Lo spazzacamino Ieri sera andai alla Sezione femminile, accanto alla nostra, per dare il racconto del ragazzo padovano alla maestra di Silvia, che lo voleva leggere. Settecento ragazze ci sono! Quando arrivai cominciavano a uscire, tutte allegre per le vacanze d'Ognissanti e dei morti; ed ecco una bella cosa che vidi. Di fronte alla porta della scuola, dall'altra parte della via, stava con un braccio appoggiato al muro e colla fronte contro il braccio, uno spazzacamino, molto piccolo, tutto nero in viso, col suo sacco e il suo raschiatoio, e piangeva dirottamente, singhiozzando. Due o tre ragazze della seconda gli s'avvicinarono e gli dissero: - Che hai che piangi a quella maniera? - Ma egli non rispose, e continuava a piangere. - Ma di' che cos'hai, perché piangi? - gli ripeterono le ragazze. E allora egli levò il viso dal braccio, - un viso di bambino, - e disse piangendo che era stato in varie case a spazzare, dove s'era guadagnato trenta soldi, e li aveva persi, gli erano scappati per la sdrucitura d'una tasca, - e faceva veder la sdrucitura, - e non osava più tornare a casa senza i soldi. - Il padrone mi bastona, - disse singhiozzando, e riabbandonò il capo sul braccio, come un disperato. Le bambine stettero a guardarlo, tutte serie. Intanto s'erano avvicinate altre ragazze grandi e piccole, povere e signorine, con le loro cartelle sotto il braccio, e una grande, che aveva una penna azzurra sul cappello, cavò di tasca due soldi, e disse: - Io non ho che due soldi: facciamo la colletta. - Anch'io ho due soldi, - disse un'altra vestita di rosso; - ne troveremo ben trenta fra tutte. - E allora cominciarono a chiamarsi: - Amalia! - Luigia! - Annina! - Un soldo. - Chi ha dei soldi? - Qua i soldi! - Parecchie avevan dei soldi per comprarsi fiori o quaderni, e li portarono, alcune più piccole diedero dei centesimi; quella della penna azzurra raccoglieva tutto, e contava a voce alta: - Otto, dieci, quindici! - Ma ci voleva altro. Allora comparve una più grande di tutte, che pareva quasi una maestrina, e diede mezza lira, e tutte a farle festa. Mancavano ancora cinque soldi. - Ora vengono quelle della quarta che ne hanno, - disse una. Quelle della quarta vennero e i soldi fioccarono. Tutte s'affollavano. Ed era bello a vedere quel povero spazzacamino in mezzo a tutte quelle vestine di tanti colori, a tutto quel rigirìo di penne, di nastrini, di riccioli. I trenta soldi c'erano già, e ne venivano ancora, e le più piccine che non avevan denaro, si facevan largo tra le grandi porgendo i loro mazzetti di fiori, tanto per dar qualche cosa. Tutt'a un tratto arrivò la portinaia gridando: - La signora Direttrice! - Le ragazze scapparono da tutte le parti come uno stormo di passeri. E allora si vide il piccolo spazzacamino, solo in mezzo alla via, che s'asciugava gli occhi, tutto contento, con le mani piene di denari, e aveva nell'abbottonatura della giacchetta, nelle tasche, nel cappello tanti mazzetti di fiori, e c'erano anche dei fiori per terra, ai suoi piedi. Il giorno dei morti Questo giorno è consacrato alla commemorazione dei morti. Sai, Enrico, a quali morti dovreste tutti dedicare un pensiero in questo giorno, voi altri ragazzi? A quelli che morirono per voi, per i ragazzi, per i bambini. Quanti ne morirono, e quanti ne muoiono di continuo! Pensasti mai a quanti padri si logoraron la vita al lavoro, a quante madri discesero nella fossa innanzi tempo, consumate dalle privazioni a cui si condannarono per sostentare i loro figliuoli? Sai quanti uomini si piantarono un coltello nel cuore per la disperazione di vedere i propri ragazzi nella miseria, e quante donne s'annegarono o moriron di dolore o impazzirono per aver perduto un bambino? Pensa a tutti quei morti, in questo giorno, Enrico. Pensa alle tante maestre che son morte giovani, intisichite dalle fatiche della scuola, per amore dei bambini, da cui non ebbero