Rime, di Michelangelo Buonarroti
click qui sopra per tornare alla copertina

<<< indietro II avanti >>>

081

    Ogni cosa ch'i' veggio mi consiglia
e priega e forza ch'i' vi segua e ami;
ché quel che non è voi non è 'l mie bene.
    Amor, che sprezza ogni altra maraviglia,
per mie salute vuol ch'i' cerchi e brami
voi, sole, solo; e così l'alma tiene
d'ogni alta spene e d'ogni valor priva;
e vuol ch'i' arda e viva
non sol di voi, ma chi di voi somiglia
degli occhi e delle ciglia alcuna parte.
    E chi da voi si parte,
occhi, mie vita, non ha luce poi;
ché 'l ciel non è dove non siate voi.

082

    Non posso altra figura immaginarmi
o di nud'ombra o di terrestre spoglia,
col più alto pensier, tal che mie voglia
contra la tuo beltà di quella s'armi.
    Ché da te mosso, tanto scender parmi,
c'Amor d'ogni valor mi priva e spoglia,
ond'a pensar di minuir mie doglia,
duplicando, la morte viene a darmi.
    Però non val che più sproni mie fuga,
doppiando 'l corso alla beltà nemica,
ché 'l men dal più veloce non si scosta.
    Amor con le sue man gli occhi m'asciuga,
promettendomi cara ogni fatica;
ché vile esser non può chi tanto costa.

083

    Veggio nel tuo bel viso, signor mio,
quel che narrar mal puossi in questa vita:
l'anima, della carne ancor vestita,
con esso è già più volte ascesa a Dio.
    E se 'l vulgo malvagio, isciocco e rio,
di quel che sente, altrui segna e addita,
non è l'intensa voglia men gradita,
l'amor, la fede e l'onesto desio.
    A quel pietoso fonte, onde siàn tutti,
s'assembra ogni beltà che qua si vede
più c'altra cosa alle persone accorte;
    né altro saggio abbiàn né altri frutti
del cielo in terra; e chi v'ama con fede
trascende a Dio e fa dolce la morte.

084

    Sì come nella penna e nell'inchiostro
è l'alto e 'l basso e 'l medïocre stile,
e ne' marmi l'immagin ricca e vile,
secondo che 'l sa trar l'ingegno nostro;
    così, signor mie car, nel petto vostro,
quante l'orgoglio è forse ogni atto umile;
ma io sol quel c'a me propio è e simile
ne traggo, come fuor nel viso mostro.
    Chi semina sospir, lacrime e doglie,
(l'umor dal ciel terreste, schietto e solo,
a vari semi vario si converte),
    però pianto e dolor ne miete e coglie;
chi mira alta beltà con sì gran duolo,
ne ritra' doglie e pene acerbe e certe.

085

    Com'io ebbi la vostra, signor mio,
cercand'andai fra tutti e' cardinali
e diss'a tre da vostra part' addio.
    Al Medico maggior de' nostri mali
mostrai la detta, onde ne rise tanto
che 'l naso fe' dua parti dell'occhiali.
    Il servito da voi pregiat' e santo
costà e qua, sì come voi scrivete,
n'ebbe piacer, che ne ris'altro tanto.
    A quel che tien le cose più secrete
del Medico minor non l'ho ancor visto;
farebbes'anche a lui, se fusse prete.
    Ècci molt'altri che rinegon Cristo
che voi non siate qua; né dà lor noia
ché chi non crede si tien manco tristo.
    Di voi a tutti caverò la foia
di questa vostra; e chi non si contenta
affogar possa per le man del boia.
    La Carne che nel sal si purg' e stenta
che saria buon per carbonat' ancora
di voi più che di sé par si rammenta.
    Il nostro Buonarroto, che v'adora,
visto la vostra, se ben veggio, parmi
c'al ciel si lievi mille volte ogn'ora;
    e dice che la vita de' sua marmi
non basta a far il vostro nom'eterno,
come lui fanno i divin vostri carmi.
    Ai qual non nuoce né state né verno,
dal temp' esenti e da morte crudele,
che fama di virtù non ha in governo.
    E come vostro amico e mio fedele
disse: - Ai dipinti, visti i versi belli,
s'appiccon voti e s'accendon candele.
    Dunque i' son pur nel numero di quelli,
da un goffo pittor senza valore
cavato a' pennell' e alberelli.
    Il Bernia ringraziate per mio amore,
che fra tanti lui sol conosc' il vero
di me; ché chi mi stim' è 'n grand'errore.
    Ma la sua disciplin' el lum' intero
mi può ben dar, e gran miracol fia,
a far un uom dipint' un uom da vero. -
    Così mi disse; e io per cortesia
vel raccomando quanto so e posso,
che fia l'apportator di questa mia.
    Mentre la scrivo a vers'a verso, rosso
diveng'assai, pensando a cui la mando,
send' il mio non professo, goffo e grosso.
    Pur nondimen così mi raccomando
anch'io a voi, e altro non accade;
d'ogni tempo son vostro e d'ogni quando.
    A voi nel numer delle cose rade
tutto mi v'offerisco, e non pensate
ch'i' manchi, se 'l cappuccio non mi cade.
    Così vi dico e giuro, e certo siate,
ch'i' non farei per me quel che per voi:
e non m'abbiat'a schifo come frate.
    Comandatemi, e fate poi da voi.

