Diritto all'ozio


ARETUSA

 

In effetti si chiamava Aituzza, cioè a dire Agatuccia. Poi, sapete com'è, col passare degli anni si comincia a fare confusione fra la «zeta» e la «esse» (i contadini della Lombardia, per esempio, chiedono «permezzo?» invece di «permesso?» e chiamano convinti piassa la piazza), e così Aitussa, poi Aritusa ed infine Aretusa. E un nome sbagliato resta fissato per i secoli.

Era figlia del barone don Nicola Mannarici di Siracusa. Una bella figliola, con certi occhioni, come sanno averli solo le siracusane.

Di chi ti si va a innamorare questa benedetta ragazza? del figlio del cocchiere: Alfio (in certi libri ho trovato scritto che si chiamava Alfèo, ma anche questa è una confusione, statene certi).

La baronessa aveva avuto qualche sospetto: certe occhiate, certi sorrisetti, certi mezzi segni... ma che era pazza questa figlia scervellata? Una sera ne ebbe la terribile conferma. Finora aveva cercato di non credere ai suoi occhi, ma ora... l'aveva sorpresa mentre parlava con Alfio, su un sedile del giardino.

C'era da mettersi una maschera per la vergogna, disse il barone Mannarici quando lo seppe.

- Ci hai buttato il fango in faccia a tutti quanti! - tuonò contro la figlia.

- Perdonatemi, signor padre, ma io lo voglio bene.

- Ah, lo vuoi bene? spudorata ed hai il coraggio di dirmelo? Adesso ti darò io quello che meriti. Andrai in convento.

La baronessa si oppose. Disse al marito che non occorreva fare queste tragedie e che bastava tenere la cosa nascosta. L'unico provvedimento da prendere era licenziare il cocchiere e così di Alfio non se ne sarebbe parlato più.

Ma questo licenziamento diede la stura ai pettegolezzi della città. La voce si diffuse come un lampo: la baronessina Aituzza Mannarici era stata trovata col figlio del cocchiere. Di notte, aggiungeva qualcuno. Mentre si baciavano, aggiungeva qualche altro. Coricati sull'erba del giardino, mentre facevano l'amore, precisarono poi le peggiori malelingue della parentela e dell'ambiente aristocratico. Naturalmente fu questa la versione più accreditata.

Ora, pensate voi, chi se la poteva sposare più una ragazza così, caduta dall'asino? La madre se ne persuase e aderì al proposito del barone: non restava che farla suora.

Sembrò ad Aretusa, quando la porta del convento le si chiuse dietro le spalle, che la sua vita fosse finita.

La madre superiora, Diana, la accolse con un sorriso freddo e distaccato, che alla ragazza pesò come uno schiaffo.

Poi cominciarono i discorsi sulla verginità: che era il dono più prezioso di una ragazza, che votandosi alla vita del chiostro la fanciulla doveva conservare intatto questo fiore, che, se per disgrazia questo dono divino fosse andato già perduto, allora bisognava pentirsi del peccato commesso, fare penitenza e difendere quel po' di purezza che era rimasta nel cuore e così via...

Ma che cosa aveva fatto, pensava Aretusa, di così grave che era necessario farle tutti questi strani discorsi? Dunque tenersi per mano con il giovane che si ama e guardare insieme le stelle era un peccato? era perdere la verginità? e che significava difendere quel po' di purezza rimasta? Non pensare più ad Alfio? Ma chi aveva il diritto di impedirglielo? Le si era imposto di entrare in convento, ma anche i suoi più segreti pensieri dovevano esser sacrificati?

Intanto Alfio, da parte sua, non si dava pace. Vederla, rivederla ancora una volta, a costo di morire, si ripeteva.

Tanto fece e tanto disse che il giardiniere del convento si lasciò corrompere e consentì che Alfio penetrasse nel giardino del convento. Il patto era questo: che egli, nascosto in un cespuglio, avrebbe assistito alla passeggiata pomeridiana delle novizie nei viali del giardino e poi, senza farsi notare da anima viva, avrebbe dovuto andarsene.

Le novizie passavano a gruppi di due o tre, perché era proibito passeggiare sole. Passò anche Aituzza con due compagne.

- Oh quanto è bella! - si struggeva Alfio.

Il gruppo delle tre novizie, di cui faceva parte Aretusa stava per rifare in senso inverso lo stesso viale. Alfio trepidava al pensiero di poter guardare ancora la sua amata in volto, quando la vide fermarsi per allacciarsi una scarpa, mentre le altre due proseguivano. Decise allora di agire e, nel vedersi passare davanti l'amata da sola, allungò un braccio da dentro il cespuglio e la toccò.

Aretusa stava per mandare un grido, ma seppe contenersi e si lasciò attirare nel cespuglio. Cadde, tremante, fra le braccia del giovane amato, che senza dir parola la baciò.

Restarono a lungo nascosti nel cespuglio, dimentichi di tutto, finché fu sera.

L'assenza della novizia era stata notata ed erano cominciate le ricerche; si pensava che fosse fuggita a casa.

Intanto i due giovani percorrevano rapidamente le vie dell'amore. Ma quando Aretusa, ebbra, stava per concedersi all'amato, si udirono dei passi e delle voci nel giardino. Fu come una doccia fredda che venne a destare la fanciulla da un sogno. Si scosse e con un moto repentino liberatasi dalla stretta di Alfèo cominciò a correre, le chiome scomposte e discinta com'era.

Alfèo la inseguì: ormai non ragionava più.

La vergogna e la paura attanagliavano il cuore di Aretusa in una stretta feroce. Nella sua forsennata corsa un pozzo le si parò dinanzi. Fu un attimo. Quando sopraggiunse Alfèo la fanciulla vi si era gettata.

Allora Alfèo estrasse un coltello dalla tasca e se lo piantò in cuore. Un rigagnolo di sangue sgorgò dalla ferita di Alfèo e, trovato un passaggio, cominciò a sgocciolare nel pozzo, che si era intanto arrossato del sangue della fanciulla, sfracellatasi nel fondo.

E il sangue dei due amanti si confuse nell'acqua del pozzo che sarebbe stato poi chiamato la fonte Aretusa.