cuore di separarsi, pensa ai medici che morirono di malattie attaccaticcie, sfidate coraggiosamente per curar dei fanciulli; pensa a tutti coloro che nei naufragi, negli incendi, nelle carestie, in un momento di supremo pericolo, cedettero all'infanzia l'ultimo tozzo di pane, l'ultima tavola di salvamento, l'ultima fune per scampare alle fiamme, e spirarono contenti del loro sacrificio, che serbava in vita un piccolo innocente. Sono innumerevoli, Enrico, questi morti; ogni cimitero ne racchiude centinaia di queste sante creature, che se potessero levarsi un momento dalla fossa griderebbero il nome d'un fanciullo, al quale sacrificarono i piaceri della gioventù, la pace della vecchiaia, gli affetti, l'intelligenza, la vita: spose di vent'anni, uomini nel fior delle forze, vecchie ottuagenarie, giovinetti, - martiri eroici e oscuri dell'infanzia, - così grandi e così gentili, che non fa tanti fiori la terra, quanti ne dovremmo dare ai loro sepolcri. Tanto siete amati, o fanciulli! Pensa oggi a quei morti con gratitudine, e sarai più buono e più affettuoso con tutti quelli che ti voglion bene e che fatican per te, caro figliuol mio fortunato, che nel giorno dei morti non hai ancora da piangere nessuno! TUA MADRE Il mio amico Garrone Non furon che due giorni di vacanza e mi parve di star tanto tempo senza rivedere Garrone. Quanto più lo conosco, tanto più gli voglio bene, e così segue a tutti gli altri, fuorché ai prepotenti, che con lui non se la dicono, perché egli non lascia far prepotenze. Ogni volta che uno grande alza la mano su di uno piccolo, il piccolo grida: - Garrone! - e il grande non picchia più. Suo padre è macchinista della strada ferrata; egli cominciò tardi le scuole perché fu malato due anni. È il più alto e il più forte della classe, alza un banco con una mano, mangia sempre, è buono. Qualunque cosa gli domandino, matita, gomma, carta, temperino, impresta o dà tutto; e non parla e non ride in iscuola: se ne sta sempre immobile nel banco troppo stretto per lui, con la schiena arrotondata e il testone dentro le spalle; e quando lo guardo, mi fa un sorriso con gli occhi socchiusi come per dirmi: - Ebbene, Enrico, siamo amici? - Ma fa ridere, grande e grosso com'è, che ha giacchetta, calzoni, maniche, tutto troppo stretto e troppo corto, un cappello che non gli sta in capo, il capo rapato, le scarpe grosse, e una cravatta sempre attorcigliata come una corda. Caro Garrone, basta guardarlo in viso una volta per prendergli affetto. Tutti i più piccoli gli vorrebbero essere vicini di banco. Sa bene l'aritmetica. Porta i libri a castellina, legati con una cigna di cuoio rosso. Ha un coltello col manico di madreperla che trovò l'anno passato in piazza d'armi, e un giorno si tagliò un dito fino all'osso, ma nessuno in iscuola se n'avvide, e a casa non rifiatò per non spaventare i parenti. Qualunque cosa si lascia dire per celia e mai non se n'ha per male; ma guai se gli dicono: - Non è vero,- quando afferma una cosa: getta fuoco dagli occhi allora, e martella pugni da spaccare il banco. Sabato mattina diede un soldo a uno della prima superiore, che piangeva in mezzo alla strada, perché gli avevan preso il suo, e non poteva più comprare il quaderno. Ora sono tre giorni che sta lavorando attorno a una lettera di otto pagine con ornati a penna nei margini per l'onomastico di sua madre, che spesso viene a prenderlo, ed è alta e grossa come lui, e simpatica. Il maestro lo guarda sempre, e ogni volta che gli passa accanto gli batte la mano sul collo come a un buon torello tranquillo. Io gli voglio bene. Son contento quando stringo nella mia la sua grossa mano, che par la mano d'un uomo. Sono così certo che rischierebbe la vita per salvare un compagno, che si farebbe anche ammazzare per difenderlo, si vede così chiaro nei suoi occhi; e benché paia sempre che brontoli con quel vocione, è una voce che viene da un cor gentile, si sente. Il carbonaio e il signore Non l'avrebbe mai detta Garrone, sicuramente, quella parola che disse ieri mattina