086

    Ancor che 'l cor già mi premesse tanto,
per mie scampo credendo il gran dolore
n'uscissi con le lacrime e col pianto,
    fortuna al fonte di cotale umore
le radice e le vene ingrassa e 'mpingua
per morte, e non per pena o duol minore,
    col tuo partire; onde convien destingua
dal figlio prima e tu morto dipoi,
del quale or parlo, pianto, penna e lingua.
    L'un m'era frate, e tu padre di noi;
l'amore a quello, a te l'obrigo strigne:
non so qual pena più mi stringa o nòi.
    La memoria 'l fratel pur mi dipigne,
e te sculpisce vivo in mezzo il core,
che 'l core e 'l volto più m'affligge e tigne.
    Pur mi quieta che il debito, c'all'ore
pagò 'l mio frate acerbo, e tu maturo;
ché manco duole altrui chi vecchio muore.
    Tanto all'increscitor men aspro e duro
esser dié 'l caso quant'è più necesse,
là dove 'l ver dal senso è più sicuro.
    Ma chi è quel che morto non piangesse
suo caro padre, c'ha veder non mai
quel che vedea infinite volte o spesse?
    Nostri intensi dolori e nostri guai
son come più e men ciascun gli sente:
quant'in me posson tu, Signor, tel sai.
    E se ben l'alma alla ragion consente,
tien tanto in collo, che vie più abbondo
po' doppo quella in esser più dolente.
    E se 'l pensier, nel quale i' mi profondo
non fussi che 'l ben morto in ciel si ridi
del timor della morte in questo mondo,
    crescere' 'l duol; ma ' dolorosi stridi
temprati son d'una credenza ferma
che 'l ben vissuto a morte me' s'annidi.
    Nostro intelletto dalla carne inferma
è tanto oppresso, che 'l morir più spiace
quanto più 'l falso persuaso afferma.
    Novanta volte el sol suo chiara face
prim'ha nell'oceàn bagnata e molle,
che tu sie giunto alla divina pace.
    Or che nostra miseria el ciel ti tolle,
increscati di me, che morto vivo,
come tuo mezzo qui nascer mi volle.
    Tu se' del morir morto e fatto divo,
né tem'or più cangiar vita né voglia,
che quasi senza invidia non lo scrivo.
    Fortuna e 'l tempo dentro a vostra soglia
non tenta trapassar, per cui s'adduce
fra no' dubbia letizia e certa doglia.
    Nube non è che scuri vostra luce,
l'ore distinte a voi non fanno forza,
caso o necessità non vi conduce.
    Vostro splendor per notte non s'ammorza,
né cresce ma' per giorno, benché chiaro,
sie quand'el sol fra no' il caldo rinforza.
    Nel tuo morire el mie morire imparo,
padre mie caro, e nel pensier ti veggio
dove 'l mondo passar ne fa di raro.
    Non è, com'alcun crede, morte il peggio
a chi l'ultimo dì trascende al primo,
per grazia, etterno appresso al divin seggio
dove, Die grazia, ti prosumo e stimo
e spero di veder, se 'l freddo core
mie ragion tragge dal terrestre limo.
    E se tra 1' padre e 'l figlio ottimo amore
cresce nel ciel, crescendo ogni virtute,
. . . . . . . . . . .

087

    Vorrei voler, Signor, quel ch'io non voglio:
tra 'l foco e 'l cor di ghiaccia un vel s'asconde
che 'l foco ammorza, onde non corrisponde
la penna all'opre, e fa bugiardo 'l foglio.
    I' t'amo con la lingua, e poi mi doglio
c'amor non giunge al cor; né so ben onde
apra l'uscio alla grazia che s'infonde
nel cor, che scacci ogni spietato orgoglio.
    Squarcia 'l vel tu, Signor, rompi quel muro
che con la suo durezza ne ritarda
il sol della tuo luce, al mondo spenta!
    Manda 'l preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch'io arda
il cor senz'alcun dubbio, e te sol senta.

088

    Sento d'un foco un freddo aspetto acceso
che lontan m'arde e sé con seco agghiaccia;
pruovo una forza in due leggiadre braccia
che muove senza moto ogni altro peso.
    Unico spirto e da me solo inteso,
che non ha morte e morte altrui procaccia,
veggio e truovo chi, sciolto, 'l cor m'allaccia,
e da chi giova sol mi sento offeso.
    Com'esser può, signor, che d'un bel volto
ne porti 'l mio così contrari effetti,
se mal può chi non gli ha donar altrui?
    Onde al mio viver lieto, che m'ha tolto,
fa forse come 'l sol, se nol permetti,
che scalda 'l mondo e non è caldo lui.

089

    Veggio co' be' vostr'occhi un dolce lume
che co' mie ciechi già veder non posso;
porto co' vostri piedi un pondo addosso,
che de' mie zoppi non è già costume.
    Volo con le vostr'ale senza piume;
col vostro ingegno al ciel sempre son mosso;
dal vostro arbitrio son pallido e rosso,
freddo al sol, caldo alle più fredde brume.
    Nel voler vostro è sol la voglia mia,
i miei pensier nel vostro cor si fanno,
nel vostro fiato son le mie parole.
    Come luna da sé sol par ch'io sia,
ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno
se non quel tanto che n'accende il sole.

090

    I' mi son caro assai più ch'i' non soglio;
poi ch'i' t'ebbi nel cor più di me vaglio,
come pietra c'aggiuntovi l'intaglio
è di più pregio che 'l suo primo scoglio.
    O come scritta o pinta carta o foglio
più si riguarda d'ogni straccio o taglio,
tal di me fo, da po' ch'i' fu' berzaglio
segnato dal tuo viso, e non mi doglio.
    Sicur con tale stampa in ogni loco
vo, come quel c'ha incanti o arme seco,
c'ogni periglio gli fan venir meno.
    I' vaglio contr'a l'acqua e contr'al foco,
col segno tuo rallumino ogni cieco,
e col mie sputo sano ogni veleno.

091

    Perc'all'estremo ardore
che toglie e rende poi
il chiuder e l'aprir degli occhi tuoi
duri più la mie vita,
fatti son calamita
di me, de l'alma e d'ogni mie valore;
tal c'anciderm' Amore,
forse perch'è pur cieco,
indugia, triema e teme.
    C'a passarmi nel core,
sendo nel tuo con teco,
pungere' prima le tuo parte streme
e perché meco insieme
non mora, non m'ancide. O gran martire,
c'una doglia mortal, senza morire,
raddoppia quel languire
del qual, s'i' fussi meco, sare' fora.
    Deh rendim' a me stesso, acciò ch'i' mora.

092

    Quantunche 'l tempo ne costringa e sproni
ognor con maggior guerra
a rendere alla terra
le membra afflitte, stanche e pellegrine,
non ha per 'ncor fine
chi l'alma attrista e me fa così lieto.
    Né par che men perdoni
a chi 'l cor m'apre e serra,
nell'ore più vicine
e più dubiose d'altro viver quieto;
ché l'error consueto,
com più m'attempo, ognor più si fa forte.
    O dura mia più c'altra crudel sorte!
    tardi orama' puo' tormi tanti affanni;
c'un cor che arde e arso è già molt'anni
torna, se ben l'ammorza la ragione,
non più già cor, ma cenere e carbone.

