particolare intreccio tra
politica e mafia nel corso dell'ultimo cinquantennio. Certo,
la discussione aiuterà a precisare e migliorare un testo il
cui impianto appare comunque rispondente agli interrogativi ed
alle domande che insorgono intorno a questo nodo drammatico
della storia italiana. Considero la relazione un documento
severo e sobrio, che non concede nulla né a ricostruzioni
demagogiche o semplicistiche del rapporto tra mafia e politica
né a sottovalutazioni o reticenze.
   Per la verità, non ho colto nella relazione proposta dal
presidente Violante l'equazione di cui ha parlato l'onorevole
Fumagalli. Credo, del resto, che una simile equazione sia
estranea alla cultura del presidente, il quale ci ha ammonito
a non indulgere a semplificazioni. Nessuno di noi pensa che la
prima Repubblica si sia fondata e costruita sul rapporto con
la mafia, né fino agli anni settanta né successivamente. La
parte politica cui appartengo ha sempre rivendicato, anche in
momenti difficili della storia civile e politica italiana, il
segno che nell'evoluzione del nostro paese è stato impresso
dal movimento operaio, mettendo in rilievo il procedere anche
se faticoso della crescita civile e sociale dell'Italia. Non
vi è dubbio, tuttavia - e si tratta di un aspetto che non può
sfuggire all'intelligenza dell'onorevole Fumagalli -, che le
classi dirigenti di questo paese, la classe politica di
governo (in una prima fase nel clima di un mondo diviso, ma
successivamente - e qui le responsabilità si infittiscono -
quando la lotta politica in Italia non si è svolta più tra
mondi contrapposti) non hanno costruito un argine sufficiente
rispetto all'espansione ed alla diffusione dei fenomeni
criminali e delle forme di convivenza tra settori della
politica e criminalità. Appartiene ormai alla ricerca storica
più avanzata, evoluta e documentata di storici italiani e
stranieri che hanno meditato sulla vicenda del nostro paese,
la ricostruzione delle responsabilità di una classe dirigente
che ha in larga misura subìto il progredire del fenomeno
criminale, gli intrecci ed i condizionamenti da esso
esercitati sulla politica, e che ha coltivato l'illusione di
contenere e, in certe condizioni ed in particolari
congiunture, di strumentalizzare tale fenomeno. Penso che
tutto questo faccia ormai parte di una riflessione comune,
costituisca un punto di approdo della coscienza del nostro
paese. E' ormai diffusa la consapevolezza del ritardo inaudito
e della debolezza dell'iniziativa legislativa tesa a contenere
fenomeni mafiosi, nonché della persistente chiusura dei gruppi
dirigenti italiani verso fenomeni sempre più macroscopici di
connessione tra politica e criminalità. Del resto - diciamo la
verità - non saremmo giunti a questo punto se non vi fossero
state simili responsabilità.
   Credo che la relazione al nostro esame possa costituire
anche un segnale utile per un paese scosso e tormentato, qual
è l'Italia dei nostri giorni. Considero importante che dal
cuore del Parlamento, un Parlamento sottoposto al fuoco di
fila di una critica spesso distruttrice, la Commissione
antimafia parli il linguaggio severo espresso dalla relazione,
essa indica che vi è la consapevolezza del punto cui è giunta
la situazione e, insieme, esprime la volontà di intervenire
con decisione dal punto di vista legislativo, dell'iniziativa
politica e della riflessione autocritica della politica.
   Penso che dalla relazione dovremmo trarre, il Parlamento
dovrebbe trarre (così come è avvenuto anche nelle fasi
successive alla pubblicazione di altri impegnativi documenti
della Commissione antimafia) lo stimolo e le idee per affinare
ulteriormente la produzione legislativa contro i fenomeni
criminali. Anche la legge Rognoni-La Torre giunse al culmine
di un'intensa ricerca ed indagine sul fenomeno criminale e
sugli intrecci tra politica ed istituzioni. Sono sempre più
dell'avviso che, insieme alla legislazione repressiva ed a
quella che aiuta il procedere dell'investigazione in modo più
                        Pag. 1716
penetrante, oggi vi sia l'esigenza di una legislazione
sociale e in particolare di promozione della funzione
educativa dello Stato. Si tratta in sostanza di concentrare
mezzi, risorse e personale nelle parti del paese più esposte
ai fenomeni criminali, per contrastare una cultura della
violenza, dell'abuso e della soperchieria che si è andata
diffondendo, ridando un ruolo ed una funzione - mi limito
soltanto a questo breve accenno - alla scuola pubblica nel
nostro paese.
   In questo quadro - mi avvio alla conclusione - dalla
relazione ricavo la necessità di una severa riflessione per
tutti in questo paese: per la politica, la società civile, la
cultura. Una riflessione della quale tutti debbono sentirsi
parte, una riflessione autocritica sulle responsabilità e
sulle cause che hanno determinato l'attuale situazione. Una
riflessione, insomma, che deve coinvolgere un paese con una
storia civile drammatica, un paese ancora pieno di misteri
irrisolti - questa è la verità -, di stragi rimaste senza
autori, di deviazioni.
   Credo che la riflessione debba riguardare tutti ma, mi
permetto di osservare - e lo faccio avendo sempre contrastato
ogni semplificazione e grossolanità nella ricostruzione delle
responsabilità politiche - che essa debba vedere l'impegno in
questo senso di un partito come la democrazia cristiana. Leggo
di posizioni fieramente critiche verso la relazione; ho
sentito anche nell'intervento dell'onorevole Fumagalli un
accento fortemente polemico. Ecco, penso che invece una
riflessione critica si imponga in questo partito.
   Qui vengo ad un punto delicato su cui, concludendo, vorrei
esprimere la mia opinione. E' chiaro che discutiamo in
un'atmosfera e in un clima turbati da episodi ed avvenimenti
che segneranno la storia politica italiana, come la richiesta
di autorizzazione a procedere per il senatore Andreotti.
Capisco il turbamento, che è anche il mio; tuttavia si tratta
di una personalità che riassume - come hanno scritto anche
osservatori rispettosi del travaglio di un partito quale la
democrazia cristiana - una certa concezione del potere. Credo
che su questo punto, nella relazione non si conceda nulla alle
tesi che danno per scontato imputazioni o condanne. Quello che
tuttavia, in questa sede, non può essere ignorato è che per
una personalità come il senatore Andreotti - la cui storia
politica si incrocia drammaticamente con personalità e vicende
complesse, oscure, drammatiche della storia nazionale - si
impone a questo punto della vicenda del nostro paese la scelta
per la magistratura di proseguire nelle indagini. Credo che
non ci sia nel sostenere ciò alcuna indulgenza a pratiche
odiose o a logiche come quella del sospetto che sarebbe
l'anticamera della verità. Tutt'altro: sul sospetto non si
costruisce nulla e credo che questa sia una logica del tutto
contraria alla civiltà giuridica moderna ed evoluta.
   Infine, vorrei sottolineare l'esigenza che, su un altro
drammatico fenomeno criminale che segna la storia del nostro
paese, una ricerca equilibrata e seria come quella che ci ha
presentato il presidente Violante possa essere predisposta: mi
riferisco al fenomeno della camorra ed anche ai problemi -
ahimé, evidenti - del rapporto tra questo fenomeno criminale e
politica ed istituzioni.
  PRESIDENTE. La ringrazio molto, senatore Ranieri.
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Dico subito che condivido
pienamente la relazione che lei, presidente, ha predisposto,
anzi mi complimento per il trasparente - perché dalla lettura
risulta tale - scrupolo che in ciascun rigo di essa emerge e
per la quantità di lavoro che è stata svolta. Ho dovuto
soltanto fare mente locale sul fatto che questa relazione
sostanzialmente nasce dalla vicenda Lima; così, riflettendo su
questo mi sono reso conto che qualche cosa in più che avrei
voluto leggere non c'era, perché la relazione è abbastanza
mirata su quella vicenda. Benissimo: la voterò con totale
adesione.
   Mi sembra anche estremamente importante che questo sia il
primo documento
                        Pag. 1717
 politico incentrato sui rapporti tra mafia e politica, dei
quali sino a qualche anno fa non si doveva neanche parlare e
se qualcuno lo faceva o scriveva su questo si guadagnava
critiche e veleni. Nel 1988, su Micromega, ho scritto un
saggio in cui concludevo mettendo in evidenza quel che oggi
finalmente tanti, tutti credo, abbiamo capito, che la
soluzione del problema mafioso era anche repressiva ma
fondamentalmente politica. Oggi, in un momento politico così
delicato per la vita del paese, in cui registriamo la
verosimilmente non più recuperabile crisi del vecchio sistema
di potere al cui interno Cosa nostra è stata una componente
organica - non occasionale, ma organica - mi sembra
estremamente importante che in Parlamento si avvii sulla base
di questo documento - che va ritenuto, secondo me, un primo e
certamente importante punto di partenza sotto questo profilo -
un nuovo modo di concepire e praticare la risposta politica
all'aggressione mafiosa, e non soltanto, s'intende, alla sua
componente criminale. Mi sembra che questo sia perfettamente
realizzato dal contenuto del documento, che definisco misurato
e consapevole.
   Un altro aspetto importante mi sembra quello che una volta
per tutte si sgombra il campo da alcuni equivoci che spesso
sono stati determinati da una scarsa conoscenza e
consapevolezza del fenomeno ed anche da un po' di
superficialità (per esempio, quella tendenza ad insularizzare
la mafia come problema siciliano, come se non riguardasse
tutto il paese); ma soprattutto credo che molte delle inerzie
e dei ritardi vadano ricercati in una difficoltà di
comprensione del fenomeno. Credo che la più grande eredità del
lavoro svolto dal palazzo di giustizia di Palermo negli anni
ottanta - oltre all'esempio di sacrificio di alcuni dei
protagonisti di quegli anni - sia proprio aver offerto (anche
alla valutazione politica, che diventa quella decisiva) un
bagaglio di dati e di conoscenze su questo fenomeno che devono
costituire - finalmente, direi - il supporto su cui orientare
la nuova risposta politica nei confronti del fenomeno stesso.
E allora, è importante, per esempio, che si mettano a fuoco
alcune caratteristiche fondamentali della mafia:
l'utilitarismo, l'assenza di fede politica, cioè
l'orientamento del consenso e del rapporto con la politica in
base ad un tornaconto e non certamente ad un supporto
ideologico da offrire a questo o quello schieramento politico;
tutto, ovviamente, in funzione del conseguimento del proprio
potere, se non di un incremento di tale potere. Perché la
finalità fondamentale di questa organizzazione è l'attivazione
sempre più forte di un circuito con due componenti: potere e
profitto. Perché dico un circuito? Perché a tanto maggiore
potere corrispondono tante maggiori occasioni di conseguire
profitto e tanto più profitto si consegue tanto più potere si
riesce ad ottenere. Questa è la finalità essenziale. Ecco
perché non ci sono due o tre mafie; la mafia è sempre stata la
stessa: si è progressivamente adattata ai cambiamenti
intervenuti nella società, nell'economia, nella politica. E
questa è forse la più grande caratteristica della mafia:
questa sua grande capacità di mimetizzarsi (anche se poi con
la politica dei corleonesi questa mimetizzazione è venuta meno
e questo forse è stato il grande errore politico-mafioso di
Salvatore Riina, ma è un altro discorso) ma soprattutto di
adattarsi ai progressivi mutamenti. Nella relazione, per
esempio, è molto ben chiarito come un punto di svolta, anche
per i suoi riflessi nei rapporti con la politica, sia stato
costituito dall'inurbamento della mafia, che si impegnò alla
fine degli anni cinquanta e sessanta nella grande speculazione
edilizia, nel "sacco" di Palermo. Lì c'è un cambiamento,
perché il rapporto con la politica "deve" diventare organico,
posto che licenze edilizie, piani regolatori e tutto quel che
costituisce supporto dell'occasione di conseguire grandi
profitti è un supporto politico-amministrativo. Non è più la
mafia del feudo, che può avere occasionali e utili rapporti
con la politica. Da quel momento nasce - proprio con
l'onorevole Lima e con Vito Ciancimino - la nuova
configurazione del rapporto mafia-politica:
                        Pag. 1718
 un rapporto organico, che tale deve essere nell'interesse
certamente della mafia ed anche nell'interesse - questo è uno
dei grandi limiti che ha avuto la risposta politica dello
Stato - di quegli esponenti politici che si rendevano
strumento del conseguimento del fine dell'organizzazione
mafiosa. Perché qui c'è un perfetto sinallagma. Non c'è
neanche una scelta ideologica da parte degli uomini politici;
non tutti gli esponenti politici che hanno avuto rapporti
costanti con la mafia sono mafiosi, anzi, è stato escluso che
lo stesso Lima fosse uomo d'onore (anche se Buscetta ha detto
che lo era il padre, ma le colpe dei padri non ricadono sui
figli). C'era questo reciproco rapporto utilitaristico che
aveva due momenti fondamentali: per un verso, quello
elettorale e per altro verso quello degli affari. Questi sono
i due piani su cui c'è una precisa convergenza di interessi
che alimenta e mantiene vivo il rapporto.
   Un altro passaggio della relazione che ritengo rilevante è
quello in cui si ribadisce una cosa importante e che ha dato
luogo a confusioni: la mafia ha sede a Palermo, è lì; sono gli
affari che la portano anche oltreoceano e purtroppo in molte
altre aree del paese, ma il centro decisionale è ancora a
Palermo. E' molto opportuno che ciò sia stato chiarito.
   Secondo me, va subito precisato un altro aspetto, sul
quale tempo fa mi sono pronunciato in un dibattito con una
frase che vorrei ripetere perché credo sia condivisibile: il
rapporto tra mafia e politica non riguarda un solo partito né
tutto il partito. Altrimenti, si corre il rischio di poter
interpretare equivocamente la relazione come una sorta di atto
di accusa nei confronti della democrazia cristiana: questo non
c'è assolutamente nella relazione. Né questo vuol dire che
tutta la democrazia cristiana siciliana - non dico quella
nazionale - sia intrisa di rapporti con la mafia. Non
dimentichiamo che in Sicilia c'è stata anche la DC di Pier
Santi Mattarella: non credo di dover spiegare ed aggiungere
nulla. E' anche vero che all'interno di quel partito, per la
semplice ragione che è stato il costante protagonista del
potere in questo paese, per forza dobbiamo trovare la maggior
parte delle relazioni. La mafia è sostanzialmente
conservatrice ma non per una questione ideologica; è
conservatrice perché non ha alcun interesse al sovvertimento
di un sistema di potere all'interno del quale trova sempre più
significative linee di penetrazione. Qualunque sovvertimento
politico disturba. Per esempio, se volessimo leggere lo stesso
omicidio di Salvo Lima come la risposta alla fine di un
sistema politico che non riesce più - non che non vuole - ad
assicurare le tradizionali risposte, anche quelle romane,
avremmo la dimostrazione che la mafia reagisce con il massimo
della violenza, con una sorta di rabbiosa violenza, non solo
per saldare un conto ma anche alla presa d'atto che quel
sistema sta cadendo e che un altro deve venir fuori. Che poi
lo specifico movente possa essere legato, per esempio, alle
vicende della sentenza della Cassazione sul maxiprocesso ci
porta ancora una volta a sottolineare che questi omicidi hanno
una valenza complessa, non sono omicidi con una matrice secca;
c'è sempre un'occasione scatenante, che però si inserisce in
un quadro di valutazioni spesso anche politiche (mi riferisco
ai grandi omicidi).
   Devo dire francamente che ho trovato eccessiva la reazione
della democrazia cristiana e mi auguro che venga ripensata, in
una chiave che è forse oggi decisiva: non possiamo più,
nessuno può più - anche in buona fede, s'intende - negare che
esistono rapporti tra mafia e politica né negare cosa sia la
mafia. Occorre oggi più che mai trasformare una volta e per
tutte quello che è stato il grande limite della risposta dello
Stato nei confronti della mafia: la mafia non è mai assurta a
problema politico centrale, da affrontare in maniera quanto
più omogenea e unitaria possibile, ma ha sempre costituito un
terreno di scontro politico spesso strumentale. Adesso, tra le
tante cose su cui dobbiamo aprire gli archivi di questo paese
per richiuderli subito, credo vi sia la trasformazione
                        Pag. 1719
della risposta dello Stato alla mafia in un problema politico
al quale tutti dobbiamo concorrere.
   Il passato mette in evidenza responsabilità politiche
notevoli; chi ne è stato il protagonista purtroppo piangerà le
conseguenze (parlo - lo ripeto ancora una volta a scanso di
equivoci - di persone e non di partiti). Ma questo documento
deve essere visto soprattutto come una proiezione verso il
futuro, specie in un momento così delicato della politica
italiana.
   Si è discusso, signor presidente, sull'affermazione della
mafia come soggetto politico. Va condivisa; possiamo discutere
sul termine ma nella sostanza va condivisa. Se è vero come è
vero che questa componente (al di là della volontà della
stragrande maggioranza del mondo politico italiano - su questo
non c'è dubbio - ma grazie alla connivenza di una sua
minoranza) è diventata una componente organica del sistema di
potere, immutabile - per le ragioni di politica internazionale
che conosciamo e sulle quali è perfettamente inutile tornare
-, come si fa a negare una soggettività politica, naturalmente
di fatto? E' come il funzionario di fatto in diritto
amministrativo, ai cui atti si riconoscono poi effetti
giuridici. Quindi, negare una soggettività politica di fatto
ad una realtà della vita di questo paese - soprattutto dal
dopoguerra ad oggi, in cui questo è avvenuto - credo sia
francamente un voler nascondere il cielo con la rete...
(Commenti). Absit iniuria verbis... Non vorrei che
qualcuno interpretasse male questa espressione.
  PRESIDENTE. Comunque, come espressione è molto bella.
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Del mio intervento si ricorderà
almeno questo. Però, non si metta in giro la voce che alludevo
alla Rete, altrimenti Orlando ...
   Un accenno vorrei fare anche ad un'altra parte della
relazione, che mi sembra molto importante, e lo faccio
brevemente poiché il tempo a me concesso sta fatalmente
scorrendo. Nella ricostruzione della risposta dello Stato a
questo fenomeno, viene giustamente e molto opportunamente
messa in evidenza quella che mi pare sia la risposta "a
fisarmonica": io l'ho sempre definita basata sulla logica
dell'emergenza, emergenziale. Ed ho sempre ritenuto che questo
sia stato il grande limite perché accostare il termine
emergenza (che sappiamo tutti quale accezione abbia nella
nostra lingua) ad un fenomeno che è più vecchio dello Stato
italiano, poiché la mafia esisteva già prima del 1861, è la
più grande contraddizione in termini che si possa immaginare.
Parlare di emergenza terroristica va benissimo: il terrorismo
non c'era, è esploso, ha avvilito la qualità della vita
democratica del paese; quell'emergenza andava affrontata in
termini emergenziali, perché tale era. Ma è stato un limite
l'aver affrontato o tentato di affrontare la mafia con una
risposta emergenziale; perché è vera un'altra affermazione,
cioè che la forza della mafia è tutta derivata dalla debolezza
dello Stato, non è una forza autonoma: è ovvio, scontato ma è
giusto, a scanso di equivoci, che sia chiarito. Ci sono tre
date perfettamente individuate: strage di Ciaculli nel 1963,
omicidio Scaglione nel 1971, omicidio Dalla Chiesa nel 1982;
esse segnano tre momenti in cui la connivenza di fatto si
spezza e si alza lo spessore della risposta dello Stato. Ma
l'emergenza col passare del tempo si va allontanando e quello
spessore, piano piano, torna al suo vecchio, bassissimo
profilo. Poi c'è un'altra emergenza e di nuovo quello spessore
si alza e poi si va abbassando. Questo è stato il grande
limite della risposta, posto che quando la mafia non uccide
vuol dire che è forte, con equilibri ben saldi al suo interno
e con ben saldi rapporti con il mondo esterno, in particolare
con quello politico, amministrativo, imprenditoriale e delle
pubbliche professioni. La finalità della mafia non è uccidere;
l'omicidio è uno strumento. Una volta era l'extrema
ratio; dai corleonesi in poi tutt'altro, è diventato uno
strumento ordinario di gestione e conservazione del potere. Mi
riferisco non soltanto agli omicidi interni
                        Pag. 1720
all'organizzazione (vedi quelli della guerra di mafia, che
furono consumati a centinaia per consentire la scalata al
vertice di Cosa nostra dei corleonesi, e di Totò Riina in
particolare) ma anche e soprattutto agli omicidi cosiddetti
eccellenti, quelli di servitori dello Stato, di uomini
politici. L'omicidio è sempre uno strumento al quale si
ricorre con la finalità del mantenimento del potere o della
eliminazione di quello che è ritenuto un ostacolo per il
progressivo incremento del potere dell'organizzazione.
   Desidero fare ancora un piccolo accenno, presidente, che
non motivo perché recepisco in buona sostanza quanto ha detto
il collega Buttitta. Anche io ritengo che sia un passo molto
importante quello in cui si precisa, nella relazione, la
struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra, non fosse
altro perché qualche anno fa ciò fu fonte di un grande
equivoco che provocò - non voglio dire di più - enormi danni
processuali, grazie ad una sentenza della Corte di cassazione.