Carlo Nobis a Betti. Carlo Nobis è superbo perché suo padre è un gran signore: un
signore alto, con tutta la barba nera, molto serio, che viene quasi ogni giorno ad
accompagnare il figliuolo. Ieri mattina Nobis si bisticciò con Betti, uno dei più
piccoli, figliuolo d'un carbonaio, e non sapendo più che rispondergli, perché aveva
torto, gli disse forte: - Tuo padre è uno straccione. - Betti arrossì fino ai capelli, e
non disse nulla, ma gli vennero le lacrime agli occhi, e tornato a casa ripeté la parola
a suo padre; ed ecco il carbonaio, un piccolo uomo tutto nero, che compare alla lezione
del dopopranzo col ragazzo per mano, a fare le lagnanze al maestro. Mentre faceva le sue
lagnanze al maestro, e tutti tacevano, il padre di Nobis, che levava il mantello al
figliuolo, come al solito, sulla soglia dell'uscio, udendo pronunciare il suo nome,
entrò, e domandò spiegazione. La maestra di mio fratello Il figliuolo del carbonaio fu scolaro della maestra Delcati che è venuta oggi a trovar mio fratello malaticcio, e ci ha fatto ridere a raccontarci che la mamma di quel ragazzo, due anni fa, le portò a casa una grande grembialata di carbone, per ringraziarla, che aveva dato la medaglia al figliuolo; e s'ostinava, povera donna, non voleva riportarsi il carbone a casa, e piangeva quasi, quando dovette tornarsene col grembiale pieno. Anche d'un'altra buona donna, ci ha detto, che le portò un mazzetto di fiori molto pesante, e c'era dentro un gruzzoletto di soldi. Ci siamo molto divertiti a sentirla, e così mio fratello trangugiò la medicina, che prima non voleva. Quanta pazienza debbono avere con quei ragazzi della prima inferiore, tutti sdentati come vecchietti, che non pronunziano l'erre e l'esse, e uno tosse, l'altro fila sangue dal naso, chi perde gli zoccoli sotto il banco, e chi bela perché s'è punto con la penna, e chi piange perché ha comprato un quaderno numero due invece di numero uno. Cinquanta in una classe, che non san nulla, con quei manini di burro, e dover insegnare a scrivere a tutti! Essi portano in tasca dei pezzi di regolizia, dei bottoni, dei turaccioli di boccetta, del mattone tritato, ogni specie di cose minuscole, e bisogna che la maestra li frughi; ma nascondon gli oggetti fin nelle scarpe. E non stanno attenti: un moscone che entra per la finestra, mette tutti sottosopra, e l'estate portano in iscuola dell'erba e dei maggiolini, che volano in giro o cascano nei calamai e poi rigano i quaderni d'inchiostro. La maestra deve far la mamma con loro, aiutarli a vestirsi, fasciare le dita punte, raccattare i berretti che cascano, badare che non si scambino i cappotti, se no poi gnaulano e strillano. Povere maestre! E ancora vengono le mamme a lagnarsi: come va, signorina, che il mio bambino ha perso la penna? com'è che il mio non impara niente? perché non dà la menzione al mio, che sa tanto? perché non fa levar quel chiodo dal banco che ha stracciato i calzoni al mio Piero? Qualche volta s'arrabbia coi ragazzi la maestra di mio fratello, e quando non ne può più, si morde un dito, per non lasciar andare una pacca; perde la pazienza, ma poi si pente, e carezza il bimbo che ha sgridato; scaccia un monello di scuola, ma si ribeve le lacrime, e va in collera coi parenti che fan digiunare i bimbi per castigo. È giovane e grande la maestra Delcati, e vestita bene, bruna e irrequieta, che fa tutto a scatto di molla, e per un nulla si commove, e allora parla con grande tenerezza. - Ma almeno i bimbi le si affezionano? - le ha detto mia madre. - Molti sì, - ha risposto, - ma poi, finito l'anno, la maggior parte non ci guardan più. Quando sono coi maestri, si vergognano quasi d'essere stati da noi, da una maestra. Dopo due anni di cure, dopo che s'è amato tanto un bambino, ci fa tristezza