093

    Spargendo il senso il troppo ardor cocente
fuor del tuo bello, in alcun altro volto,
men forza ha, signor, molto
qual per più rami alpestro e fier torrente.
    Il cor, che del più ardente
foco più vive, mal s'accorda allora
co' rari pianti e men caldi sospiri.
    L'alma all'error presente
gode c'un di lor mora
per gire al ciel, là dove par c'aspiri.
    La ragione i martiri
fra lor comparte; e fra più salde tempre
s'accordan tutt'a quattro amarti sempre.

094

    D'altrui pietoso e sol di sé spietato
nasce un vil bruto, che con pena e doglia
l'altrui man veste e la suo scorza spoglia
e sol per morte si può dir ben nato.
    Così volesse al mie signor mie fato
vestir suo viva di mie morta spoglia,
che, come serpe al sasso si discoglia,
pur per morte potria cangiar mie stato.
    O fussi sol la mie l'irsuta pelle
che, del suo pel contesta, fa tal gonna
che con ventura stringe sì bel seno,
    ch'i' l'are' pure il giorno; o le pianelle
che fanno a quel di lor basa e colonna,
ch'i' pur ne porterei duo nevi almeno.

095

    Rendete agli occhi mei, o fonte o fiume,
l'onde della non vostra e salda vena,
che più v'innalza e cresce, e con più lena
che non è 'l vostro natural costume.
    E tu, folt'aïr, che 'l celeste lume
tempri a' trist'occhi, de' sospir mie piena,
rendigli al cor mie lasso e rasserena
tua scura faccia al mie visivo acume.
    Renda la terra i passi alle mie piante,
c'ancor l'erba germugli che gli è tolta,
e 'l suono eco, già sorda a' mie lamenti;
    gli sguardi agli occhi mie tuo luce sante,
ch'i' possa altra bellezza un'altra volta
amar, po' che di me non ti contenti.

096

    Sì come secco legno in foco ardente
arder poss'io, s'i' non t'amo di core,
e l'alma perder, se null'altro sente.
    E se d'altra beltà spirto d'amore
fuor de' tu' occhi è che m'infiammi o scaldi,
tolti sien quegli a chi sanz'essi muore.
    S'io non t'amo e ador, ch'e' mie più baldi
pensier sien con la speme tanto tristi
quanto nel tuo amor son fermi e saldi.

097

    Al cor di zolfo, a la carne di stoppa,
a l'ossa che di secco legno sièno;
a l'alma senza guida e senza freno
al desir pronto, a la vaghezza troppa;
    a la cieca ragion debile e zoppa
al vischio, a' lacci di che 'l mondo è pieno;
non è gran maraviglia, in un baleno
arder nel primo foco che s'intoppa.
    A la bell'arte che, se dal ciel seco
ciascun la porta, vince la natura,
quantunche sé ben prema in ogni loco;
    s'i' nacqui a quella né sordo né cieco,
proporzionato a chi 'l cor m'arde e fura,
colpa è di chi m'ha destinato al foco.

098

    A che più debb'i' omai l'intensa voglia
sfogar con pianti o con parole meste,
se di tal sorte 'l ciel, che l'alma veste,
tard' o per tempo alcun mai non ne spoglia?
    A che 'l cor lass' a più languir m'invoglia,
s'altri pur dee morir? Dunche per queste
luci l'ore del fin fian men moleste;
c'ogni altro ben val men c'ogni mia doglia.
    Però se 'l colpo ch'io ne rub' e 'nvolo
schifar non posso, almen, s'è destinato,
chi entrerà 'nfra la dolcezza e 'l duolo?
    Se vint' e preso i' debb'esser beato,
maraviglia non è se nudo e solo
resto prigion d'un cavalier armato.

099

    Ben mi dove' con sì felice sorte,
mentre che Febo il poggio tutto ardea,
levar da terra, allor quand'io potea,
con le suo penne, e far dolce la morte.
    Or m'è sparito; e se 'l fuggir men forte
de' giorni lieti invan mi promettea,
ragione è ben c'all'alma ingrata e rea
pietà le mani e 'l ciel chiugga le porte.
    Le penne mi furn'ale e 'l poggio scale,
Febo lucerna a' piè; né m'era allora
men salute il morir che maraviglia.
    Morendo or senza, al ciel l'alma non sale,
né di lor la memoria il cor ristora:
ché tardi e doppo il danno, chi consiglia?

100

    Ben fu, temprando il ciel tuo vivo raggio,
solo a du' occhi, a me di pietà vòto,
allor che con veloce etterno moto
a noi dette la luce, a te 'l vïaggio.
    Felice uccello, che con tal vantaggio
da noi, t'è Febo e 'l suo bel volto noto,
e più c'al gran veder t'è ancora arroto
volare al poggio, ond'io rovino e caggio.

101

    Perché Febo non torce e non distende
d'intorn' a questo globo freddo e molle
le braccia sua lucenti, el vulgo volle
notte chiamar quel sol che non comprende.
    E tant'è debol, che s'alcun accende
un picciol torchio, in quella parte tolle
la vita dalla notte, e tant'è folle
che l'esca col fucil la squarcia e fende.
    E s'egli è pur che qualche cosa sia
cert'è figlia del sol e della terra;
ché l'un tien l'ombra, e l'altro sol la cria.
    Ma sia che vuol, che pur chi la loda erra,
vedova, scura, in tanta gelosia,
c'una lucciola sol gli può far guerra.

102

    O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn' opra sempr' al fin assalta;
ben vede e ben intende chi t'esalta,
e chi t'onor' ha l'intelletto intero.
    Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;
ché l'umid' ombra ogni quiet' appalta,
e dall'infima parte alla più alta
in sogno spesso porti, ov'ire spero.
    O ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria a l'alma, al cor nemica,
ultimo delli afflitti e buon rimedio;
    tu rendi sana nostra carn' inferma,
rasciughi i pianti e posi ogni fatica,
e furi a chi ben vive ogn'ira e tedio.