   Interessantissimo ho trovato questo ulteriore arresto
sull'evoluzione del rapporto in tema di appalti pubblici, nel
quale direi che quasi si sublima quell'organicità del rapporto
tra mafia e politica che nasce dalla speculazione edilizia
degli anni cinquanta e sessanta e che poi si allarga e diventa
quasi pervasivo, perché ci sono mafia, politica, pubblica
amministrazione, imprenditoria e pubbliche professioni. Questo
è il modello mafioso che viene esportato - noi esportiamo
arance, limoni e modello mafioso - perché è un modello di
grande successo. E' questa una delle spiegazioni del perché in
aree, soprattutto del Mezzogiorno d'Italia, fino a qualche
anno fa immuni abbiamo assistito e registriamo il proliferare
di organizzazioni di tipo paramafioso; essendo un modello
vincente, è stato importato, con effetti di inquinamento della
vita sociale e politica e della tranquilla convivenza civile
in quelle regioni che è perfettamente superfluo ricordare.
   Un ulteriore passaggio che ho apprezzato - in realtà ho
apprezzato tutta la relazione, ma mi sembra di dover
evidenziare in particolare qualche punto, per tentare di dare
un mio contributo, per quel poco che può valere - è quello che
riguarda il rapporto tra mafia e politica, tra struttura di
Cosa nostra ed esponenti politici collegati. I politici hanno
commesso il tragico errore, che qualcuno ha pagato con la
vita, di credere che fossero loro a strumentalizzare la mafia.
E' vero esattamente il contrario. In tutta la sua storia la
mafia non ha mai accettato rapporti di subalternità con
chicchessia, né con la massoneria né con la politica né con
altre organizzazioni con le quali per ragioni di
business di volta in volta ha ritenuto di entrare in
contatto. Il primato della autonomia mafiosa non è mai stato
messo in discussione, una subalternità non sarà mai
rilevabile, neanche nei confronti della politica o di
importanti esponenti politici che con essa hanno avuto
rapporti.
   Credo che questo sia molto giusto e che riguardi
soprattutto la vicenda dell'onorevole Lima. Con l'omicidio
Lima, probabilmente, si sancisce la fine di un'epoca nei
rapporti tra mafia e politica e l'attuale grande
responsabilità politica di tutti noi è quella di dare subito
corso alla nuova risposta politica che tutti i cittadini
italiani attendono, anche quelli siciliani. Mi piace che anche
questo nella relazione sia indicato in quel finale che ho
trovato molto opportuno e per il quale, come siciliano, sono
grato al presidente. E' la verità che tutti noi, che più
abitualmente di altri frequentiamo la nostra amatissima e
tormentatissima isola, registriamo. C'è una caduta di quel
consenso al quale, con ragione, faceva cenno il collega
Buttitta: era un consenso spesso più determinato
dall'intimidazione, anche latente, che non da una sorta di
adesione e nel quale vi erano anche grandi responsabilità
dell'inefficienza della presenza dello Stato; però questa
vasta area di consenso c'era. Dopo le stragi del 1992 ho visto
persone camminare per strada e piangere e non è stata soltanto
l'emozione e l'indignazione del momento; sono passati molti
mesi e ancora, soprattutto a Palermo - parlo di
                        Pag. 1721
questa perché è la città che più frequento ma lo stesso vale
altrove - emergono una grande presa di coscienza e un grande
rifiuto di questa sanguinaria e spietata organizzazione.
   Avviandomi alla conclusione, mi permetto di dire, signor
presidente, che, sulla base dei miei ricordi, c'è una piccola
ma importante correzione da fare. Non fu Nino Salvo a
telefonare a Buscetta ma Ignazio. Nino Salvo scappò da Palermo
con il suo yacht e se ne andò in Grecia, risulta da indagini
che abbiamo fatto noi personalmente. Questa ricostruzione
delle fonti attraverso le quali ristabilire un ordine dei
rapporti tra l'onorevole Lima ...
  MASSIMO BRUTTI. Il matrimonio del figlio ...
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Della figlia. Sì, sospese il
matrimonio della figlia. Successe questo a Palermo: il 23
aprile 1981 venne ucciso Bontate e tale omicidio è un fatto di
valenza impressionante.
  PRESIDENTE. Il regicidio, sì.
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Il regicidio. L'11 maggio 1981
Totò Inzerillo. A questo punto Nino Salvo non capisce più
niente, prende lo yacht e se ne va; Ignazio rimane.
  PRESIDENTE. E telefona a Buscetta.
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Abbiamo tutta una serie di
intercettazioni telefoniche ... No, non riesce a trovare
Buscetta. Non riuscì mai a parlargli perché non aveva il
numero di Buscetta in Brasile. Allora si rivolge a Lo Presti,
che era il cugino, poi anche lui ucciso con la lupara bianca.
Lo Presti telefona a Milano ad uno vicino a Buscetta - ho
cercato questa mattina di ricordare il nome però ne sono
passati migliaia e questo non lo ricordo più - che era amico
di Lo Presti e che questi dava per scontato che avesse il
numero di Buscetta. Costui gli dice che non ce l'ha però sa
come trovarlo e ci sono tutte queste telefonate, che poi noi
abbiamo trovato. Da lì inizia la vicenda giudiziaria dei
Salvo. Ignazio Salvo è stato indiziato in base all'articolo
416-bis del codice penale e poi è accaduto tutto il
resto che ben si sa: è stato condannato con sentenza
definitiva dalla giustizia italiana; è stato condannato con
sentenza definitiva da Cosa nostra, perché è stato ucciso
l'anno scorso (anche lì per chiudere quel rapporto che aveva
come caposaldo l'onorevole Lima). Devo riconoscere che le
fonti sono perfettamente indicate ed è veramente equivoco
lasciar supporre che questa parte della relazione si possa
fondare su giudizi politici dei pentiti (cito testualmente
l'onorevole Fumagalli Carulli). I pentiti non esprimono alcun
giudizio politico. I pentiti raccontano fatti, circostanze e
personaggi che ne sono stati protagonisti. Possono essere
credibili o possono non esserlo; compito della magistratura e
quello di verificare, attraverso la ricerca ed il ritrovamento
di riscontri, se siano credibili. Dai fatti così come sono
riferiti, quando sono credibili si possono, anzi si ha il
dovere di far derivare conseguenze attinenti alla
responsabilità politica che vi è connessa. Ma il giudizio
politico non parte dal pentito.
   Il giudizio politico è un dovere quando dobbiamo assumere
la responsabilità di tenere in vita, come mai si è fatto in
questo paese - e con questo concludo - la profonda distinzione
che deve esserci in una democrazia tra responsabilità politica
e responsabilità penale. Sono due cose completamente diverse e
mi spiace di dover dire che soprattutto il senatore Andreotti
ha sempre teorizzato che a nessun comportamento possono essere
collegate conseguenze politiche se non dopo la pronuncia
definitiva della magistratura. Questo è stato uno degli
strumenti attraverso i quali si è contribuito a conservare
l'immutabilità di un sistema. Sul piano della responsabilità
politica questo è estremamente grave; noi dobbiamo cominciare
ad imparare ed a praticare questa profonda distinzione: è
                        Pag. 1722
compito dei giudici accertare la responsabilità penale, o
negarne la sussistenza quando non vi sono elementi; la
responsabilità politica è di noi tutti e dobbiamo cominciare a
costruire la nuova politica italiana stabilendo che chi
politicamente sbaglia deve politicamente pagare.
  ROMANO FERRAUTO. Vorrei chiederle, presidente, quale sia
l'ordine dei lavori.
  PRESIDENTE. Per intesa tra tutti i componenti la
Commissione, ogni collega può parlare per venti minuti e sono
ancora iscritti a parlare Galasso, De Matteo, Grasso,
Cappuzzo, Frasca, Crocetta, Cabras, Cutrera e Robol.
   Va poi precisato che gli interventi sono di per sé
proposte, delle quali gli uffici stanno prendendo
rigorosamente nota. Se poi qualche collega - come so che hanno
fatto l'onorevole Borghezio e l'onorevole Matteoli - ha
intenzione di proporre in modo specifico di eliminare
un'espressione o di inserirne un'altra, può farlo attraverso
la presentazione di emendamenti. Poiché tali emendamenti vanno
presi in esame, ritengo debbano essere presentati entro la
giornata di oggi.
  MARCO TARADASH. Non sarebbe possibile presentarli entro
lunedì mattina?
  PRESIDENTE. Credo si possa consentire la presentazione
al massimo entro le 14 di domani.
   Proseguiamo ora nella discussione.
  ALFREDO GALASSO. Signor presidente, colleghi, ho qualche
difficoltà nell'intervenire sulla relazione e soprattutto nel
preparare - cosa che comunque ho fatto pur non essendo stato
presente a Roma - gli emendamenti che mi sono sembrati
opportuni.
   Vorrei svolgere un primo rilievo di carattere generale
connesso a questa difficoltà: sarebbe, a mio avviso, opportuno
che la relazione mettesse in evidenza quali siano le fonti
rispetto alle quali si sviluppa questo ragionamento; abbiamo
infatti ascoltato in Commissione antimafia alcuni
collaboratori della giustizia o pentiti, i quali hanno fornito
determinate informazioni, ma non abbiamo ascoltato (perché
questo dovrà avvenire in una fase successiva) esponenti
politici e di istituzioni rappresentative (parlo della
regione, dei consigli comunali, nonché di colleghi
parlamentari e così via).
   Le valutazioni che nascono dall'ascolto di questi
collaboratori della giustizia si mescolano, com'è inevitabile,
con valutazioni che il presidente ha tratto dalla sua
esperienza, dalle sue informazioni e via dicendo. Risulta
quindi molto complicato mettere insieme una serie di
emendamenti perché, come si è detto inizialmente, mi è parso
di poter considerare la relazione (e come tale la prendo) come
uno spunto per una discussione di carattere generale che tra
noi non si è mai svolta. Abbiamo infatti sempre posto domande
ed ascoltato risposte, ma non abbiamo mai avviato una
discussione su che cosa significhi mafia oggi (per dirlo in
termini molto semplici). Si tratta di una discussione, che
avrebbe dovuto e deve essere molto seria e approfondita, volta
ad esplicitare in qualche modo quali siano le fonti di
acquisizione, gli elementi presi in considerazione e
quant'altro.
   Ho svolto questa premessa di carattere generale perché
comunque considero la relazione, indipendentemente dall'esito
che essa avrà nel lavoro successivo della Commissione, come un
momento di passaggio rispetto ad un'inchiesta che non
considero conclusa dal punto di vista istruttorio.
   Preciso subito, per una questione di correttezza, che le
valutazioni che svolgerò, cercando di dare un senso agli
emendamenti che ho presentato, nascono da un'esperienza
decennale che è mia personale e assai poco, per la verità, da
una discussione ed elaborazione in questa sede, che non vi è
stata. Voglio quindi precisare che le cose che dirò non hanno
mai avuto occasione di essere confrontate
                        Pag. 1723
qui con i colleghi e solo parzialmente si fondano su elementi
acquisiti in questa sede.
   Per quanto riguarda le ultime vicende, avrei provato (ho
proposto un emendamento in tal senso) a metterle al centro
della relazione, in quanto dovrebbero non essere limitate ad
un paragrafetto di cinque righe ma costituire un punto di
partenza: non è infatti usuale trovarsi di fronte
all'incriminazione (perché di questo si tratta anche se la
formula è quella dell'avviso di garanzia, ma noi sappiamo che
cosa ciò significhi perché sappiamo che cosa vi sia dietro
questo genere di dichiarazioni ed abbiamo visto anche la
richiesta di autorizzazione a procedere) di un personaggio che
è stato un pilastro della vita politica e istituzionale di
questi anni ed ha integrato una visione politica nelle
istituzioni per tanti anni da essere considerato un "pezzo"
fondamentale di questo sistema politico. Mi sembra quindi che
questo non sia un argomento marginale e rappresenti non la
conseguenza ma il punto di partenza di un ragionamento.
   Lo dico perché le mie convinzioni sull'esperienza e sulla
storia di questo personaggio sono abbastanza datate, in quanto
risalgono indietro nel tempo, ma ciò non significa che un
fatto di questo genere non ne determini un'attualità
drammatica.
   La seconda considerazione consiste nel fatto che sono
convinto (l'ho affermato in Parlamento in più di un'occasione)
che commetteremmo un errore se continuassimo a ritenere (come
mi pare si intenda in alcuni passaggi della relazione) che
quando parliamo di mafia ci riferiamo esclusivamente a Cosa
nostra, ossia ad un'organizzazione criminale feroce, temibile,
che ha seminato (com'è scritto nella sentenza ordinanza di
rinvio a giudizio del maxiprocesso) morte e terrore.
   Credo che proprio i fatti di questi ultimi anni (sto
parlando di fatti accertati in sede parlamentare e in sede
giudiziaria) dimostrino che in realtà quando parliamo di mafia
dobbiamo intendere oggi un sistema che, intrecciatosi con il
sistema della corruzione, ha determinato un profondo
inquinamento della vita politica e di quella istituzionale,
oltre che della vita economica e in alcuni casi anche
dell'esercizio delle professioni, che opportunamente il
presidente Violante ha messo in evidenza accanto alle altre
attività. Ma questa, caro presidente e cari colleghi, è una
concezione di fondo, non un punto emendabile: se discutiamo
insieme per capire se riteniamo che la mafia oggi sia
un'organizzazione criminale che traffica stupefacenti e armi e
si è occupata in passato e si occupa nel presente di tutto ciò
che può procurare profitto illecito, non vi è dubbio che
quanto ci riguarda è il potenziamento dell'azione preventiva e
repressiva degli apparati preposti a tale scopo (la polizia e
la magistratura). In sede politica il compito è questo, ed
eventualmente quello di "potare" alcuni frutti marci che si
sono prodotti nel mondo politico.
   Non credo però che le cose oggi stiano in questi termini:
ritengo infatti che la responsabilità politica sia primaria
perché stiamo parlando di un sistema di potere che ha
determinato la degenerazione grave e profonda della vita
politica e della vita istituzionale; da lì quindi bisogna
iniziare.
   Ho provato ad esprimere ciò con un emendamento di circa 10
righe ma desidero sottolineare che non è questione di
emendamenti: dovremmo, a mio avviso, aprire una discussione e
mi rendo conto che a questo punto dovrei citare una serie di
esempi riferendo alcuni fatti e documenti, perché si possa
avviare in questo senso una riflessione comune.
   Ho provato, nell'ambito degli emendamenti, a richiamare in
maniera più precisa, per esempio, la vicenda di Aldo Moro,
sulla quale vi è qualche richiamo; se riferiamo le audizioni
dei collaboratori della giustizia possiamo benissimo riferire
che essi hanno sostenuto che in sede politica o per ragioni
politiche è stato sconsigliato a Cosa nostra di tentare di
salvare Aldo Moro. Ho predisposto quindi un emendamento che fa
riferimento a questo genere di vicenda, come ci è stata
riferita.
                        Pag. 1724
   Sul piano del rapporto di Cosa nostra con Lima e poi con
Andreotti, ho specificato quali siano le cose che sono sempre
state dette rispetto ai collaboratori della giustizia; la mia
idea è quella di una funzione di garanzia nei confronti di
questo sistema di potere svolta in questi anni e a lungo dal
senatore Andreotti e condivido il fatto (ho ascoltato il
collega Ayala) che per tale ragione l'assassinio di Salvo Lima
ha rappresentato una svolta, proprio rispetto a questo ruolo
di garanzia.
   Sono convinto (ne ho avuto esperienza anche in una visita
negli Stati Uniti) che i tre delitti, anzi quattro, sono
strettamente collegati: mi riferisco a quelli di Salvo Lima,
di Falcone, di Borsellino e di Salvo. Essi obbediscono ad un
strategia che ha messo nel conto perfino la pesantezza dei
costi che Cosa nostra avrebbe pagato. Si tratta quindi di una
strategia di livello politicamente elevatissimo, probabilmente
tuttora in corso.
   Se il punto di rottura è stato l'assassinio di Salvo Lima,
ciò significa che quando parliamo di mafia non possiamo
parlare soltanto di Cosa nostra; ritengo anzi che nessuno dei
colleghi creda, in maniera assolutamente banale, che la
ragione dell'assassinio di Salvo Lima sia stata esclusivamente
il venir meno alla promessa dell'impunità in Cassazione.
Certamente, quell'elemento ha pesato (io credo che abbia
pesato molto) nello scatenare la decisione, ma quando parliamo
di strategia molto elevata ci riferiamo ad obiettivi che vanno
ben oltre, perché se ci si deve vendicare di una promessa non
mantenuta si deve sapere qual è la conseguenza della vendetta
e metterla nel conto della convenienza e del calcolo politico
effettuato, pensando anche, come ha detto Buscetta, a ciò che
accade dopo e probabilmente se non certamente, per
l'esperienza di Cosa nostra, mettere già nel conto quale sia
il livello di equilibrio politico che si instaura dopo la
rottura che si è determinata.
  PRESIDENTE. Cioè dopo Lima.
  ALFREDO GALASSO. Dopo Lima, e quindi una volta caduta o
colpita la garanzia di Andreotti o, per essere più precisi,
del collegamento Lima-Andreotti. Venuta meno questa garanzia,
che risulta agli atti, andava raggiunto un equilibrio politico
diverso e questo non poteva non essere messo nel conto nel
momento in cui si è deciso quell'attentato e gli altri che
l'hanno seguito, beninteso dall'altra parte dello
schieramento.
   Desidero svolgere ancora due considerazioni prima di
concludere. Condivido il fatto che si debba distinguere tra
responsabilità penale e responsabilità politica, ma credo che
questo discorso vada espresso in maniera netta (provo ad
esprimere il senso di qualche emendamento presentato) per
evitare che si ingeneri l'equivoco secondo cui in questi anni
vi sarebbe stata un'appropriazione di funzioni politiche da
parte della magistratura. Ciò non è accaduto o non è questo il
fenomeno significativo al quale possiamo fare riferimento; è
avvenuto semplicemente che in un ordinamento democratico il
circuito delle responsabilità deve essere assolutamente
articolato: devono esservi la responsabilità amministrativa,
quella politica, quella professionale e persino la
responsabilità morale che, in questi tempi, non mi sembra
l'ultima da considerare, mentre considererei per ultima la
responsabilità penale.
   In questi anni è accaduto invece che l'unico circuito di
responsabilità in qualche modo attivo è stato quello della
responsabilità penale, nel quale hanno agito, provando a
socializzare conoscenze secondo lo strumento del processo
penale, magistrati spesso isolati.
  SALVATORE FRASCA. Spesso combattuti da altri magistrati.
  ALFREDO GALASSO. Combattuti spesso dai magistrati o dai
poliziotti della stanza accanto.
   Quella funzione, non impropriamente (non mi è piaciuto,
signor presidente, quell'avverbio) ma propriamente esercitata,
di garanzia della legalità e di
                        Pag. 1725
obbligatorietà dell'azione penale ha determinato una rottura
degli equilibri politici, perché è evidente che le
ripercussioni determinatesi hanno influenzato anche
l'andamento della vita politica e della vita pubblica. E tanto
si era reso asfittico questo circuito complessivo delle
responsabilità penali che abbiamo assistito (e questo
probabilmente andrebbe messo in evidenza) al fatto che molti
dirigenti politici, anche autorevoli, con responsabilità
gravi, hanno delegato alla magistratura il compito di far
pulizia, così come si è rilevato quando si è detto che non era
possibile allontanare nessuno da una carica politica o da una
carica pubblica in funzione di quella necessaria autotutela
che ogni formazione politica deve svolgere finché non c'è
un'incriminazione sul piano giudiziario.
   Questo è stato detto più volte: ne abbiamo sentito qualche
eco persino nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio a
proposito dell'autorizzazione a procedere. Qualche eco si è
avuta in questa occasione. Nulla di più grave e di più
deleterio è dunque la riaffermazione della diversità dei campi
di responsabilità e della necessità di dare il primato alla
responsabilità politica: va detto in maniera molto chiara,
perché qui non è che vi sia stata una confusione tra
responsabilità penale e responsabilità politica, vi è stata
semplicemente la mancanza di esercizio dei poteri di
autotutela e dunque delle sanzioni di ordine politico.
   Un'ultima considerazione e concludo, presidente: credo che
alcune cose vadano dette con più evidenza, ma anche con più
nettezza, col coraggio di una scelta. Ho provato a formularla
e mi riferisco particolarmente all'esperienza lunga,
tormentata, difficile di quella che continuo a chiamare la
primavera di Palermo.
   La messa insieme di soggetti e di esperienze diverse (che,
io credo, da quello che ho sentito - poi leggerò i verbali: mi
dispiace di non essere stato presente - la collega Fumagalli
ha caricato di ulteriori significati e riferimenti,
assolutamente privi di fondamento, per quanto mi riguarda) è
la manifestazione di una difficoltà ad esprimere un giudizio
politico. Io credo che il giudizio politico vada espresso, che
ciascuno esprima il suo, ma va espresso! Perché non sono stati
fatti di poco conto a mettere insieme - mi consenta,
presidente - Martellucci, Insalaco, Orlando, la Pucci e non so
chi altri.