separarci da lui, ma si dice: - Oh di quello lì son sicura; quello lì mi vorrà bene. - Ma passano le vacanze, si rientra alla scuola, gli corriamo incontro: - O bambino, bambino mio! - E lui volta il capo da un'altra parte. - Qui la maestra s'è interrotta. - Ma tu non farai così piccino? - ha detto poi, alzandosi con gli occhi umidi, e baciando mio fratello, - tu non la volterai la testa dall'altra parte, non è vero? non la rinnegherai la tua povera amica. In presenza della maestra di tuo fratello tu mancasti di rispetto a tua madre! Che questo non avvenga mai più, Enrico, mai più! La tua parola irriverente m'è entrata nel cuore come una punta d'acciaio. Io pensai a tua madre quando, anni sono, stette chinata tutta una notte sul tuo piccolo letto, a misurare il tuo respiro, piangendo sangue dall'angoscia e battendo i denti dal terrore, ché credeva di perderti, ed io temevo che smarrisse la ragione; e a quel pensiero provai un senso di ribrezzo per te. Tu, offender tua madre! tua madre che darebbe un anno di felicità per risparmiarti un'ora di dolore, che mendicherebbe per te, che si farebbe uccidere per salvarti la vita! Senti, Enrico. Fissati bene in mente questo pensiero. Immagina pure che ti siano destinati nella vita molti giorni terribili; il più terribile di tutti sarà il giorno in cui perderai tua madre. Mille volte, Enrico, quando già sarai uomo, forte, provato a tutte le lotte, tu la invocherai, oppresso da un desiderio immenso di risentire un momento la sua voce e di rivedere le sue braccia aperte per gettarviti singhiozzando, come un povero fanciullo senza protezione e senza conforto. Come ti ricorderai allora d'ogni amarezza che le avrai cagionato, e con che rimorsi le sconterai tutte, infelice! Non sperar serenità nella tua vita, se avrai contristato tua madre. Tu sarai pentito, le domanderai perdono, venererai la sua memoria; - inutilmente, - la coscienza non ti darà pace, quella immagine dolce e buona avrà sempre per te un'espressione di tristezza e di rimprovero che ti metterà l'anima alla tortura. O Enrico, bada: questo è il più sacro degli affetti umani, disgraziato chi lo calpesta. L'assassino che rispetta sua madre ha ancora qualcosa di onesto e di gentile nel cuore, il più glorioso degli uomini, che l'addolori e l'offenda, non è che una vile creatura. Che non t'esca mai più dalla bocca una dura parola per colei che ti diede la vita. E se una ancora te ne sfuggisse, non sia il timore di tuo padre, sia l'impulso dell'anima che ti getti ai suoi piedi, a supplicarla che col bacio del perdono ti cancelli dalla fronte il marchio dell'ingratitudine. Io t'amo, figliuol mio, tu sei la speranza più cara della mia vita; ma vorrei piuttosto vederti morto che ingrato a tua madre. Va', e per un po' di tempo non portarmi più la tua carezza; non te la potrei ricambiare col cuore. TUO PADRE Il mio compagno Coretti Mio padre mi perdonò; ma io rimasi un poco triste, e allora mia madre mi mandò col
figliuolo grande del portinaio a fare una passeggiata sul corso. A metà circa del corso,
passando vicino a un carro fermo davanti a una bottega, mi sento chiamare per nome, mi
volto: era Coretti, il mio compagno di scuola, con la sua maglia color cioccolata e il suo
berretto di pelo di gatto tutto sudato e allegro, che aveva un gran carico di legna sulle
spalle. Un uomo ritto sul carro gli porgeva una bracciata di legna per volta, egli le
pigliava e le portava nella bottega di suo padre, dove in fretta e in furia le