103

    Ogni van chiuso, ogni coperto loco,
quantunche ogni materia circumscrive,
serba la notte, quando il giorno vive,
contro al solar suo luminoso gioco.
    E s'ella è vinta pur da fiamma o foco,
da lei dal sol son discacciate e prive
con più vil cosa ancor sue specie dive,
tal c'ogni verme assai ne rompe o poco.
    Quel che resta scoperto al sol, che ferve
per mille vari semi e mille piante,
il fier bifolco con l'aratro assale;
ma l'ombra sol a piantar l'uomo serve.
    Dunche, le notti più ch'e' dì son sante,
quanto l'uom più d'ogni altro frutto vale.

104

    Colui che fece, e non di cosa alcuna,
il tempo, che non era anzi a nessuno,
ne fe' d'un due e diè 'l sol alto all'uno,
all'altro assai più presso diè la luna.
    Onde 'l caso, la sorte e la fortuna
in un momento nacquer di ciascuno;
e a me consegnaro il tempo bruno,
come a simil nel parto e nella cuna.
    E come quel che contrafà se stesso,
quando è ben notte, più buio esser suole,
ond'io di far ben mal m'affliggo e lagno.
    Pur mi consola assai l'esser concesso
far giorno chiar mia oscura notte al sole
che a voi fu dato al nascer per compagno.

105

    Non vider gli occhi miei cosa mortale
allor che ne' bei vostri intera pace
trovai, ma dentro, ov'ogni mal dispiace,
chi d'amor l'alma a sé simil m'assale;
    e se creata a Dio non fusse equale,
altro che 'l bel di fuor, c'agli occhi piace,
più non vorria; ma perch'è sì fallace,
trascende nella forma universale.
    Io dico c'a chi vive quel che muore
quetar non può disir; né par s'aspetti
l'eterno al tempo, ove altri cangia il pelo.
    Voglia sfrenata el senso è, non amore,
che l'alma uccide; e 'l nostro fa perfetti
gli amici qui, ma più per morte in cielo.

106

    Per ritornar là donde venne fora,
l'immortal forma al tuo carcer terreno
venne com'angel di pietà sì pieno,
che sana ogn'intelletto e 'l mondo onora.
    Questo sol m'arde e questo m'innamora,
non pur di fuora il tuo volto sereno:
c'amor non già di cosa che vien meno
tien ferma speme, in cui virtù dimora.
    Né altro avvien di cose altere e nuove
in cui si preme la natura, e 'l cielo
è c' a' lor parti largo s'apparecchia;
    né Dio, suo grazia, mi si mostra altrove
più che 'n alcun leggiadro e mortal velo;
e quel sol amo perch'in lui si specchia.

107

    Gli occhi mie vaghi delle cose belle
e l'alma insieme della suo salute
non hanno altra virtute
c'ascenda al ciel, che mirar tutte quelle.
    Dalle più alte stelle
discende uno splendore
che 'l desir tira a quelle,
e qui si chiama amore.
    Né altro ha il gentil core
che l'innamori e arda, e che 'l consigli,
c'un volto che negli occhi lor somigli.

108

    Indarno spera, come 'l vulgo dice,
chi fa quel che non de' grazia o mercede.
    Non fu', com'io credetti, in vo' felice,
privandomi di me per troppa fede,
né spero com'al sol nuova fenice
ritornar più; ché 'l tempo nol concede.
    Pur godo il mie gran danno sol perch'io
son più mie vostro, che s'i' fussi mio.

109

    Non sempre a tutti è sì pregiato e caro
quel che 'l senso contenta,
c'un sol non sia che 'l senta,
se ben par dolce, pessimo e amaro.
    Il buon gusto è sì raro
c'al vulgo errante cede
in vista, allor che dentro di sé gode.
    Così, perdendo, imparo
quel che di fuor non vede
chi l'alma ha trista, e ' suo sospir non ode.
    El mondo è cieco e di suo gradi o lode
più giova a chi più scarso esser ne vuole,
come sferza che 'nsegna e parte duole.

110

    Io dico a voi c'al mondo avete dato
l'anima e 'l corpo e lo spirto 'nsïeme:
in questa cassa oscura è 'l vostro lato.

111

    S'egli è, donna, che puoi
come cosa mortal, benché sia diva
di beltà, c'ancor viva
e mangi e dorma e parli qui fra noi,
a non seguirti poi,
cessato il dubbio, tuo grazia e mercede,
qual pena a tal peccato degna fora?
    Ché alcun ne' pensier suoi,
co' l'occhio che non vede,
per virtù propia tardi s'innamora.
    Disegna in me di fuora,
com'io fo in pietra od in candido foglio,
che nulla ha dentro, e èvvi ciò ch'io voglio.

112

    Il mio refugio e 'l mio ultimo scampo
qual più sicuro è, che non sia men forte
che 'l pianger e 'l pregar? e non m'aita.
    Amore e crudeltà m'han posto il campo:
l'un s'arma di pietà, l'altro di morte;
questa n'ancide, e l'altra tien in vita.
    Così l'alma impedita
del mio morir, che sol poria giovarne,
più volte per andarne
s'è mossa là dov'esser sempre spera,
dov'è beltà sol fuor di donna altiera;
ma l'imagine vera,
della qual vivo, allor risorge al core,
perché da morte non sia vinto amore.

113

    Esser non può già ma' che gli occhi santi
prendin de' mie, com'io di lor, diletto,
rendendo al divo aspetto,
per dolci risi, amari e tristi pianti.
    O fallace speranza degli amanti!
    Com'esser può dissimile e dispari
l'infinita beltà, 'l superchio lume
da ogni mie costume,
che meco ardendo, non ardin del pari?
    Fra duo volti diversi e sì contrari
s'adira e parte da l'un zoppo Amore;
né può far forza che di me gl'incresca,
quand'in un gentil core
entra di foco, e d'acqua par che n'esca.