   Ripeto, indipendentemente dai giudizi che si devono dare
di ciascuno di questi, significa veramente accomunare
un'esperienza lunga e articolata che ha avuto momenti diversi.
   Dunque, io ho l'impressione che questo aspetto vada
inserito con molta evidenza: è un capitolo che va specificato.
Non è possibile... (Interruzione del senatore Brutti).
Scusami, Massimo, poi farai il tuo intervento. Sto dicendo che
questa vicenda sembra non aver rappresentato nulla per la
città di Palermo e per l'Italia, invece va messa in evidenza.
Adesso non andiamo a fare la buccia sulla riga, come è scritto
e come non è scritto: il senso è questo. Tanto è vero che ci
sono state delle prese di posizione, che ho sentito qui dalla
collega Fumagalli, molto dure in questa direzione, che
considero completamente prive di fondamento, ma che ci sono
state. Dunque prendo atto che ci sono state e quindi non
intendo che questo argomento venga trascurato o coperto da
formule equivoche. Un giudizio su questo deve essere dato,
molto netto e molto chiaro.
  MARIO CLEMENTE MASTELLA. Lo chiediamo tutti, non
soltanto tu!
  ALFREDO GALASSO. Ma perché sto facendo forse qualche
rilievo?
  PRESIDENTE. Colleghi!
  MARIO CLEMENTE MASTELLA. No, per l'amor di Dio!
  ALFREDO GALASSO. Non ho capito perché c'è questa
particolare eccitazione su questo argomento!
  MARIO CLEMENTE MASTELLA. L'eccitazione è già nel tono
della tua voce, non di altri!
                        Pag. 1726
  ALFREDO GALASSO. No, il tono della mia voce: io mi sono
riferito all'osservazione che faceva Brutti!
  ROMEO RICCIUTI. Censuratorio!
  ALFREDO GALASSO. Presidente, credo che questo sia il
succo dei rilievi che volevo fare e che si riferiscono
nuovamente, in conclusione, alla difficoltà iniziale rispetto
all'andamento dei lavori della Commissione, pur con un non
rituale apprezzamento per lo sforzo compiuto dal presidente,
ma forse proprio i lavori della Commissione si sono riflessi
in questa relazione, rendendo piuttosto difficile questo
approccio.
   Per me questi emendamenti sono di fondo. Per questo li ho
voluti illustrare. Non sono marginali, sono emendamenti di
fondo. Per il resto, che non ha riguardo alle vicende che
hanno a che fare con i lavori di questa Commissione (ripeto,
mi dispiace di non aver potuto ascoltare l'intervento della
collega Fumagalli) vedrò poi, all'esito della lettura del
resoconto stenografico, di che cosa si tratti, anche se fin da
adesso ho l'impressione che riguardi abbastanza relativamente
i lavori della Commissione e, per quanto mi riguarda,
assolutamente nulla.
  ALDO DE MATTEO. Signor presidente, desidero dichiarare
sin dall'inizio un'apprezzamento sincero per il lavoro fatto
dalla presidenza. L'ho fatto già in altre circostanze,
mettendo in rilievo la qualità e l'intensità del lavoro di
questa Commissione.
   Lo dico in modo particolare oggi, perché non condivido
alcune interpretazioni che sono state date: mi sembra di
cogliere molta enfasi che non è in sintonia invece con la
serietà, l'intensità del difficile, per alcuni aspetti,
confronto che si sta realizzando tra di noi. Non vedo quindi
né un presidente sfiduciato da una parte della Commissione né
un vicepresidente abbandonato dal suo riferimento politico.
   Questo richiamo ha una valenza politica, presidente,
colleghi, perché trova ragione in un convincimento di fondo.
Credo che il modo di presentare i lavori e soprattutto le loro
conclusioni possa avere un effetto negativo rispetto alla
delicatezza delle questioni che si affrontano proprio da parte
della gente che ha fiducia in questo punto delicato delle
istituzioni della nostra democrazia.
   Tra l'altro, ritengo - esprimo un parere molto personale -
che su alcuni temi non vi possa essere una disciplina di
gruppo. L'ho detto anche in alcune riunioni all'interno del
mio partito. Ognuno, di fronte a questioni di questo tipo,
rappresenta se stesso, si interroga, ragiona e sceglie,
naturalmente secondo coscienza e in santa libertà. Ci sono
temi che dovrebbero rimanere al riparo dallo scontro politico.
L'ho sempre sostenuto anche in altre sedi, forse con un po' di
utopia, un sogno che non desidero accantonare neppure in
questa circostanza.
   Sugli obiettivi che sono stati annunciati nella sintesi
che il presidente Violante ha presentato l'altro giorno,
all'inizio di questa tornata di riunioni, io sono d'accordo.
La lotta intensa e senza quartiere alla mafia; non
sottovalutare questo rapporto mafia-politica, che c'è ed è una
delle ragioni che ha consentito alla mafia finora di
resistere; e soprattutto il nuovo che sarà condizionato dalle
scelte che faremo su questo terreno, che il Parlamento farà su
questo terreno. Quindi, particolarmente significativo trovo il
richiamo della relazione laddove si dice che l'impegno contro
la mafia, così come l'impegno contro la corruzione, nella
politica e nell'economia, è parte essenziale del più generale
impegno per il cambiamento del nostro paese.
   Allora, sarebbe secondo me un grave errore dividerci,
anche se è necessario liberare la relazione e soprattutto il
rapporto conclusivo che si costruirà da equivoci, integrando
dove c'è da integrare, modificando dove lo riterremo,
liberamente, attraverso un confronto, nella fase conclusiva di
martedì.
                        Pag. 1727
   Ma quale attacco scriteriato e fazioso al presidente ed
alla Commissione, come leggiamo sui giornali di oggi? Mi
sembra che siano cose che non stanno né in cielo né in terra,
soprattutto perché non rispondono alla realtà del nostro
impegno, alla realtà di questo confronto politico.
   Presidente, avevo già detto in altre circostanze, ma ho
preso atto che si è trattato di una decisione concordata a
livello di Commissione, che do particolare rilevanza alle
audizioni dei politici che sono programmate. Noi elaboriamo
questo rapporto al termine di una fase del nostro lavoro: alle
audizioni dei politici già indicati quando abbiamo determinato
il nostro itinerario se ne aggiungeranno altre, perché altri
nomi, probabilmente, dovremo inserire dopo questo confronto.
Quindi, si tratta di sentire i sindaci, uomini politici
nazionali, che potrebbero offrire qualche squarcio in più
rispetto ad una realtà, quella politica, quella politica
siciliana in modo particolare, che non è un tutt'uno omogeneo.
   Vedo che nella relazione si fa riferimento alle
connessioni, che non riguardano soltanto i rami bassi della
politica, ma anche questi vanno conosciuti in tutte le loro
dinamiche. Uno spaccato lo cogliamo a livello generale
attraverso le misure straordinarie adottate, così ben
evidenziate nel rapporto del collega Cabras. Ed io vedrei
valorizzato tale aspetto in questa relazione, nel senso di
cogliere alcune indicazioni che in quel rapporto ci sono e che
riguardano proprio i rami bassi, cioè i collegamenti
territoriali del fenomeno mafioso.
   Il richiamo alle audizioni che dovremo fare serve a
rafforzare il nostro contributo, che in questo momento riesco
a vedere in due fasi (non sto proponendo di fare un rapporto
fra alcuni mesi; vedo ormai alcune tappe nel nostro lavoro),
al Parlamento, fondato sull'insieme del lavoro, sulle
audizioni, su quanto abbiamo accumulato in questi mesi, avendo
presenti sempre gli obiettivi generali e i tempi della
politica che sono cambiati. Con questo giustifico anche alcune
accelerazioni, perché so bene che i tempi della politica non
sono quelli di cinque anni fa, di un anno fa, di sei mesi fa,
di un mese fa. C'è un'accelerazione nelle cose, che poi
comporta anche accelerazioni su altri terreni. Dobbiamo
abituarci anche a capire, ad adattarci a queste necessità.
   E' quindi tenendo conto di questi obiettivi, di questa
presa di coscienza del fenomeno e delle sue caratteristiche
vere che si deve diffondere e dare una spinta decisiva ad una
migliore organizzazione per combattere il fenomeno, sapendo
che non ci sono zone franche. Questo è l'aspetto più
importante.
   Se questi sono gli obiettivi generali, riterrei utile
liberare la relazione di qualche elemento che può prestarsi ad
equivoci, non appiattirla su alcuni dati che possono in un
certo senso compromettere il grande significato
dell'importante lavoro che stiamo compiendo. Condivido il
richiamo che ha fatto il senatore Ferrara Salute nel suo
intervento dell'altro ieri rispetto al significato che assume
la valutazione sull'iniziativa dei giudici di Palermo mentre è
in corso al Senato l'esame della richiesta di autorizzazione a
procedere nelle indagini per il senatore Giulio Andreotti.
Credo che il riferimento del collega Ferrara sia da accogliere
ed anch'io naturalmente lo ripropongo.
   Vorrei poi svolgere tre osservazioni di merito per portare
un modesto contributo a questo confronto: la prima riguarda la
qualità della lotta alla mafia. Anche questo problema diventa
interessante perché constato che vi sono giudizi non
collimanti: io credo che siamo di fronte ad un'organizzazione
criminale, la mafia, che per raggiungere i suoi obiettivi
ricorre anche ai politici. Il mafioso cerca il potere per
assicurarsi l'impunità, non cerca il democristiano o altri
(non voglio citare altri partiti); cerca il potere - ripeto -
per raggiungere i suoi obiettivi.
   La mafia non è un soggetto politico, neppure nella formula
che citava poco fa l'onorevole Ayala; resta un soggetto
criminale che inquina la vita politica anche quando
distribuisce voti durante le competizioni elettorali. Queste
sono le sue
                        Pag. 1728
caratteristiche, che permangono. Ciò è importante e ci tengo
molto a fare questa affermazione, ma su tale elemento vorrei
anche confrontarmi, perché spesso ne discende una
semplificazione che è terrificante, quella cioè che la mafia è
la politica. Ciò ci porta veramente su un terreno minato in
una fase in cui siamo tutti impegnati a rilegittimare la
politica nel nostro paese. Il grande sforzo è quello di ridare
dignità alla politica, restituendole il suo vero significato,
che ha perso per ragioni che sono di diverso tipo.
   Credo che nel rapporto tra mafia e politica si debba
compiere un esame ampio delle responsabilità e dei
comportamenti. Inserisco anche l'elemento - non per ridurre,
ma per ampliare il lavoro - dell'iniziativa dello Stato,
costantemente inquinata e depotenziata nel suo cammino. Certo,
vi sono ragioni che troviamo anche nelle diverse fasi del
dibattito politico, forse vi è anche un eccesso di cultura
garantista che ha permeato l'iniziativa dello Stato (è
emblematico il dibattito svoltosi sui pentiti), ma questo
quadro politico e culturale (che richiamo non in termini di
giustificazione, ma di comprensione, aggiungendo che occorre
fare un esame dei provvedimenti, delle politiche, delle
rinunce e dei condizionamenti che non hanno permesso di andare
a fondo nella lotta alla mafia), rappresenta un insieme di
dati che non mi sembra emergano nella relazione.
Probabilmente, quindi, questa parte del documento va
arricchita ed ampliata.
   Il secondo elemento riguarda il rapporto tra mafia e
partiti. Credo che non vi sia un rapporto diretto, ma
indiretto, attraverso i singoli politici, e su questo è
necessaria un'estrema chiarezza anche se molti amici sono
intervenuti in proposito. Chiedo pertanto al presidente
Violante se non ritenga opportuno modificare alcune righe
della sua relazione, che non corrispondono certamente al suo
pensiero, che è stato espresso in diverse occasioni e che mi
sembra sia emerso anche nel corso del dibattito. Cito
testualmente: "(...) non hanno mai riguardato tutti gli uomini
o tutti i dirigenti di un singolo partito". Detto così sembra
che vi siano delle eccezioni, che vi siano soltanto delle
eccezioni. Probabilmente, la frase...
  PRESIDENTE. Ho capito, va rovesciata.
  ALDO DE MATTEO. ...va rovesciata per dare il senso di un
concetto che era già stato espresso in modo inequivocabile in
tante circostanze.
  PRESIDENTE. E' giusto.
  ALDO DE MATTEO. Se invece - e così non è - vi è la
convinzione che siamo di fronte ad un intero ceto politico...
  PRESIDENTE. No.
  ALDO DE MATTEO. ...allora bisogna essere chiari perché
questo potrebbe essere un punto di grave contrasto. Però, così
non è e ne sono felice.
   Con questo stesso stile e con il medesimo rigore credo che
dobbiamo guardare ad altre segnalazioni che pure sono emerse
nel corso dei nostri lavori, in particolare dalle audizioni:
per esempio, il pentito Messina ci ha parlato della Rete. Non
abbiamo tratto conclusioni e bene ha fatto il presidente
Violante a non trarne rispetto a questo riferimento.
  ALFREDO GALASSO. Ha parlato a che proposito?
  ALDO DE MATTEO. Ha parlato della Rete a proposito dei
voti di San Cataldo. Faccio riferimento ad una audizione alla
quale eravamo entrambi presenti e che quindi cito senza
malizia e senza voler formulare su questo niente di...
  ALFREDO GALASSO. Me lo ricordo; sono completamente
d'accordo.
  ROMEO RICCIUTI. Da oggi in poi per parlare della Rete
chiederemo il permesso a Galasso!
                        Pag. 1729
  ALFREDO GALASSO. Sto dicendo che sono completamente
d'accordo.
  PRESIDENTE. Quello che esprime l'onorevole Galasso è un
consenso.
  ALDO DE MATTEO. Nella relazione si fa riferimento alle
nuove formazioni politiche, ma come ipotesi, come tema
presente rispetto agli scenari ed alla strategia che la mafia
si è data, o si vuole o si potrebbe dare. Questo mi sembra un
modo anche molto corretto per affrontare il problema, con
l'obiettivo, sempre chiaro e determinato, di combattere la
mafia ed i luoghi da cui essa in questi anni ha tratto linfa e
sostegno.
   Il terzo riferimento riguarda un capitolo da integrare, o
probabilmente da riempire, perché la relazione contiene una
lacuna che a me sembra importante. Mi riferisco al capitolo
sulla massoneria, che mi limito a citare perché ormai il tempo
a mia disposizione è quasi scaduto.
   Abbiamo avuto anche a questo proposito qualche accenno nei
colloqui, negli incontri tenutisi nel corso di qualche visita
- anche il senatore Cabras ricorderà quello con il giudice di
Palmi Cordova - ma il tema ritorna anche nelle audizioni dei
pentiti, per la verità non sempre in termini molto chiari. A
volte abbiamo avuto la sensazione che qualche pentito non
avesse un'idea chiara di quali fossero le finalità della
massoneria, ma si tratta di un tema che ritorna. Al di là,
quindi, delle osservazioni dell'onorevole Buttitta su questa
equiparazione tra partiti e massoneria, che condivido, credo
che questo sia un capitolo da approfondire e da "riempire".
   In conclusione, invito la presidenza a chiarire nel testo
conclusivo quanto si può chiarire, individuando un itinerario
di ulteriore approfondimento. Sono molto interessato a questo
dato, cioè non solo ad una relazione conclusiva del dibattito,
ma ad un itinerario che ci consenta di percorrere il rimanente
cammino. Credo che questo sia necessario per raggiungere un
consenso ampio, che ritengo molto importante anche ai fini
dell'efficacia del nostro lavoro. Sono quindi particolarmente
lieto di alcuni giudizi che sono stati espressi. Il compito
non è facile perché cercare la verità è un'impresa
straordinaria; credo di poter affermare - lo dico almeno per
me - di non vedere una democrazia cristiana in difficoltà su
questo tema. Voglio affermarlo con grande libertà: non vedo il
partito della democrazia cristiana in difficoltà; lo vedo anzi
impegnato come gli altri per sradicare la mala pianta della
mafia, certo in una situazione complicata (non è facile
lavorare con un quadro politico come quello nel quale siamo
inseriti), ma con lo stesso rigore e la stessa lealtà di tutti
gli altri colleghi.
  GAETANO GRASSO. Condivido in pieno l'impianto e le
argomentazioni proposte nella relazione al nostro esame, che
giudico assai equilibrata, volendo esprimere con questo
aggettivo non il raggiungimento di punti d'accordo, di
compromessi anche su un terreno deteriore, ma il fatto che
essa contiene giudizi e valutazioni a partire da fatti
rigorosamente accertati.
   Credo che abbiamo l'esigenza di considerare - e quindi di
approvare - questa relazione perché con essa possiamo
finalmente porre dei punti fermi da cui procedere per avviare
una riflessione. Intanto bisogna partire da queste valutazioni
e da queste riflessioni e considerare la relazione un inizio:
si apre una crepa e bisogna allargarla ulteriormente. Non
vorrei, però, che artificiose drammatizzazioni od
esasperazioni su tali questioni possano essere finalizzate ad
impedire a questa Commissione di porre finalmente questi punti
fermi.
   C'è la necessità politica (l'abbiamo sentito più volte),
il bisogno di dare una risposta istituzionale con questo atto
alle incompatibilità sopravvenute di cui si parla a pagina 8
della relazione. Vi è una necessità politica sul fronte
dell'azione di contrasto alla mafia, perché un atto di questo
tipo può aiutare ulteriormente
                        Pag. 1730
quel processo che tenta di spezzare l'omertà nel nostro
territorio.
   Vi è una necessità politica perché, al di fuori di ogni
discussione, resta indubbio il fatto che per creare un nuovo
sistema politico in questo nostro paese si debbono
obbligatoriamente fare i conti da un lato con il rapporto tra
mafia e politica e dall'altro con i problemi della corruzione
e di Tangentopoli.
   A questo proposito, voglio richiamare due passaggi
contenuti rispettivamente a pagina 8 e 28 della proposta di
relazione su cui, a mio avviso, l'attenzione - anche degli
organi di stampa - è stata, diciamo così, lieve. Rispetto a
come la nostra attività e questa riflessione si collocano
nella fase di passaggio che sta attraversando il nostro paese,
mi sembrano molto opportuni i richiami ai pericoli concreti (a
pagina 8 si parla di tentativi che potrebbero manifestarsi in
modo violento, a pagina 28 di un riproporsi del terrorismo
politico-mafioso). Vi è il pericolo di un'alleanza, di
un'intesa tra gli sconfitti della corruzione e gli sconfitti
della mafia. Lanciare un allarme su questo terreno è, secondo
me, molto opportuno in un momento delicato come quello che
attraversa il nostro paese.
   Dicevo che si deve avere una relazione da cui partire per
porre dei punti fermi e procedere oltre. Vi sono a mio avviso
molte questioni sulle quali la nostra azione come Commissione
antimafia dovrà continuare. Voglio individuarne brevemente
due: la prima è sia interna sia esterna al capitolo sulla
massoneria. Abbiamo bisogno di sollecitare, avviare, procedere
anche noi con i nostri poteri (azione che nella relazione
viene posta come un punto fermo) all'accertamento di tutti
quei livelli occulti di potere che ancora oggi esistono nel
nostro paese e su cui ancora il livello di conoscenza è assai
insufficiente.
   In secondo luogo penso che sia un errore ritenere che la
questione dei rapporti mafia-politica e mafia-istituzioni
possa esaurirsi in alcuni nomi perché il pericolo è che questi
stessi nomi possano svolgere la funzione di capro espiatorio.
Poiché su questo campo siamo agli inizi, non è male ripetere
che tante, numerosissime sono le coperture politiche ed
istituzionali ancora non venute alla luce e che è necessario
emergano presto.
   Nel dibattito dell'altro giorno ed in quello di questa
mattina ho sentito contrapporre la questione militare, o il
livello militare della mafia, a quella politica. Qualche
collega ha parlato della necessità di privilegiare il quartier
generale come obiettivo dell'attacco e dell'azione di
contrasto; questa mattina, il senatore De Matteo distingue la
mafia come soggetto politico e come soggetto criminale,
ritenendola soltanto soggetto criminale. Ritengo che questo
sia un errore di valutazione: è impossibile distinguere
all'interno del fenomeno mafioso i due livelli che si
identificano sempre, si intrecciano; non è retorico richiamare
la famosa espressione di Buscetta resa davanti alla nostra
Commissione riferita alle entità con le quali la mafia entra
in varie relazioni.