accatastava. Coretti era contento questa mattina perché è venuto ad assistere al lavoro d'esame mensile il suo maestro di seconda, Coatti, un omone con una grande capigliatura crespa, una gran barba nera, due grandi occhi scuri, e una voce da bombarda; il quale minaccia sempre i ragazzi di farli a pezzi e di portarli per il collo in Questura, e fa ogni specie di facce spaventevoli; ma non castiga mai nessuno, anzi sorride sempre dentro la barba, senza farsi scorgere. Otto sono, con Coatti, i maestri, compreso un supplente piccolo e senza barba, che pare un giovinetto. C'è un maestro di quarta, zoppo, imbacuccato in una grande cravatta di lana, sempre tutto pieno di dolori, e si prese quei dolori quando era maestro rurale, in una scuola umida dove i muri gocciolavano. Un altro maestro di quarta è vecchio e tutto bianco ed è stato maestro dei ciechi. Ce n'è uno ben vestito, con gli occhiali, e due baffetti biondi, che chiamavano l'avvocatino, perché facendo il maestro studiò da avvocato e prese la laurea, e fece anche un libro per insegnare a scriver le lettere. Invece quello che c'insegna la ginnastica è un tipo di soldato, è stato con Garibaldi, e ha sul collo la cicatrice d'una ferita di sciabola toccata alla battaglia di Milazzo. Poi c'è il Direttore, alto, calvo con gli occhiali d'oro, con la barba grigia che gli vien sul petto, tutto vestito di nero e sempre abbottonato fin sotto il mento; così buono coi ragazzi, che quando entrano tutti tremanti in Direzione, chiamati per un rimprovero, non li sgrida, ma li piglia per le mani, e dice tante ragioni, che non dovevan far così, e che bisogna che si pentano, e che promettano d'esser buoni, e parla con tanta buona maniera e con una voce così dolce che tutti escono con gli occhi rossi, più confusi che se li avesse puniti. Povero Direttore, egli è sempre il primo al suo posto, la mattina, a aspettare gli scolari e a dar retta ai parenti, e quando i maestri son già avviati verso casa, gira ancora intorno alla scuola a vedere che i ragazzi non si caccino sotto le carrozze, o non si trattengan per le strade a far querciola, o a empir gli zaini di sabbia o di sassi; e ogni volta che appare a una cantonata, così alto e nero, stormi di ragazzi scappano da tutte le parti, piantando lì il giuoco dei pennini e delle biglie, ed egli li minaccia con l'indice da lontano, con la sua aria amorevole e triste. Nessuno l'ha più visto ridere, dice mia madre, dopo che gli è morto il figliuolo ch'era volontario nell'esercito; ed egli ha sempre il suo ritratto davanti agli occhi, sul tavolino della Direzione. E se ne voleva andare dopo quella disgrazia; aveva già fatto la sua domanda di riposo al Municipio, e la teneva sempre sul tavolino, aspettando di giorno in giorno a mandarla, perché gli rincresceva di lasciare i fanciulli. Ma l'altro giorno pareva deciso, e mio padre ch'era con lui nella Direzione, gli diceva: - Che peccato che se ne vada, signor Direttore! - quando entrò un uomo a fare iscrivere un ragazzo, che passava da un'altra sezione alla nostra perché aveva cambiato di casa. A veder quel ragazzo il Direttore fece un atto di meraviglia, - lo guardò un pezzo, guardò il ritratto che tien sul tavolino e tornò a guardare il ragazzo, tirandoselo fra le ginocchia e facendogli alzare il viso. Quel ragazzo somigliava tutto al suo figliuolo morto. Il Direttore disse: - Va bene; - fece l'iscrizione, congedò padre e figlio, e restò pensieroso. - Che peccato che se ne vada! - ripeté mio padre. E allora il Direttore prese la sua domanda di riposo, la fece in due pezzi e disse: - Rimango. Il suo figliuolo era volontario nell'esercito quando morì: per questo il Direttore va sempre sul corso a veder passare i soldati, quando usciamo dalla scuola. Ieri passava un reggimento di fanteria, e cinquanta ragazzi si misero a saltellare intorno alla banda musicale, cantando e battendo il tempo colle righe sugli zaini e sulle cartelle. Noi stavamo in un gruppo, sul marciapiede a guardare: Garrone, strizzato nei suoi vestiti troppo stretti, che addentava un gran pezzo di pane; Votini, quello ben vestito, che si leva sempre i peluzzi dai panni; Precossi, il figliuolo del fabbro, con la giacchetta di suo padre, e il calabrese, e il muratorino, e Crossi con la sua testa rossa, e Franti con la sua faccia