114

    Ben vinci ogni durezza
cogli occhi tuo, com'ogni luce ancora;
ché, s'alcun d'allegrezza avvien che mora,
allor sarebbe l'ora
che gran pietà comanda a gran bellezza.
    E se nel foco avvezza
non fusse l'alma, già morto sarei
alle promesse de' tuo primi sguardi,
ove non fur ma' tardi
gl'ingordi mie nimici, anz'occhi mei;
né doler mi potrei
di questo non poter, che non è teco.
    Bellezza e grazia equalmente infinita,
dove più porgi aita,
men puoi non tor la vita,
né puoi non far chiunche tu miri cieco.

115

    Lezi, vezzi, carezze, or, feste e perle,
chi potria ma' vederle
cogli atti suo divin l'uman lavoro,
ove l'argento e l'oro
da le' riceve o duplica suo luce?
    Ogni gemma più luce
dagli occhi suo che da propia virtute.

116

    Non mi posso tener né voglio, Amore,
crescendo al tuo furore,
ch'i' nol te dica e giuri:
quante più inaspri e 'nduri,
a più virtù l'alma consigli e sproni;
e se talor perdoni
a la mie morte, agli angosciosi pianti,
com'a colui che muore,
dentro mi sento il core
mancar, mancando i mie tormenti tanti.
    Occhi lucenti e santi,
mie poca grazia m'è ben dolce e cara,
c'assai acquista chi perdendo impara.

117

    S'egli è che 'l buon desio
porti dal mondo a Dio
alcuna cosa bella,
sol la mie donna è quella,
a chi ha gli occhi fatti com'ho io.
    Ogni altra cosa oblio
e sol di tant'ho cura.
    Non è gran maraviglia,
s'io l'amo e bramo e chiamo a tutte l'ore;
né propio valor mio,
se l'alma per natura
s'appoggia a chi somiglia
ne gli occhi gli occhi, ond'ella scende fore.
    Se sente il primo amore
come suo fin, per quel qua questa onora:
c'amar diè 'l servo chi 'l signore adora.

118

    Ancor che 'l cor già molte volte sia
d'amore acceso e da troppi anni spento,
l'ultimo mie tormento
sarie mortal senza la morte mia.
    Onde l'alma desia
de' giorni mie, mentre c'amor m'avvampa,
l'ultimo, primo in più tranquilla corte.
    Altro refugio o via
mie vita non iscampa
dal suo morir, c'un'aspra e crudel morte;
né contr'a morte è forte
altro che morte, sì c'ogn'altra aita
è doppia morte a chi per morte ha vita.

119

    Dal primo pianto all'ultimo sospiro,
al qual son già vicino,
chi contrasse già mai sì fier destino
com'io da sì lucente e fera stella?
    Non dico iniqua o fella,
che 'l me' saria di fore,
s'aver disdegno ne troncasse amore;
ma più, se più la miro,
promette al mio martiro
dolce pietà, con dispietato core.
    O desiato ardore!
    ogni uom vil sol potria vincer con teco,
ond'io, s'io non fui cieco,
ne ringrazio le prime e l'ultime ore
ch'io la vidi; e l'errore
vincami; e d'ogni tempo sia con meco,
se sol forza e virtù perde con seco.

120

    Ben tempo saria omai
ritrarsi dal martire,
ché l'età col desir non ben s'accorda;
ma l'alma, cieca e sorda,
Amor, come tu sai,
del tempo e del morire
che, contro a morte ancor, me la ricorda;
e se l'arco e la corda
avvien che tronchi o spezzi
in mille e mille pezzi,
prega te sol non manchi un de' suoi guai:
ché mai non muor chi non guarisce mai.

121

    Come non puoi non esser cosa bella,
esser non puoi che pietosa non sia;
sendo po' tutta mia,
non puo' poter non mi distrugga e stempre.
    Così durando sempre
mie pietà pari a tua beltà qui molto,
la fin del tuo bel volto
in un tempo con ella
fie del mie ardente core.
    Ma poi che 'l spirto sciolto
ritorna alla suo stella,
a fruir quel signore
ch'e' corpi a chiunche muore
eterni rende o per quiete o per lutto;
priego 'l mie, benché brutto,
com'è qui teco, il voglia in paradiso:
c'un cor pietoso val quant'un bel viso.

122

    Se 'l foco al tutto nuoce,
e me arde e non cuoce,
non è mia molta né sua men virtute,
ch'io sol trovi salute
qual salamandra, là dove altri muore.
    Né so chi in pace a tal martir m'ha volto:
da te medesma il volto,
da me medesmo il core
fatto non fu, né sciolto
da noi fia mai il mio amore;
più alto è quel signore
che ne' tu' occhi la mia vita ha posta.
    S'io t'amo, e non ti costa,
perdona a me, come io a tanta noia,
che fuor di chi m'uccide vuol ch'i' muoia.

123

    Quante più par che 'l mie mal maggior senta,
se col viso vel mostro,
più par s'aggiunga al vostro
bellezza, tal che 'l duol dolce diventa.
    Ben fa chi mi tormenta,
se parte vi fa bella
della mie pena ria:
se 'l mie mal vi contenta,
mie cruda e fera stella,
che farie dunche con la morte mia?
    Ma s'è pur ver che sia
vostra beltà dall'aspro mie martire,
e quel manchi al morire,
morend'io, morrà vostra leggiadria.
    Però fate ch'i' stia
col mie duol vivo, per men vostro danno;
e se più bella al mie mal maggior siete,
l'alma n'ha ben più quiete:
c'un gran piacer sopporta un grande affanno.

124

    Questa mie donna è sì pronta e ardita,
c'allor che la m'ancide ogni mie bene
cogli occhi mi promette, e parte tiene
il crudel ferro dentro a la ferita.
    E così morte e vita,
contrarie, insieme in un picciol momento
dentro a l'anima sento;
ma la grazia il tormento
da me discaccia per più lunga pruova:
c'assai più nuoce il mal che 'l ben non giova.

125

    Tanto di sé promette
donna pietosa e bella,
c'ancor mirando quella
sarie qual fu' per tempo, or vecchio e tardi.
    Ma perc'ognor si mette
morte invidiosa e fella
fra ' mie dolenti e ' suo pietosi sguardi,
solo convien ch'i' ardi
quel picciol tempo che 'l suo volto oblio.
    Ma poi che 'l pensier rio
pur la ritorna al consueto loco,
dal suo fier ghiaccio è spento il dolce foco.