   Un'altra considerazione concerne un aspetto contenuto
nella relazione riguardante quale sia il criterio per
stabilire l'antimafiosità di un dirigente politico, di una
persona, e se è possibile dedurre ciò dal fatto che egli ha
approvato o votato importanti leggi repressive nei confronti
della mafia. Qualcuno ha ritenuto, attraverso questo
argomento, di potere procedere ad una difesa d'ufficio di
esponenti politici della nostra Repubblica. A questo proposito
mi tornano sempre alla memoria non le parole o le affermazioni
di un pentito, ma le dichiarazioni di un ministro della
Repubblica, l'allora ministro dell'interno Scotti, che in una
intervista alla Repubblica, alla fine di giugno di
quest'anno, commentava l'approvazione del decreto-legge dell'8
giugno 1992. In quella occasione il ministro Scotti
sottolineava l'indifferenza di ministri, e del Governo in
generale, di fronte al provvedimento che si votava in quel
momento; in quell'intervista egli denunciava la situazione di
solitudine e di isolamento che lo coinvolgeva in quanto
proponente del provvedimento.
                        Pag. 1731
   Ciò che conta ormai, come ha sottolineato l'onorevole
Ayala a proposito della risposta a "fisarmonica", è sempre ed
esclusivamente non le cose scritte, ma la volontà politica di
attuarle; purtroppo, in questa Commissione abbiamo discusso
anche di altri esempi, come per esempio la legge antiracket.
   Ritengo che il riferimento del collega Galasso alla
primavera palermitana vada fatto, nel senso che soprattutto
nel rapporto tra mafia e politica quella stessa esperienza,
indipendentemente dalle contraddizioni che ha avuto e dentro
cui si è sviluppata abbia rappresentato - è innegabile -
nonostante tutti i limiti, un fatto indubitabile di rottura
per quella città e per la Sicilia.
   L'ultima osservazione riprende una questione sollevata
dall'onorevole Tripodi nel suo intervento a proposito del
sistema elettorale; ritengo che, indipendentemente dal sistema
che adotteremo nel nostro paese, abbiamo ormai la conferma che
la mafia riesce con grande elasticità ad adattarsi ad ogni
sistema elettorale al quale sa piegare la propria strategia.
  UMBERTO CAPPUZZO. Signor presidente, ho ascoltato gli
interventi dei colleghi ed ho letto con molta attenzione la
sua relazione. Voglio sottolineare che, per la prima volta,
abbiamo l'occasione storica di affrontare il tema scabroso del
rapporto tra mafia e politica con il distacco che si addice ad
una Commissione di così elevata qualificazione.
   Mi ricollego subito all'affermazione, che ritengo
fondamentale, che lei ha fatto a pagina 12 della relazione,
laddove sottolinea che: "La Commissione ritiene opportuno
sollevare un doppio allarme, nei confronti delle forze di
maggioranza perché accettino il principio di responsabilità
politica, e nei confronti delle forze di opposizione perché
tengano ben distinto il profilo della lotta politica, anche
aspro, da quello della responsabilità politica".
   Ritengo - ripeto - questa affermazione quanto mai
significativa, anche se probabilmente dovrebbe essere
formulata in modo diverso, ma la verità è questa. La
discussione di oggi non è l'occasione per un semplice
dibattito politico o per la contrapposizione di schieramenti
(i buoni da un lato ed i cattivi dall'altro), poiché è in
gioco l'essenza stessa della democrazia. In momenti drammatici
come questi, qualsiasi strumentalizzazione di parte o
qualsiasi ambizione di soluzioni di tutt'altro tipo,
potrebbero essere interpretati come tentativo di trovare una
scorciatoia nella soluzione dei gravi problemi della nostra
democrazia. A questo riguardo devo sottolineare che problemi
analoghi si sono presentati anche nella democrazia americana;
basta leggere quanto è stato riportato dalla stampa su
presunti rapporti di Kennedy durante il meraviglioso periodo
della sua presidenza; rapporti che lo fanno apparire legato in
qualche modo alla mafia, o addirittura coinvolto nell'omicidio
di Marylin Monroe. Ho citato questi esempi per sottolineare
come sia difficile la vita delle democrazie, laddove esistono
strutture organizzate come quelle della mafia, che incidono
sulla vita sociale, ma non sono soggetti politici. Su questo
sono d'accordo: guai se dessimo dignità di soggetto politico
alla mafia, un riconoscimento che non abbiamo dato neanche
alle Brigate Rosse, signori miei! Eppure lo pretendevano, ma
abbiamo rifiutato di accettare la logica che si dovesse
trattare da pari a pari. Sono soggetti criminali che si
servono della politica.
   Signor presidente, al riguardo mi sembra veramente
illuminante quanto Falcone, che - per la materia che siamo
chiamati ad affrontare - è un riferimento concreto per noi -
rispose ad un'osservazione di Criscuolo nella seduta, poc'anzi
ricordata, del Consiglio Superiore della Magistratura. Egli
ebbe a dire: "Per quanto riguarda il Ciancimino come vertice,
so che non è il tuo pensiero, ma mi sembra che riecheggi una
sorta di terzo livello da cui sono tormentato da anni. Non
esistono vertici politici che possano in qualche modo
orientare la politica di |P'Cosa nostra|P'; è vero esattamente
il contrario e credo di averlo dimostrato in più
                        Pag. 1732
occasioni. Il terzo livello, inteso quale direzione
strategica formata da politici, massoni, capitani d'industria,
eccetera, che orienta |P'Cosa nostra|P' vive solo nella
fantasia degli scrittori, non esiste nella pratica. Esiste una
situazione estremamente più grave" - e qui richiamo la vostra
attenzione - "più complessa, perché più articolata". E' questa
articolazione che dobbiamo cercare di capire, questo complesso
di vincoli. E passo ora ad esaminare gli elementi costitutivi
di tali vincoli. Falcone dice a Criscuolo: "Lo so che questo
non è il tuo punto di vista" e, dopo la conferma di Criscuolo,
Falcone aggiunge: "Non sono emersi altri uomini politici,
oltre Ciancimino".  Ma non mi interessa questo, mi interessa
il problema del rapporto tra politica e mafia.
   Al riguardo mi sembrano particolarmente pertinenti le
osservazioni dell'onorevole Buttitta laddove evidenzia la
differenza tra mafia e cultura mafiosa. In verità ciò serve a
capire quegli ambienti del nostro Meridione in cui tante volte
la politica si sviluppa. Ciò premesso, sarebbe assai grave se
utilizzassimo questa occasione per metterci su posizioni
contrapposte, perché dobbiamo arrivare a soluzioni
convergenti. E ritengo che ciò sia possibile.
   Signor Presidente, la relazione, pur pregevole, appare un
po' ponderosa ed è anche male articolata, soprattutto per
quanto concerne l'inserimento dell'evoluzione storica, che
appare episodica, non articolata per tappe successive.
Probabilmente sarebbe stato opportuno svilupparla a premessa
della relazione; un'evoluzione storica che, peraltro, deve
essere punteggiata da avvenimenti molto indicativi. Mi
riferisco al primo dopoguerra, all'inserimento della mafia nel
nuovo sistema democratico, all'importantissima |P'esperienza
Milazzo|P', che segnò una svolta e fu un banco di prova. In
quella esperienza la sinistra, che qui non aveva alcuna
particolare propensione a favorire la mafia, ebbe a subire
pesantissimi condizionamenti. Questo meriterebbe di essere
evidenziato, perché quelle forze, che pure erano progressiste
e rifiutavano la logica della mafia, ad un certo punto
dovettero subire pericolose contiguità. Quindi, ritengo
opportuno suggerire una riarticolazione, anche alla luce di
quanto ha suggerito l'onorevole Imposimato, esaminando anche i
rapporti tra mafia ed istituzioni. Ritengo che i rapporti tra
mafia e magistratura, tra mafia e forze dell'ordine, tra mafia
ed istituzioni in genere, tra mafia ed imprese produttive, tra
mafia e aziende di credito - quest'ultimo aspetto
importantissimo è forse sfuggito, ma è stato sottolineato da
qualcuno prima di me - dovrebbero essere passati in rassegna
partitamente. Mi chiedo quali motivazioni hanno costituito la
base per la concessione di crediti da parte di elementi di
potere nel nostro Meridione, quali motivazioni hanno
influenzato scelte, assunte a suo tempo per quanto riguarda lo
sviluppo del Sud e della Sicilia in particolare.
   Ritengo che la relazione contenga riferimenti accessori
non pertinenti, come ad esempio gli accenni a regole di
comportamento a livello familiare (fedeltà), o modalità di
azione negli omicidi (strangolamento), che fanno perdere un
po' di incisività, e che per me sono inutili, tanto più che
ben altri comportamenti meriterebbero di essere evidenziati.
Tra l'altro, è fondamentale il fatto che il mafioso esige che
gli venga riconosciuta la sua qualifica in quanto "può", nel
senso totale del potere. Un giornalista italiano molto
qualificato ha detto - e ne convengo - che togliendo il saluto
riverente espresso con "vo'scienza benedica" e con la
"scoppolata" il mafioso è finito: questo è vero! Perché quello
che si è subìto dipende soprattutto dall'avere accettato
questa logica della riverenza e concepito il potere come
possibilità di elargire favori, altro male che ha attraversato
un po' tutti i partiti.
   Signor Presidente, mi sembra pericolosa, nella trattazione
generale del fenomeno mafioso, la semplificazione che si
potrebbe trarre dall'ammissione che in fondo la democrazia è
stata mafia, e peggio ancora che si arrivi alla
delegittimazione
                        Pag. 1733
 di un sistema politico democraticamente espresso. Vi sono
alcuni punti della relazione che varrebbe la pena di
modificare e questo secondo me potrebbe risultare fattibile. A
tal fine, signor Presidente, vorrei anche sottolineare che se
la mafia riesce ad essere un soggetto sociale che favorisce la
politica e consente flussi di voti, razionalità d'impostazione
e di trattazione avrebbe dovuto portare ad esaminare lo
spostamento, la mobilità del voto in funzione di bacini di
presenza della mafia. Un esame del genere sarebbe stato
estremamente interessante. Forse è mancato il tempo, ma
esaminando i bacini di presenza della mafia avremmo constatato
che vi sono stati nel tempo consistenti spostamenti con
riferimento a certi nomi. In tal caso avremmo avuto uno
spaccato estremamente indicativo, ben altra indicazione
rispetto alla relazione presentata, che per me è troppo
blanda, mentre avrebbe potuto essere ancor più incisiva.
   Signor Presidente, voglio ricordare che la relazione sulle
forze dell'ordine, di cui sono stato relatore nella precedente
legislatura, in alcuni punti risulta molto più dura di quanto
non lo sia questa, laddove si afferma, ad esempio, che
l'autorità dello Stato è messa in pericolo per certi aspetti:
si potrebbe arrivare al |P'punto di non ritorno|P' nel momento
in cui la gente abbia percepito che è molto più comodo
riferirsi alla mafia per avere sicurezza, anziché allo Stato.
   Signor Presidente, quali sono state le carenze dello
Stato? Vengo ora ad un punto molto importante che riguarda i
comportamenti di tutte le forze politiche nei riguardi dei
provvedimenti più importanti relativi alla mafia.
   Un'analisi del genere avrebbe evidenziato per lo meno
disattenzioni, omissioni, trascuratezze, connivenze o
collusioni. Non voglio, per carità, enfatizzare queste ultime,
ma chi sono stati coloro i quali hanno appoggiato certi
provvedimenti e non altri?
   Signor Presidente, mi permetto di ricordare, poiché Lei
era deputato anche nella passata legislatura, le sue giuste
preoccupazioni nel momento in cui si dovevano assegnare
all'Alto Commissario certi poteri, per quanto concerne, ad
esempio, le intercettazioni telefoniche. Non possiamo
dimenticarlo, ma da questo non traggo certo l'idea che Lei
possa aver favorito o avesse l'intenzione di favorire
comportamenti scorretti da parte di certe organizzazioni.
   Nel nostro Paese sono state portate avanti filosofie di
fondo che devono essere evidenziate, perché questo è stato il
motivo per cui la lotta alla mafia non è stata abbastanza
efficace. Le omissioni sono gravissime e riguardano, ad
esempio, i poteri sottratti alle Forze di polizia in campo
investigativo preventivo, prima ancora che ci sia la notizia
del crimine, cioè tutta l'attività informativa che è stata
fortemente penalizzata. Le disattenzioni riguardano il
garantismo di fondo che ha pervaso tutti questi anni.
Personalmente in quella relazione, che ho ricordato, ponevo
dubbi sulla validità del nuovo processo penale, avendo io una
visione di tipo più restrittivo, forse perché condizionato
dalla mia provenienza militare.
   Se si vogliono esaminare i rapporti tra mafia e politica,
si deve mettere in risalto la sensibilità delle forze
politiche in materia di lotta alla mafia, i comportamenti
della Magistratura e delle Forze dell'Ordine e l'efficacia
degli strumenti impiegati.
   Un'analisi di questo genere sarebbe molto interessante,
così come molto interessante sarebbe passare in rassegna il
comportamento delle forze politiche nei confronti del
pool antimafia. Chi si è schierato pro o contro
tale pool? Perché non mettere bene in evidenza...
  PIETRO FOLENA. Il partito comunista italiano è sempre
stato a favore del pool.
  UMBERTO CAPPUZZO. Non parlo di forze politiche, non so
neppure come siano schierati coloro che militano nella sua
area in questo momento. Non lo so, non ho fatto un'indagine.
  PRESIDENTE. Si può fare.
                        Pag. 1734
  UMBERTO CAPPUZZO. Vorrei ricordare che Falcone è stato
battuto tre volte, signor Presidente, ed è stato battuto con
tre sconfitte nelle sue aspirazioni, che non erano ambizioni,
ma rientravano nel quadro completo di un disegno strategico.
La prima sconfitta fu la mancata nomina a consigliere
istruttore. Quali forze si schierarono dalla parte di Falcone?
E quali furono contro? Non è forse vero che Magistratura
democratica non si schierò con i suoi...
  PRESIDENTE. Ma non è presente in Parlamento!
  UMBERTO CAPPUZZO. ...e ben due consiglieri su tre
votarono Meli? Non do un significato politico, ma l'esattezza
della valutazione deve conseguire dai dati di fatto ed è per
questo che non carico di significati dirompenti la vicenda.
   La seconda sconfitta fu quella di Falcone che aspirava ad
essere eletto nel Consiglio Superiore della Magistratura: non
ci fu una famosa corrente che non lo fece votare? E la terza
sconfitta non fu quella per la designazione alla Superprocura
Nazionale Antimafia? Nella commissione incarichi direttivi del
CSM alcuni, non voglio dire chi perché non mi interessa,
votarono contro e Falcone non fu eletto.
   Si tratta di responsabilità oggettive e soggettive per
impostazione culturale o per altro; ecco perché è complicato
parlare di rapporti tra mafia e politica. Una relazione seria
non può non affrontare anche questi temi che sono vitali,
signor Presidente.
   Non è mia intenzione sviluppare un'azione dilatoria, ma
sarebbe molto importante, al di là delle cose fumose, basarsi
su questi fatti: la lotta contro la mafia è stata inefficace.
Perché? Per omissioni, trascuratezze, impostazioni ideologiche
e collusioni, o presunte tali. Mettiamo in chiaro tutti questi
aspetti, signor Presidente, e facciamo anche qualcosa di più!
 Chi, ad un certo punto, ha fatto dirottare risorse
finanziarie verso il Meridione privilegiando gli enti locali
erogatori della spesa, che più avrebbero potuto essere
manipolati, consentendo così quello sviluppo irregolare della
politica e del comportamento della pubblica amministrazione
locale più vulnerabile a certe pressioni ?
   Una valutazione politica in questo senso avrebbe fornito
un quadro quanto mai intelligente ed interessante delle cose
che avrebbero dovuto essere fatte e non furono fatte, signor
Presidente. E' questo un punto assai delicato; ho voluto
richiamarlo perché ritengo sia semplicistico basarsi su una
relazione sia pur pregevole, di cui condivido molte
valutazioni, da integrare con talune considerazioni
dell'onorevole Ayala, che condivido, per dire cosa sia la
mafia nei suoi rapporti con la politica. La mafia non è un
soggetto politico, come ho già sottolineato. Faccio notare,
poi, che dalla relazione risulta che la mafia è definita in
tre diversi modi: da una parte è organizzazione criminale,
dall'altra diventa territorio (non se ne capisce il motivo,
perché non si può dire che si identifichi con esso, a meno che
non vogliamo rifarci ai princìpi del diritto, con riferimento
allo Stato (semmai è una forza criminale che cerca di
realizzare la propria attività produttiva sul territorio),
dall'altra, infine, diventa soggetto politico. Si dovrebbe
eliminare questa discrepanza.
   Vi è un altro aspetto che vorrei trattare. Per anni ci
siamo trastullati con le |P'mappe|P' delle famiglie mafiose
che venivano presentate in questa Commissione, ma alle quali
non corrispondeva alcun impegno o alcuna attività repressiva.
Dobbiamo, quindi, chiederci perché la conoscenza della
geografia della mafia non si sia tramutata in attività
repressiva da parte delle forze dell'ordine.
   Passo ora al problema degli "aggiustamenti" che sarebbero
posti in atto attraverso tre soggetti: l'individuo che aspira
all'"aggiustamento", l'individuo che deve "aggiustare" ed il
tramite politico. Se il soggetto che deve "aggiustare" è nella
magistratura, cioè in un potere autonomo e che non può
ottenere alcun beneficio, mi chiedo quale sia la
                        Pag. 1735
molla utilitaristica che lo spinge ad aderire. Capisco la
motivazione utilitaristica della mafia ma non quella del
magistrato perché deve accettare l'intermediazione politica?
Occorre chiarire questo aspetto. In altri termini, perché mai
il soggetto politico ha presa sulla magistratura che è
indipendente (pur essendo legata in funzione delle varie
correnti di appartenenza? Il problema della triangolazione
andrebbe chiarito.
   Infine, secondo me, manca, per capire l'articolazione
perversa della mafia, l'interpretazione di alcuni fatti
emblematici: i veleni di Palermo, la storia del "corvo" e
i "misteri di Contorno". C'è qualcosa, non so cosa, che
non quadra: se ci sono state disfunzioni nella lotta e se
queste hanno avuto, come credo, rilevanza politica, perché non
districare i nodi di questi misteri. I veleni fine a se
stessi. Contorno fine a se stesso e Di Pisa fine a se stesso?
Cosa c'è dietro? Vogliamo chiarirlo? Avremmo avuto tutti i
poteri per farlo! Nella scorsa legislatura avevo chiesto
proprio questo ed avremmo avuto tutte le possibilità per far
luce su aspetti inquietanti. La democrazia si affossa anche
per effetto delle disattenzioni in materia di chiarificazione!
Questo processo di chiarificazione non è stato fatto, ora si
impone che si faccia; quindi ritengo che, al di là delle
affermazioni che condivido e al di là di tutto quello che i
colleghi hanno detto su responsabilità che non sono della sola
Democrazia Cristiana, ma sono molto diffuse, molto di più di
quanto non si creda, al di là di questo - dicevo - la
relazione, che deve dire una parola certa su un argomento così
scottante in un delicato momento, quando cioè è in gioco la
democrazia del nostro Paese, quando c'è una delegittimazione
strisciante della classe politica, deve giungere allo
scioglimento di questi nodi vitali: il "corvo" Di Pisa, i
"veleni di Palermo".
   Se riusciamo a portare alla ribalta questi veleni e
facciamo finalmente piazza pulita di tutte le impunità,
culturali o pseudoculturali o di altro genere, avremo compiuto
un'opera meritoria nei riguardi della nostra democrazia. So
benissimo che in così ristretti limiti di tempo non si può
arrivare ad una chiarificazione di tale portata; voglio
tuttavia porre il problema lasciando agli atti la mia
richiesta di una revisione e nuova articolazione della
relazione che risponda ai punti cruciali del problema, che non
si esaurisca nell'indicare soltanto delle ipotesi.  Lo sforzo
compiuto è notevole, me ne rendo conto, e forse non si poteva
fare di più, ma l'avere sviluppato l'indagine soltanto sulla
base delle audizioni dei pentiti, non completandola con quelle
di altri soggetti (politici, magistratura, ecc.) per togliere
di mezzo una volta per tutte i dubbi e le zone d'ombra,
rappresenta un limite. Sono d'accordo su tutto il resto, sulla
necessità di approfondire i rapporti tra mafia e massoneria,
tra mafia e politica, elementi del passato non presi in
considerazione, e con i servizi. Questi sono gli elementi da
verificare e da approfondire; allora soltanto noi potremo
fornire una risposta esauriente ad una richiesta di verità che
ci viene dal Paese, dando qualche certezza in un'atmosfera
pesante, torbida nella quale forze antidemocratiche potrebbero
trarre la deduzione che è più facile trovare altre soluzioni.
   Signor Presidente, so in che modo è stato risolto il
problema della mafia nel periodo del ventennio: ho avuto la
gioia di vedere, appena settenne, 120 mafiosi incatenati con i
loro cavalli e con i loro muli nella piazza del mio paese ad
opera di mio padre che aveva proceduto al loro arresto. Ho,
quindi, una visione diversa della lotta contro la mafia, di un
impegno di tipo militare. In quel sistema e con quel regime si
risolveva facilmente il problema ma in un sistema democratico
come il nostro è ben più difficile.  Allora chiariamo i
misteri e veniamo alle conclusioni.