tosta, e anche Robetti, il figliuolo del capitano d'artiglieria, quello che salvò un bambino dall'omnibus, e che ora cammina con le stampelle. Franti fece una risata in faccia a un soldato che zoppicava. Ma subito si sentì la mano d'un uomo sulla spalla: si voltò: era il Direttore. - Bada, - gli disse il Direttore; - schernire un soldato quand'è nelle file, che non può né vendicarsi né rispondere, è come insultare un uomo legato: è una viltà. - Franti scomparve. I soldati passavano a quattro a quattro, sudati e coperti di polvere, e i fucili scintillavano al sole. Il Direttore disse: - Voi dovete voler bene ai soldati, ragazzi. Sono i nostri difensori, quelli che andrebbero a farsi uccidere per noi, se domani un esercito straniero minacciasse il nostro paese. Sono ragazzi anch'essi, hanno pochi anni più di voi; e anch'essi vanno a scuola; e ci sono poveri e signori, fra loro, come fra voi, e vengono da tutte le parti d'Italia. Vedete, si posson quasi riconoscere al viso: passano dei Siciliani, dei Sardi, dei Napoletani, dei Lombardi. Questo poi è un reggimento vecchio, di quelli che hanno combattuto nel 1848. I soldati non son più quelli, ma la bandiera è sempre la stessa. Quanti erano già morti per il nostro paese intorno a quella bandiera venti anni prima che voi nasceste! - Eccola qui, - disse Garrone. E infatti si vedeva poco lontano la bandiera, che veniva innanzi, al di sopra delle teste dei soldati. - Fate una cosa, figliuoli, - disse il Direttore, - fate il vostro saluto di scolari, con la mano alla fronte, quando passano i tre colori. - La bandiera, portata da un ufficiale, ci passò davanti, tutta lacera e stinta, con le medaglie appese all'asta. Noi mettemmo la mano alla fronte, tutt'insieme. L'ufficiale ci guardò, sorridendo, e ci restituì il saluto con la mano. - Bravi, ragazzi, - disse uno dietro di noi. Ci voltammo a guardare: era un vecchio che aveva all'occhiello del vestito il nastrino azzurro della campagna di Crimea: un ufficiale pensionato. - Bravi, - disse, - avete fatto una cosa bella. - Intanto la banda del reggimento svoltava in fondo al corso, circondata da una turba di ragazzi, e cento grida allegre accompagnavan gli squilli delle trombe come un canto di guerra. - Bravi, - ripeté il vecchio ufficiale, guardandoci; - chi rispetta la bandiera da piccolo la saprà difender da grande. Il protettore di Nelli Anche Nelli, ieri, guardava i soldati, povero gobbino, ma con un'aria così, come se pensasse: - Io non potrò esser mai un soldato! - Egli è buono, studia; ma è così magrino e smorto, e respira a fatica. Porta sempre un lungo grembiale di tela nera lucida. Sua madre è una signora piccola a bionda, vestita di nero, e vien sempre a prenderlo al finis, perché non esca nella confusione, con gli altri; e lo accarezza. I primi giorni, perché ha quella disgrazia d'esser gobbo, molti ragazzi lo beffavano e gli picchiavan sulla schiena con gli zaini; ma egli non si rivoltava mai, e non diceva mai nulla a sua madre, per non darle quel dolore di sapere che suo figlio era lo zimbello dei compagni; lo schernivano, ed egli piangeva e taceva, appoggiando la fronte sul banco. Ma una mattina saltò su Garrone e disse: - Il primo che tocca Nelli gli do uno scapaccione che gli faccio far tre giravolte! - Franti non gli badò, lo scapaccione partì, l'amico fece le tre giravolte, e dopo d'allora nessuno toccò più Nelli. Il maestro gli mise Garrone vicino, nello stesso banco. Si sono fatti amici. Nelli s'è affezionato molto a Garrone. Appena entra nella scuola, cerca subito se c'è Garrone. Non va mai via senza dire: - Addio, Garrone. - E così fa Garrone con lui. Quando Nelli lascia cascar la penna o un libro sotto il banco, subito, perché non faccia fatica a chinarsi, Garrone si china e gli porge il libro o la penna; e poi l'aiuta a rimetter la roba nello zaino, e a infilarsi il cappotto. Per questo Nelli gli vuol