126

    Se l'alma è ver, dal suo corpo disciolta,
che 'n alcun altro torni
a' corti e brevi giorni,
per vivere e morire un'altra volta,
la donna mie, di molta
bellezza agli occhi miei,
fie allor com'or nel suo tornar sì cruda?
    Se mie ragion s'ascolta,
attender la dovrei
di grazia piena e di durezza nuda.
    Credo, s'avvien che chiuda
gli occhi suo begli, arà, come rinnuova,
pietà del mie morir, se morte pruova.

127

    Non pur la morte, ma 'l timor di quella
da donna iniqua e bella,
c'ognor m'ancide, mi difende e scampa;
e se talor m'avvampa
più che l'usato il foco in ch'io son corso,
non trovo altro soccorso
che l'immagin sua ferma in mezzo il core:
ché dove è morte non s'appressa Amore.

128

    Se 'l timor della morte
chi 'l fugge e scaccia sempre
lasciar là lo potessi onde ei si muove,
Amor crudele e forte
con più tenaci tempre
d'un cor gentil faria spietate pruove.
    Ma perché l'alma altrove
per morte e grazia al fin gioire spera,
chi non può non morir gli è 'l timor caro
al qual ogni altro cede.
    Né contro all'alte e nuove
bellezze in donna altera
ha forza altro riparo
che schivi suo disdegno o suo mercede.
    Io giuro a chi nol crede,
che da costei, che del mio pianger ride,
sol mi difende e scampa chi m'uccide.

129

    Da maggior luce e da più chiara stella
la notte il ciel le sue da lunge accende:
te sol presso a te rende
ognor più bella ogni cosa men bella.
    Qual cor più questa o quella
a pietà muove o sprona,
c'ognor chi arde almen non s'agghiacc'egli?
    Chi, senza aver, ti dona
vaga e gentil persona
e 'l volto e gli occhi e ' biondi e be' capegli.
    Dunche, contr'a te quegli
ben fuggi e me con essi,
se 'l bello infra ' non begli
beltà cresce a se stessi.
    Donna, ma s' tu rendessi
quel che t'ha dato il ciel, c'a noi l'ha tolto,
sarie più 'l nostro, e men bello il tuo volto.

130

    Non è senza periglio
il tuo volto divino
dell'alma a chi è vicino
com'io a morte, che la sento ognora;
ond'io m'armo e consiglio
per far da quel difesa anzi ch'i' mora.
    Ma tuo mercede, ancora
che 'l mie fin sie da presso,
non mi rende a me stesso;
né danno alcun da tal pietà mi scioglie:
ché l'uso di molt'anni un dì non toglie.

131

    Sotto duo belle ciglia
le forze Amor ripiglia
nella stagion che sprezza l'arco e l'ale.
    Gli occhi mie, ghiotti d'ogni maraviglia
c'a questa s'assomiglia,
di lor fan pruova a più d'un fero strale.
    E parte pur m'assale,
appresso al dolce, un pensier aspro e forte
di vergogna e di morte;
né perde Amor per maggior tema o danni:
c'un'or non vince l'uso di molt'anni.

132

    Mentre che 'l mie passato m'è presente,
sì come ognor mi viene,
o mondo falso, allor conosco bene
l'errore e 'l danno dell'umana gente:
quel cor, c'alfin consente
a' tuo lusinghi e a' tuo van diletti,
procaccia all'alma dolorosi guai.
    Ben lo sa chi lo sente,
come spesso prometti
altrui la pace e 'l ben che tu non hai
né debbi aver già mai.
    Dunche ha men grazia chi più qua soggiorna:
ché chi men vive più lieve al ciel torna.

133

    Condotto da molt'anni all'ultim'ore,
tardi conosco, o mondo, i tuo diletti:
la pace che non hai altrui prometti
e quel riposo c'anzi al nascer muore.
    La vergogna e 'l timore
degli anni, c'or prescrive
il ciel, non mi rinnuova
che 'l vecchio e dolce errore,
nel qual chi troppo vive
l'anima 'ncide e nulla al corpo giova.
    Il dico e so per pruova
di me, che 'n ciel quel sol ha miglior sorte
ch'ebbe al suo parto più presso la morte.

134

    - Beati voi che su nel ciel godete
le lacrime che 'l mondo non ristora,
favvi amor forza ancora,
o pur per morte liberi ne siete?
- La nostra etterna quiete,
fuor d'ogni tempo, è priva
d'invidia, amando, e d'angosciosi pianti.
    - Dunche a mal pro' ch'i' viva
convien, come vedete,
per amare e servire in dolor tanti.
    Se 'l cielo è degli amanti
amico, e 'l mondo ingrato,
amando, a che son nato?
    A viver molto? E questo mi spaventa:
ché 'l poco è troppo a chi ben serve e stenta.

135

    Mentre c'al tempo la mie vita fugge,
amor più mi distrugge,
né mi perdona un'ora,
com'i' credetti già dopo molt'anni.
    L'alma, che trema e rugge,
com'uom c'a torto mora,
di me si duol, de' sua etterni danni.
    Fra 'l timore e gl'inganni
d'amore e morte, allor tal dubbio sento,
ch'i' cerco in un momento
del me' di loro e di poi il peggio piglio;
sì dal mal uso è vinto il buon consiglio.

136

    L'alma, che sparge e versa
di fuor l'acque di drento,
il fa sol perché spento
non sie da loro il foco in ch'è conversa.
    Ogni altra aita persa
saria, se 'l pianger sempre
mi resurge al tuo foco, vecchio e tardi.
    Mie dura sorte e mie fortuna avversa
non ha sì dure tempre,
che non m'affligghin men, dove più m'ardi;
tal ch'e' tuo accesi sguardi,
di fuor piangendo, dentro circumscrivo,
e di quel c'altri muor sol godo e vivo.

137

    Se per gioir pur brami affanni e pianti,
più crudo, Amor, m'è più caro ogni strale,
che fra la morte e 'l male
non dona tempo alcun, né brieve spazio:
tal c'a 'ncider gli amanti
i pianti perdi, e 'l nostro è meno strazio.
    Ond'io sol ti ringrazio
della mie morte e non delle mie doglie,
c'ogni mal sana chi la vita toglie.