  SALVATORE FRASCA. Signor presidente, la delicatezza del
momento politico ci impone, allorquando ci accingiamo a
consegnare al Parlamento una relazione sul rapporto tra mafia
e politica, di usare il massimo equilibrio nella valutazione
                        Pag. 1736
del tema e di compiere uno sforzo, come ieri diceva il
collega Calvi, per ottenere su un'unica linea la massima
convergenza.
   Il collega Galasso osservava che forse sarebbe stato
meglio discutere prima qui fra di noi, per predisporre la
relazione e poi arrivare ad un dibattito su di essa.
Probabilmente questo sarebbe stato il metodo migliore;
pazienza, ciò che conta è che si discuta su un documento che
abbia la massima dignità e ci consenta di poter esprimere con
la massima libertà la nostra opinione.
   A me è dispiaciuto, signor presidente, che la sua
relazione sia stata divulgata prima ancora che venisse
dibattuta in Commissione. Lei ha detto di non averne alcuna
responsabilità, e io ne prendo atto; però vorremmo che le
fughe di notizie non divenissero un metodo costante.
  PRESIDENTE. Questo è il motivo per cui è stato deciso
insieme di distribuire le relazioni la mattina del martedì.
  SALVATORE FRASCA. Lei si era anche impegnato ad emettere
un comunicato per precisare come siano andate le cose ma
questo non è stato fatto, a meno che io, leggendo i giornali,
non abbia omesso la lettura della notizia.
   Da questo punto di vista c'erano altri impegni che forse
avrebbero dovuto essere mantenuti, per esempio quello di far
pervenire alla Commissione la videocassetta sulla
dichiarazione di quel magistrato al momento dell'arresto di
Totò Riina.
  PRESIDENTE. Quale magistrato?
  ANTONIO BARGONE. Le dichiarazioni al telegiornale dopo
l'arresto di Riina da parte di una persona che non sappiamo se
fosse un magistrato.
  PRESIDENTE. La videocassetta è stata acquisita agli
atti.
  SALVATORE FRASCA. Ne prendo atto; ora bisognerà
verificare ciò che è stato detto e da chi.
   La relazione del presidente fa riferimento soltanto a Cosa
nostra. Devo dire che non accetto la linea manifestata dal
pentito Leonardo Messina quando ha detto che la mafia è una,
una sola, nel senso che abbraccia la 'ndrangheta, la Sacra
corona unita, che la mafia è a Milano, Torino, Bologna,
Firenze. Non l'accetto perché mi sono battuto moltissimi anni
fa contro il fenomeno della mafia nella mia regione,
servendomi anche dell'aiuto di alcuni studenti universitari
che in quel momento si accingevano a presentare le loro tesi
di laurea sulla nascita del fenomeno mafioso in Calabria; la
conclusione alla quale con questi giovani siamo pervenuti è
che la 'ndrangheta è una derivazione della mafia siciliana
(difatti nelle zone della Calabria in cui si sono avute le
prime avvisaglie del fenomeno risulta che erano arrivati
alcuni confinati dalla Sicilia), ma poi ha assunto una sua
peculiarità, assorbendo molti elementi sia dalla mafia
siciliana sia dal banditismo sardo. Il sequestro di persona è
una tipica arma di quest'ultimo, che purtroppo è stata assunta
dalla 'ndrangheta per ricavare i mezzi per finanziare la
propria attività e, come afferma Pino Arlacchi, per
trasformarsi in mafia imprenditrice. Comunque, ciò che conta è
che vi sia una seconda relazione che riguardi le regioni ed i
fenomeni di cui ho parlato.
   La relazione del presidente è condivisibile nelle sue
linee essenziali e rispetto ad essa ci poniamo con animo
costruttivo perché chiediamo che alcuni vuoti in essa presenti
vengano riempiti e che alcune modifiche che appaiono
necessarie vengano apportate. Registriamo con soddisfazione
che per la prima volta si mette a disposizione del Parlamento
una relazione organica sul rapporto mafia-politica, che non
può che essere seria e obiettiva, al di fuori di ogni
strumentalizzazione partitica. Per lungo tempo alla storia del
nostro paese è stata legata l'esistenza della mafia; ci siamo
accorti che la mafia vi era, si vedeva, si toccava e che aveva
un collegamento con il mondo della politica. Pertanto oggi,
                        Pag. 1737
non soltanto l'esistenza della mafia, ma anche il rapporto
mafia-politica non vengono più negati come accadeva fino a
15-20 anni fa. Del rapporto mafia-politica vi sono abbondanti
tracce nelle relazioni presentate all'esame del Parlamento;
quando oggi ci interessiamo di Ciancimino non scopriamo il
mondo, perché già nella relazione dell'allora presidente
Carraro è detto con assoluta chiarezza che egli è
"l'espressione emblematica di un più vasto fenomeno, che
inquinò negli anni sessanta la vita politica ed amministrativa
siciliana per effetto delle interessate congruenze ed
aggregazioni delle cosche mafiose".
   Dobbiamo semmai domandarci perché nel corso di questi anni
l'autorità dello Stato si sia fermata dinanzi alla soglia di
noti mafiosi ma anche di politici con essi conniventi. In
Inghilterra si dice che l'autorità di sua maestà la regina si
arresta dinanzi alla soglia di casa del cittadino: questo è un
principio di democrazia, di rispetto della persona umana, che
vuole distinguere il pubblico dal privato. Invece, quando ora
affermiamo questo vogliamo denunciare inadempienze, carenze,
complicità ed omissioni dello Stato nella lotta contro il
fenomeno mafioso e quindi contro coloro i quali con questo
fenomeno sono stati e sono conniventi. Nel momento in cui
diciamo questo dobbiamo anche prendere atto, signor
presidente, che negli ultimi anni nello scontro Stato-mafia
sono stati registrati grandi risultati; credo che di ciò vada
dato atto alla nuova legislazione e ai suoi proponenti, tra i
quali mi piace citare l'ex ministro Martelli e l'ex ministro
Scotti. Tali leggi sono enucleate, però sarebbe opportuno che
nella relazione tutto questo fosse evidenziato.
   Il presidente afferma che la sconfitta di Cosa nostra
potrebbe essere la sconfitta di tutte le associazioni mafiose:
nutro dei dubbi su questo perché, anche se si dovesse
sconfiggere Cosa nostra, non si potrebbe sconfiggere anche la
'ndrangheta e, meno che mai, la Sacra corona unita e le altre
forme delinquenziali che stanno sorgendo. Il presidente ha
compiuto anche un excursus storico del fenomeno mafioso,
ma io mi permetto di rilevare che in esso mancano dei periodi
che pure andrebbero meglio spiegati e approfonditi.
   Nella IX legislatura questa Commissione ascoltò tre
sindaci - Insalaco, Martellucci e Pucci, uno dei quali
purtroppo è morto - i quali ci descrissero lo stato spaventoso
dell'amministrazione nel comune di Palermo, le complicità e le
difficoltà che si incontravano nella gestione. In particolare
Elda Pucci parlò con uno spirito veramente pasionario.
Ebbene, da allora altre amministrazioni si sono susseguite,
tra le quali l'amministrazione Orlando: vogliamo chiederci,
signor presidente, se nel corso di quella amministrazione gli
equilibri che stavano alla base della gestione del comune di
Palermo nel periodo dei tre sindaci menzionati, equilibri che
questi ultimi non furono in grado di rompere, sono forse stati
spezzati con la giunta Orlando? Da quanto si evince dagli
approfondimenti che stiamo compiendo e dagli studi degli
appalti anche in relazione a tale periodo si vede che quegli
equilibri non sono stati spezzati e pertanto dobbiamo avere il
coraggio di dire la verità, tutta la verità. Non vorrei,
signor presidente che avesse ragione Sciascia quando
denunciava i professionisti della lotta contro la mafia...
  ALFREDO GALASSO. Molti sono stati ammazzati.
  SALVATORE FRASCA. Non vorrei che avesse ragione
Sciascia: vi sono molti che dichiarano, affermano,
intervistano, ma quando vengono posti dinanzi alla realtà al
fine di modificarla e di sconfiggere la mafia non sempre fanno
le cose che dicono di voler fare.
   Vi è un soggetto politico-istituzionale completamente
trascurato nella relazione, cioè la regione siciliana. Di
questo dobbiamo parlare, perché niente sarebbe potuto
accadere, o i fatti che sono accaduti si sarebbero potuti
ridimensionare, qualora la regione siciliana fosse stata
governata in maniera veramente diversa e
                        Pag. 1738
non si fosse trasformata nel centro del malaffare politico e
amministrativo. Poiché si afferma - e l'hanno detto anche i
pentiti, dei quali abbiamo accettato la filosofia (ma, come
affermava il collega Calvi, sui pentiti abbiamo dei dubbi e
chiediamo che le loro dichiarazioni trovino comunque
riscontro: non si può costruire una relazione soltanto sulle
dichiarazioni dei pentiti) - che la mafia avrebbe votato prima
per la democrazia cristiana e, una volta accortasi che
quest'ultima non le dava più sicurezza, avrebbe votato per il
PSI, ed inoltre si dice che gli unici partiti immuni sarebbero
il movimento sociale italiano e il PDS, ci si consenta di
dichiarare che tutto questo storicamente non è giusto. Non è
neanche giusto dal punto di vista della realtà; non voglio
fare chiamate di correo, ma soltanto esaminare la realtà con
la necessaria obiettività.
   Abbiamo appreso dai pentiti che la giunta Milazzo è stata
fortemente voluta dalla mafia e sappiamo com'era composto il
governo Milazzo. Anche questo andrebbe detto. (Commenti del
senatore Brutti).
   Sì, però in quel governo il mio partito non c'era!
  PRESIDENTE. Come no!
  SALVATORE FRASCA. No, mi dispiace! Noi lo abbiamo
combattuto il governo Milazzo, tant'è vero che l'espressione
"milazzismo" fu coniata da Pietro Nenni. Mi dispiace, ma
conosco bene la storia del mio partito e comunque, a
prescindere dalla presenza o meno del partito socialista, vi
fu la presenza dell'allora partito comunista. Forse non mi son
spiegato bene, ma vorrei che nella relazione si correggesse il
concetto che esistono dei partiti che sono immuni dalle
connivenze con la mafia; a torto o a ragione, chi più e chi
meno, l'intero sistema politico ha prestato delle coperture
alla mafia in Sicilia e se si va a vedere come stanno
realmente le cose in quella regione si ha la conferma di
quello che vado affermando.
   Ieri sera ho seguito la trasmissione di Michele Santoro
sulla terza rete, alla quale partecipavano Orlando e Occhetto
e mentre tra di loro vi era un amorevole duello oratorio...
  PRESIDENTE. Non mi sembrava tanto amorevole!
  SALVATORE FRASCA. ... venivano presentati degli spaccati
di vita siciliana. Abbiamo appreso che nella città di Palermo
vi sono persino ospedali nelle mani della mafia e che
l'autista di Riina ha potuto dirigere persino un ospedale di
cui non ricordo il nome. Vi è un governo regionale in grado di
rimuovere queste cose? Ho preso atto che il compagno Occhetto,
che è sempre addolorato e contrito quando parla di queste
cose, ha detto che suo avviso i suoi colleghi devono uscire da
quel governo...
  PIETRO FOLENA. Anche i tuoi, spero!
  SALVATORE FRASCA. Certo, e mi auguro che quel governo al
più presto venga dichiarato sciolto perché siamo in presenza
di un fenomeno umiliante dal punto di vista politico,
amministrativo e morale, che certamente non giova ad una lotta
efficace e coerente contro la mafia e la delinquenza
organizzata.
   La relazione fa riferimento alla magistratura ed alle
difficoltà che si incontrano nell'amministrazione della
giustizia: mi si consenta di affermare che questo è il vuoto
più vistoso e che l'analisi su questo presupposto deve essere
approfondita. Abbiamo appreso fatti di una certa gravità,
anche da parte dei pentiti, e quanto va emergendo conferma
questa gravità; tuttavia di questo non si fa cenno. Pensiamo
forse che in Sicilia non vi siano state delle connivenze con
la magistratura, così come non vi sarebbero in Calabria?
Vogliamo ritornare ai tempi di sua eccellenza Bartolomei,
procuratore presso la corte d'appello di Catanzaro, il quale,
quando fu posto dinanzi all'eventualità che in Calabria vi
fossero connivenze in alcuni comparti della magistratura,
gridò allo scandalo e ci portò
                        Pag. 1739
dinanzi al tribunale per rispondere di diffamazione? La mafia
è l'ombra del potere e cerca di abbarbicarsi a tutte le
istituzioni per cercare di avere ragione: ce lo hanno anche
spiegato i pentiti, ma noi lo sapevamo perché l'avevamo già
constatato.
   Le vicende di questi ultimi anni vanno approfondite, così
come dobbiamo approfondire le responsabilità e le
manchevolezze della magistratura. Ha ragione Marco Pannella,
l'unico tra gli uomini politici di un certo livello capace di
dire con estrema chiarezza che il sistema politico e
costituzionale del nostro paese in tanto verrà ripulito in
quanto la magistratura italiana renderà conto al popolo
italiano di tutte le connivenze, di tutte le complicità, di
tutte le omissioni che al suo interno si sono registrate nel
corso di questi anni! E quando andremo a discutere di queste
cose avremo la possibilità di dimostrarlo.
   Ma ci siamo dimenticati dell'esistenza del palazzo dei
veleni? Il collega Cappuzzo ha affrontato questi argomenti, ma
io voglio riprenderli. Ci siamo dimenticati dello scontro che
Di Pisa ha avuto con altri magistrati? Ci siamo dimenticati
dell'episodio Falcone? Non ripeto su questo argomento le
considerazioni, con dovizia di argomentazioni, del collega
Cappuzzo. Mi è però rimasta impressa un'affermazione di Ida
Boccassini, che fu una collaboratrice del giudice Falcone e
che nel corso della commemorazione a Milano del giudice
Falcone ebbe il coraggio di dire: "Falcone è stato ucciso da
noi". Possiamo fare un'equazione sul rapporto mafia, politica
e istituzioni in Sicilia senza fare piena luce su queste cose?
   Sull'aggiustamento dei processi che cosa è accaduto? E'
vero che c'era il giudice Carnevale, di cui si parla, che a
Roma aggiustava tutto, ma sappiamo che c'era un primo stadio
di aggiustamento presso le sedi della corte d'appello, e
quindi presso i magistrati che operavano in Sicilia.
  PRESIDENTE. Lei ha esaurito il suo tempo, senatore
Frasca.
  SALVATORE FRASCA. Due o tre minuti e ho finito.
   E' altresì vero che ad un certo punto si è dovuto prendere
un giudice civile per fargli presiedere la corte d'appello.
  PRESIDENTE. Anche adesso c'è un problema analogo, come è
segnalato nella relazione.
  SALVATORE FRASCA. Se dunque ci sono questi problemi, li
dobbiamo segnalare.
   Si dice che c'è un continuismo nelle forze dell'ordine. In
realtà mi risulta che i carabinieri abbiano proceduto a
ripetuti trasferimenti. Se c'è immobilismo nelle forze
dell'ordine, va detta la verità su queste cose.
   Concludo sul senatore Andreotti. Signor presidente, mi
consenta di fare una dichiarazione di carattere personale: io
ho cominciato a sentire (allora non c'era neanche la
televisione) e a vedere, nei pochi comizi da lui tenuti nella
mia città, questo importante uomo politico del paese quando
avevo quindici anni; adesso sono diventato nonno e il senatore
Andreotti sta sempre in sella al potere. Questa è la più
evidente dimostrazione della mummificazione del sistema
politico e costituzionale del nostro paese, che è il problema
di fondo che abbiamo da risolvere. Però, dopo aver detto
questo, signor presidente, mi consenta di dire che non sono
per processi politici. Si sono liberati nell'est europeo dei
processi politici, vogliamo farli noi? No. Non posso poi
accettare, signor presidente, la frase in cui lei dice che
l'autorizzazione a procedere nei confronti del senatore
Andreotti è un atto dovuto.
  PRESIDENTE. Chiedo scusa, non dico questo: la richiesta,
non l'autorizzazione. E' possibile che sia un errore, ma non
posso aver detto questo.
  SALVATORE FRASCA. Nella relazione si dice: "Il 30 marzo
1993 è stata chiesta dalla procura della Repubblica di Palermo
l'autorizzazione a procedere nei
                        Pag. 1740
confronti del senatore Giulio Andreotti per i delitti di
concorso in associazione per delinquere mafiosa. Sulla base
dei documenti di cui dispone la Commissione, l'accertamento
dell'eventuale responsabilità penale del senatore Andreotti è
un atto dovuto".
   Siccome le responsabilità penali del senatore Andreotti
non si possono accertare se non è stata concessa
l'autorizzazione a procedere, essa è un atto dovuto.
  GIROLAMO TRIPODI. Che c'entra l'autorizzazione?
  SALVATORE FRASCA. Come si fa ad accertare, collega
Tripodi, la responsabilità penale del senatore Andreotti se
non c'è un processo e come si fa a processare il senatore
Andreotti se non c'è un'autorizzazione a procedere?
  PAOLO CABRAS. Cosa nostra riproduce un modello di potere
inteso come sistema chiuso, con rapporti gerarchici, di
comando, di esecuzione, di scopi, di mezzi, con regole attuate
e violazioni sanzionate. La struttura, i metodi e le finalità
di Cosa nostra sono l'antitesi di una società aperta, delle
sue istituzioni: in questo senso Cosa nostra è forza eversiva.
Ma questa entità criminale, con questa carica eversiva, ha un
forte impatto con la politica, ha bisogno della politica, ma
non è la politica. Cosa nostra fin dall'inizio, dalle vicende
di una società semifeudale, ha supplito carenze statuali, ha
approfittato delle contraddizioni dello sviluppo unitario, che
sono state un effetto di quel tipo di sviluppo. C'è una
letteratura, da Dorso a Sturzo, che ricorda questo. Nelle
pieghe di quelle contraddizioni c'è stata Cosa nostra.
   Nell'evoluzione successiva, dal dopoguerra, si è insediata
e ramificata anche grazie alla cooperazione del governo
militare alleato (fa bene la relazione Violante a ricordarlo;
molto incisivamente lo ricorda un bel film di Francesco Rosi,
quello su Enrico Mattei), quando al seguito degli uomini di
tale governo si insediarono i sindaci della mafia Genco Russo
e Calogero Vizzini.
   Nella sua evoluzione dai traffici urbanistici al racket,
alla corruzione burocratica, allo sfruttamento di manodopera,
al traffico fino ad ora di droga e di armi, alla sua attività
economico-finanziaria transnazionale, Cosa nostra non poteva
non incontrare e non ripetere questo bisogno della politica,
che è anche interesse a condizionare la vita istituzionale per
patteggiare, per dominare. Lo stesso suo radicamento nel
territorio è non soltanto la ricerca di un "santuario", di una
protezione, di una sicurezza, ma è anche in qualche modo il
desiderio di essere là dove si possono fare le regole o
piegare le regole alla propria volontà, sempre tenendo
presente che i politici sono succubi e non sono i supervisori
e i registi di Cosa nostra, neanche a livello locale.
   La mafia ha svolto anche in Sicilia un ruolo politico,
indirettamente prestandosi a manovre e disegni altrui: l'uso
del banditismo, il rapporto con i monarchici, con gli agrari e
con i separatisti, il milazzismo, di cui si è parlato molto in
questo dibattito in Commissione, fino alla convivenza con le
forze di governo nel periodo della spaccatura del mondo, e
quindi anche del nostro paese, in due blocchi.
   Il rapporto con la politica non esaurisce però l'orizzonte
mafioso, e bene la relazione ha fatto ad estendere l'analisi
alle istituzioni, alla società civile, alle professioni, a
tutto quello che ha concorso al radicamento del potere mafioso
ed in qualche modo anche alla sua relazionalità pubblica con
effetti politici.
   La stessa vicenda del Mezzogiorno è in qualche modo
emblematica. Il Mezzogiorno - lo abbiamo detto tanto volte - è
stato più oggetto che soggetto di sviluppo, la sua
autopromozione è stata ostacolata da pregiudizi antichi ma
anche dallo strapotere della politica. Quando il consenso
localmente si orientava verso il centro e dal centro
affluivano le risorse alla periferia con il corredo di
assistenzialismo e di clientele, in qualche modo
                        Pag. 1741
si è predeterminata anche la qualità dello sviluppo, della
crescita e della lotta politica.
   Violante parla di sicilianismo. Certo, l'autonomia come
recupero di responsabilità e del senso dello Stato: questa era
l'intuizione di Luigi Sturzo. Tutto ciò è deviato in questa
pratica, però qualche riflessione dobbiamo dedicarla non solo
a questa degenerazione clientelare ed assistenziale, ma anche
a quanto il meridionalismo dei partiti di sinistra ha operato
perché l'uso delle risorse fosse deciso creando centri di
spesa e di iniziativa sul territorio sempre a livelli
periferici, dove le strutture amministrative e politiche erano
più deboli e dove era più possibile la permeabilità
all'infiltrazione mafiosa e criminale, comunque la
disponibilità alla corruzione del sistema.