bene, e lo guarda sempre, e quando il maestro lo loda è contento, come se lodasse lui. Ora bisogna che Nelli, finalmente, abbia detto tutto a sua madre, e degli scherni dei primi giorni e di quello che gli facevan patire, e poi del compagno che lo difese e che gli ha posto affetto, perché, ecco quello che accadde questa mattina. Il maestro mi mandò a portare al Direttore il programma della lezione, mezz'ora prima del finis, ed io ero nell'ufficio quando entrò una signora bionda e vestita di nero, la mamma di Nelli, la quale disse: - Signor Direttore, c'è nella classe del mio figliuolo un ragazzo che si chiama Garrone? - C'è, - rispose il Direttore. - Vuol aver la bontà di farlo venire un momento qui, che gli ho da dire una parola? - Il Direttore chiamò il bidello e lo mandò in iscuola, e dopo un minuto ecco lì Garrone sull'uscio con la sua testa grossa e rapata, tutto stupito. Appena lo vide, la signora gli corse incontro, gli gettò le mani sulle spalle e gli diede tanti baci sulla testa dicendo: - Sei tu, Garrone, l'amico del mio figliuolo, il protettore del mio povero bambino, sei tu, caro, bravo ragazzo, sei tu! - Poi frugò in furia nelle tasche e nella borsa, e non trovando nulla, si staccò dal collo una catenella con una crocina, e la mise al collo di Garrone, sotto la cravatta, e gli disse: - Prendila, portala per mia memoria, caro ragazzo, per memoria della mamma di Nelli, che ti ringrazia e ti benedice. Il primo della classe Garrone s'attira l'affetto di tutti; Derossi, l'ammirazione. Ha preso la prima medaglia, sarà sempre il primo anche quest'anno, nessuno può competer con lui, tutti riconoscono la sua superiorità in tutte le materie. È il primo in aritmetica, in grammatica, in composizione, in disegno, capisce ogni cosa al volo, ha una memoria meravigliosa, riesce in tutto senza sforzo, pare che lo studio sia un gioco per lui... Il maestro gli disse ieri: - Hai avuto dei grandi doni da Dio, non hai altro da fare che non sciuparli. - E per di più è grande, bello, con una gran corona di riccioli biondi, lesto che salta un banco appoggiandovi una mano su; e sa già tirare di scherma. Ha dodici anni, è figliuolo d'un negoziante, va sempre vestito di turchino con dei bottoni dorati, sempre vivo, allegro, grazioso con tutti, e aiuta quanti può all'esame, e nessuno ha mai osato fargli uno sgarbo o dirgli una brutta parola. Nobis e Franti soltanto lo guardano per traverso e Votini schizza invidia dagli occhi; ma egli non se n'accorge neppure. Tutti gli sorridono e lo pigliano per una mano o per un braccio quando va attorno a raccogliere i lavori, con quella sua maniera graziosa. Egli regala dei giornali illustrati, dei disegni, tutto quello che a casa regalano a lui, ha fatto per il calabrese una piccola carta geografica delle Calabrie; e dà tutto ridendo, senza badarci, come un gran signore, senza predilezioni per alcuno. È impossibile non invidiarlo, non sentirsi da meno di lui in ogni cosa. Ah! io pure, come Votini, l'invidio. E provo un'amarezza, quasi un certo dispetto contro di lui, qualche volta, quando stento a fare il lavoro a casa, e penso che a quell'ora egli l'ha già fatto, benissimo e senza fatica. Ma poi, quando torno alla scuola, a vederlo così bello, ridente, trionfante, a sentir come risponde alle interrogazioni del maestro franco e sicuro, e com'è cortese e come tutti gli voglion bene, allora ogni amarezza, ogni dispetto mi va via dal cuore, e mi vergogno d'aver provato quei sentimenti. Vorrei essergli sempre vicino allora; vorrei poter fare tutte le scuole con lui; la sua presenza, la sua voce mi mette coraggio, voglia di lavorare, allegrezza, piacere. Il maestro gli ha dato da copiare il racconto mensile che leggerà domani: La piccola vedetta lombarda; egli lo copiava questa mattina, ed era commosso da quel fatto eroico, tutto acceso nel viso, cogli occhi umidi e con la bocca tremante; e io lo guardavo, com'era bello e nobile! Con che piacere gli avrei detto sul viso, francamente: - Derossi, tu vali in tutto più di me! Tu sei un uomo a confronto mio! Io ti rispetto e ti ammiro! La piccola vedetta lombarda Nel 1859, durante la guerra per la liberazione della Lombardia, pochi giorni dopo la