138

    Porgo umilmente all'aspro giogo il collo
il volto lieto a la fortuna ria,
e alla donna mia
nemica il cor di fede e foco pieno;
né dal martir mi crollo,
anz'ogni or temo non venga meno.
    Ché se 'l volto sereno
cibo e vita mi fa d'un gran martire,
qual crudel doglia mi può far morire?

139

    In più leggiadra e men pietosa spoglia
altr'anima non tiene
che la tuo, donna, il moto e 'l dolce anelo;
tal c'alla ingrata voglia
al don di tuo beltà perpetue pene
più si convien c'al mie soffrire 'l cielo.
    I' nol dico e nol celo
s'i' bramo o no come 'l tuo 'l mie peccato,
ché, se non vivo, morto ove te sia,
o, te pietosa, che dove beato
mi fa 'l martir, si' etterna pace mia.
    Se dolce mi saria
l'inferno teco, in ciel dunche che fora?
    Beato a doppio allora
sare' a godere i' sol nel divin coro
quel Dio che 'n cielo e quel che 'n terra adoro.

140

    Se l'alma al fin ritorna
nella suo dolce e desïata spoglia,
o danni o salvi il ciel, come si crede,
ne l'inferno men doglia,
se tuo beltà l'adorna,
fie, parte c'altri ti contempla e vede.
    S'al cielo ascende e riede,
com'io seco desio
e con tal cura e con sì caldo affetto,
fie men fruire Dio,
s'ogni altro piacer cede
come di qua, al tuo divo e dolce aspetto.
    Che me' d'amarti aspetto,
se più giova men doglia a chi è dannato,
che 'n ciel non nuoce l'esser men beato.

141

    Perc'all'alta mie speme è breve e corta,
donna, tuo fé, se con san occhio il veggio,
goderò per non peggio
quante di fuor con gli occhi ne prometti;
ché dove è pietà morta,
non è che gran bellezza non diletti.
    E se contrari effetti
agli occhi di mercé dentro a te sento,
la certezza non tento,
ma prego, ove 'l gioire è men che 'ntero
sie dolce il dubbio a chi nuocer può 'l vero.

142

    Credo, perc'ancor forse
non sia la fiamma spenta
nel freddo tempo dell'età men verde,
l'arco subito torse
Amor, che si rammenta
che 'n gentil cor ma' suo colpo non perde;
e la stagion rinverde
per un bel volto; e peggio è al sezzo strale
mie ricaduta che 'l mio primo male.

143

    Quant'ognor fugge il giorno che mi resta
del viver corto e poco
tanto più serra il foco
in picciol tempo a mie più danno e strazio:
c'aita il ciel non presta
contr'al vecchio uso in così breve spazio.
    Pur poi che non se' sazio
del foco circumscritto,
in cui pietra non serva suo natura
non c'un cor, ti ringrazio,
Amor, se 'l manco invitto
in chiuso foco alcun tempo non dura.
    Mie peggio è mie ventura,
perché la vita all'arme che tu porti
cara non m'è, s'almen perdoni a' morti.

144

    Passo inanzi a me stesso
con alto e buon concetto,
e 'l tempo gli prometto
c'aver non deggio. O pensier vano e stolto!
    Ché con la morte appresso
perdo 'l presente, e l'avvenir m'è tolto;
e d'un leggiadro volto
ardo e spero sanar, che morto viva
negli anni ove la vita non arriva.

145

    Se costei gode e tu solo, Amor, vivi
de' nostri pianti, e s'io, come te, soglio
di lacrime e cordoglio
e d'un ghiaccio nutrir la vita mia;
dunche, di vita privi
saremo da mercé di donna pia.
    Meglio il peggio saria:
contrari cibi han sì contrari effetti
c'a lei il godere, a noi torrien la vita;
tal che 'nsieme prometti
più morte, là dove più porgi aita.
    A l'alma sbigottita
viver molto più val con dura sorte
che grazia c'abbi a sé presso la morte.

146

    Gli sguardi che tu strazi
a me tutti gli togli;
né furto è già quel che del tuo non doni;
ma se 'l vulgo ne sazi
e ' bruti, e me ne spogli,
omicidio è, c'a morte ognor mi sproni.
    Amor, perché perdoni
tuo somma cortesia
sie di beltà qui tolta
a chi gusta e desia,
e data a gente stolta?
    Deh, falla un'altra volta
pietosa dentro e sì brutta di fuori,
c'a me dispiaccia, e di me s'innamori.

147

    - Deh dimmi, Amor, se l'alma di costei
fusse pietosa com'ha bell' il volto,
s'alcun saria sì stolto
ch'a sé non si togliessi e dessi a lei?
    E io, che più potrei
servirla, amarla, se mi fuss'amica,
che, sendomi nemica,
l'amo più c'allor far non doverrei?
    - Io dico che fra voi, potenti dei,
convien c'ogni riverso si sopporti.
    Poi che sarete morti,
di mille 'ngiurie e torti,
amando te com'or di lei tu ardi,
far ne potrai giustamente vendetta.
    Ahimè, lasso chi pur tropp'aspetta
ch'i' gionga a' suoi conforti tanto tardi!
    Ancor, se ben riguardi,
un generoso, alter e nobil core
perdon' e porta a chi l'offend' amore.

148

    Con più certa salute
men grazia, donna, mi terrie ancor vivo;
dall'uno e l'altro rivo
degli occhi il petto sarie manco molle.
    Doppia mercé mie picciola virtute
di tanto vince che l'adombra e tolle;
né saggio alcun ma' volle,
se non sé innalza e sprona,
di quel gioir ch'esser non può capace.
    Il troppo è vano e folle;
ché modesta persona
d'umil fortuna ha più tranquilla pace.
    Quel c'a vo' lice, a me, donna, dispiace:
chi si dà altrui, c'altrui non si prometta,
d'un superchio piacer morte n'aspetta.

149

    Non posso non mancar d'ingegno e d'arte
a chi mi to' la vita
con tal superchia aita,
che d'assai men mercé più se ne prende.
    D'allor l'alma mie parte
com'occhio offeso da chi troppo splende,
e sopra me trascende
a l'impossibil mie; per farmi pari
al minor don di donna alta e serena,
seco non m'alza; e qui convien ch'impari
che quel ch'i' posso ingrato a lei mi mena.
    Questa, di grazie piena,
n'abonda e 'nfiamma altrui d'un certo foco,
che 'l troppo con men caldo arde che 'l poco.