   Comprendo le ragioni politiche di questa rivendicazione
del meridionalismo di sinistra rispetto alla contestazione,
allora accesa e frontale, nei confronti del Governo centrale,
ma anche questo è un elemento della storia delle
contraddizioni e degli appesantimenti della vicenda
complessiva del paese. Tutto ciò è stato detto tante volte in
riferimento ad altro orizzonte istituzionale e a proposito di
altri apparati: la giustizia, le conclusioni processuali
contrattate con la mafia, ma ancora di più, direi, le indagini
mai iniziate.
   Certo, pensando ai magistrati siciliani oggi abbiamo
questa grande remora ed anche questo grande esempio morale:
pensiamo a Chinnici, a Terranova, a Livatino, a Falcone, a
Borsellino. Rendiamo loro un tributo sincero perché a questi
uomini dobbiamo una grande avanzata sul terreno della rivolta
civile contro la mafia. Dobbiamo però anche ricordare i
giudici che non hanno ottemperato al proprio dovere, i giudici
della sicilianissima prima sezione penale della Corte di
cassazione, nonché i giudici che oggi sono indagati, quelli
che per indagini giudiziarie, per rivelazioni di collaboratori
della giustizia, e non soltanto, sono oggetto di sospetti.
   Anche del maxiprocesso dobbiamo stare attenti a non fare
storie ad usum delphini, perché la stagione dei veleni
all'interno del Consiglio superiore della magistratura ha
responsabilità anche politiche; molti - e lo dico
positivamente - hanno cambiato giudizio sul pool e sul
giudice Falcone nel corso del tempo. Ma quelle memorie sono
precise. Non si può avere una grande attenzione e un richiamo
al magistero di Falcone soltanto negli ultimi anni o negli
ultimi mesi della sua vita, perché questo è oltraggioso nei
suoi confronti. Ed io capisco le reazioni della sorella del
giudice Falcone, di Maria Falcone, perché in effetti fu
giocata una partita poco chiara utilizzando le induzioni
contro il professionismo della mafia di Leonardo Sciascia, un
grande intellettuale civile usato per una causa meschina,
squallida, così come poco chiaro fu il gioco dei potenti che
fra alcuni settori politici e le invidie, le gelosie e le
rivalità dei giudici si praticò all'interno del Consiglio
superiore della magistratura. E il magistrato Di Pisa non mi
sembra facilmente richiamabile o evocabile come testimone
della verità, perché allora ci fu non solo la nomina di Meli
all'ufficio istruzione al posto di Giovanni Falcone ma ci fu
la frammentazione dei processi di mafia, ci fu anche la loro
dispersione in mille rivoli, che era anche un modo per
aggiustare. Quindi, i ritardi e le distorsioni sono
appartenuti alla politica ma anche ad altri ambiti
istituzionali. In questo senso, vi è una nostra richiesta -
mia e del gruppo della democrazia cristiana - di integrazione
e di correzione.
   Altri hanno parlato - io ve lo risparmio - in riferimento
alla lentezza dell'adeguarsi della legislazione per superare
quella cultura garantista in cui io credo (quella dei benefici
carcerari e del nuovo codice di procedura penale). E' una
cultura che mi ha sempre visto schierato a favore, però non
c'è dubbio che quando abbiamo dovuto operare all'insegna
dell'emergenza abbiamo trovato la difficoltà culturale che ci
enunciava, con grande lealtà, Giuliano Amato nella sua
audizione
                        Pag. 1742
 qui in Commissione e che è stata di tanti (penso anche di
quelli che hanno votato contro o che si sono astenuti).
   Ciò per dire che quel cammino in Parlamento non fu facile
- lo ricordavano altri colleghi - per difficoltà obiettive,
per obiezioni culturali. Ma di questo dobbiamo tener conto
perché, altrimenti, pensiamo che il gioco sia sempre di uno
schematismo western in cui i buoni e i cattivi si
affrontano una volta per tutte. Fra cielo e terra, come
ricordava Amleto a Orazio, ci sono più cose di quanto non
immagini la filosofia della semplificazione o la filosofia
della pura predicazione.
   Credo poi che la mafia vada giustamente osservata, come fa
la relazione - anche se questa parte può essere approfondita -
nella sua risalita per i rami istituzionali e politici. Una
mafia che tocca vicende come quelle di Sindona e del Banco
ambrosiano; che vede frequenti comparse di Gelli nelle
indagini giudiziarie - non soltanto nelle rivelazioni dei
pentiti -, nelle intercettazioni telefoniche fatte dalla
polizia e dai carabinieri. Una mafia che vede coinvolti
apparati dei servizi. Una mafia dove Pippo Calò può avere, con
l'eversione nera, progettato e in qualche misura partecipato
alla strage del treno 904. Una mafia che si occupa di grandi
appalti e che, evidentemente, deve tener presente la sua
consuetudine con la politica e con le istituzioni anche a
proposito di queste vicende che non si esauriscono né si
risolvono a Corleone e a Bagheria.
   Certo, come è stato ricordato, la vocazione della mafia è
la solita, cioè ricercare favori, complicità, coperture. E
oggi le inchieste coinvolgono, giustamente, esponenti locali,
regionali e nazionali.
   Ritengo che non vi debbano essere tabù in nessuna
direzione ma anch'io, come hanno fatto altri, credo di dover
dire, anche per la mia responsabilità, che su indagini come
quella da avviare a Palermo a proposito del senatore Andreotti
non appare opportuno un apprezzamento che possa significare
l'anticipazione di un giudizio che non spetta alla Commissione
bicamerale antimafia. E voglio dire un'altra cosa, anche
rispetto alla conclusione un po' disinvolta - me lo consenta
il collega Galasso - che, dando il suggello della
criminalizzazione a quell'avviso di garanzia, apre un problema
politico non risolvibile se non, a mio avviso, con il rifiuto
di esprimere un'anticipazione di giudizio.
  ALFREDO GALASSO. Io apro un problema politico...
  PAOLO CABRAS. No, lo apre con quella definizione, con
quell'accezione, con quella versione.
  ALFREDO GALASSO. Ho fatto riferimento a fatti
precedenti. Non posso essere accusato di avere aspettato
l'avviso di garanzia.
  PAOLO CABRAS. Certo, io mi riferisco solo al suo
intervento e a quella sua espressione, onorevole Galasso, non
ad altro. Su altro ci possiamo confrontare e discutere.
   Credo che il nemico da abbattere non vada mai individuato
nei politici e nella politica. Oggi, il terzo livello vede
scarsi ma cocciuti sostenitori, però non mi ha mai convinto.
L'identificazione della mafia con le istituzioni e con i
soggetti politici ho paura che faccia perdere di vista gli
obiettivi di una lotta alla mafia.
   Giustamente, Violante critica la concezione della
mondializzazione, e anch'io ho paura, perché quando tutto è
mafia, niente è mafia!
   Detto questo, aggiungo che il coinvolgimento ed il
cedimento dei politici in vicende di mafia è sempre
un'esperienza terribile, non di devianza: è un vero tradimento
dei chierici, perché sostituire all'idea della politica come
solidarietà l'idea della politica come sopraffazione e omertà
è la negazione della politica, è la sua morte civile e
culturale.
   Allora, anche solo chi per avidità di voti e di successo
consente che i mafiosi si arruolino sotto i propri vessilli
elettorali
                        Pag. 1743
 è passibile di una dura condanna morale e di un duro
giudizio politico. I politici, quelli collusi, che poi operano
con la mafia o per la mafia, appartengono alla sfera del reato
associativo. Non ho dubbi. Ma esiste anche una responsabilità
politica, quella che deve evitare comportamenti che anche
indirettamente giovino alla causa mafiosa.
   Sono molto rigoroso nei confronti di chi partecipa anche a
battesimi, a cerimonie o a manifestazioni che possano
obiettivamente offrire occasione di contaminazione. E sono
contento che questo mio rigore abbia un'eco nella decisione -
per me non strana - del vicepresidente della Conferenza
episcopale italiana, l'arcivescovo Agostino di Crotone, il
quale ha deciso di abolire le feste patronali, non per un
rifiuto della tradizione ma perché rappresentavano
un'occasione di contaminazione e di inserimento della
criminalità organizzata locale.
   Credo anche che occorra dire di più e meglio sulle logge
massoniche, le quali sono, per tante indagini convergenti e
concomitanti, un luogo di scambio fra cosche, potentati
politici, istituzionali, economico-imprenditoriali. Su questo
bisogna lanciare un allarme senza alcun ostracismo, senza
alcuna visione di pregiudizio ideologico. Non riesco a capire
le ragioni culturali e sociali della massoneria. Sarà un mio
limite ma, siccome ho rispetto e tolleranza per le idee, le
manifestazioni e la volontà di associarsi di tutti, non nego
certo questo diritto ma voglio che esso sia esercitato non
solo nell'ambito delle regole e delle leggi ma all'insegna di
una dignità anche civile, di un rispetto di regole civili,
magari non scritte, che sono quelle di non consentire lo
scambio con i poteri mafiosi all'interno delle logiche
massoniche.
   Nessun partito, colleghi, può chiamarsi fuori. I partiti
di Governo sono oggetto privilegiato del desiderio mafioso. Ma
le esperienze milazziane e certe combines per appalti
dimostrano che non c'è uno spartiacque resistente in materia
di inquinamento mafioso. Milazzo è stato trasformismo ma anche
un'operazione politica che ha rafforzato il ruolo politico
della mafia (non la mafia come soggetto politico). E questo lo
dicono anche gli storici che a sproposito l'onorevole Macaluso
cita in un articolo odierno del Giorno contrapponendoli
a Calderone. Tutto sommato, questa volta Calderone diceva una
cosa vicina agli storici e che non era assolutamente
assolutoria per la politica, neanche per quei politici che
vollero il milazzismo per emarginare la forza di maggioranza
nella Sicilia.
   A Palermo, i mafiosi hanno votato per partiti diversi
dall'usuale o hanno trasferito voti da una lista all'altra per
lanciare messaggi e per punire l'approvazione di leggi
repressive. Questo è un fatto, può dispiacere ma è un fatto di
cui, forse, occorre tenere conto.
   I mafiosi potrebbero puntare - lo dicono i pentiti ed è
una verifica tutta da fare - su movimenti e partiti nuovi o su
gruppi diversi anche all'interno dei partiti tradizionali.
Questo è un approfondimento doveroso perché è legato ad una
volontà della mafia di aggiornarsi rispetto ai mutamenti e
all'evoluzione del potere politico. Forse, è vero anche che
puntino a modelli di autonomismo esasperato. Forse è vero che
dopo l'uccisione di Lima e di Salvo abbiano superato ogni
tentativo di mediazione e accarezzino l'ipotesi di una rottura
violenta degli equilibri politici ed istituzionali.
   Poiché considero questo mio intervento una proposta di
indirizzi e di emendamenti alla relazione, vorrei che ci fosse
un riferimento a quei partiti minori che crescono in maniera
abnorme raddoppiando o triplicando i suffragi in
controtendenza rispetto a tutti i livelli regionali e
nazionali. Anche questo è un fatto ed è un fatto vecchio.
Ricordo, quando per il mio partito mi occupavo di liste in
Sicilia, come quelli espulsi dal mio partito perché sospetti
di mafia trovassero ospitalità in genere nei partiti minori, a
Catania come a Palermo.
   Ho grande consapevolezza del ruolo diverso che ha un
vicepresidente anche rispetto agli altri membri del proprio
gruppo parlamentare ed ho sempre avuto
                        Pag. 1744
il culto di una visione distaccata ed obiettiva perché
ritengo che il successo di una Commissione come questa sia nel
superamento delle appartenenze, non come cultura e
convinzioni, è ovvio, ma come tentativo, da portare avanti
insieme, di offrire un contributo all'elaborazione complessiva
del Parlamento e all'azione di contrasto delle istituzioni.
Però consentitemi di dichiararmi offeso, in qualche misura
ferito, non tanto da polemiche interne - qui sono state
limitate, contenute, direi accettabili - ma da polemiche ed
interpretazioni esterne della stampa, forse anche sollecitate
da qualche politico che con i giornalisti si lascia andare più
di quanto non faccia nelle sue esibizioni istituzionali.
   Ebbene, sono molto netto nel respingere le interpretazioni
che sono state date all'atteggiamento del mio gruppo
parlamentare. Non vi è in questo alcun mio timore di
isolamento. Quando l'isolamento era coerente ad una
convinzione non ho avuto timori. Sono uno che comportamenti
anomali rispetto a logiche prevalenti ne ha avuti tanti nella
sua vita politica, quindi non è questo che mi turba. Ma io
credo che la democrazia cristiana non possa essere evocata
come una forza rattrappita e imbarazzata di fronte
all'antimafia, in coerenza con una politica che ha espulso
Ciancimino quando i giudici non si occupavano del suo ruolo e
della sua funzione; che ha voluto, nel 1983, un ricambio di
classe dirigente che ha prodotto grandi mutamenti in Sicilia,
anche la primavera di Orlando, anche la primavera di Palermo,
che viene evocata con accenti così diversi da Ombretta
Fumagalli e da Alfredo Galasso. Anche la primavera di Palermo
non fu la manna invocata dal cielo da padre Pintacuda: fu
l'effetto di un mutamento culturale, si aggregò, piuttosto, a
generazioni giovani, a nuovi impulsi che venivano dal mondo
della cultura, dalla chiesa, dal centro Arrupe di padre Sorge
- e non soltanto di padre Pintacuda -, da una classe dirigente
che fu aiutata a sostituire la vecchia classe dirigente.
   Certo, ha ragione il presidente Campione quando al
Corriere della sera confida anche le delusioni, allude
ai gattopardismi che sono sempre presenti, non solo in quella
terra ma nella vicenda politica in genere. Noi abbiamo pagato
come altri il terribile prezzo del buon governo e della lotta
alla mafia nel cuore delle istituzioni regionali. Pier Santi
Mattarella non è l'evocazione di una nostra litania rituale:
fa parte del vissuto della democrazia cristiana, non soltanto
siciliana e non soltanto per chi ha avuto con lui una
consuetudine di idee, di affetti e di esperienze politiche
comuni. Ma anche Michele Reina non è stato ucciso per un
errore né per un caso, se è vero che - non vorrei citarlo a
sproposito - il libro di Alfredo Galasso, che ho letto con
interesse, cita una indicazione in cui Reina si faceva
banditore di una politica che chiudeva ulteriori spazi alla
mafia.
   Credo sia questa l'indicazione che vale per chi in questa
Commissione non rivendica meriti ma non ha da discolparsi di
particolari difetti o vizi. Mi auguro che sempre, d'ora in
avanti, il discorso sulla mafia non rappresenti un'arena di
palleggio e di rinfaccio continuo di responsabilità, quasi per
accaparrarsi un merito, ma auspico che questa lotta sia
individuata come il primo capitolo della riforma morale e
della riforma istituzionale.
  ACHILLE CUTRERA. Presidente, credo che la difficoltà del
nostro dibattito sia data anche dal fatto che si sovrappongono
necessariamente valutazioni di carattere molto generale (e,
quindi, attinenti al fenomeno mafioso nei suoi aspetti anche
sociologici) rispetto a quello che deve essere il contributo
che ciascuno di noi deve offrire alla relazione da lei
proposta alla Commissione. Questi due livelli, certo,
avrebbero potuto essere distinti meglio se avessimo fatto (o
facessimo) un forum della Commissione, che avrebbe
permesso, anche all'interno dei singoli gruppi, di
approfondire il dibattito ed il pensiero di ciascuno di noi.
Ci siamo trovati forse in difficoltà nell'ambito dei
                        Pag. 1745
singoli gruppi, per la mancanza di un sufficiente
approfondimento e per una dialettica che non c'è stata su
fatti che abbiamo seguito e su documenti che abbiamo letto,
senza tuttavia averli discussi insieme. Oggi non si può
pensare di sovrapporre, nel giro di pochi minuti, gli aspetti
del forum (cioè della valutazione generale del fenomeno,
con le sue implicazioni anche politiche) e le osservazioni
sulla relazione. Darò prevalenza al secondo aspetto, offrendo
un contributo alla relazione, con molta semplicità e, se
possibile, con chiarezza, sottolineando che questa relazione
io l'ho apprezzata nelle sue linee generali, in gran parte nel
contenuto e l'ho apprezzata soprattutto per il coraggio
dimostrato nel riuscire ad esprimere una sintesi difficile di
un'evoluzione storica complessa e di aspetti così multiformi
come quelli emersi in questo dibattito, nella presunzione di
affrontare il rapporto tra mafia e politica in 40, 50, 70
pagine. Ritengo sia stato profuso uno sforzo al quale va
riconosciuto un rilevante merito culturale e concettuale. La
mia è dunque una dichiarazione di apprezzamento senza riserve.
   In particolare, ho trovato molto importanti e rilevanti
sia le pagine relative alla distinzione tra valutazioni
politiche e penali sia quelle riferite al fenomeno della
massoneria. Il rapporto tra la massoneria e Cosa nostra (o
mafia generalmente intesa) non è apprezzato, non è noto.
Ritengo, pertanto, che sia stato giusto aver squilibrato la
relazione dedicando a questo aspetto molte pagine
nell'organizzazione dello schema. Si tratta, ripeto, di un
fatto positivo. Sottolineo tuttavia la sovrapposizione dei due
elementi e delle due contemporaneità fra procedimento di
carattere penale che arriva al Senato in questi giorni in
conseguenza delle iniziative dei giudici di Palermo e processo
politico (lo definisco processo in senso ampio, non in senso
khomeinista). Tale processo giunge in Aula con una coincidenza
di tempi a mio avviso non casuale, se pensiamo che ambedue le
iniziative muovono dalle ordinanze dei giudici successive al
caso Lima e che, quindi, anche i riferimenti di coincidenza
storica hanno una loro causalità. Tuttavia, questo rende ancor
più difficile il nostro lavoro; credo che avremmo lavorato con
maggiore distacco, serenità, chiarezza e, forse, efficacia, se
i due momenti non si fossero sovrapposti nella coincidenza
temporale. Comunque, tant'è; cerchiamo allora di lavorare
all'interno di questa difficoltà, che io invoco per recuperare
il concetto, espresso da altri, di superamento, per quanto
possibile, di posizioni di parte e frazionistiche. Espressioni
coraggiose di individualità, di pensieri, anche in
contrapposizione, ne abbiamo sentite diverse questa mattina,
ma io spero che in questo caso non abbiano ad operare in modo
incisivo le segreterie. Credo che ciascuno di noi debba
rifiutare un discorso di segreteria, se davvero ha a cuore
l'ipotesi di coordinare ed utilizzare il nostro lavoro nella
lotta contro la mafia, come uno strumento importante
dell'ordinamento.
   Se questa è l'impostazione alta che dovremmo e potremmo
dare al nostro lavoro, credo che al paragrafo 1 della prima
pagina si dovrebbe indicare alla pubblica opinione che leggerà
il testo definitivo il fatto che si tratta di una relazione
parziale, di una prima tappa. Ciò va detto con chiarezza
perché, in caso contrario, se non ci curiamo di difendere il
nostro lavoro, le eccezioni che si solleveranno nel paese
saranno infinite. Dico questo con riferimento al problema sia
della concretezza ed ampiezza dei problemi affrontati sia
degli aspetti territoriali del fenomeno di organizzazione, che
già altri hanno messo in risalto. Non si tratta quindi di
toccare questo punto, ma dobbiamo chiarire perché non lo
facciamo. E' una scelta che condivido.
   Sempre sotto il profilo delle piccole osservazioni - ne
farò altre più rilevanti in seguito - vorrei che fosse
maggiormente specificato l'elemento del rapporto di Cosa
nostra con il territorio. Infatti, non appare abbastanza
chiaro che il potere di Cosa nostra coincide con l'intero
territorio dell'isola; in certe espressioni, in particolare,
può apparire che sia limitato
                        Pag. 1746
 ad alcune province. A tale riguardo, vi sono stati
interventi significativi, quale quello di Messina il quale,
nella sua semplicità contadina, ha detto che neppure uno
spillo può cadere sulla terra di Sicilia senza essere
controllato. Non so se questa affermazione sia vera ma non se
ne può disconoscere la significanza o, perlomeno, la
presunzione di significanza. L'organizzazione del territorio
attraverso la struttura verticistica non è descritta in modo
sufficiente con riferimento agli aspetti - che ormai appaiono
con evidenza - che caratterizzano un'organizzazione
distribuita per province. Io farei riferimento a quella che
può essere definita una cupola regionale. Accanto alla cupola
politica, abbiamo infatti vista indicata nel rapporto dei ROS
una cupola tecnico-amministrativa regionale. Il problema,
allora, presenta un aspetto più complesso di quello finora
esaminato. Infatti, vi sarebbe da un lato la direzione
strategica, come dicevano altri e, accanto ad essa, la
consulta amministrativo-tecnico-scientifica. In sostanza,
tendo a dare un elemento di rafforzamento all'ipotesi che
rende preoccupato il nostro lavoro nei confronti
dell'organizzazione.