battaglia di Solferino e San Martino, vinta dai Francesi e dagli Italiani contro gli
Austriaci, in una bella mattinata del mese di giugno, un piccolo drappello di
cavalleggieri di Saluzzo andava di lento passo, per un sentiero solitario, verso il
nemico, esplorando attentamente la campagna. Guidavano il drappello un ufficiale e un
sergente, e tutti guardavano lontano, davanti a sé, con occhio fisso, muti, preparati a
veder da un momento all'altro biancheggiare fra gli alberi le divise degli avamposti
nemici. Arrivarono così a una casetta rustica, circondata di frassini, davanti alla quale
se ne stava tutto solo un ragazzo d'una dozzina d'anni, che scortecciava un piccolo ramo
con un coltello, per farsene un bastoncino; da una finestra della casa spenzolava una
larga bandiera tricolore; dentro non c'era nessuno: i contadini, messa fuori la bandiera,
erano scappati, per paura degli Austriaci. Appena visti i cavalleggieri, il ragazzo buttò
via il bastone e si levò il berretto. Era un bel ragazzo, di viso ardito, con gli occhi
grandi e celesti, coi capelli biondi e lunghi; era in maniche di camicia, e mostrava il
petto nudo. Dare la vita per il proprio paese, come il ragazzo lombardo, è una grande virtù, ma tu non trascurare le virtù piccole, figliuolo. Questa mattina, camminando davanti a me quando tornavamo dalla scuola, passasti accanto a una povera, che teneva fra le ginocchia un bambino stentito e smorto, e che ti domandò l'elemosina. Tu la guardasti e non le desti nulla, e pure ci avevi dei soldi in tasca. Senti, figliuolo. Non abituarti a passare indifferente davanti alla miseria che tende la mano, e tanto meno davanti a una madre che chiede un soldo per il suo bambino. Pensa che forse quel bambino aveva fame! pensa allo strazio di quella povera donna. Te lo immagini il singhiozzo disperato di tua madre, quando un giorno ti dovesse dire. - Enrico, oggi non posso darti nemmen del pane? - Quand'io do un soldo a un mendico, ed egli mi dice. - Dio conservi la salute a lei e alle sue creature! - tu non puoi comprendere la dolcezza che mi danno al cuore quelle parole, la gratitudine che sento per quel povero. Mi par davvero che quel buon augurio debba conservarsi in buona salute per molto tempo, e ritorno a casa contento. e penso: Oh! quel povero m'ha reso assai più di quanto gli ho dato! Ebbene, fa ch'io senta qualche volta quel buon augurio provocato, meritato da te, togli tratto tratto un soldo dalla tua piccola borsa per lasciarlo cadere nella mano d'un vecchio senza sostegno, d'una madre senza pane, d'un bimbo senza madre. I poveri amano l'elemosina dei ragazzi perché non li umilia, e perché i ragazzi, che han bisogno di tutti, somigliano a loro. vedi che ce n'è sempre intorno alle scuole, dei poveri. L'elemosina d'un uomo è un atto di carità, ma quella d'un fanciullo è insieme un atto di carità e una carezza, capisci? È come se dalla sua mano cadessero insieme un soldo e un fiore. Pensa che a te non manca nulla, ma che a loro manca tutto; che mentre tu vuoi esser felice, a loro basta di non morire. Pensa che è un orrore che in mezzo a tanti palazzi, per le vie dove passan carrozze e bambini vestiti di velluto, ci siano delle donne, dei bimbi che non hanno da mangiare. Non aver da mangiare, Dio mio! Dei ragazzi come te, buoni come te, intelligenti come te, che in mezzo a una grande città non han da mangiare, come belve perdute in un deserto! Oh mai più, Enrico, non passare mai più davanti a una madre che méndica senza metterle un soldo nella mano! TUA MADRE
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