150

    Non men gran grazia, donna, che gran doglia
ancide alcun, che 'l furto a morte mena,
privo di speme e ghiacciato ogni vena,
se vien subito scampo che 'l discioglia.
    Simil se tuo mercé, più che ma' soglia,
nella miseria mie d'affanni piena,
con superchia pietà mi rasserena,
par, più che 'l pianger, la vita mi toglia.
    Così n'avvien di novell'aspra o dolce:
ne' lor contrari è morte in un momento,
onde s'allarga o troppo stringe 'l core.
    Tal tuo beltà, c'Amore e 'l ciel qui folce,
se mi vuol vivo affreni il gran contento,
c'al don superchio debil virtù muore.

151

    Non ha l'ottimo artista alcun concetto
c'un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all'intelletto.
    Il mal ch'io fuggo, e 'l ben ch'io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch'io più non viva,
contraria ho l'arte al disïato effetto.
    Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno,
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;
    se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che 'l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

152

Sì come per levar, donna, si pone
in pietra alpestra e dura
una viva figura,
che là più cresce u' più la pietra scema;
tal alcun'opre buone,
per l'alma che pur trema,
cela il superchio della propria carne
co' l'inculta sua cruda e dura scorza.
    Tu pur dalle mie streme
parti puo' sol levarne,
ch'in me non è di me voler né forza.

153

    Non pur d'argento o d'oro
vinto dal foco esser po' piena aspetta,
vota d'opra prefetta,
la forma, che sol fratta il tragge fora;
tal io, col foco ancora
d'amor dentro ristoro
il desir voto di beltà infinita,
di coste' ch'i' adoro,
anima e cor della mie fragil vita.
    Alta donna e gradita
in me discende per sì brevi spazi,
c'a trarla fuor convien mi rompa e strazi.

154

    Tanto sopra me stesso
mi fai, donna, salire,
che non ch'i' 'l possa dire,
nol so pensar, perch'io non son più desso.
    Dunche, perché più spesso,
se l'alie tuo mi presti,
non m'alzo e volo al tuo leggiadro viso,
e che con teco resti,
se dal ciel n'è concesso
ascender col mortale in paradiso?
    Se non ch'i' sia diviso
dall'alma per tuo grazia, e che quest'una
fugga teco suo morte, è mie fortuna.

155

    Le grazie tua e la fortuna mia
hanno, donna, sì vari
gli effetti, perch'i' 'mpari
in fra 'l dolce e l'amar qual mezzo sia.
    Mentre benigna e pia
dentro, e di fuor ti mostri
quante se' bella al mie 'rdente desire,
la fortun' aspra e ria,
nemica a' piacer nostri,
con mille oltraggi offende 'l mie gioire;
se per avverso po' di tal martire,
si piega alle mie voglie,
tuo pietà mi si toglie.
    Fra 'l riso e 'l pianto, en sì contrari stremi,
mezzo non è c'una gran doglia scemi.

156

    A l'alta tuo lucente dïadema
per la strada erta e lunga,
non è, donna, chi giunga,
s'umiltà non v'aggiungi e cortesia:
il montar cresce, e 'l mie valore scema,
e la lena mi manca a mezza via.
    Che tuo beltà pur sia
superna, al cor par che diletto renda,
che d'ogni rara altezza è ghiotto e vago:
po' per gioir della tuo leggiadria
bramo pur che discenda
là dov'aggiungo. E 'n tal pensier m'appago,
se 'l tuo sdegno presago,
per basso amare e alto odiar tuo stato,
a te stessa perdona il mie peccato.

157

    Pietosa e dolce aita
tuo, donna, teco insieme,
per le mie parte streme
spargon dal cor gli spirti della vita,
onde l'alma, impedita
del suo natural corso
pel subito gioir, da me diparti.
    Po' l'aspra tuo partita,
per mie mortal soccorso,
tornan superchi al cor gli spirti sparti.
    S'a me veggio tornarti,
dal cor di nuovo dipartir gli sento;
onde d'equal tormento
e l'aita e l'offesa mortal veggio:
el mezzo, a chi troppo ama, è sempre il peggio.

158

    Amor, la morte a forza
del pensier par mi scacci,
e con tal grazia impacci
l'alma che, senza, sarie più contenta.
    Caduto è 'l frutto e secca è già la scorza,
e quel, già dolce, amaro or par ch'i' senta;
anzi, sol mi tormenta,
nell'ultim'ore e corte,
infinito piacere in breve spazio.
    Sì, tal mercé, spaventa
tuo pietà tardi e forte,
c'al corpo è morte, e al diletto strazio;
ond'io pur ti ringrazio
in questa età: ché s'i' muoio in tal sorte,
tu 'l fai più con mercé che con la morte.

159

    Per esser manco, alta signora, indegno
del don di vostra immensa cortesia,
prima, all'incontro a quella, usar la mia
con tutto il cor volse 'l mie basso ingegno.
    Ma visto poi, c'ascendere a quel segno
propio valor non è c'apra la via,
perdon domanda la mie audacia ria,
e del fallir più saggio ognor divegno.
    E veggio ben com'erra s'alcun crede
la grazia, che da voi divina piove,
pareggi l'opra mia caduca e frale.
    L'ingegno, l'arte, la memoria cede:
c'un don celeste non con mille pruove
pagar del suo può già chi è mortale.

160

    S'alcun legato è pur dal piacer molto,
come da morte altrui tornare in vita,
qual cosa è che po' paghi tanta aita,
che renda il debitor libero e sciolto?
    E se pur fusse, ne sarebbe tolto
il soprastar d'una mercé infinita
al ben servito, onde sarie 'mpedita
da l'incontro servire, a quella volto.
    Dunche, per tener alta vostra grazia,
donna, sopra 'l mie stato, in me sol bramo
ingratitudin più che cortesia:
    ché dove l'un dell'altro al par si sazia,
non mi sare' signor quel che tant'amo:
ché 'n parità non cape signoria.

<<< indietro II avanti >>>