   Sotto questo profilo, mi associo alle considerazioni
svolte da alcuni colleghi, i quali hanno affermato che la
relazione è prudente. Lo dico con franchezza: trovo la
relazione prudente, forse coraggiosamente prudente. Certamente
i fenomeni che ci siamo trovati di fronte in questi mesi
presentano aspetti drammaticamente gravi. Forse questa
prudenza discende in me anche dal fatto di aver riletto, la
scorsa settimana, alcune pagine di un libro intitolato La
mafia e i mafiosi, anno 1900, scritto da Antonio Cutrera.
Questo scritto è attuale. Vi invierò le pagine pubblicate ne
Il Giornale di Sicilia dell'anno scorso, che dedicò un
intero paginone alla figura di questo sociologo, il quale nel
1900, scrivendo quel libro, dava impulso al trasferimento
della nostra famiglia altrove. Nel libro sono espresse una
serie di considerazioni che io credo vadano lette per capire
come il problema abbia storicamente radici, distacchi ed
origini che vanno ben oltre l'inizio del regno d'Italia, come
del resto è già stato segnalato. Molte delle espressioni
contenute nel libro potrebbero essere inserite nella nostra
relazione: lo dico con preoccupazione. Il problema del
rapporto con la magistratura, per esempio, ha aperto pagine
inquietanti nel 1900 e forse ne apre oggi di più pesantemente
inquietanti.
   Vanno quindi considerati la prudenza dell'analisi proposta
dal presidente ma anche il coraggio di estenderne gli
orizzonti, innanzitutto agli aspetti sociologici - nei quali
mi permetto di avventurarmi con prudenza - con riferimento al
fatto che la mafia non sempre va vista come un elemento che
coabita o coesiste, quasi immaginandolo come una presenza
fisicamente contestuale ma comunque distinta (vi sono alcune
pagine che fanno riferimento a tale aspetto). Al contrario,
nell'evoluzione dei secoli, molto spesso la mafia si è
manifestata e si è espressa con l'inserimento nelle strutture
dello Stato. Debbo ritenere che tale aspetto vada sottolineato
perché le deviazioni della magistratura o dei corpi di polizia
ed amministrativi discendono dal fatto che molto spesso i
figli dei figli, disponendo di mezzi diversi da quelli degli
originali soggetti della civiltà contadina, oggi possono
inserirsi nei grandi livelli dell'università, della scienza e,
quindi, anche dell'amministrazione. Credo che da un lato
dobbiamo parlare - come giustamente si fa - di coabitazione,
coesistenza e convivenza ma, dall'altro, anche di inserimento
e di penetrazione, ai fini di spiegare meglio il fenomeno. Non
voglio comunque andare avanti su questa strada, che
diventerebbe complessa ma che comunque credo abbia un pesante
fondamento. Mi ricollego anche al discorso che si sintetizza
nella distinzione tra società mafiosa ed organizzazione
mafiosa, proposta con grande conoscenza ed intelligenza dal
collega Buttitta.
   Al di là delle osservazioni che ho finora formulato, credo
che il punto più rilevante rispetto al quale si debba
esprimere un dissenso più pesante in ordine
                        Pag. 1747
alla relazione riguardi le valutazioni storico-politiche. Si
tratta di un campo nel quale diventa molto difficile valutare
se sia più fondata la mia valutazione o se lo sia quella del
proponente, atteso che la valutazione riguarda fatti di questi
giorni: è molto difficile essere storici di noi stessi! Alle
pagine 43, 44 e 45 della relazione manca, a mio parere, la
descrizione dello scontro in atto. Si parla di fattori che
incidono sulla coabitazione (rapporti internazionali, tendenze
isolazionistiche in Sicilia, eccetera), e si passa subito ad
affrontare l'aspetto dell'azione repressiva dello Stato. Credo
che vadano inserite anche poche righe per descrivere lo
scontro in atto nell'ultima decade tra la mafia ed i tentativi
dell'organizzazione statale. Vanno quindi ricordati gli
omicidi avvenuti nel decennio.
   Questo richiamo va fatto anche per constatare come per
nessuno di essi si siano scoperti autori o mandanti. Deve
essere ancora sottolineato! Non possiamo lasciare che le
vedove di costoro continuino a lamentarsi senza che ci sia una
pagina nella relazione, che magari contiene una valutazione
sociologicamente di alto profilo ma poco incisiva sul piano
dei rapporti anche concreti e dovuti con i cittadini. Quindi,
lo scontro va visto attraverso la ricostruzione degli omicidi,
dei grandi episodi negativi, dell'insuccesso dello Stato.
   Ma, ancora, lo scontro va esaminato alla luce della
vicenda epocale che si è verificata nel 1991. Su questo
potremmo avere una differenza di vedute ma ritengo che nella
lealtà e nella onestà delle opinioni si possano trovare
convergenze. Il 1991 e il 1992 sono anni critici di tutta la
vicenda. Gli omicidi Lima e Salvo non sono cosa da nulla - lo
abbiamo già detto - ma non sono da meno per la storia del
nostro paese gli omicidi Falcone e Borsellino, che seguono di
pochi mesi. Qualcuno giustamente ha detto che sono quattro gli
omicidi dell'anno 1992. Aggiungo anche, con pesanti sottintesi
che però non sono in grado di portare oltre, che ci sono stati
allontanamenti che hanno rappresentato per il sistema dello
Stato qualcosa forse di significativo. Trovo molto grave che
nello stesso periodo di tempo il ministro di grazia e
giustizia e il ministro dell'interno abbiano dovuto
abbandonare il loro incarico; probabilmente per ragioni
fondate, però la coincidenza a me fa pensare. Quindi, tutta
l'équipe Falcone, Borsellino, Martelli e Scotti è stata
eliminata dalla circolazione, con la sua esperienza, le sue
conoscenze e le sue azioni.
   Qui vengo al 1991, che chiamo lo "splendido anno", il
primo della storia della Repubblica che mi commuove. Colleghi
della democrazia cristiana, non sono d'accordo sul fatto che
non si debbano fare riconoscimenti sulle pesanti
responsabilità del potere, che invece vanno rimarcate, se no
non se ne esce. Tuttavia, non sono dell'idea che il nuovo sia
ancora da venire - questo è il passaggio della relazione del
presidente dal quale divergo sostanzialmente - perché credo
che il nuovo, come ora dirò, per merito di forze plurime sia
già iniziato in Sicilia e sia iniziato nel 1991, anche se nel
1988 ci sono stati i prodromi. Perché credo a questa ipotesi,
che sottopongo alla vostra attenzione? Perché sto ai fatti
come interprete del diritto, come sono solito fare, sempre
vicino alle norme e agli atti, credendo alle parole meno di
quanto rilevo dalle letture. Allora, nel 1991 c'è stata una
successione difficile di attività del Parlamento, come altri
colleghi hanno ricordato. Lo scontro tra garantismo e non
garantismo passa all'interno del partito socialista, quindi
non vorrei che si recuperassero schieramenti.
  PRESIDENTE. Certo.
  ACHILLE CUTRERA. Il passaggio dal ministro Vassalli al
ministro Martelli è un cambio nell'interpretazione del diritto
o della politica del diritto. Come sanno tutti coloro che
hanno letto i miei libri, io sono sulla linea della politica
del diritto ma certo - voglio dirlo - soffrivo in aula di
fronte alle interpretazioni degli anni 1987-1988. So che qui
ci sono differenze di vedute ma preferisco privilegiare
                        Pag. 1748
 gli obiettivi, forse con una visione un po' anglosassone,
anche per il retaggio dei miei studi, per cui si può fare a
meno anche delle norme per raggiungere risultati: io ci credo.
   Allora, l'elencazione di cui alla pagina 45 della
relazione è fondata sul fatto che questa serie di norme
consegue alla tesi dell'impegno "a fisarmonica". Sono
d'accordo quando si afferma che di fronte ad un grave fatto
c'è una reazione emotiva del Parlamento e delle forze
dell'ordine, ma questo è evidente, è normale. C'è stato molto
di più della "fisarmonica", penso ci sia stato un suono
importante, quello che viene da un complesso di leggi che non
sono collegate agli omicidi di mafia del 1991, più gravi e più
numerosi rispetto al periodo precedente, ma non è questo il
problema, che invece deriva dal fatto che è cambiata la
titolarità politica delle responsabilità. Non parlo solo del
ministro di grazia e giustizia ma anche di quello
dell'interno, nei cui confronti ho sempre manifestato
apprezzamento, pur avendo avuto magari occasioni di
contrapposizione.
   La successione degli eventi - che ieri ho recuperato -
inizia con l'arrivo di Falcone a Roma il 10 aprile. Falcone
vive a Roma 13 mesi: una stagione brevissima. Questa è stata
una vera "primavera" del Parlamento, nella quale dopo l'arrivo
di Falcone il 10 aprile, si susseguono una serie di
provvedimenti: l'8 giugno, il decreto sul soggiorno obbligato
dei sospetti mafiosi; il 22 luglio, la legge sullo
scioglimento dei consigli comunali inquinati (della quale
stiamo vedendo le applicazioni e studiamo gli effetti); a
ottobre viene istituita la DIA e a novembre la DNA; il 31
dicembre, il decreto-legge antiracket e il 30 dicembre il
provvedimento sulle limitazioni elettorali passive per gli
imputati di reati di mafia. E' un anno, o meglio un semestre,
clamoroso! Questo semestre clamoroso è determinato da una
precisa realtà politica, legata ad una certa conduzione di
ministeri di responsabilità: mi riferisco al ministro di
grazia e giustizia e al ministro dell'interno. Dietro le loro
proposte, come si comprende leggendo i suoi scritti e
guardando le prospettive, c'è il pensiero di Falcone. E'
importante che qui sia stata ricordata l'audizione di Falcone
al CSM del 15 ottobre 1991 ma teniamo presente che quella
relazione, la sofferenza di cui parlava la collega Fumagalli,
è coeva a quella stagione di risultati in Parlamento. Vuol
dire che questa persona, chiamata a Roma - secondo alcuni
trasferitosi per paura ma altri sanno che ciò avvenne per
dispiegare un impegno ulteriore e maggiore - è stata
l'ispiratrice di norme importanti: non lo possiamo
dimenticare! Nel contempo, egli subì attacchi anche personali,
sino ad essere denunciato sulla stampa per esibizionismo,
quando si disse che scriveva troppi libri o che compariva
troppo spesso in televisione, come se altri oggi apparissero
di meno. Vorrei quindi valutare complessivamente la figura di
Falcone, fuori dagli opportunismi, anche per i suoi meriti
propositivi oltre che giudiziari per una stagione di grande
cambiamento, che è già cambiata nel paese. Qui non possiamo
dimenticare che nelle audizioni dei rappresentanti delle
procure distrettuali tutti hanno riconosciuto l'importanza
delle grandi innovazioni legislative introdotte di recente.
   Allora, in questo clima, Andreotti lo lascio da parte
nelle mie valutazioni; non so se abbia agevolato o
appesantito. Sono prudente e non esprimo opinioni ma sostengo
che certamente ai fini delle nostre valutazioni l'importanza
del ruolo di Falcone e delle responsabilità assunte dai
ministri di grazia e giustizia e dell'interno merita di essere
non solo accennata ma inserita a pieno titolo nella relazione.
A questo proposito, è necessario che alcune parti della
relazione siano modificate.
   Sempre su questa traccia, nella relazione poi si dice che
la faticosa approvazione dei provvedimenti è stata frenata da
un lento processo applicativo. Mi permetto di dire che, come
abbiamo constatato insieme, il processo applicativo ha avuto
il massimo dell'accelerazione possibile.
                        Pag. 1749
  MASSIMO BRUTTI. Nel 1992?
  ACHILLE CUTRERA. Sì, dopo il 1992. A pagina 46 della
relazione, dopo l'elencazione dei provvedimenti, si dice: "La
faticosa approvazione di questi provvedimenti (...) è stata
frenata da un lento processo applicativo". Secondo me, questa
espressione non può essere mantenuta alla luce dei
provvedimenti recentemente adottati, perché credo che una
significativa accelerazione sia stata riconosciuta
unanimemente in Commissione.
  PRESIDENTE. Mi scusi, senatore Cutrera, la legge
antiracket non è ancora operante, è occorso circa un anno
perché la DIA cominciasse a funzionare, la procura nazionale
funziona da alcune settimane, anche se la legge era stata
approvata un anno e mezzo fa; erano questi gli elementi? Forse
bisogna distinguere, se mi permette, le norme che comportavano
organizzazione amministrativa da quelle immediatamente
operative. Questo ragionamento vale per le prime e non per le
seconde.
  ACHILLE CUTRERA. Le dirò una cosa. Ho avuto una
impressione altamente positiva - anche se non ne abbiamo mai
discusso e non abbiamo mai espresso una valutazione -
dell'evoluzione della composizione degli organi della
magistratura negli ultimi due anni.
  PRESIDENTE. Sì, certo.
  ACHILLE CUTRERA. Che la Boccassini sia a Caltanissetta,
nonostante le difficoltà in cui ha messo alcuni settori del
mio partito a Milano, fa piacere. Credo sia un elemento che
vada ricordato proprio perché abbiamo visto come la procura di
Caltanissetta abbia manifestato un atteggiamento assai diverso
da quello del 1900, dai tempi de La mafia e i mafiosi; è
un altro atteggiamento, è una battaglia che va riconosciuta.
  PRESIDENTE. Certo.
  ACHILLE CUTRERA. Anche perché, presidente, tendo a
spostare il discorso sui tempi perché vorrebbe dire dare una
speranza alla gente di questo paese, che non è solo in attesa
e alla ricerca di una svolta che dovrebbe venire da una
politica diversa, perché sappiamo che questa politica dipende
dagli uomini che la esercitano.
   Vorrei sottolineare un altro punto. Nella fase successiva
il gruppo del PSI porrà molta attenzione sul problema
Carnevale-Cassazione (lo anticipo senza andare più a fondo).
E' un problema che, al di là del monitoraggio, comporterà
impegnative valutazioni da parte della Commissione e il gruppo
socialista sarà assolutamente impegnato nella ricerca della
chiarezza. Chi era Carnevale? Da dove arriva? A chi è
succeduto? Quali rapporti ha avuto? Mi fermo a questi
interrogativi.
   Infine, se il presidente me lo consente, individuo un
altro aspetto carente della relazione nella sottovalutazione
del rapporto politica-amministrazioni locali, che considero -
oltre alle giuste osservazioni del collega Frasca sulla
regione - molto importante, perché la collusione in Sicilia
prende le mosse dagli enti locali. Qui ricordo le suggestive
parole del pentito Messina. Quando lei, presidente, gli chiese
come si ponesse la mafia, per quanto riguarda le speculazioni
edilizie, di fronte ai piani regolatori, Messina rispose che
il problema non esiste, perché la mafia manda propri elementi
negli enti locali che devono amministrare i piani regolatori.
Questo è il punto fondamentale dell'interpretazione di quel
passaggio sugli enti locali. Partendo da lì, mi riservo di
porre attenzione, all'interno del comitato appalti, al
problema del rapporto tra enti locali e appalti in Sicilia. Si
tratta di un elemento importante a proposito del quale, a
pagina 65 della relazione, sarebbe opportuno aggiungere un
riferimento alla recente audizione sul problema degli appalti
per le scuole a Palermo e su quello della conduzione del
patrimonio immobiliare comunale sempre a questo fine.
                        Pag. 1750
  SALVATORE CROCETTA. A questo punto del dibattito, chi
interviene avverte anche un certo imbarazzo. Tuttavia,
desidero svolgere alcune osservazioni, anche perché nel
dibattito sono emerse alcune teorie che non mi convincono
assolutamente. Mi riferisco ad uno degli ultimi interventi dei
colleghi della democrazia cristiana, quello del senatore
Cabras - persona che ho sempre apprezzato, come ho avuto modo
di dire pubblicamente anche in occasione di altri dibattiti -,
che tutto sommato ha esposto teorie che non sono molto diverse
da quelle di altri colleghi scesi in campo come se andassero
ad una crociata, con la lancia in resta: alla fine il
risultato è identico. Non mi convince, in particolare, la
teoria per cui il rapporto tra politica e mafia è quasi di
subordinazione. Personalmente non sono per uno schema
prefissato e ritengo che nella storia della mafia e del
rapporto tra mafia e politica vi siano posizioni diverse, che
non solo si susseguono nel tempo ma possono presentarsi anche
contemporaneamente. Vi sono personaggi politici che sono
contigui e quindi vengono utilizzati dalla mafia, uomini
politici che hanno utilizzato la mafia, uomini politici che
sono contemporaneamente mafiosi e politici. Ciancimino, ad
esempio, non era un mafioso o un politico, era mafioso e
politico nello stesso tempo, e come lui ve ne sono stati
tanti. Ricordo, ad esempio, Calogero Volpe, deputato della
democrazia cristiana per tanti anni, che il giorno delle
elezioni stava seduto nella piazza principale del piccolo
comune di Villalba (tremila abitanti), proprio nel posto in
cui spararono a Li Causi, con accanto un certo signor Farina
della democrazia cristiana, bancario, che aveva con sé una
borsa contenente soldi o in cui mettere gli appunti per fare
avere prestiti, finanziamenti ed altro per comprare quella
decina di famiglie che servivano per vincere le elezioni.
Sempre Calogero Volpe, facendo comizi nelle piazze di due
città siciliane nelle quali mancava l'acqua diceva: "Votate
pure comunista, l'acqua la vedrete quando piove!". C'è una
storia che noi non possiamo cancellare; qui nessuno vuole
condannare, ma non si può neanche assolvere, non si può dire
che la democrazia cristiana è scevra, che avendo espulso
Ciancimino ha il merito di un grande cambiamento, perché
mentre espelleva Ciancimino, altri dubbi rimanevano. Il
problema di Lima si è risolto, purtroppo, nel modo violento
che conosciamo ed oggi vi sono ancora le implicanze di quelle
vicende.
   Dunque, il rapporto tra mafia e politica va approfondito e
va approfondito sul serio. Non è che richiamando la vicenda
Milazzo si cerchi di sviare da un problema che ha avuto in
Sicilia caratteristiche particolari nel rapporto tra mafia e
politica. Purtroppo, in Sicilia la democrazia cristiana è
stata un partito che nella stragrande maggioranza - non è che
non vi siano uomini che sono stati lontani dalla mafia e che,
magari, avrebbero voluto combatterla - ha avuto con la mafia
un rapporto molto stretto, che è continuato e, per alcuni
aspetti, ancora continua. Infatti, alcuni avvisi di garanzia
che arrivano alla Camera e riguardano le ultime elezioni non
possiamo dimenticarli o far finta che non vi siano.
  PAOLO CABRAS. Li ho ben presenti!
  SALVATORE CROCETTA. Ma non ho visto alcun atteggiamento
di condanna da parte della democrazia cristiana, non ho visto
alcun tentativo di cercare di colpire in questa direzione. Il
sistema di potere che ha consentito gli imbrogli, che ha
consentito di truccare gli appalti continua ad esistere,
nonostante tutte le leggi varate in materia di appalti. Perché
si possono fare le leggi ma, indipendentemente da queste, i
trucchi continuano; se vi è, infatti, un sistema di controllo,
questo continua ad esistere, come continua il controllo sulle
elezioni. Quindi, sono fortemente preoccupato per
l'insufficienza della relazione sotto questo aspetto.
   Ritengo che sia estremamente importante aver fatto questa
relazione ed aver aperto il dibattito, ma abbiamo bisogno di
dare ai cittadini maggiori certezze.
                        Pag. 1751
   Inoltre, ritengo anch'io che vi siano nella relazione i
limiti e le insufficienze che da alcuni colleghi sono stati
indicati. Non si può parlare soltanto di Cosa nostra e della
Sicilia; abbiamo fatto bene a parlarne e non credo che si
debba ritardare ancora l'approvazione di questa relazione per
procedere ad un'indagine su ciò che riguarda la Campania
(oggi, ad esempio, il caso Cirillo è tornato d'attualità), la
Calabria (dove una vicenda coinvolge un ex ministro della
Repubblica, l'onorevole Misasi) o la Puglia (dove vi sono
stati e continuano ad esservi collegamenti tra mondo politico
e Sacra corona unita) ma parlare solo della Sicilia non è
sufficiente. Voglio ricordare che un senatore comunista
scomparso nella passata legislatura, Vito Consoli, ha condotto
in Puglia una battaglia che ha poi portato alle dimissioni di
un sottosegretario democristiano in relazione alla vicenda del
racket dell'usura; in quell'occasione vi furono pesanti
pressioni nei confronti della magistratura pugliese e delle
forze di polizia e vi furono anche trasferimenti. Si è detto
che tra i carabinieri i trasferimenti sono frequenti ma non
sempre sono della stessa natura; a volte servono a rinnovare,
altri ad impedire la continuazione delle indagini.
   Sono fortemente preoccupato per il fatto che non venga
esaminato nell'ambito del rapporto tra mafia e politica, o non
venga esaminato a sufficienza, il problema dei servizi
deviati, per cui si possono esprimere giudizi positivi su
alcuni trasferimenti che, in realtà, hanno un significato
fortemente negativo. Ricordo, ad esempio, che nella passata
legislatura l'onorevole Mannino e l'onorevole Lauricella
presentarono un'interrogazione sul trasferimento di due
carabinieri che si erano occupati di certe questioni nella
provincia di Trapani, tra le quali quella relativa al teatro
di Marsala: i due carabinieri furono trasferiti l'uno in
provincia di Caltanissetta, l'altro in provincia di Agrigento
perché, nel loro piccolo, lavoravano come un pool e
riuscivano a colpire.
   Né mi convince tutta una serie di teorizzazioni secondo le
quali il rapporto tra mafia e politica si è accentuato di più
in quella che viene definita la seconda fase, cioè dopo il
passaggio dalla mafia della campagna alla mafia della città
(mi pare l'abbia detto Ayala, il quale ha fatto anche altre
affermazioni che non mi convincono). Per quanto ne so, il
rapporto tra mafia e politica in Sicilia è storico e ricordo
che vi sono stati personaggi politici che hanno utilizzato la
mafia persino in alcuni episodi di lotta alla mafia stessa,
per cui si è trattato di un problema di lotta interna. Scelba,
ad esempio, ha utilizzato la mafia contro il bandito Giuliano;
ma lo ha fatto per coprire alcune vicende, questo si evince
dal processo di Viterbo (le cose le dobbiamo dire e le
dobbiamo dire tutte).
   Quando c'è stato il trasferimento dalla mafia della
campagna alla mafia della città, si è avuto bisogno di
rapporti più organici, più diffusi, che consistevano non più
soltanto nella protezione del personaggio politico di alto
livello ma nell'entrare a far parte dei consigli comunali,
perché era lì che si decidevano i piani regolatori, quindi
l'assetto del territorio e l'affare che la mafia poteva fare.
Lo stesso vale per tanti altri settori. Quel rapporto che
prima era privilegiato con alcuni personaggi di rilievo, ha
inglobato oltre a questi anche personaggi di secondo piano
della politica, che sono diventati di primo piano, o comunque
ha fatto eleggere uomini della mafia all'interno dei consigli
comunali e delle istituzioni in genere.
   Quello che abbiamo vissuto in tutti questi anni è stato,
dunque, un rapporto tra mafia e politica molto diffuso ma non
si può dire che non sia possibile combattere questa situazione
o che per farlo dobbiamo andare ad approfondire il rapporto
tra mafia ed istituzioni, che è quello principale, mentre il
rapporto tra mafia e politica viene dopo, come mi pare abbia
affermato nel suo intervento l'onorevole Sorice. Non viene
dopo: la politica è quella che ha utilizzato le istituzioni e,
se non vi fosse stata la copertura di personaggi politici
all'interno delle istituzioni,
                        Pag. 1752
 forse vi sarebbe stata meno disponibilità a favorire la
mafia e ad imbrogliare le carte, come spesso è avvenuto.
   Con l'intervento dell'onorevole Tripodi abbiamo posto
alcune questioni che riteniamo importanti ai fini di un
giudizio complessivo sul documento che andremo ad approvare.
Riteniamo, cioè, che vadano approfondite le questioni
concernenti la massoneria ed i servizi deviati e vada
eliminato il riferimento alle leggi elettorali poiché - come
mi pare l'onorevole Grasso abbia giustamente rilevato - la
mafia utilizza qualsiasi sistema elettorale. Anzi, sono
convinto che con l'introduzione del sistema maggioritario ed
uninominale sarà semplificato il problema dell'appoggio
all'uno o all'altro candidato, perché sarà più facile ottenere
il differenziale necessario per l'elezione. Qualcuno vuole
spiegazioni riguardo a quanto accaduto a San Cataldo; io non
sono stato eletto a San Cataldo, nel mio comune ho ottenuto il
18 per cento dei voti, ma si tratta di un comune grosso. La
mafia è potente ma, vivaddio, non può controllare il 100 per
cento dei cittadini! Dunque una parte di questi, i cittadini
onesti, votano e votano liberamente; certo, la mafia
pretenderebbe di occupare tutto il territorio ma
fortunatamente non è così. Altrimenti non saremmo qui a
discutere, non ci sarebbe una Commissione antimafia, non ci
sarebbero i parlamentari disposti a discutere; se tutto
questo, invece, esiste, vuol dire che la mafia controlla, ha
un grosso peso, ha le coperture politiche ed anche, in qualche
caso, istituzionali però vi è anche chi la combatte e riceve
il premio per combatterla. Non vorrei, dunque, che in questa
sede si facessero discorsi devianti.
   Mi avvio alla conclusione, signor presidente, anche se
avrei tante cose da dire e potrei dimostrare l'esistenza di
certi rapporti antichi. Avrei potuto parlare, ad esempio, del
mafioso Bontate, qui citato parecchie volte e che allora mi
pare si chiamasse Stefano Bontà, mentre Bontade si chiamava la
cugina, l'onorevole Margherita Bontade, eletta con i voti di
Stefano Bontà: mi pare che queste cose le abbiamo lette nei
rapporti della vecchia Commissione antimafia, le abbiamo lette
sui giornali, le abbiamo conosciute direttamente, per la
storia che ognuno di noi ha vissuto nella propria realtà.
   Una sola cosa desidero aggiungere, presidente: sono
dell'opinione che si debba valorizzare al massimo l'apporto
dei pentiti ma ho il dubbio che in alcune occasioni le stesse
persone che collaborano introducano qualche elemento deviante.
A questo riguardo desidero citare una vicenda che ritengo
emblematica, quella del pentito Pellegriti e delle accuse a
Salvo Lima. Dire che Salvo Lima è mafioso e dire cose precise
che lo riguardano per poi inserire elementi falsi a tal punto
da essere individuati attraverso riscontri semplicissimi mi fa
pensare che a volte la stessa mafia utilizzi questi pentiti
per scagionare il personaggio politico in questione e per
fargli dare la patente di non mafioso, addirittura per
fargliela dare da giudici che non possono assolutamente essere
messi in discussione, come nel caso del giudice Falcone. Si
tratta quindi di un utilizzo dei pentiti in termini diabolici
per effettuare alcune operazioni, per dare patenti quasi
definitive di non mafiosità. Si tratta di questioni sulle
quali dovremmo riflettere. Ho voluto citare in conclusione
proprio tale questione non per mettere in discussione qualcosa
che oggi sta funzionando ma per dire che occorre considerare i
riscontri e valutare le cose con serietà.
   Per quanto riguarda le questioni aperte, come quelle che
riguardano il senatore Andreotti o l'onorevole Gava, sarà
chiaramente il Parlamento a prendere una decisione. Qui però
non possiamo neppure dare assoluzioni. Sarà il Parlamento - lo
ripeto - a decidere.
   Se per ipotesi mi trovassi implicato in una vicenda
giudiziaria di qualsiasi tipo, chiederei di essere mandato
sotto giudizio, perché solo in questo modo si può affrontare e
chiarire la situazione. Se, come purtroppo temo, questa
vicenda si concluderà con uno o più rifiuti di concedere
l'autorizzazione a procedere (come sta accadendo in questi
giorni al
                        Pag. 1753
Senato con riferimento a vicende che riguardano non la mafia
ma fatti di concussione e di violazione della legge sul
finanziamento pubblico dei partiti, con verdetti di non
procedibilità emessi a maggioranza), allora questa sarà
un'altra pagina nera sulla quale dovremo tornare per
esaminarla con serietà.
  ROSARIO OLIVO. Il mio sarà un intervento breve perché i
colleghi del gruppo socialista hanno già espresso in modo
approfondito la posizione del mio partito. Non ripeterò quindi
le cose che hanno detto i miei compagni di partito intervenuti
l'altro ieri, ieri e questa mattina.
   Stiamo discutendo su un documento di estrema rilevanza, in
quanto, se non ricordo male, si tratta della prima relazione
della Commissione parlamentare antimafia sul rapporto
mafia-politica. Essa rappresenta un tentativo generoso, uno
sforzo che deve essere valutato assai positivamente e che
quindi va apprezzato, non sul piano formale ma per la sostanza
del contributo che la Commissione, attraverso questa
relazione, sta dando su un tema decisivo. Si tratta quindi di
uno sforzo che può rappresentare, a mio avviso, una svolta
significativa nella storia del nostro paese (di questo
dobbiamo avere piena consapevolezza).
   Il lavoro svolto in questi mesi dalla Commissione ha reso
in tutti noi forte il convincimento di un intreccio profondo
nel rapporto tra mafia, politica e istituzioni, che nelle aree
a rischio del nostro paese è un elemento costante. La
relazione si è soffermata molto su questo elemento di fondo,
che è il filo conduttore - lo ripeto - del lavoro svolto dalla
Commissione in questi mesi e della relazione che stiamo
esaminando.
   Sui contenuti della relazione, è importante, signor
presidente, avere una grande capacità di ascolto, ed io ho
apprezzato molto questa sua capacità, visto che lei non ha
perso alcun intervento ed ha stimolato i contributi e gli
approfondimenti. Non ho riscontrato assolutamente, da parte
del presidente Violante, impermeabilità al dialogo e al
confronto; in questi giorni ho invece notato - ne do
volentieri atto allo stesso presidente Violante - il desiderio
di approfondire e di arricchire i contenuti della relazione,
per l'importanza estrema di questo documento nella vita del
nostro paese.
   E' quindi giusto che si sia svolto un dibattito ampio, a
più voci, con una pluralità di contributi e di stimoli
convergenti sull'obiettivo di migliorare questo testo
fondamentale. I contributi del gruppo socialista (da quello
del capogruppo Calvi all'ultimo, quello del mio amico e
compagno Cutrera) si muovono, a mio avviso, nella direzione di
migliorare e di rendere ancora più incisivo questo documento,
senza tattiche dilatatorie, senza tentativi, non dico di
nascondere, ma di ammantare di veli pietosi realtà che sono
crude e vanno denunciate, perché sono quelle che sono.
   Nella relazione viene raccolta una serie di elementi che
provengono dalla realtà, dalle cose che abbiamo sentito e
compreso in questi sei mesi così densi di impegno da parte
della Commissione nel suo complesso.
   Possono comunque essere ulteriormente approfonditi e
migliorati alcuni aspetti dell'impostazione della relazione
che stiamo discutendo. Mi limiterò, in questi pochi minuti, a
qualche notazione, anche perché altri compagni del gruppo
socialista hanno introdotto elementi di approfondimento. E'
giusto, a mio avviso, inserire nella relazione una riserva di
carattere politico sulle dichiarazioni rese dai pentiti, in
quanto la Commissione non ha potuto, per la sua funzione e le
sue responsabilità, riscontrare elementi tali da rendere
possibile una verifica di esse.
   E' altresì importante inserire nella relazione il sistema
delle interferenze politiche sul Consiglio superiore della
magistratura in relazione alla vicenda di Falcone e
soprattutto all'esito di questa vicenda, che obbligò lo stesso
Falcone ad abbandonare la Sicilia. Dobbiamo fare questo non
per un omaggio formale alla memoria di questo indimenticabile
magistrato ma per il dovere che abbiamo
                        Pag. 1754
verso la ricerca della verità. Si tratta quindi di un punto
importante e di grande rilevanza, ed è anche essenziale
inserire nella relazione il gioco delle interferenze, anche
sul piano giudiziario (sia nella realtà palermitana sia in
quella catanese), per aggiustare i processi di primo e secondo
grado.
   La vicenda del giudice Carnevale, in tale contesto, deve
essere, a mio avviso, attentamente approfondita e rapidamente
chiarita, perché essa appare agli occhi dell'opinione pubblica
(mi auguro che ciò possa essere smentito) come l'epicentro
degli interessi di quanti premevano sulla Cassazione per
demolire i processi di mafia. La stessa indagine avviata dai
giudici siciliani su Carnevale conferma l'emblematicità della
questione, su cui è quindi necessario arrivare, nell'interesse
del paese, ad un chiarimento di fondo, per far emergere
finalmente la verità in tempi ravvicinati, non in tempi
storici. Sotto questo aspetto, la nostra Commissione deve
sollecitare tutte le istituzioni interessate e competenti
perché provvedano a farci conoscere un profilo analitico del
giudice Carnevale.
   Signor presidente, la Commissione deve sollecitare questa
sorta di esame ai raggi X nei confronti della personalità di
questo magistrato, valutando da dove provenga, come si sia
formato, come sia avvenuto il suo ingresso in magistratura,
come egli abbia fatto carriera giudiziaria, chi l'abbia messo
alla guida della famosa prima sezione. Se vi è il sospetto che
tramite questo giudice si aggiustavano le cose in Cassazione,
occorre capire fino in fondo se ciò sia credibile e vero (mi
auguro che non sia così e che questo venga smentito dai
riscontri); se però ciò è credibile, questa può essere la
chiave di volta per gettare finalmente un fascio di luce sulla
grande questione di cui ci stiamo occupando.
   La relazione deve approfondire maggiormente, in tutti i
loro aspetti, le responsabilità e gli interessi politici ed
economici che sono stati all'interno dell'amministrazione
comunale di Palermo attraverso gli anni. Sotto questo aspetto,
mi sarei atteso (devo essere molto sincero) un contributo
anche dei colleghi della DC siciliana, che invece è mancato.
Naturalmente, non mi ergo a giudice nei confronti di nessuno
ma dalla DC siciliana poteva e doveva venire un contributo
maggiore.
  GIROLAMO TRIPODI. C'è qui il senatore Cappuzzo, che è
siciliano.
  ROSARIO OLIVO. In tal caso chiedo scusa.
  PRESIDENTE. Comunico anche che l'onorevole Riggio è
assente in questi giorni per accertamenti medici.
  ROSARIO OLIVO. Rivolgo allora al collega Riggio i più
cordiali e fervidi auguri.
   In questa direzione, possono essere utili i contributi che
attraverso gli anni sono stati offerti da tanti organismi
siciliani e palermitani. Ne conosco alcuni perché con i loro
dirigenti ho svolto dibattiti e tavole rotonde nella mia
regione. Mi riferisco, tra l'altro, a centri studi e di
documentazione siciliani sul fenomeno della mafia.
   So che il presidente Violante si è messo in contatto con
alcuni di questi centri studi ed ha raccolto del materiale
importante di questi organismi, che negli anni si sono
impegnati con grande determinazione, non certo sul terreno
della passerella o del professionismo dell'antimafia, ma su
quello di una battaglia vera, autentica e generosa condotta in
Sicilia.
   Il materiale raccolto potrà rappresentare, anche nel
prosieguo del nostro impegno, un contributo utile per capire
meglio la realtà della mafia siciliana. Si tratta infatti - lo
ripeto - di testimonianze importanti per comprendere
l'intreccio autentico tra Cosa nostra, la politica e le
istituzioni.
   Le ultime vicende giudiziarie, che hanno portato i
magistrati siciliani ad avviare un'indagine sul senatore
Andreotti, possono in qualche modo, anzi certamente, mettere
in evidenza il salto di
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qualità determinatosi nel rapporto mafia-politica. Proprio
per questo, presidente, è importante (certo con tutte le
cautele necessarie: questo elemento è stato sottolineato da
molti colleghi e io condivido questo invito alla cautela) che
la Commissione richiami tutti i poteri dello Stato a chiarire
rapidamente e fino in fondo questo caso, per la sua portata,
per la sua dimensione enorme, dirompente, nell'interesse del
paese.
   In conclusione, credo che esistano tutte le condizioni per
portare a sintesi unitaria un impianto più completo della
relazione, perché ritengo che il presidente Violante vorrà
raccogliere gli elementi di arricchimento e di approfondimento
che si sono ricavati da questo dibattito stimolante,
interessante, a più voci.
   In quest'ottica tutto il gruppo socialista si orienterà a
votare la relazione finale per darle il massimo di incisività,
di valore, di impegno forte e unitario, in questa battaglia
dura, aspra, difficile, ma esaltante per debellare, per
colpire la mafia.
   La relazione sarà sicuramente un contributo rilevante, che
segnerà in profondità la storia politica del nostro paese. E
personalmente sarò lieto di contribuire con il mio voto
favorevole a rafforzare questo fondamentale passaggio.
  PRESIDENTE. Le sono molto grato, onorevole Olivo. Con
questo intervento il dibattito si è concluso.
   Onorevoli colleghi, desidero osservare, non perché lo si
debba ora deliberare (vi provvederemo nella prossima seduta),
che, per il livello veramente elevato, significativo ed utile
del dibattito, sarebbe utile, qualora il testo definitivo
della relazione venga approvato, che sia inviato alle Camere
anche il resoconto stenografico del dibattito stesso, affinché
si abbia il quadro complessivo delle valutazioni di ciascuno.
   A questo fine dispongo che venga messo a disposizione dei
singoli colleghi il testo del proprio intervento, in modo da
potervi apportare tutte quelle correzioni che, avendo parlato
a braccio, siano necessarie, disponendo anche del tempo
necessario a tal fine. Ritengo che ciò possa essere utile per
il dibattito e l'approfondimento finale.
   Mi pare che la stragrande maggioranza dei rilievi che sono
stati avanzati, di cui ringrazio molto i colleghi, rientrino
pienamente nel quadro e nell'indirizzo politico della
relazione e quindi credo che potranno essere assunti nella
loro massima parte.
  MARIO CLEMENTE MASTELLA. Nel momento in cui dice che gli
atti saranno allegati, significa che la relazione sarà
trasmessa al Parlamento così come è?
  PRESIDENTE. No, no, ho già detto che sarà inviato il
testo definitivo della relazione, qualora venga approvata.
  MARIO CLEMENTE MASTELLA. Quindi sarà trasmessa la
relazione che sarà approvata con l'apporto di tutti,
benissimo. Ho rivolto la domanda non per una mia
interpretazione maldestra, ma per sapere il tipo di procedura
che poniamo in essere. Vorrei sapere se ella, avendo ascoltato
i contributi dei colleghi intervenuti nel dibattito, alcuni
condividendoli altri non condividendoli (evidentemente, questo
appartiene alla sua responsabilità istituzionale di guida
della Commissione) modificherà la relazione tenendo conto
dell'estensione, nella sua interezza, del contributo delle
varie parti politiche.
  PRESIDENTE. E' senz'altro così, onorevole Mastella,
tenendo presente che qualche collega ha ritenuto di
formalizzare alcune questioni specifiche (e questo è
liberissimo di farlo, naturalmente).
  UMBERTO CAPPUZZO. Qual è il termine di presentazione
degli emendamenti?
  PRESIDENTE. Domani alle dodici, altrimenti il tempo per
valutarli è troppo breve. In sintesi, direi che chi ritiene di
inviare proposte specifiche di correzione
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debba farlo entro mezzogiorno di domani. Comunque si terrà
conto non solo delle proposte specifiche ma anche degli
indirizzi emersi. Ve ne sono alcuni molto importanti, non
concretizzati in emendamenti, che saranno recepiti. Martedì
alle dieci il testo sarà stato corretto e integrato. L'ordine
del giorno della seduta di martedì 6 aprile 1993, alle ore 15
è il seguente: replica del presidente alle osservazioni
effettuate nel corso della discussione generale; dichiarazioni
di voto e votazione sulla relazione.
  GIROLAMO TRIPODI. Poiché è stata convocata la
Commissione ambiente della Camera in orari coincidenti per
discutere del provvedimento sugli appalti (argomento che ha
attinenza con i problemi di cui ci stiamo occupando) chiedo se
possiamo anticipare di un'ora la seduta, iniziando alle 14.
Alle 15 è convocata la Commissione ambiente ed io, l'onorevole
Bargone ed altri colleghi, essendo interessati a quella
riunione, anche in qualità di membri del Comitato dei nove ...
  PRESIDENTE. Il problema è un po' delicato per questo
motivo: non credo che anticipare alle 14 risolva i problemi
che lei pone, perché c'è da votare una serie di testi.
   Se lei ritiene, se i colleghi lo ritengono, per quanto
riguarda le dichiarazioni di voto, si potrebbe dare la
priorità ai colleghi che sono impegnati in altra Commissione,
in modo che possano intervenire subito, dopo di che, quando
sarà il momento del voto, i colleghi saranno chiamati. Questo
credo si possa fare per agevolare ...
  GIROLAMO TRIPODI. Vogliamo anche sentire la sua replica.
Se non alle 14, si potrebbe fare alle 14,30, in modo di avere
la possibilità ...
  ALFREDO GALASSO. Concluderemo sicuramente entro martedì
sera?
  PRESIDENTE. Qual è il senso della sua osservazione?
  ALFREDO GALASSO. Sapere se per caso andremo a mercoledì
mattina.
  PRESIDENTE. Essendovi tredici gruppi, 10 minuti per
gruppo fanno 130 minuti e poi si vota.
   Poiché numerosi colleghi non sono presenti in questo
momento e raggiungerli di domenica è difficilissimo, non è
possibile anticipare l'orario di inizio, che pertanto rimane
stabilito alle 15.
La seduta termina alle 14,25.

 


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